25 maggio 2016 – Quando parla l’ironia

Una imperdibile vignetta che non mi riesce di riprodurre e allora descrivo.
Fa capo alla pagina facebook di Mustapha Azzouzi, dove l’ho trovata e  riprodotta in quello spazio.
Qui non arriva

Accanto alla foto di Donald Trump c’è una probabile dichiarazione del candidato presidente:

“L’immigrazione illegale porta con sé criminalità, droga e violenza”.
Segue l’immagine di un pellerossa che dichiara “lo so”

Ma al simpatico autore rubo un’altra battuta che vorrei aver scritto io:

“Il capo dell’ esercito americano è gay, ecco una cosa davvero contro natura. La guerra”.

25 Maggio 2016Permalink

29 maggio 2012 – Un’intrigante citazione e un profetico racconto di Italo Calvino

Il discepolo aveva peccato gravemente e pubblicamente. Il maestro non lo punì. Un altro discepolo protestò: non si può ignorare la colpa. Dio ci ha dato gli occhi! Il maestro replicò: si, ma anche le palpebre!

L’intrigante citazione che un’amica mi ha inviato è tratta da un articolo del card. Ravasi. Purtroppo sua eminenza non ha citato la fonte.
Quale che sia l’origine della fulminante storiella mi permetto una chiosa: adoperare le palpebre ragionevolmente è saggezza purché ci si ricordi che si possono sollevare e abbassare secondo opportunità. Solo il sonno e la morte le rendono immobili. 

Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti          di Italo Calvino
C’era un paese che si reggeva sull’illecito. Non che mancassero le leggi, né che il sistema politico non fosse basato su principi che tutti più o meno dicevano di condividere. Ma questo sistema, articolato su un gran numero di centri di potere, aveva bisogno di mezzi finanziari smisurati (ne aveva bisogno perché quando ci si abitua a disporre di molti soldi non si è più capaci di concepire la vita in altro modo) e questi mezzi si potevano avere solo illecitamente cioè chiedendoli a chi li aveva, in cambio di favori illeciti. Ossia, chi poteva dar soldi in cambio di favori in genere già aveva fatto questi soldi mediante favori ottenuti in precedenza; per cui ne risultava un sistema economico in qualche modo circolare e non privo d’una sua armonia.

Nel finanziarsi per via illecita, ogni centro di potere non era sfiorato da alcun senso di colpa, perché per la propria morale interna ciò che era fatto nell’interesse del gruppo era lecito; anzi, benemerito: in quanto ogni gruppo identificava il proprio potere col bene comune; l’illegalità formale quindi non escludeva una superiore legalità sostanziale. Vero è che in ogni transizione illecita a favore di entità collettive è usanza che una quota parte resti in mano di singoli individui, come equa ricompensa delle indispensabili prestazioni di procacciamento e mediazione: quindi l’illecito che per la morale interna del gruppo era lecito, portava con se una frangia di illecito anche per quella morale. Ma a guardar bene il privato che si trovava a intascare la sua tangente individuale sulla tangente collettiva, era sicuro d’aver fatto agire il proprio tornaconto individuale in favore del tornaconto collettivo, cioè poteva senza ipocrisia convincersi che la sua condotta era non solo lecita ma benemerita. 

Il paese aveva nello stesso tempo anche un dispendioso bilancio ufficiale alimentato dalle imposte su ogni attività lecita, e finanziava lecitamente tutti coloro che lecitamente o illecitamente riuscivano a farsi finanziare. Perché in quel paese nessuno era disposto non diciamo a fare bancarotta ma neppure a rimetterci di suo ( e non si vede in nome di che cosa si sarebbe potuto pretendere che qualcuno ci rimettesse) la finanza pubblica serviva a integrare lecitamente in nome del bene comune i disavanzi delle attività che sempre in nome del bene comune s’erano distinte per via illecita. La riscossione delle tasse che in altre epoche e civiltà poteva ambire di far leva sul dovere civico, qui ritornava alla sua schietta sostanza d’atto di forza ( così come in certe località all’esazione da parte dello stato s’aggiungeva quella d’organizzazioni gangsteristiche o mafiose), atto di forza cui il contribuente sottostava per evitare guai maggiori pur provando anziché il sollievo della coscienza a posto la sensazione sgradevole d’una complicità passiva con la cattiva amministrazione della cosa pubblica e con il privilegio delle attività illecite, normalmente esentate da ogni imposta. 

Di tanto in tanto, quando meno ce lo si aspettava, un tribunale decideva d’applicare le leggi, provocando piccoli terremoti in qualche centro di potere e anche arresti di persone che avevano avuto fino a allora le loro ragioni per considerarsi impunibili. In quei casi il sentimento dominante, anziché la soddisfazione per la rivincita della giustizia, era il sospetto che si trattasse d’un regolamento di conti d’un centro di potere contro un altro centro di potere. Cosicché era difficile stabilire se le leggi fossero usabili ormai soltanto come armi tattiche e strategiche nelle battaglie intestine tra interessi illeciti, oppure se i tribunali per legittimare i loro compiti istituzionali dovessero accreditare l’idea che anche loro erano dei centri di potere e d’interessi illeciti come tutti gli altri. 

Naturalmente una tale situazione era propizia anche per le associazioni a delinquere di tipo tradizionale che coi sequestri di persona e gli svaligiamenti di banche ( e tante altre attività più modeste fino allo scippo in motoretta) s’inserivano come un elemento d’imprevedibilità nella giostra dei miliardi, facendone deviare il flusso verso percorsi sotterranei, da cui prima o poi certo riemergevano in mille forme inaspettate di finanza lecita o illecita. 

In opposizione al sistema guadagnavano terreno le organizzazioni del terrore che, usando quegli stessi metodi di finanziamento della tradizione fuorilegge, e con un ben dosato stillicidio d’ammazzamenti distribuiti tra tutte le categorie di cittadini, illustri e oscuri, si proponevano come l’unica alternativa globale al sistema. Ma il loro vero effetto sul sistema era quello di rafforzarlo fino a diventarne il puntello indispensabile, confermandone la convinzione d’essere il migliore sistema possibile e di non dover cambiare in nulla.

Così tutte le forme d’illecito, da quelle più sornione a quelle più feroci si saldavano in un sistema che aveva una sua stabilità e compattezza e coerenza e nel quale moltissime persone potevano trovare il loro vantaggio pratico senza perdere il vantaggio morale di sentirsi con la coscienza a posto. Avrebbero potuto dunque dirsi unanimemente felici, gli abitanti di quel paese, non fosse stato per una pur sempre numerosa categoria di cittadini cui non si sapeva quale ruolo attribuire: gli onesti. 

Erano costoro onesti non per qualche speciale ragione ( non potevano richiamarsi a grandi principi, né patriottici né sociali né religiosi, che non avevano più corso), erano onesti per abitudine mentale, condizionamento caratteriale, tic nervoso. Insomma non potevano farci niente se erano così, se le cose che stavano loro a cuore non erano direttamente valutabili in denaro, se la loro testa funzionava sempre in base a quei vieti meccanismi che collegano il guadagno col lavoro, la stima al merito, la soddisfazione propria alla soddisfazione d’altre persone. In quel paese di gente che si sentiva sempre con la coscienza a posto loro erano i soli a farsi sempre degli scrupoli, a chiedersi ogni momento cosa avrebbero dovuto fare. Sapevano che fare la morale agli altri, indignarsi, predicare la virtù sono cose che trovano troppo facilmente l’approvazione di tutti, in buona o in malafede. Il potere non lo trovavano abbastanza interessante per sognarlo per sé (almeno quel potere che interessava agli altri); non si facevano illusioni che in altri paesi non ci fossero le stesse magagne, anche se tenute più nascoste; in una società migliore non speravano perché sapevano che il peggio è sempre più probabile. 

Dovevano rassegnarsi all’estinzione? No, la loro consolazione era pensare che così come in margine a tutte le società durante millenni s’era perpetuata una controsocietà di malandrini, di tagliaborse, di ladruncoli, di gabbamondo, una controsocietà che non aveva mai avuto nessuna pretesa di diventare la società , ma solo di sopravvivere nelle pieghe della società dominante e affermare il proprio modo d’esistere a dispetto dei principi consacrati, e per questo aveva dato di sé ( almeno se vista non troppo da vicino) un’immagine libera e vitale, così la controsocietà degli onesti forse sarebbe riuscita a persistere ancora per secoli, in margine al costume corrente, senza altra pretesa che di vivere la propria diversità , di sentirsi dissimile da tutto il resto, e a questo modo magari avrebbe finito per significare qualcosa d’essenziale per tutti, per essere immagine di qualcosa che le parole non sanno più dire, di qualcosa che non è stato ancora detto e ancora non sappiamo cos’è.

Tratto da Romanzi e racconti – volume 3°, Racconti e apologhi sparsi, i Meridiani, Arnoldo Mondadori editore. Uscito su la Repubblica, 15 marzo 1980, col titolo “Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti”.

29 Maggio 2012Permalink

30 ottobre 2011 – Un commento per il 15 marzo.

Ho appena ricevuto un commento a un mio vecchio articolo.

I commenti vengono segnalati per posta perché chi è responsabile del blog possa accettarli o rifiutarli.
Ne ho cancellati parecchi perché proponevano una qualche pubblicità
Questo l’ho mantenuto e ho risposto ma, data la lontananza di quel testo –nel tempo e nello spazio del blog- riporto commento e risposta:

Scrive Draw Lotteryc.
Non daranno mai l’assicurazione della cittadinanza italiana a chi nasce in Italia!”

Ecco la mia risposta:

Può essere che in Italia il passaggio dallo jus sanguinis allo jus loci, come fondamento al diritto di cittadinanza, venga negato anche in future decisioni parlamentari.
Il ‘mai’ è forse un po’ drastico, ma lasciamolo come nefasta ipotesi.
Solo che non vedo come possa collegarsi a questo articolo in cui non si parla di cittadinanza ma solo di certificato di nascita su cui risulterebbe la cittadinanza dei genitori, evitando al nuovo nato la condizione di apolide e riconoscendogli il diritto ad essere figlio della sua mamma e del suo papà.
Tale procedura era in vigore fino al 2009 quando la legge 94 l’ha modificata

 Grazie comunque del commento
(segue la firma) 

Dato che il commento è telegrafico tento di interpretarlo.

  1. L’autore –o autrice che sia- prevede, a prescindere dal contenuto dell’articolo, che la legislazione italiana non avrà mai una norma che preveda il riconoscimento della cittadinanza a chi – aggiungo – non sia figlio di italiani.
    Credo di aver correttamente mitigato l’assolutezza di quel ‘nasce in Italia’.
  2. L’autore –o autrice che sia- esprime, a prescindere dal contenuto dell’articolo, il suo rammarico per ciò che prevede non avvenga.
  3. L’autore –o autrice che sia- esprime, a prescindere dal contenuto dell’articolo, la sua condivisione della prevista negazione della cittadinanza.

Quale che sia l’intenzione di chi ha firmato il commento lo segnalo a coloro che in questo momento pubblicizzano la proposta di legge ‘Nuove norme sulla cittadinanza’. E’ necessario si documentino bene e chiariscano che la registrazione anagrafica non comporta il riconoscimento della cittadinanza italiana.
Ho constatato che molti ne sono convinti.

30 Ottobre 2011Permalink

16 gennaio 2009 – Primo articolo

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16 Gennaio 2009Permalink