11 settembre 2013 – Una lettura biblica

Ricordo che oggi è il 40mo anniversario del Golpe cileno
e il 12mo dell’attentato alle Torri Gemelle

Mi sono sempre negata, ma penso che cambierò registro, di dare spazio in questo blog anche ai miei interessi biblici  che però si rivelano non solo miei.
Mi trovo infatti in  una situazione buffa.
Mi è stato chiesto da un pastore amico di proporre il 29 agosto una meditazione all’apertura di quella giornata del Sinodo Valdese (ogni giornata del Sinodo si apre con un breve, sobrio culto).
Mi veniva indicato come tema quello della violenza alle donne, cosa che ho fatto cercando di usare il registro di comunicazione che il luogo mi suggeriva.
Ora mi viene chiesto di conoscere quel testo da varie parti. Eccolo qui (per correttezza preciso che la traduzione del capitolo 34 del libro della Genesi che ho scelto è quella della Nuova Riveduta. In ambiente protestante mi sembrava corretto leggere il testo in uso in quelle chiese).

29 AGOSTO – TORRE PELLICE

Le antiche storie possono parlarci anche al presente
Comincio  dal cap. 34 del libro della Genesi la cui lettura intreccerò alle considerazioni che vi propongo

(Gn 34:1) Dina, la figlia che Lea aveva partorita a Giacobbe, uscì per vedere le ragazze del paese. 

Una tribù di nomadi si sposta e quando trova una stanzialità utile per il pascolo o almeno per una sosta una ragazzina, che non sa che presto verrà spenta la sua gioia di vivere, si allontana curiosa per incontrarsi con coetanee in un momento festoso.
Ma le capita quello che a tante donne è accaduto e accade

(Gn 34, 2-3)  Sichem, figlio di Camor l’Ivveo, principe del paese, la vide, la rapì e si unì a lei violentandola.  Poi egli rimase affezionato a Dina, figlia di Giacobbe; amò la giovane e parlò al cuore di lei.

Può una violenza travestirsi da amore? O è soltanto la giustificazione di una consuetudine che vuol togliere alla vittima anche il diritto di essere tale?
Sichem parlò al cuore di lei. Ma noi non sappiamo se, dopo la violenza, il cuore di Dina fosse disponibile a una qualsivoglia forma di ascolto, non sappiamo nemmeno se Dina fosse in grado di ascoltare qualche cosa, se in lei prevalesse l’orrore, il dolore, la vergogna, la paura …
Non sappiamo nulla perché Dina attraversa questa storia come un oggetto banale, imbarazzante, utile, infine offerto alla vigliaccheria della strumentalizzazione.
Nella storia che ci viene raccontata molti avvenimenti si svolgono, molti uomini si agitano e Dina invece tace. E il suo silenzio è lì come un masso che non si può spostare, su cui le parole scivolano senza intaccare quel nodo di ripugnanza che ha spento, forse per sempre, il moto di gioia di una ragazzina forse costretta riconoscersi acquiescente nella disperazione dell’impotenza, che prende su di sé la vergogna che ad altri dovrebbe appartenere?
Dina tace e continua a tacere mentre scatta il meccanismo antico che ha avuto tanti nomi, anni fa in Italia lo conoscevamo come matrimonio riparatore. E sappiamo bene che  quando il matrimonio è avvenuto può non  essere – e spesso non è – riparo.

(Gn 34, 4-5)     E disse a Camor suo padre: «Dammi questa ragazza in moglie». Or Giacobbe udì che quegli aveva disonorato sua figlia Dina; e siccome i suoi figli erano ai campi con il suo bestiame, Giacobbe tacque finché non furono tornati.

Violentata e contrattata.  Non sappiamo se abbia potuto piangere con un padre capace di offrirle consolazione. Il rispetto di Giacobbe va ai figli maschi. Sono al lavoro. Si eviti di portar loro cattive notizie. Meglio proporgliele con prudenza e discrezione prima che ciò che è avvenuto causi qualche guaio.
E Dina? Per Dina è pronto il giudizio. E’ stata disonorata. Sulla sua pelle si può contrattare, anzi aprire lo spazio della contrattazione utile per la tribù che può predisporsi a far uso di altre donne.
La parola amore si spende solo per colui che ha agito violenza.

(Gn 34, 6-12)   Intanto Camor, padre di Sichem, si recò da Giacobbe per parlargli. I figli di Giacobbe, com’ebbero udito il fatto, tornarono dai campi; questi uomini furono addolorati e fortemente adirati perché costui aveva commesso un’infamia in Israele, unendosi alla figlia di Giacobbe: cosa che non era da farsi. Camor parlò loro, dicendo: «Mio figlio Sichem si è innamorato di vostra figlia; vi prego, dategliela per moglie  e imparentatevi con noi; dateci le vostre figlie e prendete per voi le figlie nostre. Abiterete con noi e il paese sarà a vostra disposizione; fissate qui la vostra dimora, trafficate e acquistatevi delle proprietà».
 Allora Sichem disse al padre e ai fratelli di Dina: «Possa io trovare grazia agli occhi vostri e vi darò quello che mi direte. Imponetemi pure una gran dote e molti doni; io ve li darò come mi direte, ma datemi la ragazza in moglie».

Nel mercato tutto ha un prezzo. Sichem, amante senza tenerezza (ne aveva avuta dopo la violenza parlando al cuore di lei? Solo Dina potrebbe dircelo, ma Dina tace) vuole una moglie e la chiede a chi è attore della transazione.
Ma il mercato – avvenga in un agglomerato di tende nel deserto o nel salotto di una banca –non è il luogo della trasparenza e della lealtà e il prezzo quando sia imposto dal vincitore può farsi pesante.

(Gn 34, 13-17)     I figli di Giacobbe risposero a Sichem e a suo padre Camor, ma parlarono loro con astuzia, perché quegli aveva disonorato Dina, loro sorella. Dissero loro: «Questo non possiamo farlo; non possiamo dare nostra sorella a uno che non è circonciso; perché ciò sarebbe per noi un disonore. Acconsentiremo alla vostra richiesta soltanto a questa condizione: se sarete come siamo noi, circoncidendo ogni maschio tra di voi. 16 Allora vi daremo le nostre figlie e noi ci prenderemo le figlie vostre, abiteremo con voi e diventeremo un solo popolo.  Ma se non volete ascoltarci e non volete farvi circoncidere, noi prenderemo la nostra figlia e ce ne andremo».

La transazione è accettata. Al silenzio di Dina si unisce quello delle altre donne. Vennero consultate? Non ne abbiamo notizia.
Il prezzo della sofferenza deve sembrare vantaggioso a chi lo possa imporre

(Gn 34, 23)        «I loro armenti, le loro ricchezze e tutto il loro bestiame non saranno forse nostri? Acconsentiamo alla loro richiesta ed essi abiteranno con noi».

Non finisce  così. Nel mercato, come in guerra,  la competizione è il terreno su cui si gioca per vincere e la vittoria non prevede attenzione alle macerie che restano dopo un’aggressione anche se sono costituite da ciò che resta di esseri umani.
Così la tribù di Giacobbe approfitta della debolezza di uomini soggetti a una dolorosa, tardiva circoncisione e

(Gn 34, 26-29)       Passarono a fil di spada anche Camor e suo figlio Sichem, presero Dina dalla casa di Sichem, e uscirono. I figli di Giacobbe si gettarono sugli uccisi e saccheggiarono la città, perché la loro sorella era stata disonorata; presero le loro greggi, i loro armenti, i loro asini, quanto era nella città e nei campi. Portarono via come bottino tutte le loro ricchezze, tutti i loro bambini, le loro mogli e tutto quello che si trovava nelle case.

Presero Dina … così, di passaggio,  veniamo a sapere  che Dina è ancora viva.
La ‘presero’, non  la liberarono, la presero come le greggi, gli armenti. i bambini, le mogli dei sichemiti.. un grosso bottino che poteva diventare pericoloso.
Giacobbe lo sa e parla ai suoi figli,  cui rimprovera l’imprudenza non la violenza:

(Gn 34, 30-31)  «Voi mi causate grande angoscia, mettendomi in cattiva luce davanti agli abitanti del paese …. Io non ho che pochi uomini; essi si raduneranno contro di me, mi piomberanno addosso e sarò distrutto io con la mia casa».  Ed essi risposero: «Nostra sorella dovrebbe forse essere trattata come una prostituta?»

 

Già, una sorella prostituta non è un  messaggio promozionale accattivante mentre lo è la vendetta.
Sembra una situazione senza via d’uscita. Finché il silenzio di Dina continua e incombe non ci è dato sapere come tutto potrebbe modificarsi,  se dal racconto della sua esperienza possano intravedersi  indizi di una nuova strada di liberazione.
Certamente oggi disponiamo di un passaggio che sembra facile e risolutivo.
Non abbiamo bisogno infatti di affidarci all’arbitrio del  padre-padrone-giudice.
Abbiamo circoscritto il terreno su cui ragionare, definito la violenza sessuale come reato contro la persona, non contro la morale …  e fu dura arrivarci!
Ma è davvero finito il tempo per cui una vittima dovrebbe cessare di imporci la sua presenza come tale a seguito di una riparazione definita in sede giudiziaria?
Capita spesso, e non solo per la violenza sessuale, che alla vittima si chieda di perdonare. Ma il perdono non è una negazione della responsabilità di chi ha prodotto violenza, non è compatibile con la vendetta ma perché ne nascano le condizioni richiede giustizia.
Non la pur necessaria giustizia delle aule di tribunale ma il riconoscimento reale, solidale con chi ha sofferto e soffre, di ciò che è avvenuto.
Dina deve poter prendere parola contando su un ascolto consapevole e solidale. 
E soprattutto su una società capace di mettersi realmente in discussione per evitare che alla violenza consumata si offra solo riparazione.
A Dina finalmente liberata deve essere aperto il futuro che è responsabilità di tutte e tutti non solo sua.

11 Settembre 2013Permalink