26 febbraio 2014 – Ancora la memoria del 27 gennaio

Una memoria che non è celebrazione

                        “Disumanizzare l’altro significa inevitabilmente disumanizzare se stessi”  (Nelson Mandela)

Quest’anno il ricordo del 27 gennaio è stato assicurato da un maggior numero di celebrazioni che negli scorsi anni. Forse comincia a radicarsi il riconoscimento di quella giornata voluta nel 2000, in cui però sembra essere ancora significativa la cultura della celebrazione piuttosto che quella della memoria, di quella memoria che può farsi analoga al monumento di cui Primo Levi scrisse (e lo abbiamo citato nell’editoriale del numero scorso)  “Deve essere un monumento-ammonimento che l’umanità dedica a se stessa, perché porti testimonianza, perché ripeta un messaggio non nuovo nella storia ma troppo spesso dimenticato: che l’uomo è, deve essere, sacro all’uomo, dovunque e sempre”.
Fra le storie raccontate, fra gli avvenimenti ricordati, due ci sono sembrati particolarmente significativi.
Il primo è il racconto che il giornalista Massimo Gramellini ha proposto parlando dai sotterranei della stazione centrale di Milano, vicino all’Ufficio postale, prossimo al binario 21 su cui passavano i treni per il trasporto della posta. Da lì durante gli anni della Repubblica di Salò partirono 600 persone e ne tornarono 23.
Era un luogo nascosto al pubblico che affollava la stazione per altri viaggi, testimonianza della banalità del male che non solo trasforma un meschino burocrate come Eichmann in un protagonista, ma può servirsi, per il suo esercizio, dei più quotidiani degli oggetti il cui uso viene distorto fino a fare di uno strumento di trasporto e comunicazione uno strumento di distruzione.
Il secondo è il racconto di  una vecchia signora, Vera Vigevani Jarach. Nel 1938, dopo che  era stata cacciata da scuola perché ebrea, i suoi genitori erano fuggiti con lei in Argentina. Il nonno no. Non credeva sarebbe potuto accadere ‘qualche cosa’. Morì ad Auschswitz. Anni dopo, durante la dittatura di Videla (e la signora precisa: ‘dittatura civico/militare, non solo militare’), sua figlia Franca (18 anni) fu gettata da un aereo nell’oceano dopo un mese di prigione e torture. Era una ragazzina dall’intelligenza vivace che partecipava a manifestazioni studentesche.
La mamma conobbe la fine della figlia dopo 20 anni (nel frattempo il papà era morto).
Durante il mese in carcere certamente nulla le fu risparmiato ma la brevità del tempo le risparmiò almeno quello che tante altre donne conobbero: il parto di chi avevano concepito in carcere o prima di entrarvi, la sottrazione del neonato che –senza nome – veniva assegnato a coppie che avevano fatto domanda di adozione ed erano gradite al regime.
Nei lager tedeschi le donne erano sottoposte alla sterilizzazione forzate e i bambini erano loro strappati anche per essere adoperati in esperimenti che qualcuno osa ancora definire scientifici.
Dovette cadere Videla perché le ‘nonne di piazza di maggio’ (le loro figlie, le mamme, non c’erano più) potessero porre la questione delle adozioni conseguenti i rapimenti fino ad allora indiscusse nella loro ‘regolarità’.
Se il razzismo, collegato alla violenza militare, è un elemento abbastanza noto che ci permette di entrare nei sotterranei di ogni sterminio, dovremmo cominciare a considerare con più attenzione  lo strumento della burocrazia, utile per costruire la quotidianità che distrugge in una apparenza di ordine e tranquillità (che qualcuno forse riesce a chiamare pace).
(dal n.225 di Ho un sogno  – febbraio 2014)

26 Febbraio 2014Permalink