23 luglio 2016 – Mi aggrappo al ragionamento cercando chi lo pratica.

Noam Chomsky, professore emerito al Massachusetts Institute of Technology, ha elaborato una lista delle 10 regole del controllo sociale, ovvero, strategie utilizzate per la manipolazione del pubblico attraverso i mass media.

1) La strategia della distrazione.  Mantenere l’attenzione del pubblico deviata dai veri problemi sociali imprigionata da temi senza vera importanza.

 2) Creare problemi e poi offrire le soluzioni.  organizzare attentati sanguinosi, con lo scopo che il pubblico sia che richieda le leggi di sicurezza e le politiche a discapito della libertà.

 3) La strategia della gradualità.  Per far accettare una misura inaccettabile basta applicarla gradualmente, al contagocce, per anni consecutivi.

 4) La strategia del differire.  Un altro modo per far accettare una decisione impopolare è quella di presentarla come dolorosa e necessaria, ottenendo l’applicazione pubblica nel momento, per un’applicazione futura.

 5) Rivolgersi al pubblico come ai bambini.  La maggior parte della pubblicità diretta al gran pubblico usa discorsi, argomenti, personaggi e un’intonazione particolarmente infantile, molte volte vicino alla debolezza, come se lo spettatore fosse una creatura di pochi anni o un deficiente mentale.

 6) Usare l’aspetto emotivo molto più della riflessione.  Sfruttare l’emozione è una tecnica classica per provocare un corto circuito su un’analisi razionale.

 7) Mantenere il pubblico nell’ignoranza e nella mediocrità.  Far si che il pubblico sia incapace di comprendere le tecnologie ed i metodi usati per il suo controllo e la sua schiavitù.

 8) Stimolare il pubblico ad essere compiacente con la mediocrità.  Spingere il pubblico a ritenere che è di moda essere stupidi, volgari e ignoranti.

 9) Rafforzare l’auto-colpevolezza.  Far credere all’individuo che è soltanto lui il colpevole della sua disgrazia. Così, invece di ribellarsi contro il sistema economico, l’individuo si auto-svaluta e s’incolpa, cosa che crea a sua volta uno stato depressivo, uno dei cui effetti è l’inibizione della sua azione. E senza azione non c’è rivoluzione.

 10) Conoscere gli individui meglio di quanto loro stessi si conoscano.  Negli anni ’50 i rapidi progressi della scienza hanno generato un divario crescente tra le conoscenze del pubblico e quelle possedute e utilizzate dalle élites dominanti.

http://www.altrogiornale.org/le-10-regole-del-controllo-sociale-noam-chomsky/

 

Gadi Luzzatto Voghera, storico   (22 luglio 2016)

Il richiamo alla cultura come strumento fondamentale per la lotta a ogni forma di razzismo e antisemitismo, e come antidoto ai visibili fenomeni di involuzione politica e sociale a cui assistiamo, non può essere interpretato come un semplice e generico auspicio. Si deve invece trattare di un concreto programma politico, che preveda l’investimento di importanti risorse in diverse direzioni. La prima è l’educazione, il sistema di istruzione. La consistente spinta all’investimento nei settori più tecnologici, legati allo sviluppo d’impresa e alla modernizzazione, negli ultimi decenni ha fortemente distorto l’organizzazione dei sistemi educativi relegando a un ruolo ancillare l’intero comparto delle materie umanistiche. Si tratta di un duplice errore a cui deve essere posto rimedio. Il primo errore è legato alla sottovalutazione dell’enorme potenziale economico che può essere liberato nella valorizzazione del turismo culturale, in termini di occupazione, di competenze, di sviluppo di nuove tecnologie della comunicazione, di movimenti e flussi di persone. Il secondo errore risiede nella rapida e diffusa perdita di conoscenze storiche e di riflessione intellettuale, un’emorragia che favorisce visibilmente la crescita dei populismi in politica, con una trasformazione del concetto stesso di democrazia. Si arriva così al paradosso di un presidente turco con poteri semidittatoriali che in nome della democrazia e della volontà della maggioranza mette in atto la più macroscopica repressione di stampo fascista avvenuta in Europa negli ultimi 70 anni. Si tratta quindi di rivedere profondamente le dinamiche dei sistemi di istruzione, progettando un’educazione diffusa che stabilisca criteri condivisi di convivenza umana e umanistica. La seconda è la comunicazione. Sempre nel nome della democrazia aperta e approfittando dell’enorme diffusione dei social network, si è andato affermando un modello di comunicazione che necessita urgentemente di correttivi, pena una lesione permanente del concetto stesso di libertà di parola. Il panorama conosce due poli estremi: da un lato il mondo delle dittature tipo Corea del Nord, Iran e – con qualche correttivo – la Cina. Lì il potere filtra o vieta completamente l’uso libero del web. Questo frena di molto la crescita economica, ma assicura un mantenimento sicuro del controllo sociale. All’altro estremo ci siamo noi, l’Occidente, in cui ad esempio uno strumento come Facebook permette liberamente ai terroristi l’utilizzo dei suoi canali, sostanzialmente senza limiti, arrivando anche qui al paradosso di un mondo delle libertà che produce strumenti utilizzati ampiamente da chi vuole distruggere quelle stesse libertà. Anche qui si tratta di avviare urgentemente una riflessione sul sistema delle comunicazioni e delle notizie, promuovendo lo sviluppo di una deontologia condivisa che crei una griglia delle libertà, capace di fornirci gli strumenti per capire quando un messaggio diventa potenzialmente distruttivo e dannoso per la civiltà umana. La terza è il lavoro, inteso come momento in cui si esprime la creatività di una civiltà. Se condividiamo il fatto che la cultura debba essere potenzialmente un patrimonio di tutta l’umanità, siamo anche costretti a riconoscere che il lavoro creativo deve ritornare al centro della programmazione politica. La fascinazione per il virtuale ha certamente potenzialità incredibili: certo, se invece di andare alla ricerca di Pokemon da allevare con lo smartphone si utilizzasse la stessa tecnologia a fini educativi gli sviluppi cognitivi sarebbero senza dubbio notevoli, e il vantaggio non si limiterebbe a salvare i disastrati conti economici della Nintendo. Ma cultura è anche prodotto materiale, concreto, è sapere artigiano che si nutre di letture e di esperienza. Perdere tutto questo significa rinunciare al proprio presente e alla costruzione di un futuro per lo meno vivibile, nel nome di una strampalata idea di postmodernità che ha già dimostrato tutti i suoi limiti. La quarta è la scienza. La ricerca scientifica – come ho avuto modo di scrivere altrove – può determinare l’apertura nella società degli spazi di libertà necessari al miglioramento delle condizioni di vita sul nostro pianeta e delle condizioni di convivenza fra i diversi gruppi umani. Una ricerca scientifica che sottragga l’umanità dalla morsa della superstizione e dall’oppressione delle ideologie, che aiuti a comprendere sempre più a fondo i meccanismi della natura e a governare il rapporto fra l’umanità e la natura stessa. La ricerca scientifica come terreno neutrale e privo di “simboli” nazionali o religiosi può aiutare progetti di convivenza e aprire spazi alle libertà individuali e collettive. La quinta è la religione, come fenomeno produttore di cultura. Non si tratta qui di fede, ma del riconoscimento che le culture religiose (non le gerarchie) hanno prodotto nella storia dinamiche umane e antropologiche che vanno conosciute e comprese nel profondo. Solo questa conoscenza ci aiuterà a combattere le odierne forme di fondamentalismo, che utilizzano in maniera strumentale i concetti base delle religioni per farne strumento di morte, distruzione, oppressione e potere.

http://moked.it/blog/2016/07/22/cultura-20/

Due commenti interessanti che trovo su fb  – Trascrivo

Tiziano Sguazzero  23 luglio alle ore 21:17

L’attuale «offensiva jihadista» e la propaganda antiterrorista che la accompagna possono far credere che il terrorismo sia un’esclusiva islamista: con tutta evidenza, è sbagliato. Fino a tempi recenti, altri terroristi erano in azione in molte aree del mondo non musulmano: l’Ira e gli unionisti nell’Irlanda del Nord; l’Eta in Spagna; le Farc e i paramilitari in Colombia; le Tigri tamil nello Sri Lanka; il Fronte Moro nelle Filippine ecc. Quello che è certo, è che l’allucinante brutalità dell’attuale terrorismo islamista (tanto quello di Al Qaeda quanto quello di Daesh, il sedicente Stato islamico) sembra aver indotto quasi tutte le altre organizzazioni armate del mondo – a eccezione del Pkk kurdo – a firmare in fretta accordi di cessate il fuoco e deposizione delle armi. Come se, davanti all’intensità ella commozione popolare, non volessero vedersi in alcun modo accostate alle atrocità jihadiste. Ricordiamo poi che, fino a pochissimo tempo fa, una potenza democratica come gli Stati uniti non riteneva per forza immorale l’appoggio a certi gruppi terroristi. Attraverso la Central Intelligence Agency (Cia), Washington preparava attentati in luoghi pubblici, sequestri di oppositori, dirottamento di aerei, sabotaggi, omicidi.

Tiziano Sguazzero 23 luglio alle ore 21:26

Riporto un passo dall’articolo di Ignacio Ramonet («Le Monde diplomatique» e «Il Manifesto»), utile per comprensione del fenomeno terroristico ed evitare banalizzanti generalizzazioni di comodo (http://ilmanifesto.info/le-nuove-armi-del-terrorismo-jihadista).Su questo irriducibile fenomeno politico (il terrorismo), che provoca al tempo stesso spavento e collera, incomprensione e repulsione, emozione e attrazione, sono stati scritti migliaia di testi. E anche almeno due opere magistrali: il romanzo I demoni (1872) di Fëdor Dostoevskij e l’opera teatrale I giusti (1949) di Albert Camus. Tuttavia, adesso che l’islamismo jihadista sta globalizzando il terrore a livelli mai visti prima, il progetto di «uccidere per un’idea o una causa» appare sempre più aberrante. E si impone quel rifiuto definitivo espresso magistralmente da Juan Goytisolo con la frase: «Uccidere un innocente non è difendere una causa, è uccidere un innocente». Naturalmente, sappiamo che molti di quelli che, a un certo punto della loro vita, difesero il terrorismo come «legittima arma degli oppressi», sono poi diventati rispettati uomini e donne di Stato. Per esempio i dirigenti nati dalla Resistenza francese (De Gaulle, Chaban-Delmas), che le autorità tedesche di occupazione definivano «terroristi»; Menachem Begin, ex capo dell’Irgun, diventato primo ministro di Israele; Abdelaziz Bouteflika, già responsabile del Fln algerino, in seguito presidente dell’Algeria; Nelson Mandela, capo dell’African National Congress (Anc), presidente del Sudafrica e premio Nobel per la pace; Dilma Rousseff, presidente del Brasile; Salvador Sánchez Cerén, attuale presidente del Salvador ecc. Come principio di azione e metodo di lotta, il terrorismo è stato rivendicato, a seconda delle circostanze, da quasi tutte le famiglie politiche, Il primo teorico che propose, nel 1848, una «dottrina del terrorismo» non fu un islamista alienato ma il repubblicano tedesco Karl Heinzen con il saggio Der Mord (L’omicidio), nel quale sosteneva che tutte le azioni sono buone, compreso l’attentato suicida, per affrettare l’avvento della democrazia. Antimonarchico radicale, Heinzen scrisse: «Se devi far saltare la metà di un continente e provocare un bagno di sangue per distruggere il partito dei barbari, non farti scrupoli. Chi non sacrifica gioiosamente la propria vita per provare la soddisfazione di sterminare un milione di barbari non è un vero repubblicano». L’attuale «offensiva jihadista» e la propaganda antiterrorista che la accompagna possono far credere che il terrorismo sia un’esclusiva islamista: con tutta evidenza, è sbagliato. Fino a tempi recenti, altri terroristi erano in azione in molte aree del mondo non musulmano: l’Ira e gli unionisti nell’Irlanda del Nord; l’Eta in Spagna; le Farc e i paramilitari in Colombia; le Tigri tamil nello Sri Lanka; il Fronte Moro nelle Filippine ecc. Quello che è certo, è che l’allucinante brutalità dell’attuale terrorismo islamista (tanto quello di Al Qaeda quanto quello di Daesh, il sedicente Stato islamico) sembra aver indotto quasi tutte le altre organizzazioni armate del mondo – a eccezione del Pkk kurdo – a firmare in fretta accordi di cessate il fuoco e deposizione delle armi. Come se, davanti all’intensità della commozione popolare, non volessero vedersi in alcun modo accostate alle atrocità jihadiste. Ricordiamo poi che, fino a pochissimo tempo fa, una potenza democratica come gli Stati uniti non riteneva per forza immorale l’appoggio a certi gruppi terroristi. Attraverso la Central Intelligence Agency (Cia), Washington preparava attentati in luoghi pubblici, sequestri di oppositori, dirottamento di aerei, sabotaggi, omicidi.

 

23 Luglio 2016Permalink

One thought on “23 luglio 2016 – Mi aggrappo al ragionamento cercando chi lo pratica.

  1. Sono , come quasi sempre mi accade ,d’accordo con quello che N.Chomsky scrive (un esempio per tutti : la “strategia della distrazione” viene quotidianamente applicata dai nostri mass media) ma non riesco ad immaginare un simile disegno applicato a livello planetario , quindi destinato a coinvolgere l’intera parte del mondo “civile”, se non in una logica di capitalismo globale che intende ,attraverso queste ed altre regole ,imporre i suoi interessi di potere economico – finanziario – politico. Solo così tutto mi appare chiaro e,nel mio piccolo, cerco di non cadere nella trappola. Grazie Augusta per questi spunti di riflessione Mary Silva

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