13 aprile 2018 – Il card Ravasi concede una intervista a Vogue e io gli scrivo

La giornalista Marina Valensise ha intervistato il cardinal Ravasi.
(Vogue Italia, aprile 2018, n.812, pag. 50).
Il card. Ravasi è Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra.

Marina Valensise apre l’intervista:
«Dio fece all’uomo e alla sua donna tuniche di pelle e li vestì»: moda e religione cattolica sembrano mondi lontanissimi, specie negli anni di Papa Francesco. Eppure, spiega Monsignor Ravasi (e una mostra a New York), sono molti i fili che li legano. A partire dalla Bibbia.
Dall’eleganza di papa Ratzinger, che restaurò il camauro e la mozzetta, e che per le scarpine di vitello rosso, simbolo della passione di Cristo, scelse un famoso artigiano di Verona. Alla semplicità francescana di papa Bergoglio, sotto il cui papato Santa Romana Chiesa abbandona ogni sfarzo per mettersi all’unisono con l’umanità contemporanea e servirla meglio. In un mondo dove la produzione di ricchezza sembra fuori controllo, e la sua ripartizione mai così iniqua, niente più della moda parrebbe lontano dalla Chiesa di papa Francesco. Eppure, l’incontro tra due mondi tanto lontani può rivelarsi sorprendentemente fecondo: lo testimonia la mostra “Heavenly Bodies: Fashion and the Catholic Imagination”, al Metropolitan Museum di New York (dal 10 maggio all’8 ottobre); e lo spiega a Vogue Italia il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio consiglio della cultura.

Eminenza, non è paradossale combinare insieme il messaggio cristiano e il mondo del lusso?
Non tanto, se pensiamo che l’uomo non è ciò che mangia, come diceva il filosofo e matematico materialista Ludwig Feuerbach nel XIX secolo, ma anche ciò che veste. Nel libro della Genesi, cap. III, v.20, del resto, Dio entra in scena non solo come creatore, ma come sarto: «Il signore Dio fece all’uomo e alla sua donna tuniche di pelle e li vestì». E nel vestire, oltre all’aspetto materiale, c’è un aspetto morale, poiché il vestito ha lo scopo di difendere, celare e tutelare il mistero della sessualità e della vita, e c’è un aspetto metaforico, che io stesso testimonio indossando la porpora cardinalizia, poiché la veste rinvia all’investitura, e cioè alla funzione sociale di chi la porta, e alla rappresentazione simbolica che ne consegue.

Vuol dire che il lusso è parte integrante della Chiesa cattolica e della storia della Chiesa di Roma?
I paramenti ecclesiastici sono un ornamento, tipico della celebrazione di un rito, che rinvia alla liturgia. Basta visitare i musei diocesani sparsi in tutta Europa per constatare che sono colmi di oggetti sacri legati al culto ecclesiastico. Io sotto la veste cardinalizia indosso un abito laico. Nei primi secoli del Cristianesimo si celebrava in abiti normali. L’unico non ammesso era quello militare, su cui San Paolo costruirà la sua famosa metafora «Rivestitevi dell’armatura di Dio per resistere alle insidie del diavolo» (Lettera agli Efesini, cap. 6, ndr). L’abito liturgico è così ricco e sontuoso perché rappresenta la dimensione trascendente del mistero religioso, e cerca di ornare ciò che è divino con qualcosa di splendido e meraviglioso. In questo senso, la mostra al Metropolitan è espressione sociale della vita di un popolo e di una comunità. È esperienza culturale e al tempo stesso sacrale e religiosa.

Da alto prelato della Chiesa cattolica, lei davvero non vede incompatibilità tra l’alta moda e il messaggio del Vangelo?
Insisto, anche i paramenti più semplici possono testimoniare di un eccesso di lusso, della futilità e dell’inutilità proprie del lusso. Ma come nei paramenti ecclesiastici appare la sacralità della funzione liturgica, così negli abiti di lusso dell’alta moda appare una funzione simbolica che trascende la mera funzione del coprirsi.

Non crede che sia dissacrante adottare immagini votive come avviene in alcuni marchi dell’alta moda?
La Chiesa non dovrebbe tutelare il suo repertorio di immagini sacre? Il desiderio di dissacrare è innato nell’animo umano. È un istinto infantile, appare nel bimbo che esagera i suoi comportamenti con gesti proibiti. Nella dissacrazione di molti artisti contemporanei c’è però un aspetto positivo: si dissacra solo ciò che conta, solo ciò che è importante.

Chi se la prende più, oggi, con i simboli dell’imperatore romano?
Nessuno. Mentre la simbologia religiosa è quella che incide di più. Tempo fa, andai a Monaco e visitai i musei della Baviera. Vidi la mostra di un fotografo tedesco, una sequenza di foto impressionanti di uffici pubblici, aule scolastiche e altri luoghi dove, a dispetto della secolarizzazione imperante, erano stati mantenuti i crocefissi…

E che ne dice di un artista come Cattelan che rappresenta papa Giovanni Paolo II colpito da un meteorite?
Il senso è identico: non mi batto per cancellare un simbolismo, ma per attingere a un altro. Colpire una figura sacrale è certamente molto più incisivo. Ma al di là della forma un po’ provocatoria, resta il fatto che si riconosce valore al simbolo religioso. Oggi, i linguaggi simbolici più importanti continuano a essere quelli artistico-religiosi. E l’innamoramento resta un canale di conoscenza che ha tra le persone un’affermazione maggiore dei linguaggi tecnico-scientifici. Dare valore ai linguaggi religiosi, dunque, è l’espressione più profonda e segreta della persona umana. Se la scienza rappresenta la scena del mondo contemporaneo, l’umano cerca sempre qualcos’altro.

Cosa risponderebbe agli integralisti che considerano incomprensibile, addirittura diabolico, il connubio tra spiritualità cattolica e materialismo del mondo del lusso?
San Paolo, nella Prima lettera ai Tessalonicesi, capitolo V, diceva di verificare tutto e conservare ciò che è bello. “Kalon” in greco voleva dire bello e buono. La moda è una forma di comunicazione molto rilevante della cultura contemporanea. Una donna, vestendosi, ricorre a certi canoni. Ma anche una persona povera lo fa, cercando di vagliare vari aspetti. Certamente, il mondo del lusso è fuori dalla Chiesa. Ma noi abbiamo la missione anche di entrare in un mondo che rappresenta a volte in modo evidente alcune malattie del nostro tempo: l’esteriorità, la banalità, la superficialità. Ora se l’indifferenza e la superficialità ne sono la componente dominante, è anche vero che secondo il messaggio cristiano è indispensabile entrare anche nel mondo del lusso, come in qualsiasi altro mondo dove c’è il male.

Cosa l’ha spinta a farlo con la mostra americana?
Un antico desiderio. In passato, quando ero a capo della Biblioteca Ambrosiana a Milano, ebbi spesso la stessa richiesta dal mondo della moda, che però non riuscì ad aver seguito. In quel mondo, dicevano, c’erano pur sempre persone che avevano bisogno di sentire un’altra voce. I modelli, costretti a una vita ascetica, spesso brutale, hanno un desiderio di bellezza, esprimono una ricerca di bellezza che guarda altrove. D’altra parte, chi oggi entra in una Pinacoteca senza conoscere alcunché della Bibbia non riesce a capire l’80 per cento di quello che sta guardando. È proprio per questo motivo, e cioè per dialogare con il mondo della bellezza – che fu per secoli la nostra prerogativa, anche se la grammatica di oggi è diversa, a causa del divorzio tra la Chiesa e il mondo contemporaneo –, che a Venezia abbiamo inaugurato il padiglione Vaticano alla Biennale di architettura.

Lei dunque crede in un incontro necessario tra il mondo della fede e quello della bellezza?
Sì, perché fede e bellezza, per loro natura, non rappresentano il visibile, ma l’invisibile nel visibile, come diceva Paul Klee. Dialogo, inoltre, vuol dire incontro tra due “logoi”, e cioè due ragioni, due discorsi seri, ma nella radice del termine c’è anche “dia” che vuol dire entrare in profondità. Alla luce dell’esperienza del Cortile dei Gentili, il forum con i rappresentanti del mondo laico che da anni organizziamo in Vaticano, posso dire di aver sempre trovato un grande interesse ai nostri temi da parte del mondo estraneo alla Chiesa.

È la sua risposta a una nuova evangelizzazione?
Alla base di ogni persona umana c’è quello che Platone mise in bocca al suo maestro Socrate prima di morire: una vita senza ricerca non merita di essere vissuta. Quelli che operano nel settore del lusso e dell’alta moda hanno tutto del mondo, stanno bene, sono ricchi, appagati, ma alla fine c’è in loro una domanda sul senso della vita, sulla morte, sull’amore, sul dolore e sono convinti che la risposta stia altrove. Anche nelle persone più superficiali, in balia della generale avidità, oggi non troviamo più gli atei militanti di un tempo, gli oppositori della religione, gli anticristiani come Friedrich Nietzsche. Che Dio esista o non esista non è un male in sé, ma è diventato ormai una virtù soggettiva ed etica. In questa luce, è significativo sentire un discorso diverso. E io ogni volta mi stupisco di quanto colpiscano i temi legati al Vangelo, di quanta forza conservi ancora il messaggio cristiano in un mondo secolarizzato come il nostro conte

La mia risposta                                                                 Udine 11 aprile 2018

Eminenza Reverendissima,
durante una delle mie non infrequenti incursioni nel sito Alzo gli occhi verso il cielo, prezioso contenitore organizzato di molto materiale interessante, ho trovato la Sua intervista, condotta dalla giornalista Marina Valensise con grande professionalità, intervista originariamente pubblicata sulla rivista Vogue Italia, dove pure è accessibile.
Quindi non me ne voglia se a pubblica stimolazione propongo la mia pubblica risposta (preceduta da questa che spero La raggiunga sia in rete che con la vecchia posta cartacea).
Lei, con questa intervista e con gli articoli sul domenicale de Il Sole 24 ore, si rapporta consapevolmente al mondo del mercato che, nel caso di Vogue, si propone esclusivo veicolo di immagini di bellezza.
Un tempo non se ne sarebbe saputo nulla. Oggi la rete consente di averne informazione.
Non c’è da parte mia alcuna intenzione di riesumare un distacco demonizzante da quel mondo, come avrei potuto trovare un tempo in un esponente di alto livello gerarchico della Chiesa cattolica; e ciò è bene.
Voglio però soffermarmi su un punto che cito dall’intervista: «nel vestire … c’è un aspetto metaforico, che io stesso testimonio indossando la porpora cardinalizia, poiché la veste rinvia all’investitura, e cioè alla funzione sociale di chi la porta, e alla rappresentazione simbolica che ne consegue». E, sollecitato dalla intervistatrice, Lei aggiunge: «I paramenti ecclesiastici sono un ornamento, tipico della celebrazione di un rito, che rinvia alla liturgia. … L’abito liturgico è così ricco e sontuoso perché rappresenta la dimensione trascendente del mistero religioso, e cerca di ornare ciò che è divino con qualcosa di splendido e meraviglioso».
Certo la bellezza può essere richiamo a quel momento ‘splendido e meraviglioso’.
Un’opera bella (o che ricerca bellezza) può essere presente nelle gallerie d’arte per la gioia e la contemplazione di milioni di persone, una musica può essere ascoltata in una sala stracolma senza desiderare di possederne lo spartito, un film può essere visto da milioni di persone.
Negli eventi che si snodano nella quotidiana liturgia della vita – e l’abito ne è parte ineludibile – l’elemento discriminante fra l’abito quotidiano e l’abito firmato, cui appartiene quella bellezza su cui lei riflette nell’intervista, è il denaro per cui c’è chi quell’abito può ammirare e possedere, e chi può solo ammirare.
Non sono così ingenua da immaginare una prevalente contemplazione disinteressata di un vestito.
E nello stesso tempo so che nella formazione del suo costo c’è il lavoro.
C’è il lavoro libero del creatore di un’opera d’arte e c’è il lavoro delle/gli esecutori. Questo, nel migliore dei casi, si svolge in una situazione organizzata in modo da rispettare le regole di una civiltà non estranea necessariamente al mercato ma non sempre tale da caratterizzarlo ma infine non posso permettermi neppure di ignorarne l’aspetto inquietante di estraneità a regole di civiltà.
Sappiamo che anche prodotti di grande marca, presentateci come nazionali, conoscono le dita di bambine e bambini dell’Asia, incollati a un tessuto che, diventando abito, assicura un guadagno ad altri, abbandonando loro a una stentata, indegna sopravvivenza. Ci sono bambini che – anche in America Latina – si sono fatti sindacalisti e alcuni sono rimasti vittime del loro coraggio.
E sappiamo anche (perché talvolta le notizia sfuggono al controllo censorio) di sfruttamento di chi lavora nel nostro territorio per produrre una bellezza che non si sottrae al commercio. Il lavoro nero, merce appetibile anche da organizzazioni criminali, è una piaga che si estende ovunque.
E non solo lavoro nero. Come valutiamo la situazione della modella che, per poter sfilare, è condannata alla taglia 40? Un abito indossato da una ragazza resa anoressica può essere valutato come ‘bello’, abbandonando all’indifferenza del silenzio la condizione di chi lo indossa?
Non legga come maligna la domanda che ora le pongo ma solo come solidale per chi è condannato a una attività spersonalizzante e peggio: le suore che nei conventi lavorano per costruire e mantenere la bellezza che giustamente l’affascina sono retribuite secondo le regole di un mercato corretto?
Eminenza, pur apprezzando il Suo competente interesse, svelatoci dall’intervista di Vogue, per una inconsueta riconosciuta forma di bellezza, non posso non essere colpita dalla mancanza di una parola di attenzione per chi quella bellezza contribuisce a produrre in condizioni che possono arrivare alla schiavitù.
Cordialmente
Augusta De Piero
PS: Naturalmente nella lettera inviata c’erano i dati che mi identificavano: indirizzo e telefono)

FONTI

Marina Valensise, Vogue Italia, aprile 2018, n.812, pag. 50

https://alzogliocchiversoilcielo.blogspot.it/2018/04/l-intervista-al-cardinale-ravasi-su.html#more

http://www.vogue.it/news/vogue-arte/2018/04/09/intervista-al-cardinale-ravasi/

13 Aprile 2018Permalink