08 marzo 2009 – Un otto marzo con dedica

Perché quando ho cominciato a scrivere qualche cosa per l’otto marzo mi si sono imposte alla mente le parole “far memoria” e perché, per un po’, non mi hanno infastidito e se ne stavano tranquille dentro di me, come ovvie? Il sussulto di consapevolezza é arrivato tardi: si fa memoria di qualche cosa che non c’é più, ma che é bene non dimenticare perché, nella cura del ricordo, si colora di una lontana vitalità.
Capire che mi stavo chiedendo cosa ha da dire a me la memoria dell’otto marzo é stata una presa di coscienza triste.
Ricordo anni in cui significava, nel fare il punto di esperienze vissute – quando non di raccontarci nuovi percorsi in spazi finalmente aperti – condividere la gioia di aver trovato parola, per dire –per dirsi- le dimensioni di un’esperienza che usciva da prigioni che il trascorrere di un lungo tempo muto aveva consolidato. E la consapevolezza finalmente collettiva (o ci illudevamo che lo fosse?), si rovesciava nella politica rinnovandola in nome di diritti che non dovevano essere più negati, di dimensioni di vita e dolore che emergevano dalla storia di genere, dall’oscurità imposta che si faceva parola condivisa, strumento di nuove modalità di relazione.
Penso alla liberazione che seguì il rovesciamento dell’immagine della violenza sessuale, finalmente vergogna dei violentatori e non delle violentate. Si ribaltava un modo di vivere, di pensare, di pensarsi, che ci aveva volute custodi delle porte di quella prigione che si chiamava condizione delle donne.
E la solidarietà finalmente passava dalle consolazioni della dimensione privata alla chiarezza di un grande processo di rinnovamento della politica.
Forse il punto più alto di quella solidarietà fu l’elaborazione delle modalità che identificammo per declinare la tutela sociale della maternità. Spostare la maternità dal destino alla libera scelta significò scrollarsi di dosso il peso terribile e soporifero di chi di quel destino ci voleva suddite incoscienti, mettere in discussione il mondo del lavoro e il sistema sanitario, renderli disponibili a confrontarsi anche con altre esigenze, sempre sottaciute e chiuse nella dimensione del privato.
Oggi – nel gelo di una crisi distruttrice di ogni sicurezza- la tutela sociale della maternità, che volevamo uguale offerta a una condizione di genere, si colora di discriminanti etniche, che una mancata presa di coscienza non vuole chiamare apertamente razziste.
Il pacchetto sicurezza, come uscito dal dibattito in senato, offre ai medici (e nel sistema sanitario non ci sono solo medici) l’opportunità di segnalare agli organi di polizia le immigrate (e ovviamente gli immigrati) prive di permesso di soggiorno.
Sono prive perché entrate senza seguire le norme previste per i processi migratori? prive perché richiedenti asilo? prive perché rimaste senza lavoro? Non c’é distinzione: l’offerta delatoria é onnicomprensiva.
E poiché la vita continua, oltre i timbri su un qualsivoglia modulo, le donne, anche le donne migranti, continueranno a voler decidere della propria maternità, a lavorare per vivere e a dover rendere compatibili maternità e lavoro, a trovarsi di fronte al problema dell’interruzione di gravidanza, a voler curare e prevenire malattie devastanti. La paura della delazione toglierà loro la speranza del futuro, si negheranno a quei servizi che pure erano stati aperti anche a chi tessera sanitaria non ha e la necessità di nascondersi si farà più forte di ogni altra ricerca di sicurezza.
In questo otto marzo dovremo dirci che tutto ciò che abbiamo chiamato ‘tutela sociale della maternità ci appartiene per privilegio di razza. Lo faremo senza vergognarcene?
Mi resta ancora la libertà di dare un nome alla cosa, ma non mi basta.
Però, nella pesante constatazione della mia memoria offesa, una giovane donna ha aperto uno spiraglio di speranza. L’ho conosciuta durante un esame sanitario e si é dimostrata piacevolmente professionale anche nella capacità di attuare una relazione fatta di attenzione e comunicazione attenta e paziente. Gliel’ho detto e le ho lasciato il mio indirizzo.
Mi ha scritto che la vicenda Englaro “ha toccato tutti profondamente. Non ho mai manifestato in vita mia ma sono rimasta dispiaciuta per tutti gli attacchi che ha subito il padre di Eluana e per questo dopo il lavoro sono andata davanti alla Quiete a tenere lo striscione ‘Udine vicina a papà Beppino’ insieme ad altre persone, in silenzio”.
Un indizio di solidarietà riscoperta che mi piacerebbe si facesse condivisa oltre l’emergenza di un caso.
E a quella giovane donna dedico questo mio otto marzo che non vuole essere solo memoria.

8 Marzo 2009Permalink