08 luglio 2010 – I tempi non si scelgono – 1

I tempi non si scelgono
In essi si vive e si muore. -1

Ho ricopiato il titolo dalla citazione di una poesia di Aleksander Kušner, proiettata alla mostra Russie! A Ca’ Foscari – Venezia

Ricomincio a scrivere, provo perché credo non sia giusto abbandonare un impegno intrapreso con me stessa (anche se non sarebbe il primo) e poi questa ‘non carta’ è l’unico luogo in cui posso rendere visibili, almeno a me, le mie parole.
Sto leggendo un libro di grande interesse, un’inchiesta giornalistica vera fatta sul campo e non sulle veline. E’ un volume regalatomi da un’amica, cui sono molto grata. Si tratta di Fabrizio Gatti. Bilal (viaggiare, lavorare, morire da clandestini. 2007 BUR).
Leggendo per un po’ ho riconosciuto i modi di scrittura e i modi del lavoro di Ryszard Kapuscinski, il vero giornalismo d’inchiesta, quello dei giornalisti che consumano le scarpe diceva Igor Man. Qualche cosa però mi turbava: quanto più Gatti si addentrava nelle piaghe di un’Africa percorsa da lui come da uno dei tanti dannati che da quella terra cercano di venire in Europa, tanto più mi richiamava il giornalista polacco e insieme percepivo una distanza enorme fra loro.
L’africa postcoloniale di Kapuscinski, per quanto misera, lasciava intravedere la possibilità di un futuro sperato, desiderato, prossimo ad essere progetto (che solo nel Sud Africa di Mandela ha funzionato). L’Africa di Gatti è solo disperazione che il coraggio di chi se ne va non riscatta. Il futuro, se c’é, è altrove e altrove va ricercato senza progetto perché progetto non è possibile. Lo ‘sprezzo del pericolo’ scrive Gatti, riprendendo con voluto sarcasmo un’espressione cara ai militari che riconoscono quello sprezzo nelle loro medaglie e non in chi affronta un viaggio folle per aiutare altri –forse- a sopravvivere. E sono proprio i militari che contribuiscono alla reclusione dei disperati, identificati come ‘clandestini’, di cui non sanno riconoscere il coraggio che celebrano nei loro medaglieri..
E ancora Gatti, tentato da pensieri violenti verso gli schiavisti che incontra in Italia. : “Abbiamo soltanto due modi di risolvere i conflitti. Attraverso le parole o attraverso la violenza” (pag. 481) Nell’alternativa parole-violenza il giornalista crede ancora; io sempre meno: scopro ogni giorno parole che coprono violenza attraverso quella rassegnazione che si propone come saggezza realista ed è fondamentalmente ipocrisia.

La violenza del non detto.
Ogni volta che affronto il senso delle parole, la loro possibilità di essere sostanza di un progetto, di farsi motori di modifica, provo uno sgomento crescente.
Non trovo silenzio (sarebbe meglio quando la parola si fa beffa), trovo chiacchiera, adeguamento al peggio il cui confine, sempre più mobile, si sposta verso il baratro facile da prevedere ma contro il quale non si sono costruite difese.
Da anni era facile presagire il crollo della politica: la caricatura vile e ben accolta da molti fattane dalla Lega Nord, epifania di quanto di peggio si può costruire nel vivere collettivo, avamposto spudorato e gradito del berlusconismo più becero, catalogo delle bestialità del buon senso e crogiolo per la loro esasperazione, non aveva trovato oppositori e oggi è senso comune.
Da una parte se ne rideva con la spocchiosa superiorità di chi è immediatamente in grado di identificare le stupidaggini dette da altri, dall’altra la si accoglieva come un laboratorio di matte e insieme utili bestialità: se quel che diceva Bossi riusciva sgradito lo si attaccava (la bandiera come carta igienica…) se quel che diceva Bossi passava senza traumi – o addirittura riusciva accettabile – se ne faceva tesoro. Un tabù violato può diventare un luogo comune pronto all’uso (le espressioni di antimeridionalismo, le dichiarazioni razziste…).
Se a ciò si unisce il degrado delle istituzioni, conseguente il degrado del personale politico, è chiaro che il luogo deputato alle decisioni collettive si fa impraticabile.
A livello nazionale deputati e senatori sono eletti dal popolo solo nella loro quantità ma, come persone, sono designati in forma ferrea dalle decisioni delle segreterie dei partiti. Quel che conta è avere molti eletti per governare con qualsiasi mezzo (la storia del ministro lampo Brancher ne è un esempio meravigliosamente chiaro) o per fare opposizione senza scomodarsi a creare un progetto, soddisfatti di urlare vari e scoordinati ‘no’, logicamente traballanti quanto i ‘sì’.
Chi parla e prima pensa in questo coacervo non è gradito da nessuna parte.
Il consenso sembra incompatibile con il pensiero.

I comuni, primo luogo istituzionale del vivere insieme.
I comuni, primo luogo istituzionale del pensare insieme. Sono diventati il primo gradino di un cursus honorum o, se l’onore ricevuto non ha corso, un luogo per elevarsi sopra i propri concittadini a onore e gloria del partito o della lobby che ti ha sostenuto. E partito e lobby agli eletti chiedono poi di pagare il conto e il pagamento viene onorato per quanto squallido..
Ho scritto per più di un anno del problema della registrazione anagrafica dei figli dei sans papier e non sono riuscita a trovare quasi nessuno che capisse come questa dissennata decisione del governo, diventata legge e malamente rabberciata da una circolare salva vergogne come un perizoma raccattato per necessità, fosse un insulto al ruolo stesso dei sindaci, tranquilli nel loro pacioso adattarsi a non conoscere chi nasce nel loro territorio.
Stiamo costruendo – segnandoli dalla nascita- persone senza cittadinanza, senza genitori riconosciuti come tali, senza diritti. Fra una quindicina d’anni forse ne parlerà un nuovo Kapuscinski, ne inorridirà un nuovo Gatti senza bisogno di cambiare continente.
Contemporaneamente si pongono le basi per riportare i comuni a un ruolo neopodestarile.
La solidarietà si trasforma in pietà capace di assistenza ma la pietà dei ‘buoni’ non riscatta la sciatteria di chi vuole ignorare l’etica della solidarietà ‘politica, economica e sociale’ (Costituzione della Repubblica – art.2)
Anni fa avevo sperato in una svolta promossa e voluta dalle associazioni che si formano nella società civile. Ora non più…
(continua)

 

8 Luglio 2010Permalink