17 dicembre 2019 – Una intervista che ci propone una pagina di storia

L’Espresso 17 novembre
Padre Sorge: «Ruini sbaglia a benedire Matteo Salvini. Il Vaticano fece lo stesso col Duce»

Il grande gesuita racconta i suoi tre Papi, la politica e gli attacchi contro Bergoglio. «Ci vuole un sinodo della chiesa italiana. Per dire che odio, razzismo e chiudere i porti ai naufraghi sono contro il vangelo»
di Marco Damilano

Nella mia lunga vita ho avuto tre sogni: diventare un santo sacerdote gesuita; impegnarmi con tutte le forze nella costruzione della città dell’uomo; realizzare con fede e amore la Chiesa del Concilio, rinnovata, libera dal potere, povera, in dialogo con il mondo. Il primo sogno, ahimè, è ancora tale, ma ho fiducia che il Signore lo compirà. Il secondo sogno l’ho visto realizzarsi progressivamente nel lungo arco della mia vita, soprattutto negli anni ’80, quando mi trovai a combattere la mafia che in Sicilia mirava al cuore dello Stato. Gli undici anni vissuti a Palermo li ho passati quasi tutti sotto scorta armata. Agostino Catalano, uno dei miei “angeli”, saltò in aria con Paolo Borsellino. Purtroppo non potei essere vicino a lui e alla sua famiglia, perché mi trovavo in America Latina. Il terzo sogno lo rincorro da 50 anni (cioè, dalla fine del Concilio), metà dei quali alla Civiltà Cattolica, accanto a tre grandi papi».
También están los jesuitas, si diceva in America Latina: se la situazione è disperata, ci sono i gesuiti. Eccone uno illustre, un grande vecchio italiano. Padre Bartolomeo Sorge il 25 ottobre ha compiuto novant’anni, parla nella casa di Gallarate che ospitò negli ultimi anni il cardinale Carlo Maria Martini. Ha diretto dal 1973 al 1985 la rivista Civiltà Cattolica, ha promosso la “primavera di Palermo” con il sindaco Leoluca Orlando negli anni ’80. Oggi usa i social. Un tweet su Matteo Salvini: «Non basta baciare in pubblico Gesù: l’ha già fatto anche Giuda». Si calca un basco nero sul capo e si racconta.

Nella leggenda nera dei suoi avversari lei è stato un potente gesuita, influente nella Chiesa e tra i politici cattolici. È vero che stava per essere nominato cardinale?
«L’ho saputo con certezza solo di recente, leggendo i documenti pubblicati documenti pubblicati da Stefania Falasca nel suo libro sulla morte di papa Luciani. Ho appreso che Giovanni Paolo I voleva mandarmi patriarca a Venezia al suo posto, rimasto vacante dopo la sua elezione al pontificato. Provvidenzialmente il cardinale Antonio Poma, presidente della Cei, si oppose e la ebbe vinta. Per due motivi. Il primo fu che, dopo la lettera di Enrico Berlinguer al vescovo Luigi Bettazzi, avevo auspicato che i cattolici non temessero di confrontarsi culturalmente con i comunisti. Il secondo, che fin dalla relazione finale che tenni al convegno della Chiesa italiana su “Evangelizzazione e promozione umana” (1976), prevedendo la fine della Dc, mi davo da fare affinché si trovasse un modo nuovo di presenza politica dei cattolici in Italia, diverso dal partito democristiano. Fu così che persi la gondola…».

Lei è un italiano del ’900. Che formazione ha avuto?
«Sono nato a Rio Marina, nell’isola d’Elba. La mia famiglia si trattenne qualche tempo in Toscana e poi si trasferì in Veneto. Morto mio papà in guerra, non ci siamo più mossi da Castelfranco. A 17 anni entrai nella Compagnia di Gesù, desideroso soprattutto di dedicarmi all’apostolato spirituale. Non avrei mai immaginato di finire in politica! Studiai filosofia nella facoltà dei gesuiti milanesi e teologia in Spagna, all’Università di Comillas. Erano gli anni della dittatura di Franco e, come da noi durante il fascismo, circolavano le barzellette. Un esempio? Un signore – raccontavano – giunge di corsa, tutto trafelato, al palazzo del Caudillo. Lo fermano: “Che cosa vuole? Perché tutta questa fretta?”. “Devo sparare un colpo a Franco”. “Beh! Allora si metta in coda!”».

Subito però i suoi superiori la spostarono sulla politica.
«È così. Terminata la formazione, nel 1960, fui inviato subito alla Civiltà Cattolica. Direttore era padre Roberto Tucci. Avevo appena 30 anni, mi concessero cinque anni di tempo per specializzarmi. Dopo un biennio alla facoltà di Scienze Sociali dell’Università Gregoriana, mi laureai in scienze politiche alla Sapienza di Roma e cominciai a “scarabocchiare” sulla rivista, Divenni così politologo, giornalista e vice-direttore, finché il generale dei gesuiti padre Pedro Arrupe, nel 1973, mi nominò direttore. In quella posizione, privilegiata ma piena di responsabilità, fui testimone diretto del periodo più difficile del post-Concilio. Gli anni esaltanti della rinascita e della nuova e tormentata primavera ecclesiale».

Gli anni, anche, dell’inverno: il terrorismo, le divisioni e la contestazione nella Chiesa, la fine del pontificato di Paolo VI e l’elezione del papa polacco Giovanni Paolo II che si abbatté sul cattolicesimo italiano.
«Finché visse Paolo VI, ebbi sempre le spalle coperte. Il papa mi voleva bene e mi incoraggiava. Un giorno, in un’udienza privata, mi disse: “Lei, padre, fa sempre un passo avanti, prima che arriviamo noi”, ma aggiunse subito: “vada avanti! Prosegua sempre nella fedeltà adulta al Magistero della Chiesa” (parole sue!). Nei dodici anni della mia direzione, la rivista fu sempre improntata alla linea di papa Montini. Le prime difficoltà iniziarono per me nel 1978 quando, morto Paolo VI e dopo la meteora di papa Luciani, venne eletto papa Giovanni Paolo II. Nella Chiesa italiana il clima cambiò visibilmente. A partire dal Convegno ecclesiale di Loreto nel 1985, l’interpretazione profetica del Concilio, sostenuta con coraggio e sapienza da Montini, fu lasciata cadere. La visione wojtyliana di una Chiesa “forza sociale”, apertamente schierata in difesa dei “valori non negoziabili”, prese il sopravvento sulla visione montiniana della Chiesa del dialogo e della “scelta religiosa”».

La scelta religiosa era il distacco dal collateralismo, del voto per la Dc. Contestata dal nuovo potere forte del mondo cattolico: Comunione e liberazione.
«Il modello principale dell’impegno dei laici nel mondo, costituito dall’Azione Cattolica, fu messo in discussione dall’affermarsi del nuovo stile battagliero e militante di Comunione e Liberazione, più vicino allo stile di papa Wojtyla. In una intervista al Sabato (settimanale di Cl) mi permisi di farlo notare: “Se oggi avessi 17 anni, sarei certamente un ciellino. Infatti trovo in Cl quell’entusiasmo che ieri, da ragazzo, mi attrasse nell’Azione Cattolica. Il problema è che, tra ieri e oggi, c’è stato di mezzo il Concilio, il quale ha spiegato chiaramente che il Signore ci comanda di salare il mondo, non di trasformare il mondo in una saliera!” Non l’avessi mai detto! Non me l’hanno più perdonato, neppure a distanza di anni».

Infatti lei fu estromesso dalla direzione di Civiltà Cattolica.
«Di fronte alle crescenti difficoltà che incontravo nel mantenere la rivista fedele alla linea montiniana, ne parlai con il padre generale Hans-Peter Kolvenbach: “Se bisogna cambiare linea editoriale, è meglio cambiare il direttore”. Quando fui destinato a Palermo, in molti scrissero: padre Sorge è stato spedito in esilio. In realtà, il Centro Studi Sociali dei gesuiti di Palermo stentava a decollare, mentre la situazione in Sicilia era drammatica. Bisognava fare qualcosa. Nacque così l’Istituto di formazione politica Pedro Arrupe, che segnò l’inizio del proliferare delle scuole sociali e politiche, un po’ in tutte le diocesi italiane».

Il centro Arrupe approvò e sostenne la giunta di Leoluca Orlando con la Dc e insieme il Pci, che, alla fine degli anni ’80, diede origine alla Primavera di Palermo, divenendo un caso nazionale. Per questo, lei e padre Ennio Pintacuda foste attaccati dai socialisti con Claudio Martelli, , dagli andreottiani e perfino dal presidente Cossiga. Vi paragonavano ai gesuiti rivoluzionari del ‘700 in America Latina, quelli del film “Mission”…
«Mi rendevo perfettamente conto della delicatezza della situazione politica, che si sarebbe creata dando vita alla giunta di Palermo. Ma era necessario farlo, se si voleva rompere il predomino che la mafia aveva in città. Ricordo il decisivo intervento di Sergio Mattarella, che al telefono, senza mai alzare la voce ma portando convincenti ragioni politiche, vinse in extremis le ultime resistenze di chi a Roma si opponeva al varo della giunta Orlando. Fu un’esperienza difficile, ma piena di speranza».

Il 16 novembre 1989, in Salvador, sei gesuiti e due donne furono trucidati all’università dagli squadroni della morte. Tra loro il rettore padre Ignacio Ellacuría. In Sicilia in quegli anni la mafia uccise un prete, padre Pino Puglisi, e lei girava sotto scorta.
«Furono anni terribili. Ma non dimenticherò mai la gioia che provai quando vidi l’intera città di Palermo reagire apertamente contro la mafia, superando la paura e l’omertà che l’avevano tenuta a lungo inchiodata. Finalmente si era svegliata la coscienza popolare, reagendo alla rassegnazione dominante, che mi aveva impressionato negativamente, quando giunsi in Sicilia».
Che pontefice è il primo gesuita papa, Francesco?
«Per me, è una prova che Dio guida la storia e la Chiesa. C’era bisogno di un papa che avesse il coraggio evangelico di riprendere il cammino della riforma interna della Chiesa, voluta dal Concilio, proseguendo l’opera iniziata da Paolo VI e rimasta interrotta con la sua morte, dopo che Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, con altrettanta generosità, si erano spesi per rinnovare i rapporti ad extra della Chiesa con il mondo. Erano da prevedere le reazioni violente, che oggi si abbattono su papa Francesco da parte di chi, in fondo, dimostra solo di non aver veramente accettato il Concilio».

Qual è lo scontro nella Chiesa di papa Bergoglio?
«Il problema sta nella interpretazione del Concilio. Nella Chiesa si sono confrontate, fin dall’inizio, la lettura profetica, fatta da Giovanni XXIII, da Paolo VI e da Papa Luciani, e l’altra lettura (del tutto legittima) di natura prevalentemente giuridica, come si è sempre applicata in passato nella interpretazione dei testi dei 20 precedenti concili ecumenici. Non si tratta di un confronto astratto e teorico, coinvolge la vita concreta e le scelte quotidiane dei cristiani».

Vale anche per la Chiesa italiana? In Italia le chiese si svuotano e la maggior parte degli italiani si disinteressa delle discussioni interne dei vescovi e del clero. Mentre, per beffa, la rappresentazione del cristianesimo sembra occupata sulla scena pubblica da Matteo Salvini, che brandisce la corona del rosario nelle piazze e perfino nell’aula del Senato?
«Credo che nella Chiesa italiana si imponga ormai la convocazione di un Sinodo. I cinque Convegni nazionali ecclesiali, che si sono tenuti a dieci anni di distanza uno dall’altro, non sono riusciti – per così dire – a tradurre il Concilio in italiano. C’è bisogno di un forte scossone, se si vuole attuare la svolta ecclesiale che troppo tarda a venire. Solo l’intervento autorevole di un Sinodo può avere la capacità di illuminare le coscienze sulla inaccettabilità degli attacchi violenti al papa, sulla natura anti-evangelica dell’antropologia politica, oggi dominante, fondata sull’egoismo, sull’odio e sul razzismo, che chiude i porti ai naufraghi e nega solidarietà alla senatrice Segre, testimone vivente della tragedia nazista della Shoah, sull’assurda strumentalizzazione politica dei simboli religiosi, usati per coprire l’immoralità di leggi che giungono addirittura a punire chi fa il bene e salva vite umane. La Chiesa non può più tacere. Deve parlare chiaramente. È suo preciso dovere non giudicare o condannare le persone, ma illuminare le coscienze».

Però un ecclesiastico importante ha parlato, è il cardinale Camillo Ruini. Per dire che Salvini reagisce alla scristianizzazione e con lui la Chiesa deve parlare, per farlo maturare. Lei lo esorcizza, Ruini lo benedice.
«Nella storia della Chiesa italiana, Ruini è l’ultimo epigono autorevole della stagione di papa Wojtyla. Giovanni Paolo II, dedito totalmente alla sua straordinaria missione evangelizzatrice a livello mondiale, di fatto rimise nelle mani di Ruini le redini della nostra Chiesa, nominandolo per 5 anni segretario generale della Cei, per 16 anni presidente dei vescovi e per 17 anni vicario generale della diocesi di Roma. Per quanto riguarda il suo atteggiamento benevolo verso Salvini, dobbiamo dire che è del tutto simile a quello che altri prelati, a suo tempo, ebbero nei confronti di Mussolini. Purtroppo la storia insegna che non basta proclamare alcuni valori umani fondamentali, giustamente cari alla Chiesa, se poi si negano le libertà democratiche e i diritti civili e sociali dei cittadini».

Ruini afferma anche di considerare irrilevante e finito il ruolo dei cattolici democratici, che lui chiama «il cattolicesimo politico di sinistra», e invece si compiace per la sua scelta di influenzare il centrodestra: quasi la rivendicazione di un ruolo strategico. Anche per lei è così?
«Una opinione personale, per quanto autorevole e degna di rispetto, non riuscirà mai a cambiare la storia o a riscriverla in modo diverso da quella che essa veramente fu».

E di Matteo Renzi che pensa? Anche lui è un bersaglio dei suoi tweet.
«Ripeto il giudizio che ne ho dato pochi giorni fa. È impressionante vedere che, nel momento in cui la crisi politica si fa più acuta, emerge sempre l’uno o l’altro personaggio che mira a porsi come l’uomo solo al comando, l’uomo della Provvidenza. Sia Berlusconi, sia Renzi, sia Salvini mostrano la medesima propensione. Nessuno di loro, dopo le sconfitte subite, ha mai pensato di farsi da parte, come sarebbe stato logico e onesto. Ciascuno di loro ha continuato a ritenersi il salvatore d’Italia! È un sintomo caratteristico del populismo, di una malattia mortale della democrazia, che più di una volta, ha già spianato la strada a regimi totalitari e alla dittatura»

Faccia un altro sogno, in conclusione.
«La mia è un’età, nella quale i sogni non si fanno più, ma si raccontano. Rimane invece sempre viva la speranza, che come si dice è l’ultima a morire. La mia speranza è questa: che i giovani, dopo aver letto il racconto che ho fatto dei tre sogni della mia vita, continuino – loro sì – a sognare e s’impegnino con entusiasmo a proseguire il rinnovamento della Chiesa e dell’Italia».

http://espresso.repubblica.it/plus/articoli/2019/11/15/news/a-benedire-salvini-ruini-sbaglia-1.340844

17 Dicembre 2019Permalink

11 gennaio 2015 – A proposito di Charlie

La strage al settimanale Charlie Hebdo è una tragedia dalle molte facce che rischia di fare troppe vittime. Le prime sono i giornalisti, i vignettisti e i poliziotti caduti sotto il fuoco della follia integralista degli attentatori. Poi i familiari, che piangono i loro parenti uccisi brutalmente. Poi i musulmani di tutto il mondo, che sull’onda dello sdegno e della paura che sta montando, rischiano in quanto tali di essere assurdamente equiparati ai terroristi e di farne le spese ingiustamente. Infine, ultime vittime ma non meno importanti, ci sono la ragionevolezza, l’arte delle distinzioni, la tolleranza, lo spirito del dialogo e la libertà religiosa, che sono tra le più grandi conquiste storiche della nostra civiltà.

Come giornalisti di testate di diversa ispirazione religiosa, portiamo il lutto per la morte dei nostri colleghi francesi: la loro resistenza alle minacce degli intolleranti e la loro testimonianza di libertà ci devono essere di esempio. Lo spirito critico è il sale del giornalismo. E la satira ne è una delle sue espressioni. Anche se non sempre si è d’accordo con le sue provocazioni. Una società democratica si riconosce dalla capacità di difendere la possibilità d’espressione anche delle voci più taglienti.

La questione che si pone oggi è di enorme rilevanza, perché l’attacco terroristico a Charlie Hebdo non ha inteso ferire a morte soltanto un gruppo di coraggiosi vignettisti, né soltanto aggredire società laiche e liberali come quella francese; ha inteso sottomettere, intimidire e piegare tutti i credenti in un Dio diverso da quello violento e totalitario propagandato dagli integralisti.

Portiamo il lutto perché, in questo clima sociale, lo spirito di dialogo e di convivenza tra diverse culture e religioni rischia di farsi più difficile. Su un punto, perciò, occorre essere chiari: chi dice di voler difendere Dio usando la violenza, sta bestemmiando il suo Santo Nome.

Per questo non possiamo dimenticare anche la terribile strage compiuta nel Nord della Nigeria.

L’ironia e la satira non sono nemiche dei credenti. Anzi, possono aiutarli a liberarsi dalla presunzione di “possedere” l’Altissimo, giocando così una funzione anti-idolatrica. Saper ridere di se stessi e rispettare la propria coscienza di credenti è dunque un modo per sconfiggere la follia assolutista di chi vorrebbe imporre con la forza della paura una caricatura impazzita e mortifera del Divino.

Forse una risata non salverà il mondo. Ma almeno ci impedirà di trasformare Dio in un simbolo dell’odio.

Jesus (mensile della Periodici San Paolo) Il Regno (edizioni Dehoniane) Riforma (quotidiano on line e settimanale delle Chiese valdesi metodiste e battiste in Italia) Nev (agenzia di stampa della Federazione delle Chiese evangeliche in Italia – Fcei) RBE (Radio Beckwith Evangelica) Confronti (mensile di dialogo ecumenico e interreligioso) Qol (rivista di dialogo cristiano-ebraico) CEM Mondialità (mensile di interculturalità) Yalla Italia (blog delle “seconde generazioni”)

11 Gennaio 2015Permalink

29 agosto 2014 – Ragionando su un documento confuso

Hypotheses non fingo

Ieri ho pubblicato un documento dell’Asgi (con tutti i link che oggi mi risparmio) e l’ho definito ‘confuso’ perché in calce al testo datato 26 agosto riporta suoi importanti documenti del 2009 senza contestualizzare il periodo di latenza durante il quale mai, a mia conoscenza, ne ha fatto menzione.
Scrivo per esperienza personale ma non così privata dato che sono andata a un convegno importante a Sasso Marconi, ho partecipato ad aggiornamenti promossi dall’ASGI, sempre sui problema dei minori e, quando segnalavo il problema della registrazione degli atti di nascita all’anagrafe ai solerti rappresentanti dell’illustre associazione mai ne è stato fatto riferimento.
Perché?
A 299 anni dalla saggia prudenza scientifica di Newton tengo le mie ipotesi per me e mi limito a considerare ciò che conosco del periodo di ASGI-latenza salvo una piccola contestualizzazione: nel 2009 regnava il presidente Berlusconi (e il trono del cav era sostenuto dalla Lega Nord).
Oggi invece…basta così, se non per ricordare come la cultura dell’inciviltà, abilmente diffusa, sia diventata dilagante senso comune.
Nonostante questo l’ASGI ha riesumato i suoi documenti.
Vedremo se ne farà uso oltre quanto ha scritto sulle squadrette di calcio negate ai figli dei sans papier (si veda mio blog dell’8 maggio) e sugli ostacoli rilevati nelle linee di indirizzo del Miur a proposito dell’iscrizione dei figli dei sans papier alla scuola dell’obbligo (si veda il mio blog del 16 maggio).

Correva l’anno 2009
e la legge, nota come pacchetto sicurezza (aggiungo io: sicurezza del pregiudizio là custodito e promosso attraverso norme assicurate se non da un rissoso consenso diffuso, almeno da un pacioso silenzio), non aveva ancora meritato l’approvazione con voto di fiducia. Sarebbe accaduto nel mese di luglio.
Fu allora che mi avvicinai al GrIS regionale, strumento operativo locale di quella ‘rete di reti’ che è la Società di Medicina delle Migrazioni, quando sostenne una campagna che riuscì a coinvolgere anche l’Ordine dei medici (ricordo il coraggioso pubblico comunicato dell’allora presidente dell’Ordine del FVG).
La campagna, condotta con competenza e determinazione, riuscì a far  rimuovere dalla proposta di legge l’articolo che avrebbe imposto ai medici la violazione del segreto sanitario se avessero curato o comunque soccorso un sans papier.
Quella fu una campagna vincente.
Al corrente degli ostacoli che sarebbero stati frapposti alla registrazione degli atti di stato civile scrissi al sindaco di Udine, nell’illusione che i sindaci si sentissero onorati dall’assicurare l’esistenza giuridica a chi nasce sul loro territorio. Non mi rispose e un assessore, da me contattato, negò il problema.
La lettera g del comma 22 dell’art. 1 del pacchetto sicurezza passò.
Nel 2011 la Corte Costituzionale (sentenza 245 – si veda tra l’altro il mio scritto del 26 giugno 2014) ristabilì la legalità per ciò che concerne i matrimoni (per due anni negati ai sans papier) ma nulla fece per i nuovi nati, la cui estromissione dal consorzio civile era ormai ratificata nell’indifferenza della complicità diffusa.
La proposta di legge 740 – che fa seguito a quella precedentemente presentata dall’on Orlando (si vedano i miei blog del 15 marzo 2011 e del 17 giugno 2013) – potrebbe porre rimedio a questa ferita di civiltà (che anche l’ONU ci chiede di rimuovere  si veda tra l’altro il mio blog dell’11 agosto) ma, se non ci sarà una spinta da parte della società cd civile, penso non ne sarà fatto nulla.

Voltare la testa. Una storia di interventi beffati
Mi limito ai titoli e poco più. Le date (se non c’è altra indicazione) si riferiscono alla pubblicazione nel blog
15 marzo 2011 e 21 dicembre 2012. Due articoli pubblicati dal mensile Il Gallo, di Genova.
Neppure quella storica pubblicazione riuscì a scuotere  la tetra totale indifferenza del mondo cattolico.
20 luglio 2010 Restando alle chiese cristiane devo registrare lo stesso atteggiamento nel mondo protestante, sebbene sia comparso anche di recente un nuovo articolo sul mensile Confronti.
Il mensile locale Ho un sogno (pure citato il 20 luglio 2010, reperibile presso la libreria CLUF di via Gemona 22 – Udine)  ha seguito costantemente la questione e ne ho sempre pubblicato gli articoli nel blog.
21 dicembre 2013 Neonati “clandestini” invisibili per lo Stato, articolo di Tommaso Canetta e Pietro Pruneddu sul quotidiano Linkiesta
9 giugno 2014 – Bambini “clandestini” e diritti negati  articolo di Paolo Citran nella rivista Insegnare del Centro di Iniziativa Democratica degli Insegnanti.
11 giugno 2914Il XIII Congresso della Società Italiana di Medicina delle Migrazioni scrive tra l’altro nelle raccomandazioni conclusive: «Il minore non è soltanto “oggetto di tutela e assistenza”, ma anche e soprattutto “soggetto di diritto”, e quindi titolare di diritti in prima persona […]  E prosegue con le raccomandazioni:  approvare una legge che garantisca il diritto alla registrazione anagrafica per tutti i figli indipendentemente dalla situazione giuridico–amministrativa dei genitori, senza la necessità di esibire documenti inerenti al soggiorno, in modo da evitare che ci siano “nati invisibili” con conseguenze aberranti di ordine sociale e sanitario»
22 giugno 2014 Una nota del MoVI (Notizie dal MoVI n 23-2014)e un articolo di Elia Beacco con le interviste a Frigerio e a me che si possono raggiungere dai link che trascrivo

http://www.moviduepuntozero.it/bambini-proibiti/

http://www.moviduepuntozero.it/bambini-invisibili/

6 maggio 2014 – Una misera petizione
Lo scorso mese di novembre ho scritto su change.org una petizioni e per l’on. Boldrini chiedendole di impegnarsi per la promozione della pdl 740.
Le avevo già scritto appena presentata la proposta e in entrambi i casi mi ha dato riscontro, facilitando anche – nell’ambito delle sue competenze- l’attribuzione della proposta alla commissione Affari Costituzionali, un luogo evidentemente di lunga giacenza (la proposta sta in quel contenitore dal 21 giugno 2013).
La petizione  – in dieci mesi – ha ottenuto 531 firme e, per assicurare un illuminante confronto quantitativo, segnalo che una petizione per impedire la caccia all’orso nei boschi del trentino ha ottenuto in pochi giorni più di 65.000 firme.
Per l’opinione pubblica italiana i bambini non sono una specie protetta e ai loro diritti si può applicare a rovescio l’art. 3 della Costituzione dove gli ostacoli da rimuovere diventino nei loro confronti (non nei confronti degli orsi, per carità!) segnali per la discriminazione.

Infine le donne

Ho più volte citato i rapporti della Convention on the Rights of the Child dove, in particolare nei rapporti 5 e 6 (2012 e 2013) si ricorda che «Il timore di essere identificati come irregolari può spingere i nuclei familiari ove siano presenti donne in gravidanza sprovviste di permesso di soggiorno a non rivolgersi a strutture pubbliche per il parto, con la conseguente mancata iscrizione al registro anagrafico comunale del neonato, in violazione del diritto all’identità (art. 7 CRC), nonché dell’art. 9 CRC contro gli allontanamenti arbitrari dei figli dai propri genitori».
Dovrebbe essere considerato quindi non solo il danno al neonato, cui viene negata un’esistenza giuridicamente riconosciuta, alla vita familiare (di cui tanto si starnazza) ma anche alla salute della donna che partorisce di nascosto.
Da parte delle associazioni femminili – che ormai hanno evidentemente acquisito un concetto esclusivo di solidarietà nazionale e poco più– il silenzio è totale.
Non esistevano le ‘pari opportunità’?

29 Agosto 2014Permalink

2 dicembre 2011 – Una storia noiosa e qualche commento.

Alcune tappe di una storia noiosa.

Il 2 agosto del 2010 l’on, Orlando ha presentato un’interrogazione sulla questione che potrete leggere da qui.
Nel timore che finisse nel calderone delle interrogazioni inevase ho scritto al Presidente della Camera, per sollecitarlo a garantire un riscontro alla interrogazione Orlando.
La relativa corrispondenza può leggere qui.
Il sollecito del Presidente della Camera ha portato a una risposta scritta dell’allora sottosegretario Davico, un piccolo capolavoro di sintesi della rozzezza di un’intelligenza devastata dal pregiudizio che merita una lettura per aiutarci a ricordare quel che abbiamo passato e forse superato (ma non sono sicura).
Il 6 dicembre 2010 la Società Italiana  di Medicina delle Migrazioni (SIMM) affrontava il problema  in un suo documento. Il tema sarebbe stato ripreso il 24 dicembre di quest’anno in un comunicato del GrIS del Friuli Venezia Giulia, Gruppo locale Immigrazione e Salute della SIMM.
Sempre nel dicembre 2010 ho scritto al Presidente della Repubblica che mi ha risposto tramite, naturalmente, la sua segreteria  (corrispondenza leggibile da qui).
Per ciò che concerne l’informazione locale devo segnalare che, oltre al comunicato del GrIS citato sopra, ho sempre trovato spazio sul mensile udinese Ho un sogno e ho potuto scrivere un articolo su Il Gallo di Genova lo scorso mese di marzo.

L’amaro piacere di qualche commento

Evidentemente non riesco a liberarmi da ingenuità che l’esperienza imposta dall’età non dovrebbe consentirmi e quindi sono rimasta sconcertata dalle reazioni  che ho avuto modo di registrare quando parlavo  del problema della registrazione anagrafica dei figli di sans papier. Nello stesso tempo voglio tenere ben fermo il mio diritto all’indignazione e, qualche volta, al disgusto.
Mi è stato detto che ‘non è possibile quindi non è vero’, che ‘in questa situazione (Berlusconi ancora regnante) non ci sentiamo di parlare’, che ‘non protestiamo, ci affidiamo alla  sensibilizzazione’ o –meglio- ‘alla pancia’ (testuale e detto da donne … signore mie se nel ’74 ci fossimo avvitate sulle emozioni delle nostre pance non avremmo il divorzio!) e via blaterando…
Drammaticamente in molte associazioni ci si è affidati alla circolare del 2oo9 che ‘interpreta’ la legge dicendone il contrario e ammettendo quindi la registrazione anagrafica dei neonati.
Altro non poteva fare quello sciagurato ministero dell’interno, pena subire un richiamo da parte delle istituzioni europee, ma, se va detto ad onore degli operatori che collegando circolare e altre norme a tutela della maternità presenti nel testo unico del 1998 (che né la legge Bossi-Fini né il pacchetto sicurezza erano riusciti a cancellare),  riuscivano a proteggere neonati e genitori, non posso dimenticare che anche in associazioni sedicenti democratiche e sensibili (sic! Odio la sensibilità incompetente!|) correva voce che la situazione fosse sistemata, appunto con la circolare.
Ormai il criterio della beneficenza dilagante ad onore (e forse piacere) di chi la pratica e l’abbandono programmatico di ogni dignità di cittadinanza percorre –da destra a sinistra- tutta la nostra società che fu civile.
Per carità di patria non mi soffermo sul silenzio dei sindaci, pavidi minuscoli podestà, ignari del ruolo che dovrebbero esercitare nei confronti di tutti coloro che vivono – e nascono – nel loro territorio.

I matrimoni

A proposito della mia ingenuità colpevole di cui sopra, pur sapendo che la legge 94 del 2009 (lettera g comma 22 articolo 1) colpiva tutti gli atti di stato civile –e quindi oltre alla registrazione delle nascite negava anche quella dei matrimoni di chi non potesse presentare titolo di soggiorno – mi ero concentrata sulle nascite perché mi sembrava che la guerra ai neonati fosse quanto di più ripugnante si potesse segnalare (e comunque a tanto non erano arrivate nemmeno le leggi razziali del 1938).
L’indifferenza generale mi ha insegnato che non è così e, se la Corte Costituzionale è potuta intervenire a cancellare il divieto a celebrare matrimoni di persone prive di permesso di soggiorno (il pacchetto sicurezza aveva provveduto anche a una modifica del codice civile!), è stato perché una coppia mista  ha fatto ricorso contro il rifiuto dell’ufficiale di stato civile di non so quale comune siciliano  e ha vinto la causa, per sé e per tutti gli altri che si troveranno nelle stesse condizioni (ma chi rimedierà ai danni compiuti nei due anni trascorsi? Chi chiederà perdono per aver negato l’esercizio di diritti fondamentali che spettano a tutti in condizioni di uguaglianza?  E a chi? Non credo che i sindaci che abbiano detto no alla celebrazione di matrimoni di sans papier abbiano preso nota del nome delle persone offese nell’ipotesi di poter rimediare in futuro).
Bisogna rendere onore a quei pochi che ancora esercitano il loro dovere di parola là dove è possibile, che ancora sanno cosa significhi un diritto  e non si limitano all’urlo o al piagnisteo che collega – in un sordido clima emotivo – chi non sa – o non vuole – fare altro.
Particolarmente interessante a questo proposito la posizione della chiesa cattolica i cui ministri di culto  nell’atto di celebrare matrimoni sono ufficiali di stato civile e si sono accodati al no dei sindaci che, consapevoli o inconsapevoli che fossero, li coinvolgeva.
Sull’argomento matrimoni, di cui ho trovato notizie nel sito della Associazione Studi Giuridici Immigrazione (ASGI),  ha pubblicato un mio articolo la rivista Confronti (novembre 2011 –www.confronti.net).

2 Dicembre 2011Permalink

3 settembre 2010 – Colloqui (forse) di pace e una segnalazione.

 I colloqui per la pace in Medio Oriente.

Mentre attendevo di sapere qualche cosa sull’avvio dei colloqui israelo palestinesi a Washington (e riascoltavo la voce di un amico che mi diceva in un momento di sconforto: ‘spero solo in Obama, ma..’) è arrivata la doccia fredda: quattro coloni uccisi da palestinesi (brigate al Aqsa o che altro, non so) e poi altri due feriti.
E si è fatta sentire un’altra voce che in Palestina mi sussurrava con tremore, quasi non volesse farsi sentire: “Ogni volta che sembra profilarsi una speranza di pace succede qualche cosa che la blocca”.
A questo punto per capire, forse, o almeno cercar di capire, bisogna andare là dove il primo attentato ha avuto luogo, a Hebron o meglio nelle vicinanze della città presso l’insediamento di Kiryat Arba  dove é sepolto Baruch Goldstein colui che nel 1994, un venerdì di Ramadan, entrò nella moschea che sovrasta le Tombe dei Patriarchi e compì una strage ‘per vendicare l’onore del Dio di Israele’ come lasciò scritto e come probabilmente ricordano coloro che ne visitano la tomba in una specie di pellegrinaggio.
Hebron è la città della Cisgiordania dove gli insediamenti dei coloni si trovano all’interno, attigui –anzi sovrastanti- il nucleo dell’antica città araba le cui stradine sono chiuse in alto da una rete: un tentativo di difendersi dalle immondizie di ogni genere che i coloni gettano dalle loro finestre e che, ammucchiate sulla rete ormai sovraccarica, pendono sulla testa di chi passa.
Entrare in una casa può essere sconvolgente. A me è successo di vedere in una nicchia scavata nell’antico muro di pietra le fotografie di due bambini uccisi un giorno che invece di immondizia era stata tirata una granata.

A scuola con la scorta.

I bambini vanno a scuola scortati: la presenza di stranieri può difenderli da chi li beffa, li insulta, li molesta e, forse, anche da fucili di militari dallo sparo facile, e talvolta efficace (“Uccidere i bambini non è più una faccenda tanto importante”, scriveva nel 2004 Gideon Levy e ne abbiamo parlato anche qui).
Ho conosciuto alcune ragazze che li accompagnavano: facevano parte di un’iniziativa promossa dal Consiglio Ecumenico delle Chiese.
Fra loro –tesissime e angustiate- spiccava per la sua serenità Pandora, una sudafricana resa forte dall’esperienza dell’apartheid subita nel suo paese … ma incontrare un Nelson Mandela é quasi impossibile, ovunque.
La cultura che riesce ad identificare la forza con la pace – di cui sa accettare il prezzo a volte amaro – non è diffusa da nessuna parte.
Il 27 gennaio 2007 in un mio vecchio blog (la prima edizione di Diariealtro) avevo tradotto un articolo di Ha’aretz (che si può leggere da qui nel testo inglese)  in cui si riportavano le dichiarazioni a Radio Israele di Yosef Lapid, oggi scomparso ma allora presidente dello Yad Vashem.  Lapid, che aveva perso suo padre nel genocidio nazista ed era poi stato Ministro della Giustizia in Israele, era un sopravvissuto all’Olocausto..
Scriveva Ha’aretz il 20 gennaio 2007 che “gli atti di alcuni coloni di Hebron gli riportavano alla mente la persecuzione sofferta dagli Ebrei alla vigilia della seconda guerra mondiale, nel suo paese d’origine, la Jugoslavia” e citava: “Non c’erano forni crematori o pogroms che rendessero amara la nostra vita in diaspora prima che cominciassero ad ammazzarci, ma le persecuzioni, le molestie, il lancio delle pietre, le difficoltà di sostentamento, le intimidazioni, gli sputi e il disprezzo  …Avevo paura di andare a scuola perché i piccoli antisemiti erano soliti tenderci agguati lungo la strada e bastonarci.  Che differenza c’è rispetto ai bambini palestinesi di Hebron?”
Centinaia di commenti di lettori di Ha’aretz chiosavano con insulti le parole di Lapid.

L’impopolarità della pace

Volere la pace, quella possibile, quella che conviene e non semplicemente quella proclamata come moto del proprio cuore anche dove le parole –belle e alte- si possono sprecare senza preoccuparsi della loro efficacia, é difficile. Se non espone, come capitò a Lapid, allo stigma sociale, espone alla beffa. ‘Tu sogni’ ci si sente dire dimenticando chi come Luther King morì per un sogno che voleva essere, e in parte fu, efficace.
Il 23 gennaio del 2007, mentre mi sforzavo di tradurre Ha’aretz, moriva il grande giornalista e scritto polacco, Ryszard Kapuscinski  
Uno di coloro che lo celebravano nei vari blog citò una poesia che secondo me descrive magnificamente le contraddizioni della volontà di pace:
“Filo spinato
Tu scrivi dell’uomo nel lager
io – del lager nell’uomo
per te il filo spinato è all’esterno
per me si aggroviglia in ciascuno di noi
– Pensi che ci sia tanta differenza?
Sono due facce della stessa pena”.

Due facce della stessa pena

Anche se i media italiani non se ne occupano – e poco se ne occupano anche molti di coloro che dicono di volere la pace – qualche tentativo di incontro fra chi vive dalle due parti in lotta in Medio Oriente c’é. Qui mi limito a ricordare alcuni siti che propongono iniziative di cui ho parlato in passato:
—  Parents Circle che in un suo sito in italiano così si presenta:
“Siamo un gruppo di genitori in lutto che desidera impegnarsi per portare la pace fra israeliani e palestinesi. Noi, che abbiamo perso i nostri figli nella guerra fra i due popoli, sosteniamo la pace. Noi, madri e padri, vogliamo arrivare a un accordo fra i due popoli, e desideriamo rafforzare i dirigenti di ambo le parti durante i negoziati”.
Combatants for peace è un movimento creato congiuntamente da palestinesi e israeliani che sono stati gli uni soldati dell’esercito israeliano (IDF) e gli altri parte della lotta violenta per la libertà della Palestina.
E poi ci sono coloro che rifiutano di far parte dell’esercito israeliano di stanza in Palestina, una forma di diserzione ‘mirata’ diversa dalla obiezione di coscienza come da noi é stata intesa, i gruppi di israeliani che rendono testimonianza ai check point e tanti altri oscurati da una disinformata informazione

Confronti – Una segnalazione.  Io ho avuto la fortuna di conoscere direttamente parecchie di queste realtà attraverso le iniziative culturali e i viaggi organizzati dalla rivista Confronti, il cui numero di settembre  ha un carattere monografico ed è dedicato al ‘dialogo in precario equilibrio’..
 Potrete prenderne visione (c’é anche la possibilità di lettura di qualche articolo) andando al sito del mensile : www.confronti.net.

3 Settembre 2010Permalink

24 giugno 2009 – 5. Diario di viaggio, Iran 2009. Due interviste a Shirin Ebadi e un articolo del premio Nobel.

5 – Documentazione e un po’ di terminologia
Gli articoli che trascrivo più avanti riguardano tutti donne e in buona parte sono opera del premio Nobel Shirin Ebadi.

Intendo la mia scelta di privilegiare l’informazione al femminile, come un piccolissimo omaggio a Neda, vittima simbolo di questo giugno iraniano.
Traggo le prime due interviste dal Numero 861 del 24 giugno 2009
NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO – e-mail: nbawac@tin.it
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo –

 IRAN. FRANCESCA CAFERRI INTERVISTA SHIRIN EBADI
Dal quotidiano “La Repubblica” del 23 giugno 2009 col titolo “”In Iran censura e violenza: chiedo l’aiuto dell’Europa”

Avrebbe voluto tornare in Iran, ma i suoi amici l’hanno fermata. Da dieci giorni Shirin Ebadi è in Europa. Gli occhi sono fissi a Teheran, dove la premio Nobel si ripromette di rientrare fra pochi giorni, ma la scelta, per ora, è quella di rimanere lontana da casa, dove rischia l’arresto, per far sentire al mondo la voce dei riformisti iraniani. “Sono più utile fuori dal Paese che all’interno, dove regna la censura”, spiega. La settimana scorsa la Ebadi è andata alle Nazioni Unite di Ginevra per chiedere che le elezioni siano annullate. Ieri ha ripetuto questo messaggio all’Alto rappresentante per la politica estera della Ue Javier Solana: nelle prossime ore lo ribadirà al Parlamento europeo.
Francesca Caferri: Signora Ebadi, la tensione nel suo Paese è altissima. Si aspettava quello che è successo quando è partita, il giorno delle elezioni?
Shirin Ebadi: No. Tutti si aspettavano che avrebbe vinto Moussavi. Era un’opinione condivisa. Poi ci sono stati quei risultati e le persone hanno cominciato a chiedersi dove fossero finiti i loro voti. Ed è esplosa la rabbia: non sono stati solo gli annunci sui falsi risultati che hanno fatto infuriare la gente. Ma soprattutto le premature congratulazioni della Guida suprema Khamenei ad Ahmadinejad. Nessuno poteva aspettarsi che le leggi venissero violate in questa maniera. Nè tantomeno questo comportamento verso il popolo.
Francesca Caferri: Quindi lei pensa che ci siano stati brogli nei risultati…
Shirin Ebadi: Gli oppositori di Ahmadinejad e le persone che dimostrano in piazza lo pensano. Giustamente, ritengo. I raid dei poliziotti dopo il voto, quando sono stati attaccati i dormitori degli studenti universitari e molte persone sono state arrestate, rendono questa ipotesi più credibile. Ma a questo punto il fatto più importante non sono più i brogli ma la maniera in cui sono state trattate le persone che partecipavano alle proteste. La gente che manifesta pacificamente non merita di ricevere pallottole come risposta. Nessuno immaginava che il governo fosse così crudele e violento.
Sono state aggredite persone indifese: la Costituzione iraniana dice che le manifestazioni e i raduni pacifici devono essere consentiti. Questo non è stato rispettato. Tutto il mondo ha visto quanto pacifiche fossero le manifestazioni del popolo iraniano e quanto violenta la risposta.
Francesca Caferri: Da fuori questa appare soprattutto come una rivolta di giovani e di donne: la sorprende?
Shirin Ebadi: No. Sia i giovani che le donne negli ultimi anni hanno sofferto per la diseguaglianza, che comunque ha toccato tutta la popolazione. Volevano più libertà, non erano soddisfatti, volevano cambiare. Pensavano, come tanta gente, che i riformisti avrebbero vinto. Sarebbe andata così se non ci fossero stati i brogli che hanno portato alla vittoria di Ahmadinejad. Di fronte a questo il popolo iraniano ha chiesto di annullare le elezioni: e non si fermerà fino quando questo non succederà.
Francesca Caferri: Anche se questo significherà più violenza?
Shirin Ebadi: Le persone che sono a favore delle riforme non ricorrono alla violenza. Non è nel loro modo di comportarsi. La violenza è venuta dalla parte della polizia e del governo. Le proteste continueranno, la gente non userà la violenza, così come non l’ha usata fino a questo momento: in questa maniera otterrà i risultati che vuole.

IRAN. FRANCESCA DONNER INTERVISTA RIYA HAKAKIAN
[da Notizie Minime della nonviolenza in cammino….
Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59@libero.it) per averci messo a disposizione la seguente intervista nella sua traduzione]

Roya Hakakian, giornalista nata a Teheran, è l’autrice di numerose raccolte di poesie e del romanzo autobiografico Viaggio dalla Terra del No. Poiché ha lasciato l’Iran nel 1984 all’età di 18 anni non le è mai stato permesso di tornare nel proprio paese.
*
Francesca Donner: Qual è stata la tua prima reazione nel vedere donne fra i dimostranti nelle strade dell’Iran?
Roya Hakakian: La presenza delle donne non è affatto una sorpresa per me.
Sono decenni che l’Iran ha un vigoroso movimento femminista. Negli ultimi anni ’90 la nuova generazione si è fatta avanti, e nei primi anni del 2000 le donne si sono organizzate ed unite in modi che non avevano più sperimentato sin dalla rivoluzione del 1979. La cosa è cominciata con il movimento raccoltosi attorno alla petizione per porre fine alle condanne a morte delle donne per lapidazione, e si è espansa sino a divenire la campagna “Un milione di firme”. Perciò, quel che ho visto è esattamente quel che mi aspettavo.
Francesca Donner: Che rischi stanno correndo i dimostranti?
Roya Hakakian: Enormi. Solo guardando le fotografie e i video ti accorgi che il regime sta usando delle tattiche particolari: agenti travestiti armati di lame circolano tra la folla e aggrediscono i dimostranti dall’interno mentre questi si sentono relativamente al sicuro, convinti di essere circondati da persone che la pensano come loro. Non è lontanamente paragonabile alla situazione del 1978-1979, quando lo Scià venne rovesciato. Sebbene io fossi molto giovane, ero conscia della nettezza del confronto: la gente sapeva chi stava fronteggiando, c’era una chiara contrapposizione tra le guardie ed i soldati dello Scià e il resto del popolo. I confini erano chiari, allora, ma il presente regime non agisce così. Alcuni giornalisti hanno notato l’uso di polizia che non parla persiano. Poiché il regime teme che la lealtà dei poliziotti possa andare altrove, ha importato truppe per il controllo della folla da altri paesi arabi, di modo che i dimostranti non possano comunicare con loro. Gli iraniani parlano persiano, gli arabi parlano arabo, e ciò rende difficile comunicare e far passare la polizia dall’altra parte. Credo che a questo punto al regime non importi più chi ha di fronte, se donne o uomini, giovani o vecchi. L’unica misura che può garantire un certo grado di sicurezza è il numero delle persone che scendono in strada. Negli scorsi 15 anni, non abbiamo mai avuto manifestazioni da un milione di persone. Negli ultimi giorni più di un milione di persone hanno marciato per le strade di Teheran. La gente dev’essere talmente disgustata da essere pronta a pagare il prezzo che la protesta richiede.
Francesca Donner: È un momento di cambiamento per le donne?
Roya Hakakian: Si’. Il movimento femminista, che non è mai scomparso in Iran, si è unito ad altri movimenti contrari al regime. Ciò era accaduto in Iran anche alla fine degli anni ’70, ma purtroppo ebbe un effetto terribile sul movimento delle donne. Le donne in qualche modo si convinsero che le restrizioni alla loro libertà non erano poi così importanti, che dovevano fare sacrifici per il bene comune, così lo Scià se ne andò, e arrivarono i veli. Questa generazione di femministe è molto più avvisata al proposito. E i movimenti sociali sono molto più favorevoli alle cause delle donne di quanto lo fossero negli anni ’70. Trent’anni più tardi, gli uomini iraniani hanno compreso che il loro destino è legato a quello delle donne iraniane: se le donne stanno meglio, gli uomini staranno meglio anche loro.
Francesca Donner: La moglie di Mousavi, Zahra Rahnavard, rappresenta in qualche modo il volto nuovo delle donne in Iran?
Roya Hakakian: La sua presenza sulla scena politica è una manifestazione della forza del movimento femminista. È stata una strategia intelligente che lei fosse visibile. Mousavi voleva appellarsi alle donne, che costituiscono un grosso blocco elettorale, sono tenaci e sanno come organizzarsi. Così Mousavi, più che a chiunque altro, ha parlato al
movimento femminista.
Francesca Donner: Che ruolo giocano internet e la moderna tecnologia nell’aiutare le iraniane a portare il loro messaggio all’esterno?
Roya Hakakian: Penso un ruolo enorme. Io ho una pagina su Facebook dove centinaia di persone sono diventate mie amiche dall’Iran. È gente che non ho mai visto o conosciuto. Postano fotografie, videoclips, notizie. Non ho avuto bisogno di guardare nessun telegiornale, guardo il telegiornale solo per misurare la differenza di tempo fra la velocità dei network sociali e la lentezza delle televisioni nel riportare le notizie.
Francesca Donner: Cos’hai saputo negli ultimi anni della situazione delle donne in Iran? Le loro vite sono cambiate o no?
Roya Hakakian: Le situazioni variano. La vita può essere molto differente per una donna che abiti in una grande città o in un remoto villaggio. C’è stata però una grande metamorfosi dal 1979, quando il regime cominciò ad erodere e cancellare i diritti delle donne che sotto lo Scià il movimento femminista era persino riuscito ad estendere. Il regime teocratico ha adottato un approccio molto “macho”, e ha visto come una priorità assoluta lo spingere indietro le donne. Ha istituito i codici di abbigliamento ed ha chiuso importanti campi accademici alle donne, come la legge e l’ingegneria.
Non aveva messo in conto l’enorme contrattacco che ne sarebbe scaturito, e non solo da donne che avevano goduto delle loro libertà. Le sfide sono venute al regime anche dall’interno, dalle “loro” donne, che hanno detto: “Siamo musulmane, abbiamo il velo in testa e vogliamo partecipare. Continuate a ripeterci che siamo fratelli e sorelle, perciò, fintanto che siamo devote, dovete garantirci pari opportunità”. Il regime aveva promosso e incoraggiato le donne “devote”, e spesso erano donne che non avevano mai pensato a se stesse fuori dalla cucina, perciò esse si sono sentite legittimate a protestare. È stato un risvolto a cui gli uomini non avevano pensato. Queste donne hanno contribuito a coltivare un’intera generazione che in precedenza non era politicamente attiva.
Francesca Donner: A questo punto, qual è la tua più grande speranza per le donne iraniane?
Roya Hakakian: Che ottengano una più vasta solidarietà e che si dedichino con forza alla causa femminista. Molto di quel che vediamo in questo stesso momento, quello che percepiamo come un grande movimento sociale contro i brogli elettorali, viene in realtà dall’enorme ammontare di attività svolte nel corso degli anni dal movimento femminista. Le donne sono quelle che hanno messo insieme le infrastrutture, che hanno pianificato ed organizzato le manifestazioni, e sanno come farlo bene. Il movimento odierno deve moltissimo della sua esistenza a quello delle donne, ed alle infrastrutture che le donne hanno costruito.
Francesca Donner: Cosa possono fare le persone che in tutto il mondo vorrebbero mostrare il loro sostegno all’eguaglianza delle donne in Iran?
Roya Hakakian: Si potrebbe cominciare una campagna portando nastri o distintivi. Ma soprattutto dobbiamo tenere in mente questo: siamo tutti molto più connessi, come esseri umani, di quanto lo siamo mai stati. I nostri destini sono legati insieme, interdipendenti.

Riporto ora un articolo, sempre di Shirin Ebadi, tratto -Giovedì 12 Febbraio,2009 – dal sito ildialogo.org
LA DONNA E IL DIVORZIO IN IRAN di Javad Daneshpour

Le donne iraniane sono costrette a convivere con una situazione paradossale. Da un lato hanno conquistato ampi spazi nella società (più del 65% degli iscritti all’università’ sono donne e molte di loro ricoprono posti di rilievo a livello professionale) e dall’altro devono ancora lottare per affermare i propri diritti in una società intrisa di una tradizione e di una religione interpretate in modo maschilista. Il movimento femminile iraniano resta, tuttavia, molto combattivo, al di là dei molti ostacoli legali e istituzionali, delle minacce e degli arresti. L’iniziativa più rilevante è stata la Campagna di un milione di firme per cambiare le leggi discriminatorie per le donne in Iran, dichiarata vincitrice del Premio Simone de Beauvoir 2009, un premio destinato al personaggio femminile più meritevole nel campo della lotta contro le discriminazioni e per la libertà della donna.

Questo articolo, scritto da Shirin Ebadi, Premio Nobel per la pace 2003, è apparso sul quotidiano Rooz on line, il 6 febbraio 2009, e tratta di una nuova norma che riduce ulteriormente i diritti già limitati delle donne iraniane.

OGNUNO INFORMI ALTRE CINQUE PERSONE
La protesta delle donne iraniane al disegno di legge intitolato “Diritto di Famiglia” e il parziale smacco dei conservatori nell’imporre loro ulteriori maggiori limitazioni con il matrimonio ha indotto i difensori delle leggi misogine a escogitare un nuovo espediente. Questo espediente consiste nel cercare di “ingannare legalmente” le donne, al momento della stipula del contratto di matrimonio, grazie a una piccola ma determinante variante al contratto stesso. Ciò è reso possibile grazie alla sostituzione di un termine arabo, ‘end ol motaleba, con un altro termine anch’esso arabo, ‘end ol esteta, in un contesto dove, probabilmente, la maggior parte delle donne non solo non si accorge di questa modifica, ma anche nel caso in cui se ne accorgesse, non si renderebbe conto delle gravi ripercussioni giuridiche del nuovo termine, di cui, probabilmente, molte di loro ignorano perfino il significato.
Bisogna chiarire che, in Iran, da circa settanta anni, nel contratto di matrimonio, veniva fissato il mehrieh, che la moglie poteva esigere ‘end ol motaleba, vale a dire in qualsiasi momento avesse voluto reclamarlo, anche subito dopo il matrimonio, e che il marito aveva l’obbligo di onorare. L’aggiunta di questa clausola e la sottoscrizione del contratto erano molto importanti poiché, in caso di fallimento del matrimonio, offriva alla donna una possibilità – anche se minima – di mettere fine alla vita coniugale.
È noto che in Iran, la legge riconosce all’uomo il diritto al divorzio, mentre la donna può avvalersi di questo diritto solo se può dimostrare che il marito è violento o è affetto da gravi problemi psichici o fisici. L’iter è talmente impervio che molte donne, che vorrebbero mettere fine alla vita coniugale, si trovano costrette, loro malgrado, a portare avanti per lunghi anni e, a volte, per tutta la vita, una difficile convivenza matrimoniale. In queste circostanze segregazioniste, l’unica via di uscita per affrancarsi da una tale situazione era esigere il mehrieh, in altri termini la donna considerando il mehrieh qualcosa di ‘end ol motalebe (comunque esigibile) nel contratto di matrimonio, poteva rivolgersi al tribunale e nel caso in cui il marito non fosse stato in grado di onorare la richiesta, in cambio della rinuncia al mehrieh poteva convincere o costringere il marito al divorzio (la famosa frase: “Rinuncio al mehrieh e mi salvo la vita.”). Comunque neppure questa via si rivelava per molte donne, reticenti per vari motivi a citare il marito in giudizio per esigere il mehrieh, una soluzione per affrancarsi da una vita grama. Restava, tuttavia, per una buona parte di quelle donne, che erano scontente della vita coniugale e non avevano diritto di chiedere il divorzio, l’unica via percorribile. In breve, il mehryeh, essendo ‘end ol motaleba, restava l’unico strumento per le donne private del diritto al divorzio.
La recente modifica al contratto di matrimonio toglie, purtroppo, anche questa minima possibilità. Nei nuovi contratti di matrimonio, dopo l’indicazione del mehryeh, viene stabilito che il mehryeh deve essere soddisfatto ‘end ol esteta (in luongo di ‘end ol motaleba). Questo vuol dire che il marito, contrariamente a prima, quando era tenuto a onorare il mehrieh “nel momento in cui la moglie lo esigeva”, ora è tenuto a onorarlo “nel momento in cui ha la possibilità di farlo”. In altri termini, qualora una donna non tolleri più suo marito e intenda porre fine alla vita coniugale, non solo non avrà diritto al divorzio, ma, rivolgendosi al tribunale per esigere il mehrieh, non avrà neppure la possibilità di divorziare dal marito, giacché il marito potrà dichiarare in tribunale di essere nell’impossibilità di onorare il mehrieh. Questo provvedimento, in un momento in cui i diversi strati sociali si trovano in difficoltà economiche e molti uomini, per diverse motivazioni, possono sostenere o dimostrare di essere nell’impossibiltà di onorare il mehrieh, offre il destro a quegli uomini dispotici che vogliono costringere le mogli impotenti a non mettere fine alla vita coniugale.
L’irrigidimento della legge in materia di matrimonio per le donne, come è stato esposto, significa, forse, che, a seguito delle modifiche apportate ad hoc nel contratto di matrimonio, le donne iraniane non avranno più la possibilità di usare la leva del mehrieh per ottenere il divorzio?
Bisogna precisare che questo diritto vige ancora, anche se con più difficoltà rispetto a prima. Tuttavia, perfino nella nuova situazione, le donne potrebbero impedire di vedere calpestata la loro minima possibilità di divorziare purché accorte e irremovibili sui loro diritti. Per fare ciò, è necessario che le donne, al momento della stipula del contratto di matrimonio, pretendano che venga aggiunta allo stesso contratto una frase scritta a mano, che imponga che il mehrieh debba essere esigibile ‘end ol motalebe. L’aggiunta di questa formula, firmata da entrambi i coniugi prima del matrimonio, dà la possibilità alla donna, nel caso in cui intenda mettere fine alla vita coniugale, di poter esigere il mehrieh in aula di tribunale. In questo modo, nel caso in cui il marito fosse impossibilitato a onorarlo, la donna, potrebbe divorziare dal marito, in cambio di rinuncia.
Questa soluzione, in ogni caso, ha bisogno della fermezza delle donne, nel momento del matrimonio, per convincere il futuro marito a sottoscrivere questa clausola che non sarà sempre facile e possibile. Ma, sicuramente, in molti casi, le donne, al momento del matrimonio, quando non ci sono ancora contrasti tra i coniugi e non c’è ancora un matrimonio, che le neghi il diritto al divorzio, possono mantenere un minimo di diritto, ricorrendo a questo sistema.
Qui emerge una domanda importante: qual è la percentuale delle donne a conoscenza di questa piccola modifica apportata al contratto di matrimonio e delle conseguenze che questa comporta? Logicamente questa percentuale non è molto alta.
Sembra, dunque, necessario che, a parte le attività, a lungo termine, dei militanti dei diritti della donna che cercano di contrastare le leggi e le regole segregazioniste in scala macroscopica, ogni donna (e sicuramente ogni uomo egualitario) si attivi per informare altri sulle nuove condizioni imposte alla donna, al momento del matrimonio, e i metodi per contrastare le nuove imposizioni.
A questo proposito, esorto ogni persona che legga questo articolo a farlo conoscere a cinque donne tra parenti e conoscenti. Ognuno di noi, tenti di chiarire ad almeno cinque donne iraniane quali varianti siano state apportate nei nuovi contratti di matrimonio, quali possano essere le conseguenze per la donna e come si possano contrastare gli effetti.
Questo è il minimo che possono fare, quanti diano importanza al destino delle proprie figlie e sorelle di fronte ai nemici incalliti della parità dei diritti tra donne e uomini.
Shirin Ebadi (traduzione dal persiano di Javad Daneshpour)

24 Giugno 2009Permalink

23 giugno 2009 – 4. Diario di viaggio, Iran 2009.

4 – Il secondo messaggio del presidente dell’IID

Concludendo la prima puntata del diario avevo scritto “E quanto costerà a un popolo gentile la scelta della democrazia?” Purtroppo sta costando un prezzo altissimo e tragico.
Per questo continuo a tradurre – e ringrazio ancora Laura NB per la revisione della traduzione – i messaggi ricevuti dal presidente dell’Istituto per il dialogo interreligioso.
Il 17 giugno ne ho pubblicato il primo, oggi passo al secondo che forse non mi sembrerebbe così significativo se non precedesse le elezioni e la successiva rivolta.
Cerco di spiegarmi il linguaggio pieno di riserve e l’atteggiamento poco disinvolto di Mohammad Ali Abtahi ricordando le regole ristrettissime che in Iran controllano (e condannano) qualsiasi contatto fra uomini e donne al di fuori dell’ambito familiare. Inoltre chiunque si candidi alle elezioni deve avere il parere favorevole del Consiglio degli Ayatollah e quindi, quale che ne sia la posizione nei confronti di quella cultura, non può ostentarvi una totale estraneità.
Forse quanto scrive può essere un indizio per immaginare diversificazioni anche fra i potenti teologi iraniani che, se l’ipotesi ha un senso, verrebbero messi in discussione dalla presenza delle donne.
Il 17 scorso avevo pubblicato la notizia dell’arresto di Mohammad Ali Abtahi, ‘ex stretto collaboratore del presidente riformista Mohammad Khatami’. Non so se oggi sia ancora in prigione. L’ultimo scritto del suo blog risale al 13 giugno.

31 maggio – Ieri sera il signor Karobi e io siamo andati in una sala a vedere un filmato sulle richieste delle donne, girato dalla signora Rakhshan Bani Etemad. Lei intende mostrare il filmato ai candidati alle elezioni presidenziali per conoscere le loro opinioni.
Era una gradevole pellicola. Molte donne attive in ambito sociale dichiaravano i loro punti di vista. In questa pellicola attiviste politiche provenienti da vari gruppi sia fondamentalisti che riformisti, sia laici che tradizionalisti raccoglievano e proponevano le loro opinioni..
Un grande passo per le donne, sebbene la loro maturità non sia avvertita da molti uomini.
Ci presentarono una lista di richieste delle donne.
Il signot Rezaii aveva accompagnato sua moglie e si pensava che il sig. Mossavi venisse con la sua in seguito. La signora Kadivar, collega del sig. Karobi, non era presente e sua moglie era in viaggio così egli mi chiese di accompagnarlo. Accettai per sottolineare l’importanza dell’impegno delle donne nel costruire una società migliore in Iran. La maggior parte delle loro richieste riguardavano i problemi economici delle donne, la condizione delle donne sole, la loro indipendenza economica, discussioni legali e la presenza delle donne al congresso e anche agli alti livelli esecutivi.
La mia prima considerazione fu che le richieste delle donne per le prossime elezioni erano molto ampie e importanti . Credo che gli sforzi fatti negli ultimi anni e le enormi sofferenze che hanno conosciuto anche con la loro resistenza provino le loro ragioni. Le ideologie patriarcali del governo possono essere un altro motivo per la crescita del movimento delle donne.
Altri fattori che sono conseguenza della attuale, spiacevole situazione sociale delle donne sono i limiti di genere imposti nei corsi universitari, gli insulti alle donne in pubblico con il pretesto di doverle guidare, la mancanza di fiducia nelle loro capacità direzionali e le irragionevoli pressioni religiose che sono connesse a credenze pietrificate.
Durante la tavola rotonda chiesi al signor Karobi di considerare le richieste delle donne che la sig Bani Etemad aveva raccolto nel filmato come base dei suoi progetti per i quattro anni di presidenza invece di cominciare uno studio sui problemi delle donne per una futura progettazione..
Durante l’intervista il signor Karobi prese positivi impegni, che io non riferisco perché sono protetti dai diritti d’autore della signora Bani Etemad.

23 Giugno 2009Permalink

17 giugno 2009 – 3. Diario di viaggio, Iran 2009

3 – 6 aprile. Teheran. Istituto per il dialogo interreligioso.
Visita all ’INSTITUTE FOR INTERRELIGIOUS DIALOGUE  (IID)

NOTA successiva: Oggi, 17 giugno, il sito web dell’Istituto è raggiungibile.
L’ultima nota pubblicata dal magazine del I.I.D. risale al tre maggio ed è il messaggio dell’I.I.D, in occasione della giornata mondiale per la libertà di stampa e, fra le altre notizie (posso evidentemente controllare solo l’edizione inglese, non quella farsi) c’è anche quella dell’incontro con il gruppo di Confronti.
La nota che riporto è tratta dalla maggior parte dalla registrazione che Gianni N. mi ha gentilmente trasmesso, senza ignorare i miei appunti.
La donna che ci accoglie, e che appare nella mia fotografia, è Fahimeh Mousavi Nejad, responsabile editoriale della pubblicazione on line bimensile del “Religious News”.
Una collaboratrice dell’istituto ha svolto la funzione d’interprete dal persiano all’italiano.

 Fahimeh Mousavi Nejad (non so se si tratti di un’omonimia o se Mirhossein Mousavi, l’attuale oppositore di Ahmadi Nejad, sia parente della signora) ci presenta il suo istituto completamente indipendente, fondato otto anni fa. Alle pareti non ci sono i ritratti degli ayatollah Khomeini e Khamenei.

  La signora ci ricorda che in Iran il 98% della popolazione è musulmana e che prima dello sviluppo dei moderni mezzi di comunicazione la maggior parte non aveva neppure l’idea che esistessero tante altre religioni, anche nell’Iran stesso.
Oggi l’I.I.D. si propone di costruire un ponte tra musulmani e fedeli di altre fedi religiose all’interno dell’Iran ed all’estero.
“Siamo dei pionieri in quest’attività. – dice- e, pur essendo relativamente piccolo. l’istituto ha avuto una notevole risonanza nel dibattito fra le religioni. Prima c’erano alcune iniziative o partecipazioni saltuarie di natura ufficiale. Ora svolgiamo un’attività indipendente, sistematica e di respiro internazionale. Siamo molto contenti perché abbiamo potuto aprire un grande dibattito nel paese. Dal 2003 pubblichiamo una rivista che si intitola “Religious news”, in tremila copie. Cerchiamo di presentare i nuovi libri e il dibattito attuale sulle religioni, e in particolare sul dialogo interreligioso. Traduciamo in persiano articoli da altre lingue per metterli a disposizione dei lettori iraniani. I lettori sono in gran parte teologi, ricercatori e studiosi delle religioni”.
Il locale in cui si è svolto l’incontro è ricavato fra gli scaffali di una biblioteca di cui, continua la nostra interlocutrice, “siamo particolarmente fieri. Con i suoi 7000 volumi in persiano, arabo e inglese è la più ricca di testi sulle religioni di tutto il paese. Lo spazio è piuttosto ridotto e pertanto abbiamo dovuto fare una grande selezione. E’ frequentata prevalentemente da studiosi, ma comunque è aperta sempre al pubblico. Esiste infatti anche un pubblico non specializzato. Molti vengono pure a seguire le conferenze che mensilmente offriamo alla cittadinanza, dandone avviso sui giornali”.
Curiosando (è stato difficile mantenere un atteggiamento discreto!) fra gli scaffali trovo una sezione ricca di studi (soprattutto americani) sul femminismo. Marina trova un Talmud.
”Obiettivo del nostro istituto è il dialogo tra le religioni e le culture a favore della pace nel mondo” prosegue la signora Fahimeh. “Dedichiamo molta attenzione ai giovani. In particolare organizziamo una sessione riservata per far conoscere tra di loro giovani ebrei, cristiani, armeni, zoroastriani e musulmani. … La frequenza dei giovani è buona anche se speriamo che cresca. In verità questo tipo di interesse religioso non è molto diffuso nella società. Ma una volta che i giovani hanno iniziato a venire continuano e sviluppano grande interesse. Spesso si tratta di giovani che hanno vissuto all’estero. E’ questione di apertura o chiusura mentale”.
“Abbiamo anche molte relazioni con l’estero. Il nostro istituto ha lo statuto di ONG e da cinque anni è registrato nell’elenco delle ONG dell’ONU. Siamo in relazione con la chiesa anglicana di Inghilterra, con la chiesa luterana di Germania, con il Consiglio ecumenico delle chiese di Ginevra. Con loro abbiamo dei progetti in comune. Ad esempio adesso stiamo lavorando ad una ricerca sulla partecipazione femminile alla promozione della pace nel mondo. La nostra sezione giovanile collabora con un Istituto americano che si chiama ‘United religious initiatives’”.
“Anche finanziariamente siamo indipendenti. C’è una rete di finanziatori privati che ci sostengono in diversi modi. Parecchi contribuiscono con quote annuali. Questa stessa sede ci è offerta gratuitamente da una persona amica. Cerchiamo comunque di ridurre molto le spese. Ci sono quattro persone che lavorano stabilmente e molti volontari. Il consiglio scientifico, costituito da 22 membri, collabora del tutto gratuitamente. La rivista si autofinanzia”.
“E’ un cammino nuovo e non del tutto compreso,anche all’interno delle diverse religioni. Direi che è più facile il dialogo inter-religioso del dialogo intra-religioso, ossia all’interno della propria religione dove spesso questa attività è guardata con sospetto od ostacolata. Per quanto riguarda il mondo islamico ci sono diverse istituzioni che si dedicano allo studio delle ramificazioni dell’islam comprese quelle tra sanniti e sciiti. Noi ci dedichiamo di più al dialogo tra le diverse religioni”.
E infine il punto che a me è sembrato particolarmente intrigante.
“Siamo comunque tutti all’interno di una società dove sono in atto forti processi di secolarizzazione. Anche in Iran esiste una tendenza secolarizzante. Noi non ci occupiamo direttamente di questo processo ma non possiamo non confrontarci con questa mentalità e con questa filosofia che per altro non valutiamo positivamente”.
Sarebbe bello approfondire ma l’affermazione ferma della nostra interlocutrice ce ne dissuade.

All’Istituto per il Dialogo Interreligioso ho lasciato il mio indirizzo.

Da allora mi sono arrivate parecchie mail firmate dal presidente dell’I.I.D. Mohammad Ali Abtahi (che credo, giostrando fra nomi a me ignoti e grafie sconosciute, di poter identificare come marito della signora Fahimeh Mousavi; l’autobiografia di Abtahi confermerebbe questa ipotesi)

Su di lui una notizia Ansa di ieri. Teheran, 16 giu – Mohammad Ali Abtahi, ex stretto collaboratore del presidente riformista Mohammad Khatami, e’ stato arrestato oggi.
Lo rende noto il suo staff. Intanto, la tv iraniana in lingua inglese Press tv, ha diffuso la notizia dell’uccisione di sette civili nella manifestazione di ieri a Teheran, senza precisare se i morti siano sostenitori dell’opposizione o meno. La notizia era stata diffusa questa mattina dalla radio ufficiale Radio Payam.
Così é riportata la notizia nel sito web di Mr. Abtahi che si può raggiungere da qui
Mr. Abtahi arrested Mohammad Ali Abtahi, former vice president during Mr. Khatami’s presidency and the advisor to Mr. Karroubi in the presidential election had been arrested today (Tuesday). Whenever he gets released, he will write here on his website.

Ne riporto ora lo scritto ricevuto il 3 giugno e che ho tradotto (collocherò la traduzione degli altri scritti che ho ricevuto in calce ai prossimi diari e ringrazio Laura NB per la revisione della traduzione).

30 maggio – Chi boicottò le elezioni precedenti, ora invita il popolo a partecipare.
Uno degli eventi politici più importanti in questa tornata elettorale é il calo dell’onda di boicottaggio delle elezioni.
L’enorme boicottaggio delle elezioni precedenti ha causato difficoltà negli ultimi quattro anni tanto da apparire un regalo incredibile per il presidente.
Parecchi giorni fa mi sono visto con un gruppo di studenti che aveva raccolto circa 500 firme per boicottare le precedenti elezioni. Ora molti di loro cercano di invitare la gente a votare. Anche uno di loro che era appena uscito di prigione e raccontava storie penose sul carcere.
Erano realmente addolorati per Mr. Masoud Dehghan, Mahdi Mashayekhi and Abbas Hakim.
La battaglia per il loro rilascio dal carcere è l’azione più importante in cui dovrebbero impegnarsi attivisti politici e civili e specialmente i candidati alle elezioni presidenziali.
Sfortunatamente durante i dibattiti pre elettorali, sono state ignorate le pressioni fisiche e psicologiche sugli studenti imprigionati. Ora essi sono realmente attivi per ciò che riguarda le elezioni.
La maggior parte del gruppo che ho citato sosteneva Mr. Karobi perché gli slogan sui diritti umani sono più chiari nelle sue parole che in quelle di altri. La maggior parte delle attiviste donne che fanno parte della campagna per un milione di firme, hanno incominciato ad invitare la popolazione al voto. Anche i media stranieri parlano di boicottaggio meno che nel periodo precedente.
E’ una buona opportunità. La presenza di due ben noti candidati riformisti può attrarre molti elettori con diverse opinioni e prevenire il boicottaggio in modo da non concedere la vittoria ad Ahmadi Nejad al primo turno. D’altra parte è del tutto evidente lo sforzo per promuovere un cambiamento in tutto il paese.
Possiamo vedere persino la frustrazione e la paura dei sostenitori di Mr. Ahmadi Nejad.
Gli attacchi fisici e mediatici agli annunci degli incontri dei riformisti mostrano questa paura.
Ora quasi tutta la nazione può sperare di avere un altro presidente per i prossimi quattro anni.

17 Giugno 2009Permalink

29 maggio 2009 – 2. Diario di viaggio, Iran 2009

2 – In Iran con i piedi per terra

  Dopo un inizio ingentilito da richiami poetici non posso sottrarmi a qualche notizia che si rende necessaria quando si vuole entrare in un Paese con i piedi consapevolmente per terra (o almeno io sento questa necessità e poiché il diario é mio … vi corrispondo). Altre informazioni seguiranno via via nella descrizione delle varie tappe e conto sulla collaborazione dei miei compagni di viaggio per integrarle e, se necessario, correggerle. ianni Novelli mi ha già inviato sue trascrizioni di alcuni incontri. Saranno utilissime e lo ringrazio. 

Fino al 1935 il nome ufficiale del paese era Persia, poi lo scià Reza Pahalavi volle attribuirgli il nome di Iran, terra degli Arii, per adattarsi in seguito all’uso di entrambe le denominazioni. 
L’Iran – o meglio la Repubblica Islamica dell’Iran – ha una superficie di 1.648.195 kmq (cinque volte e mezzo l’Italia che occupa una superficie di 301.338 kmq).
Gli abitanti oscillano, nei dati che ho trovato, fra i 66.429.284 e i 68.278.826.
L’Iran confina a Ovest con la Turchia e l’Iraq; a Nord con il Turkmenistan, l’Azerbaijan e l’Armenia, oltre al Mar Caspio; a Est con il Pakistan e l’Afghanistan, mentre a Sud è delimitata dal Golfo Persico e dal Golfo dell’Oman.
Il punto più basso é rappresentato dal mar Caspio (28 m) e il monte più alto raggiunge i 5.671 m..
Il nostro viaggio si é svolto a sud di Teheran, nella zona centrale del paese, sull’altipiano iranico, mantenendosi sempre al di sopra dei 1.000m di altezza.
La differenza di fuso orario rispetto all’Italia, 2 ore e 30 minuti (che diventano 1 ora e 30 minuti quando in Italia vige l’ora legale) é forse un indice più significativo della distanza che il numero dei chilometri..   

Altre informazioni saranno necessarie nel corso delle prossime puntate (e molte volte dovrò tornare alla ‘islamicità’ di quella repubblica).
Per ora mi limito all’immagine del mio primo impatto, l’obbligo del velo islamico così proposto nel primo albergo in cui siamo approdati.
Molte donne, oltre al velo, indossano lo chador, un terribile mantello normalmente nero che, nelle due occasioni in cui l’ho dovuto affittare e indossare, mi é sembrato uno strumento di tortura: se badavo a non inciampare mi scivolava dalle spalle, se lo tenevo fermo sulle spalle inciampavo.
Ma la tortura non é il velo in sé bensì la consapevolezza della possibilità dei guardiani della rivoluzione di ficcare il naso nella vita privata. Sono poliziotti senza divisa che, negli anni immediatamente successivi alla rivoluzione di Khomeini (1979), non avevano neppure un cartellino di riconoscimento.
La consapevolezza del danno che una nostra trasgressione avrebbe potuto nuocere a Diana, la nostra carissima guida locale, ha mantenuto i veli ben fermi sulla testa.

29 Maggio 2009Permalink

20 maggio 2009 – 1. Diario di viaggio, Iran 2009

Dal 5 al 15 aprile 2009 Confronti ha realizzato il suo Seminario itinerante in Iran.
E’ mia intenzione proporre un diario ordinato di quei giorni, ma voglio cominciare con due momenti che per me sono stati particolarmente importanti e che riporto, come li ho descritti sul mensile udinese Ho un sogno.

Shiraz 11 aprile.
Siamo sulla tomba del poeta Hafez. Visse nel XIV secolo della nostra era e il suo nome significa “colui che conosce a memoria il Corano”.
Non ci troviamo in un cimitero, ma in un giardino pieno di fiori e di vasche d’acqua.
Sull’erba ci sono persone sedute che si godono il loro pic nic, secondo una consuetudine amata in tutto l’Iran. In fondo al giardino un gazebo di pietra, il cui tetto é internamente rivestito di mosaici, ripara il sarcofago del poeta.
Il lungo epitaffio che la guida traduce esprime la consapevolezza del momento in cui il poeta passerà ad un’altra dimensione … “dalla rete del mondo via salterò”.
Disponibile, senza riserve, chiede però di poter indugiare prima dell’addio definitivo:
“Sebbene vecchio, tu per una notte stringimi al petto
e all’alba, ringiovanito, io dal tuo fianco via salterò
Nel giorno della morte, concedimi una proroga per vederti un istante
e poi anch’io come Hafez da brama di mondo e di vita via salterò!”
Arriva un gruppo di donne, per lo più anziane, avvolte nel triste chador nero si avvicinano al sarcofago e picchettano con un dito sulla pietra, come trasmettessero un messaggio con un loro alfabeto morse. E’ un gesto consueto di saluto a chi ha ‘fatto il salto’.
Non c’é famiglia, ci viene spiegato, che non possieda le poesie di Hafez.
Un popolo che mantiene viva la tradizione della poesia: forse é questa l’espressione più alta della resistenza quotidiana a un regime intollerante e invasivo.

L’equinozio di primavera ha segnato il capodanno iraniano e la festa dura per parecchi giorni.
A Pasargade, sulla tomba di Ciro il grande, qualcuno ha deposto un mazzo di fiori.
Forse quei fiori, offerti alla Persia di 2500 anni fa, significano una memoria di antichissime glorie, forse esprimono il desiderio di dimenticare la pesantezza di un regime che non ha scrupolo di intervenire nella vita privata, nell’abbigliamento, nelle scelte personali, imponendo alle donne il velo (che non copre il volto, ma deve nascondere i capelli) e agli uomini l’obbligo di non guardare le donne.
Quando arriveremo – con un permesso eccezionale- alla scuola teologica della città santa di Qom, il teologo che ci terrà un’interessantissima conferenza ci accoglie guardando ostentatamente oltre le nostre teste; di stringergli la mano non si parla nemmeno.
Il viaggio che Confronti (www.confronti.net) ha accuratamente organizzato ci costringe al contatto continuo con realtà in sé contraddittorie.
Solo una modifica politica totale potrà costruire le condizioni per creare anche nella vita quotidiana quell’armonia che la luce affascinante rimandata dai mosaici nelle moschee, la disposizione di fiori e vasche nei giardini, la cura nella gestione dell’acqua, la gentilezza ospitale della popolazione rivelano.
Ma quando? E come? E quanto costerà a un popolo gentile la scelta della democrazia?

Poesia incisa sulla tomba di Hafez

Dov’è mai notizia dell’unione
Dov’è mai notizia dell’unione con te, chè via salterei dalla vita
io sono santissimo uccello, dalla rete del mondo via salterò!
[Lo giuro] sì, pel tuo regno! Se tu mi chiamerai: “o mio servo”
dall’idea di regnare sul mondo e sulla vita io via salterò!
O Signore, dalla nube dell’alta Tua Guida mandami pioggia copiosa
Ma prima che qual polvere vile dal mezzo del mondo via salterò
Sopra la mia tomba con vino e menestrello riposati un poco
e io al tuo solo profumo dalla fossa, danzante, via salterò
Alzati e mostra l’alta figura, o idolo dalle dolci movenze
e io staccando le mani dalla vita e dal mondo via salterò!
Sebbene vecchio, tu per una notte stringimi al petto
e all’alba, ringiovanito, io dal tuo fianco via salterò
Nel giorno della morte, concedimi una proroga per vederti un istante
e poi anch’io come Hafez da brama di mondo e di vita via salterò!

[Da “Il libro del coppiere”, a cura di Carlo Saccone, Luni Editrice]

20 Maggio 2009Permalink