16 gennaio 2024 _ La parola di un poeta detta e illustrata oltre ogni celebrazione esclusiva

TESTO  e  ILLUSTRAZIONE di
“Sette fratelli come sette olmi,
alti robusti come una piantata.
I poeti non sanno i loro nomi,
si sono chiusi a doppia mandata :
sul loro cuore si ammucchia la polvere
e ci vanno i pulcini a razzolare.
I libri di scuola si tappano le orecchie.
Quei sette nomi scritti con il fuoco
brucerebbero le paginette
dove dormono imbalsamate
le vecchie favolette
approvate dal ministero.
Ma tu mio popolo, tu che la polvere
ti scuoti di dosso
per camminare leggero,
tu che nel cuore lasci entrare il vento
e non temi che sbattano le imposte,
piantali nel tuo cuore
i loro nomi come sette olmi :
Gelindo,
Antenore,
Aldo,
Ovidio,
Ferdinando,
Agostino,
Ettore
Nessuno avrà un più bel libro di storia,
il tuo sangue sarà il loro poeta
dalle vive parole,
con te crescerà
la loro leggenda
come cresce una vigna d’Emilia
aggrappata ai suoi olmi
con i grappoli colmi
di sole…”
G. Rodari
Marco D'Autilia disegnini e illustrazioni
16 Gennaio 2024Permalink

13 gennaio 2024 | 16.25  Il Papa sulle coppie gay

Benediciamo le persone, non le associazioni”

Città del Vaticano, 13 gen. (Adnkronos) – Più di due ore di dialogo tra il Papa e i preti di Roma. L’atmosfera viene definita ‘friendly’. Stamani, nella Basilica di S. Giovanni in Laterano, erano in ottocento tra sacerdoti diocesani, diaconi permanenti e religiosi presbiteri per l’incontro tanto atteso col Papa. I presenti, come riferiscono all’Adnkronos diversi sacerdoti, presenti all’incontro iniziato poco dopo le 9, si attendevano un discorso dal Pontefice. Che, invece, ha subito osservato: “Sono qui per ascoltarvi”.

Benedizione delle coppie gay

Ci sono state diverse domande sulle benedizioni alle coppie omosessuali, al centro di un acceso dibattito in questi giorni. Il Pontefice ha puntualizzato: “Benediciamo le persone, non le associazioni”. Tra i preti che operano a Roma, c’erano anche sacerdoti africani che hanno fatto domande sull’opposizione dei Vescovi africani alle benedizioni in chiesa alle coppie gay. Il pontefice ha affrontato anche questo aspetto, riferiscono i presenti all’incontro. Il Papa ha detto che bisogna tenere presente che ci sono culture diverse, e allora è importante capirsi. Ha detto che il cardinale Ambongo ha avuto un incontro col dicastero per la Dottrina della fede e ha ricordato che c’è stata una sua dichiarazione. Quindi avrebbe osservato: “Quando si affrontano certi temi ci possono essere reazioni giustificabili, tutto si risolve con il dialogo. Con il confronto”. Osservando in sostanza che, se ci sono problemi, se ci sono ‘incomprensioni’, meglio giocare a carte scoperte, inutile parlare alle spalle. Se uno non capisce, che tiri fuori la questione. Un sacerdote ha parlato della pastorale che porta avanti con le coppie omosessuali, raccontando di come siano coppie a tutti gli effetti e della commovente storia di un uomo rimasto vedovo dopo avere perso il compagno . Qualcuno ha colto, poi, alcune parole pronunciate a mezza voce più o meno di questo tenore: “Benediciamo i politici, benediciamo anche questi fratelli”.

·        Benedizioni ai gay, apertura del Vaticano: “Sì a preghiera fuori dai riti”

Benedizione coppie gay, le parole del Papa (adnkronos.com)

Il problema , posto dal papa in precedenza (ad esempio il 19 dicembre scorso come da link)  ,  si è rivelato occasione del riaccendersi del dibattito  a seguito di fortissime proteste all’interno della chiesa cattolica

https://www.lastampa.it/vatican-insider/it/2023/12/19/news/coppie_gay_la_svolta_del_papa-13942512/

 

 

13 Gennaio 2024Permalink

7 gennaio 2024 _ Un giornalista non accetta di essere parte attiva in una informazione mutilata_

N:B: La firma è il Link in calce _ “Quanto accaduto il 7 ottobre è la vergogna di Hamas, quanto avviene dall’8 ottobre è la vergogna di noi tutti. Questo massacro ha una scorta mediatica che lo rende possibile. Questa scorta siamo noi.”
Condivido ogni parola scritta dal giornalista Raffaele Oriani nell’ interrompere la collaborazione con La Repubblica.
“Care colleghe e cari colleghi, ci tengo a farvi sapere che a malincuore interrompo la mia collaborazione con il Venerdi. Collaboro con il newsmagazine di Repubblica ormai da dodici anni, ed è sempre un grande onore vedere i propri articoli pubblicati su questo splendido settimanale. Eppure chiudo qua, perché la strage in corso a Gaza è accompagnata dall’incredibile reticenza di gran parte della stampa europea, compresa Repubblica (oggi due famiglie massacrate in ultima riga a pagina 15).
Sono 90 giorni che non capisco. Muoiono e vengono mutilate migliaia di persone, travolte da una piena di violenza che ci vuole pigrizia a chiamare guerra. Penso che raramente si sia vista una cosa del genere, così, sotto gli occhi di tutti. E penso che tutto questo non abbia nulla a che fare né con Israele, né con la Palestina, né con la geopolitica, ma solo con i limiti della nostra tenuta etica. Magari fra decenni, ma in tanti si domanderanno dove eravamo, cosa facevamo, cosa pensavamo mentre decine di migliaia di persone finivano sotto le macerie.
Quanto accaduto il 7 ottobre è la vergogna di Hamas, quanto avviene dall’8 ottobre è la vergogna di noi tutti. Questo massacro ha una scorta mediatica che lo rende possibile. Questa scorta siamo noi. Non avendo alcuna possibilità di cambiare le cose, con colpevole ritardo mi chiamo fuori”.
9 gennaio
Aggiungo il link che permette di raggiungere il  testo della risposta del comitato i redazione
https://www.repubblica.it/cronaca/2024/01/07/news/il_comunicato_del_cdr__a_fianco_dei_colleghi_che_seguono_la_guerra_no_alle_strumentalizzazioni-421824644/
7 Gennaio 2024Permalink

7 gennaio 2024 _ Francesca Mannocchi_ I palestinesi condannati all’esilio

Francesca MANNOCCHI
GAZA e i PALESTINESI condannati all’ESILIO
(LA STAMPA, 5 gennaio 2024)
Una Striscia senza palestinesi per il governo Netanyahu è «imperativo morale». Secondo il ministro Smotrich, il 90 per cento dei gazawi deve andarsene: «Paesi africani e dell’America Latina sono disposti ad assorbire i rifugiati»
+++
Mentre il bilancio delle vittime della guerra supera le 22 mila persone, gli esponenti politici israeliani diventano sempre più espliciti nell’obiettivo di trasferire il maggior numero di abitanti di Gaza al di là dei confini della Striscia. Le dichiarazioni, sempre più numerose e sempre più trasparenti, stanno suscitando gli allarmi delle organizzazioni umanitarie e degli alleati di Tel Aviv, soprattutto gli Stati Uniti. Allarmi che però, continuano a cadere nel vuoto.
Domenica scorsa, il ministro delle finanze Bezalel Smotrich, al vertice del partito ultranazionalista Sionismo religioso, riferendosi a Gaza, ha parlato di un ghetto in cui è necessario incoraggiare l’emigrazione. «Per evitare che Gaza resti un focolaio in cui due milioni di persone crescano nell’odio aspirando a distruggere Israele» Smotrich suggerisce che almeno il 90% della popolazione debba andarsene.
«Se a Gaza ci saranno 100 o 200 mila arabi, e non più due milioni – ha detto – parlare del “giorno dopo” sarà diverso».
È questo il tema della discussione oggi: parlare del giorno dopo. La strategia sul presente della guerra è la strategia sul futuro della Striscia. Cosa sarà domani delle persone che oggi sono di fatto intrappolate in una prigione a cielo aperto e sul cui destino molti esponenti della leadership israeliana, sembrano avere le idee chiare: ristabilire l’insediamento ebraico nel territorio e incoraggiare i palestinesi ad andarsene. Scenario che per i gazawi rappresenta la messa in atto dell’incubo di una seconda catastrofe, la Nakba, lo sfollamento forzato seguito alla guerra del 47-49, e che per gli osservatori della politica israeliana, rappresenta le ambizioni delle frange più estremiste del governo Netanyahu, a cui il Primo Ministro deve la formazione dell’ultimo governo, il sostegno politico e quindi la speranza che la sua leadership non termini con la fine della guerra.
«Incoraggiare i trasferimenti»
Il progetto di trasferire o incoraggiare lo spostamento “volontario” dei palestinesi da Gaza era, un tempo, una posizione marginale all’interno della società israeliana, per lo più sostenuta dai Kahenisti. Questa idea è andata via via normalizzandosi dopo la formazione dell’ultimo governo Netanyahu, lo scorso anno ed estremizzata dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre. Per gli esponenti politici e gli aperti sostenitori delle tesi Kaheniste, la strage di ottobre e la guerra che ne è seguita sono diventate «un’opportunità per concentrarsi sull’incoraggiamento dei residenti di Gaza a migrare», queste le parole del ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben Gvir per cui il trasferimento dei gazawi è una «scelta corretta, giusta, morale ed umana».
A novembre, i deputati Danny Danon del Likud, ex ambasciatore presso le Nazioni Unite, e Ram Ben Barak del partito di opposizione Yesh Atid, ex vicedirettore del Mossad, hanno scritto sul WSJ un editoriale dal titolo: «Il mondo dovrebbe accogliere i rifugiati di Gaza, anche se i Paesi accogliessero solo 10.000 persone ciascuno, ciò aiuterebbe ad alleviare la crisi», terminando l’appello con queste parole: «La comunità internazionale ha l’imperativo morale – e l’opportunità – di dimostrare compassione, aiutare il popolo di Gaza a muoversi verso un futuro più prospero e lavorare insieme per raggiungere maggiore pace e stabilità in Medio Oriente» .
A dicembre il ministro dell’Intelligence Gila Gamliel ha pubblicato un editoriale sul Jerusalem Post usando parole analoghe, invitando i paesi occidentali ad accogliere i residenti della Striscia di Gaza, in un atto di «reinsediamento volontario». In risposta alla richiesta di Gamliel di istituire una task force sul tema, Netanyahu la settimana scorsa ha ammesso che il governo sta lavorando per facilitare il movimento dei gazawi fuori confine. «Il problema – ha detto – è trovare Paesi disposti ad assorbirli, stiamo lavorando su questo».
La settimana scorsa sempre Danny Danon ha rincarato la tesi del gesto umanitario: «Israele deve rendere più facile per gli abitanti di Gaza partire verso altri Paesi. Un’immigrazione volontaria dei palestinesi che vogliono andarsene», ha detto, aggiungendo di essere già stato contattato da «Paesi africani e dell’America Latina disposti ad assorbire i rifugiati dalla Striscia di Gaza».
Secondo fonti anonime del gabinetto di sicurezza citate dalla testata Zman Israel il Congo sarebbe stato disposto ad accogliergli. Tra gli intermediari sul reinsediamento dei palestinesi in altri Paesi, secondo il canale israeliano Channel 12, anche l’ex primo ministro britannico Tony Blair (ma il Tony Blair Institute for Global Change, un’organizzazione no-profit da lui fondata nel 2016) ha smentito gli incontri con Gantz e Netanyahu su questo tema: «Tony Blair non sosterrebbe una simile discussione, l’idea è sbagliata di principio. Gli abitanti di Gaza dovrebbero poter restare e vivere a Gaza», scrivono nel comunicato. Le indiscrezioni di Channel 12, arrivavano dopo che due ministri del governo di estrema destra hanno ipotizzato che i coloni potranno tornare nella Striscia di Gaza a guerra finita.
Sono molti i politici israeliani che hanno cominciato esplicitamente a chiedere il ripristino degli insediamenti israeliani a Gaza (i coloni israeliani si sono ritirati dalla Striscia nel 2005), e in un recente articolo del Jerusalem Post, un geografo israeliano, ha definito la penisola egiziana del Sinai «un luogo ideale per sviluppare un ampio reinsediamento per la popolazione di Gaza».
Nelle ultime settimane sono state diffuse molte immagini di soldati israeliani che si sono ritratti nel territorio della Striscia, con cartelli che riportavano le scritte «Siamo tornati!» e «Siamo qui per restare!».
Ovviamente queste immagini hanno allarmato la comunità internazionale e confermato l’idea che il piano di Israele sia quello di sfollare forzatamente e in maniera permanente i palestinesi.
La fame di Gaza
La guerra a Gaza ha già costretto allo sfollamento la stragrande maggioranza della popolazione. Dall’inizio dell’offensiva Israele ha ripetutamente esortato i civili a spostarsi verso sud, in aree presentate come «più sicure», nei fatti però i bombardamenti hanno seguito il flusso di persone e oggi anche i grandi centri meridionali sono sotto bombardamenti continui, le infrastrutture e le abitazioni sono devastate e un milione e mezzo di persone devono far fronte a necessità mediche enormi e a una carestia incombente.
A dicembre le Nazioni Unite hanno definito la situazione a Gaza catastrofica, avvertendo che oltre il novanta per cento della popolazione si trova ad affrontare «una grave insicurezza alimentare» e dove «praticamente tutte le famiglie saltano i pasti ogni giorno».
Il rapporto rilevava che i livelli di fame rappresentano «la percentuale più alta di persone che affrontano livelli elevati di insicurezza alimentare acuta» mai registrata «per una determinata area o Paese».
Secondo Arif Husain, capo economista del Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite, intervistato il 3 gennaio dal New Yorker, a Gaza in questo momento praticamente l’intera popolazione di 2,2 milioni di persone si trova in una crisi di sicurezza alimentare. «Faccio questo lavoro da vent’anni e sono stato testimone di ogni tipo di conflitto e di ogni tipo di crisi – ha detto –. E, per me, questa situazione non ha precedenti, non ho mai visto nulla di simile in termini di gravità, di scala e quindi di velocità. A Gaza c’è una doccia ogni 450 persone, c’è un bagno ogni 220 persone. Più di 1 milione e mezzo di persone vive in luoghi molto congestionati. Un quarto della popolazione versa già in livelli catastrofici di fame. Se ciò che sta accadendo continua o peggiora, molto presto, entro i prossimi sei mesi, avremo una vera e propria carestia».
L’espulsione dei gazawi come «atto morale»
In una lunga e dettagliata ricostruzione sulla diffusione delle tesi kahaniste nella società israeliana, a novembre il quotidiano Hareetz, ha pubblicato un lungo articolo dal titolo: La destra israeliana sta cercando di riformulare il trasferimento della popolazione di Gaza come un «atto morale». L’idea di espellere gli arabi verso altri Paesi un tempo, dice Haaretz, era legata a Meir Kahane e ad altri radicali di estrema destra, e quindi considerata un anatema dalla maggior parte degli israeliani.
Oggi la situazione è cambiata e l’idea sta guadagnando terreno come soluzione «morale» alla guerra. Rimettendo in fila i passaggi che hanno reso esplicito, accettabile nella società israeliana questo scenario, Hareetz ne ricostruisce alcuni passaggi di comunicazione nei tre mesi di guerra: a un mese dall’inizio dell’offensiva, il conduttore televisivo Guy Lerer scrisse sui suoi social: «Perché milioni di rifugiati siriani sono andati in Turchia e milioni di ucraini sono andati in tutte le parti d’Europa? – perché in ogni guerra esistono i rifugiati ad eccezione della guerra nella Striscia di Gaza?». Lo stesso giorno su Channel 12, il canale informativo più seguito del paese, il parlamentare Ram Ben Barak disse: «Se consideriamo tutta Gaza composta da rifugiati, disperdiamoli in giro per il mondo. Ci sono 2,5 milioni di persone lì. Ogni Paese potrebbe accogliere 20.000 persone – 100 Paesi. È umano, è logico, meglio essere un rifugiato in Canada che un rifugiato a Gaza. Se il mondo vuole davvero risolvere questo problema, può farlo». Sia Lerer che Ben Barak sono seguaci delle idee del rabbino ultranazionalista Meir Kahane, ma quello che è interessante e inquietante allo stesso tempo è che le loro tesi, che un tempo sarebbero state appannaggio dell’estrema destra, oggi stanno diventando sentire comune nella società israeliana.
Dieci giorni dopo la strage del 7 ottonre, era stato pubblicato un documento che cercava di dare legittimità all’idea del trasferimento della popolazione. Il dottor Raphael BenLevi, dell’organizzazione di destra Tikvah Fund e ricercatore presso l’Istituto Misgav per la sicurezza nazionale e la strategia sionista, sempre citato da Haaretz, ha scritto che l’unico modo per stabilizzare il confine sud di Israele «è agire per spingere la popolazione nella penisola del Sinai e creare un’iniziativa internazionale per assorbire gli sfollati del Sinai in paesi stranieri. Nonostante l’opposizione prevista, Israele deve agire per creare una situazione intollerabile a Gaza, che obbligherà altri Paesi ad aiutare la partenza della popolazione – e gli Stati Uniti a esercitare forti pressioni a tal fine».
Come a dire: quanto più la situazione a Gaza sarà intollerabile, tanto più i civili spingeranno per lasciare la Striscia. E, di conseguenza, sarà inevitabile che gli sforzi diplomatici cominceranno a muoversi per convincere i paesi arabi ad accogliere i rifugiati e i paesi Occidentali a fare la loro parte.
A cercare di piegare l’espulsione dei gazawi secondo queste tesi è anche un articolo uscito su Hashiloach, ad ottobre, dal titolo: «Necessario, morale e possibile: non tornare a Gaza». L’autore, Yoav Sorek, presenta delle argomentazioni «etiche» alla sua tesi, passaggio che Haaretz definisce un «sofisticato upgrade per i Kahanisti».
Sorek sa che il rischio del trasferimento forzato, che è un crimine di guerra, rischia di provocare l’isolamento di Israele dai suoi alleati internazionali, perciò delinea una tesi secondo cui l’unico modo per abbandonare l’invito alla vendetta e l’uccisione dei civili, è trasferire la popolazione. «Il trasferimento di una popolazione o l’attuazione di uno scambio di popolazione sono pratiche pervasive nella risoluzione dei conflitti e sono completamente indipendenti al crimine noto come “pulizia etnica”».
Trasferire per non uccidere dunque. Questo lo scambio esplicitamente proposto dalle frange estremiste della politica e, dunque, della società israeliana, questo il dilemma morale di cui l’Occidente e i Paesi arabi stanno prendendo coscienza.
In tale contesto la migrazione presentata come “volontaria” equivale sempre di più a uno sfollamento forzato illegale.
Tutte le reazioni:

2

Mi piace

Commenta
7 Gennaio 2024Permalink

6 gennaio 2024 _ Per non perdere ogni memoria

SCIENZA E RICERCA

Il Manifesto Einstein-Russell per scongiurare la guerra nucleare

di Pietro Greco

Albert Einstein, 76 anni, premio Nobel per la fisica 1921 e, probabilmente, lo scienziato più famoso di ogni tempo, risponde in capo a cinque giorni. Non meno turbato, il tedesco invia il 16 febbraio una lettera a Bertrand Russell proponendo una «dichiarazione pubblica» che loro due e altri eminenti uomini di scienza avrebbero potuto firmare.

Cosa rende inquieti quei due anziani uomini di scienza, pacifisti conclamati?

Beh, il fatto che a partire dal 1952, infatti, le strategie nucleari degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica, sono mutate radicalmente. I fattori di novità nel panorama delle armi atomiche sono ormai così innumerevoli e così profondi che il rischio di una guerra nucleare totale in grado di distruggere gran parte dell’umanità e l’intera civiltà umana diventa, per la prima volta nella storia, un rischio concreto.

I fattori di novità riguardano la proliferazione, la crescita incontrollata e praticamente illimitata degli arsenali, il dispiego a largo raggio delle armi, l’uso dei sommergibili atomici e, soprattutto, l’irruzione sulla scena dei missili in grado di trasportare in pochi minuti testate atomiche in ogni parte del mondo.

Che esista un problema concreto di proliferazione nucleare orizzontale lo dimostra la Gran Bretagna, che, proprio nel 1952, mette a punto le sue prime armi a fissione. A partire da questo momento, l’arma atomica non appartiene solo ai paesi leader, Usa e Urss, dei due schieramenti geopolitico-militari contrapposti, l’Ovest capitalistico e l’Est comunista. Negli anni a venire molti altri paesi entreranno a far parte del club nucleare.

Ma ciò che preoccupa è la proliferazione cosiddetta verticale: la corsa a riempire gli arsenali di Stati Uniti e Unione Sovietica. La crescita incontrollata degli arsenali riguarda, ancora una volta, soprattutto gli Stati Uniti. Nel 1962, alla fine di un decennio all’insegna di un riarmo tanto forsennato da essere definito, appunto, incontrollato, gli USA potranno dispiegare qualcosa come 27.297 testate nucleari. Molte delle quali sono bombe H, a fusione, di inaudita potenza. Alcune sono dispiegate anche in Europa. Tutte insieme, bombe a fissione e a fusione, a potenza controllata o incontrollata, devono rispondere al nuovo obiettivo strategico fissato dai militari americani: la rappresaglia massiccia. Assestare nel più breve tempo possibile il colpo nucleare più duro possibile all’avversario come rappresaglia, appunto, in caso di guerra convenzionale scatenata dall’URSS in Europa.

Per dare corpo alla strategia della rappresaglia massiccia, gli USA impegnano risorse finanziarie enormi e forniscono una nuova, formidabile accelerazione sia alla costruzione di nuove armi nucleari sia di aerei per trasportarle.

Fautore sul piano politico della nuova strategia è John Foster Dulles, segretario di Stato dal 1952 al 1959. A guidare il complesso militare-industriale che dà corpo a questa politica producendo nuove armi è Charles E. Wilson, già capo della General Motors e ministro della Difesa. Inutile dire che la General Motors è tra i maggiori beneficiari di questa nuova accelerazione nella corsa agli armamenti.

La nuova strategia di Washington non può, almeno all’inizio, essere perseguita dall’Unione Sovietica. Sia per motivi culturali, sia per l’assoluta inferiorità nucleare rispetto agli Stati Uniti. Cosicché, nei fatti, poco muta nei rapporti di forza sia su scala planetaria che su scala locale.

E poi ci sono le nuove bombe a fusione, le termonucleari: le bombe H. Molto più potenti e distruttive di quelle a fissione sperimentate a Hiroshima e Nagasaki. Gli USA l’hanno messa a punto nel 1952, grazie al fisico di origini ungheresi Edward Teller; l’URSS ha risposto nel 1953 con un ordigno di inusitata potenza messo a punto grazie l’industria aeronautica sovietica progetta e realizza due tipi di bombardieri a largo raggio d’azione, noti in Occidente come Bison e Bear, in grado di trasportare bombe atomiche e di raggiungere gli Stati Uniti. Per la prima volta l’URSS è in grado di portare una minaccia nucleare credibile al territorio USA. Gli Stati Uniti hanno perso, nei fatti, il monopolio della minaccia nucleare. È iniziata l’era del duopolio, per quanto ancora asimmetrico.

Ed è così che anche gli strateghi dell’Armata Rossa cominciano a integrare l’arma atomica nelle strutture. E, soprattutto, nei loro piani militari. Alcuni generali rivendicano a sé stessi il compito di definire le «leggi di guerra» e iniziano a sostenere l’importanza dell’effetto sorpresa in caso di conflitto con gli Stati Uniti. In cosa consista l’effetto sorpresa, teorizzato dal maresciallo Pavel Alekseevič Rotmistrov nel 1955, è facile immaginarlo: un colpo unico e distruttivo contro il nemico portato col massimo potenziale possibile.

L’altra grande novità, sono i missili balistici intercontinentali: ICBM (InterContinental Ballistic Missile): Il primo paese a farne volare uno, nel 1957, è l’Unione Sovietica, si chiama R-7, e sarà il primo ICBM operativo della storia. Gli USA rispondono a stretto giro con i missili Atlas e Titan. Ora le due superpotenze possono attaccare dal proprio territorio quello dell’altra. In pochi minuti e senza possibilità di difesa.

Di più. La logica della rappresaglia massiccia entra a far parte anche della dottrina militare sovietica e a minacciare il mondo intero. Anche perché le nuove strategie, la sovietica e l’americana, diventeranno oltremodo realistiche quando, nel 1959, diventa operativo un nuovo prodotto della tecnologia militare: il missile balistico cosiddetto intermedio. In quell’anno, infatti, l’URSS istituisce le Forze missilistiche strategiche, quale corpo indipendente dell’Armata Rossa, e gli USA iniziano a dispiegare non solo i primi ICBM, ma anche quelli a corto raggio, Jupiter Thor. I nuovi vettori possono essere dispiegati a terra o su sottomarini. E conferiscono all’attaccante – a entrambi gli attaccanti – la possibilità di sferrare il primo colpo, atomico, con pochi minuti di preavviso.

In poche parole: la guerra nucleare totale è diventata una tragica possibilità. E sia il pacifista Bertrand Russell che il pacifista Albert Einstein in quel febbraio 1955 ne hanno lucida consapevolezza. Per questo decidono di reagire con «qualcosa di spettacolare». Ora sembrerebbe strano che ciò che di più spettacolare riescono a immaginare quei due sia una «dichiarazione pubblica». Ma hanno ancora una volta ragione: scritta e firmata da loro la «dichiarazione pubblica» diventerà tanto famosa quanto influente e contribuirà a rendere la guerra nucleare un tabù, come scriverà lo storico Lawrence S. Wittner.

Ma andiamo con ordine. Einstein cerca di convincere alcuni fisici eminenti suoi amici. Troverete in calce i loro nomi al Manifesto che ne risulterà. Stranamente si sottrae il danese Niels Bohr, anch’egli noto per il suo pacifismo. Ma rispondono prontamente in nove. Russell, che ha una notevole capacità di scrittura, si incarica di redigere il testo. A inizio aprile è pronto e così Einstein – che, scrive Russell – «era rimasto sano di mente in un mondo pazzo» – lo può firmare: nella mattinata dell’11 aprile 1955.

Nel pomeriggio Einstein riceve Abba Eban, ambasciatore di Israele negli USA e futuro presidente dello stato ebraico. Il diplomatico gli chiede di tenere un discorso per ricordare il settimo anniversario della nascita di Israele. Einstein accetta, felice dell’esistenza di Israele ma consapevole che il filo della pace in Medio Oriente è sottile: «L’atteggiamento che adotteremo nei confronti della minoranza araba costituirà il vero banco di prova dei nostri livelli di moralità come popolo», sostiene. Il giorno dopo si reca presso il suo ufficio all’Istituto di Studi Avanzati per ampliare il discorso e proporre, ancora una volta, la creazione di un governo mondiale, unica possibilità di preservare la pace sul pianeta.

Il giorno 13 aprile è a casa, quando si sente male. Sente che è giunta l’ora. Non vuole prolungare l’agonia: «È di cattivo gusto prolungare la vita artificialmente. Ho fatto la mia parte, è ora di andare. Lo farò con eleganza», dice alla sua angosciata segretaria, Helen Dukas.

Muore in ospedale il successivo 18 aprile. Sul comodino gli ultimi appunti relativi alla sua ricerca di una teoria unificata dei campi e il foglio con l’inizio del suo discorso per l’anniversario della proclamazione dello stato di Israele: «Oggi vi parlo non come cittadino americano né come ebreo, ma come essere umano».

Quello che diventerà noto come il Manifesto Einstein-Russell viene reso pubblico due mesi dopo, il 9 luglio 1955, dall’inglese. E diventerà immediatamente il manifesto dei pacifisti impegnati a scongiurare la guerra nucleare.

Non solo dei pacifisti, in realtà. Come dice Wittner, il manifesto ha contribuito a creare una cultura diffusa – anche tra i politici, anche tra i militari – per la quale l’arma nucleare è per l’appunto un tabù. Uno strumento che al massimo può essere brandito, ma mai utilizzato. Michail Gorbaciov, in un’intervista a Wittner, sosterrà di essere stato profondamente influenzato dalle idee pacifiste di Einstein e Russell quando, nel 1987, propose al presidente americano Ronald Reagan di abolire i loro rispettivi arsenali nucleari.

Il Manifesto ebbe conseguenze pratiche immediate. È facendo riferimento a esso che, nel 1957, nacquero le Pugwash Conferences on Science and World Affairs, il cui scopo principale era (ed è) la costruzione della pace e, in particolare, il disarmo nucleare. Le Pugwash Conferences hanno ottenuto il Premio Nobel per la Pace nel 1995. A ritirare il premio fu il fisico teorico italiano Francesco Calogero, segretario generale dell’organizzazione. Oggi la carica è detenuta da un altro fisico teorico italiano, paolo Cotta-Ramusino.

Il messaggio del Manifesto, tuttavia, è ancora oggi drammaticamente attuale. Il processo di disarmo atomico tra USA e l’erede dell’URSS, la Russia, si è pressoché arrestato. Mentre nel mondo esistono altre tre potenze nucleari “ufficiali” (Cina, Francia e Regno Unito) e altre quattro “non ufficiali” (India, Pakistan, Israele e Corea del Nord).

Conviene dunque rileggerlo, quel manifesto, per trovare nuovi stimoli a perseguire l’idea che era del primo segretario generale del Pugwash (anche lui Nobel per la Pace nel 1995), Joseph Rotblat: un mondo finalmente libero dalle armi nucleari.

È un obiettivo che oggi appare lontano. Ma che è irrinunciabile per donne e uomini che, come Albert Einstein, sono «rimasti sani di mente in un mondo pazzo».


Il Manifesto Einstein-Russell

(nella versione italiana proposta da Senzatomica)

Nella tragica situazione che affronta l’umanità, noi riteniamo che gli scienziati dovrebbero riunirsi in un congresso per valutare i pericoli che sono sorti come conseguenza dello sviluppo delle armi di distruzione di massa e per discutere una risoluzione nello spirito della seguente bozza di documento.

Non stiamo parlando, in questa occasione, come membri di questa o quella nazione o continente o fede religiosa, ma come esseri umani, membri della specie umana, la cui sopravvivenza è ora messa a rischio. Il mondo è pieno di conflitti, tra cui, tralasciando i minori, spicca la titanica lotta tra Comunismo e Anticomunismo. Quasi chiunque abbia una coscienza politica nutre forti convinzioni a proposito di una di queste posizioni; noi vogliamo che voi, se è possibile, mettiate da parte queste convinzioni e consideriate voi stessi solo come membri di una specie biologica che ha avuto una ragguardevole storia e di cui nessuno di noi desidera la scomparsa.

Cercheremo di non dire una sola parola che possa piacere più ad un gruppo piuttosto che all’altro. Tutti, in eguale misura, sono in pericolo e se il pericolo è compreso, c’è speranza che lo si possa collettivamente evitare.

Dobbiamo cominciare a pensare in una nuova maniera. Dobbiamo imparare a chiederci non che mosse intraprendere per offrire la vittoria militare al proprio gruppo preferito, perché non ci saranno poi ulteriori mosse di questo tipo; la domanda che dobbiamo farci è: che passi fare per prevenire uno scontro militare il cui risultato sarà inevitabilmente disastroso per entrambe le parti?

Un vasto pubblico e perfino molti personaggi autorevoli non hanno ancora capito che potrebbero restare coinvolti in una guerra di bombe nucleari. La gente ancora pensa in termini di cancellazione di città. Si è capito che le nuove bombe sono più potenti delle vecchie e che, mentre una bomba –A potrebbe cancellare Hiroshima, una bomba‐H potrebbe distruggere le più grandi città, come Londra, New York o Mosca. Non c’è dubbio che, in una guerra con bombe‐H, grandi città potrebbero finire rase al suolo. Ma questo è uno dei disastri minori che saremmo chiamati a fronteggiare. Se tutti, a Londra, New York e Mosca venissero sterminati, il mondo potrebbe, nel corso di pochi secoli, riprendersi dal colpo. Ma ora noi sappiamo, specialmente dopo i test alle isole Bikini, che le bombe nucleari possono gradualmente spargere distruzione su di una area ben più vasta di quanto si pensasse.

Si è proclamato con una certa autorevolezza che ora si può costruire una bomba 2.500 volte più potente di quella che ha distrutto Hiroshima.

Una tale bomba, se esplodesse vicino al suolo terrestre o sott’acqua, emetterebbe particelle radioattive nell’atmosfera. Queste ricadono giù gradualmente e raggiungono la superficie terrestre sotto forma di polvere o pioggia mortifera. E’ stata questa polvere che ha contaminato i pescatori giapponesi e i loro pesci. Nessuno sa quanto queste particelle radioattive possano diffondersi nello spazio, ma autorevoli esperti sono unanimi nel dire che una guerra con bombe‐H potrebbe eventualmente porre fine alla razza umana. Si teme che, se molte bombe‐H fossero lanciate, potrebbe verificarsi uno sterminio universale, rapido solo per una minoranza, ma per la maggioranza una lenta tortura di malattie e disgregazione.

Molti avvertimenti sono stati lanciati da eminenti scienziati e da autorità in strategie militari. Nessuno di loro dirà che sono sicuri dei peggiori risultati. Quello che diranno sarà che questi risultati sono possibili, e nessuno può essere certo che non si realizzeranno. Non abbiamo ancora capito se i punti di vista degli esperti su questa questione dipendano in qualche grado dalle loro opinioni politiche o pregiudizi. Dipendono solo, per quanto ci hanno rivelato le nostre ricerche, da quanto è vasta la conoscenza particolare dell’esperto. Abbiamo scoperto che gli uomini che conoscono di più sono i più tristi. Questa è allora la domanda che vi facciamo, rigida, terrificante, inevitabile: metteremo fine alla razza umana, o l’umanità rinuncerà alla guerra?

La gente non affronterà l’alternativa perché è così difficile abolire la guerra. L’abolizione della guerra richiederà disastrose limitazioni alla sovranità nazionale. Ma probabilmente la cosa che impedirà maggiormente di comprendere la situazione sarà il fatto che il termine “umanità” suona vago e astratto. La gente a malapena si rende conto che il pericolo è per loro stessi, i loro figli e i loro nipoti, e non per una vagamente spaventata umanità. Possono a malapena afferrare l’idea che loro, individualmente, e coloro che essi amano sono in pericolo imminente di perire con una lenta agonia. E così sperano che forse la guerra con la corsa a procurarsi armi sempre più moderne venga proibita. Questa speranza è illusoria. Qualsiasi accordo sia stato raggiunto in tempo di pace per non usare le bombe‐H, non sarà più considerato vincolante in tempo di guerra, ed entrambi i contendenti cercheranno di fabbricare bombe‐H non appena scoppia la guerra, perché se una fazione fabbrica le bombe e l’altra no, la fazione che l’avrà fabbricate sarà inevitabilmente quella vittoriosa.

Sebbene un accordo a rinunciare alle armi atomiche come parte di una generale riduzione degli armamenti non costituirebbe una soluzione definitiva, potrebbe servire a degli scopi importanti. Primo, ogni accordo tra Est e Ovest va bene finchè serve ad allentare la tensione. Secondo, l’abolizione delle armi termo‐nucleari, se ogni parte credesse all’onestà dell’altra, potrebbe far scendere la paura di un attacco proditorio stile Pearl Harbour che ora costringe tutte e due le parti in uno stato di continua apprensione.

Noi dovremmo, quindi, accogliere con piacere un tale accordo sebbene solo come un primo passo. Molti di noi non sono neutrali, ma, come esseri umani, ci dobbiamo ricordare che, se la questione tra Est ed Ovest deve essere decisa in qualche maniera che possa soddisfare qualcuno, Comunista o Anti‐comunista, Asiatico o Europeo o Americano, bianco o nero, questa questione non deve essere decisa dalla guerra. Noi desidereremmo che ciò fosse compreso sia all’Est che all’Ovest.

Ci attende, se sapremo scegliere, un continuo progresso di felicità, conoscenza e saggezza. Dovremmo invece scegliere la morte, perché non riusciamo a rinunciare alle nostre liti? Facciamo un appello come esseri umani ad altri esseri umani: ricordate la vostra umanità e dimenticatevi del resto. Se riuscirete a farlo si aprirà la strada verso un nuovo Paradiso; se non ci riuscirete, si spalancherà dinanzi a voi il rischio di un’estinzione totale.

Risoluzione:

Noi invitiamo il Congresso, e con esso gli scienziati di tutto il mondo e la gente comune, a sottoscrivere la seguente risoluzione: “In considerazione del fatto che in una qualsiasi guerra futura saranno certamente usate armi nucleari e che queste armi minacciano la continuazione dell’esistenza umana, noi invitiamo i governi del mondo a rendersi conto, e a dichiararlo pubblicamente, che il loro scopo non può essere ottenuto con una guerra mondiale, e li invitiamo di conseguenza a trovare i mezzi pacifici per la soluzione di tutti i loro motivi di contesa.”

Firmato da

Max Born W. Bridgman Albert Einstein Leopold Infeld Frederic Joliot‐Curie Herman J. Muller Linus Pauling Cecil F. Powell Joseph Rotblat Bertrand Russell Hideki Yukawa

6 Gennaio 2024Permalink

16 dicembre 2023 _ In memoria di Lelio BASSO, morto a 75 anni a Roma il 16 dicembre 1978

Ho trovato e vilmente copiato senza poter condividere questo testo che ritengo di estrema attualità

In memoria di Lelio BASSO, morto a 75 anni a Roma il 16 dicembre 1978. Antifascista perseguitato, resistente e padre costituente, deputato e senatore, promotore del Tribunale Russel, interprete e diffusore del pensiero di Rosa Luxemburg. Per illustrare la sua figura, pubblico la recensione di Diego GIACHETTI al libro di Sergio DALMASSO, “La ragione militante: vita e opere di un socialista eretico” (RedStarPress 2018): “Lelio Basso, la solitudine di un socialista luxemburghiano” (Sinistra anticapitalista, 28 ottobre 2018).

«Il libro appena pubblicato di Sergio Dalmasso, Lelio Basso. La ragione militante: vita e opere di un socialista eretico (Roma, Red Star Press, 2018), aggiunge un nuovo importante tassello utile per comprendere le vicende legate alla sinistra politica e sociale italiana. Con la solita pazienza per i fatti e la documentazione che lo contraddistinguono, l’autore propone una snella e approfondita biografia politica di un protagonista del socialismo italiano, morto quarant’anni fa. Ritrovare e ripercorrere la vita di Lelio Basso significa entrare direttamente nella storia del socialismo italiano, nel periodo che va dal fascismo alla Resistenza, al lungo dopoguerra, con i dovuti e annessi riferimenti al contesto generale della seconda metà del ‘900.

Basso ha vissuto pienamente tutti quei decenni, li ha attraversati da protagonista nel senso di un militante che ha partecipato con le proprie idee e analisi alla lotta politica fuori e dentro il partito. Lo ha fatto senza mai rinunciare alla propria indipendenza di giudizio e di critica. Che Lelio Basso fosse un uomo che amava nuotare controcorrente lo dimostra la sua scelta di iscriversi nel 1921 al Partito socialista, proprio nel momento in cui tale partito non godeva di ottima salute. Aveva appena subito la divisione dei comunisti che portò alla costituzione del Partito comunista, al quale la maggioranza dei giovani socialisti aderì. La sua giovanile adesione al socialismo comportò conseguenze repressive ad opera del regime fascista: fu arrestato, processato e confinato.

Tra azione politica e teoria

Nel corso della Seconda guerra mondiale egli esprime riserve critiche sulla politica dei fronti popolari, perché la ritiene frutto di scelte operate dai vertici di partito e incapace di stimolare e valorizzare la spinta del movimento operaio verso rivendicazioni di classe. Ugualmente critico è il giudizio sul governo Badoglio che lo porta a rompere per un breve periodo col Partito socialista, per poi rientrarvi nel 1944. Favorevole all’unità d’azione coi comunisti, segnala però gli elementi che lo separano da quel partito: il problema della democrazia interna e il fatto esso si ponga al servizio della diplomazia sovietica. A chi lo rimproverava di coltivare l’illusione dello sbocco rivoluzionario della Resistenza, Basso replicava che tra la rivoluzione socialista e l’inserimento dell’establishment conservatore, vi era tutta una gamma di sfumature non sfruttate, messe in sordina dalla svolta di Salerno che rappresentò invece l’accettazione della continuità con le istituzioni e il personale burocratico amministrativo che avevano servito il regime fascista. Eletto all’assemblea Costituente, fu uno dei principali artefici della stesura della Carta costituzionale. Divenne segretario del Psi, carica che mantenne per qualche anno. Dopo si dimise e iniziò il suo percorso minoritario all’interno del socialismo.

Gli eventi del 1956 (XX Congresso del Pcus, critiche all’operato di Stalin, rivoluzione ungherese e invasione da parte dei sovietici) non lo colgono impreparato; non deve fingere il falso stupore di chi si maschera dietro il “non sapevo nulla” di quanto era accaduto sotto il regime di Stalin in Urss. La denuncia di Stalin e dello stalinismo, fatta per altro da ex stalinisti, riconferma per Basso la validità del socialismo democratico e pluralista contro il modello di partito unico, l’importanza della democrazia all’interno del partito contro il burocratismo. Denuncia quindi le deviazioni dell’Urss senza ripiegare su scelte socialdemocratiche di riformismo spicciolo. Pertanto è contrario alla politica di avvicinamento dei socialisti al governo con la Democrazia cristiana e nel 1964 aderisce al Partito socialista di unità proletaria (Psiup), formazione che raccoglie i socialisti contrari all’entrata nella maggioranza governativa.

Nel frattempo Basso prosegue e approfondisce la sua riflessione teorica, tesa a potenziare l’impianto analitico e programmatico di un progetto di trasformazione socialista della società basato sulla riscoperta di Marx, che elimini le interpretazioni socialdemocratiche attribuitegli dai teorici della Seconda Internazionale. Un Marx libero anche da Lenin. Entrambi sono indispensabili, diceva, non perché il leninismo sia il marxismo dell’età contemporanea, che ne racchiude tutta l’essenza, bensì perché Lenin costituisce la guida delle rivoluzioni negli anelli più deboli e Marx delle rivoluzioni occidentali. Mentre Lenin aveva concentrato il fuoco della sua battaglia sull’anello più debole della catena capitalistica mondiale, la Luxemburg invece aveva una visione meno tattica e più strategica, a lunga scadenza sui problemi di una rivoluzione in una società capitalistica altamente sviluppata.

Il triste esito delle speranze suscitate dalla “primavera di Praga” del 1968, conclusasi con l’intervento militare sovietico, è per Basso motivo di amarezza anche per la posizione assunta dal suo partito, che giustifica l’invasione. Non rinnova la tessera del Psiup, nel 1971 si dimette dal gruppo parlamentare perché anche in quel partito si sente ormai un corpo estraneo. Sentimento che prova anche nei confronti delle nascenti organizzazioni extraparlamentari. Il suo dissenso riguarda la concezione del socialismo e della rivoluzione, la natura e il ruolo del partito, la strategia del movimento operaio. La soluzione, ribadiva, è nel pensiero di Marx e nel ritorno a Rosa Luxemburg.

Amarezza e orgoglio

Il bilancio che egli stesso traccia di cinquant’anni di attività politica è crudo e orgoglioso. Scrive infatti che avrebbe potuto fare la politica dei favori e delle amicizie, ma non ne ha mai avuto la tentazione. Gli ripugnava. In ciò, dice, sta la causa della sua solitudine, non solo politica ma nel profondo dell’anima, senza amici costretti ad essergli fedeli per ragioni governative o sottogovernative. Nei partiti, prosegue, mi sono trovato spesso in minoranza. Ma essersi dimesso dai partiti non significa aver rinunciato alle proprie idee alle quali resta attaccato: “sono un isolato, un uomo che non ha dietro di sé alcuna forza organizzata, ma soltanto il proprio passato politico di militante, non mi è facile portare avanti questo ruolo di indipendente, ma è contro ogni mia volontà che sono stato ricacciato ai margini della vita politica e ridotto al ruolo non di protagonista, ma di testimone”. In quegli anni di “solitudine” politica, il suo impegno si consuma nell’organizzazione dei tribunali internazionali per i diritti dei popoli. È del 1966 la sua adesione al Tribunale Russell per giudicare i crimini americani nella guerra in Vietnam. Dal 1974 al 1976 promuove e presiede le sessioni del Secondo Tribunale Russell sulla repressione in America Latina. Nel 1976 fonda la Lega per i diritti e la liberazione dei popoli. Continua la sua attività di studioso del marxismo e di promotore culturale. Dal 1958 al 1976 dirige la rivista Problemi del socialismo. Nel 1969 fonda l’Istituto per lo studio della società contemporanea (ISSOCO), fornito di una preziosa biblioteca per la storia del movimento operaio».

16 Dicembre 2023Permalink

14 dicembre 2023 _ Parla il nuovo Presidente Corte Costituzionale, Augusto Barbera

Sono riuscita ad inserire nel mio blog questo  video con le dichiarazioni del nuovo Presidente della Corte Costituzionale  (resterà in carica, a quanto ho capito, fino al mese di dicembre  2024).
Mi è  molto piaciuto anche un  precedente video in cui stigmatizzava pesantemente il  voto di fiducia, “segno di debolezza”
Dal 2009  quel segno di debolezza è diventato forza nello stimolare l’indifferenza e plumbei silenzi  tombali.
Qui  in un discorso evidentemente improvvisato (lo ha proposto 2 giorni dopo la sua elezione) lascia trasparire tutta la sua sapiente professionalità,  ripercorrendo strade del passato che, conosciute, potrebbero  aprire a nuovi obiettivi da raggiungere nel futuro.  .
Lo invierò ad alcun i amici e, se  avrò risposte , le  trascriverò.
Mi ha molto emozionato leggere in tanti momento di quel percorso che il Presidente Barbera delinea  la mia partecipazione a movimenti della società civile attivi ed efficaci almeno nel promuovere conoscenza , movimenti che oggi sembrano spenti in un atteggiamento di annoiata indifferenza per molti, di pigra  rassegnazione per altri
Penso ai piccoli nati in Italia destinati per legge ad  essere senza nome, senza identità , senza famiglia .
Non posso immaginare un  soprassalto di decenza  in un parlamento neghittoso  capace di schiamazzi. ma non di risoluzioni attente al problema dei diritti come proclamati nei primi articoli della Costituzione
Se ne parlasse almeno nella società civile ….

14 Dicembre 2023Permalink

6 novembre 2023 _ Funerali Giulia Cecchettin, il discorso integrale del padre

“Carissimi tutti, abbiamo vissuto un tempo di profonda angoscia: ci ha travolto una tempesta terribile e anche adesso questa pioggia di dolore sembra non finire mai. Ci siamo bagnati, infreddoliti, ma ringrazio le tante persone che si sono strette attorno a noi per portarci il calore del loro abbraccio. Mi scuso per l’impossibilità di dare riscontro personalmente, ma ancora grazie per il vostro sostegno di cui avevamo bisogno in queste settimane terribili. La mia riconoscenza giunga anche a tutte le forze dell’ordine, al vescovo e ai monaci che ci ospitano, al presidente della Regione Zaia e al ministro Nordio e alle istituzioni che congiuntamente hanno aiutato la mia famiglia.

Mia figlia Giulia, era proprio come l’avete conosciuta, una giovane donna straordinaria. Allegra, vivace, mai sazia di imparare. Ha abbracciato la responsabilità della gestione familiare dopo la prematura perdita della sua amata mamma. Oltre alla laurea che si è meritata e che ci sarà consegnata tra pochi giorni, Giulia si è guadagnata ad honorem anche il titolo di mamma. Nonostante la sua giovane età era già diventata una combattente, un’oplita, come gli antichi soldati greci, tenace nei momenti di difficoltà: il suo spirito indomito ci ha ispirato tutti. Il femminicidio è spesso il risultato di una cultura che svaluta la vita delle donne, vittime proprio di coloro avrebbero dovuto amarle e invece sono state vessate, costrette a lunghi periodi di abusi fino a perdere completamente la loro libertà prima di perdere anche la vita.

Come può accadere tutto questo? Come è potuto accadere a Giulia? Ci sono tante responsabilità, ma quella educativa ci coinvolge tutti: famiglie, scuola, società civile, mondo dell’informazione.

Mi rivolgo per primo agli uomini, perché noi per primi dovremmo dimostrare di essere agenti di cambiamento contro la violenza di genere. Parliamo agli altri maschi che conosciamo, sfidando la cultura che tende a minimizzare la violenza da parte di uomini apparentemente normali. Dovremmo essere attivamente coinvolti, sfidando la diffusione di responsabilità, ascoltando le donne e non girando la testa di fronte ai segnali di violenza anche i più lievi. La nostra azione personale è cruciale per rompere il ciclo e creare una cultura di responsabilità e supporto. A chi è genitore come me, parlo con il cuore: insegniamo ai nostri figli il valore del sacrificio e dell’impegno e aiutiamoli anche ad accettare le sconfitte. Creiamo nelle nostre famiglie quel clima che favorisce un dialogo sereno perché diventi possibile educare i nostri figli al rispetto della sacralità di ogni persona, a una sessualità libera da ogni possesso e all’amore vero che cerca solo il bene dell’altro.

Viviamo in un’epoca in cui la tecnologia ci connette in modi straordinari, ma spesso, purtroppo, ci isola e ci priva del contatto umano reale.È essenziale che i giovani imparino a comunicare autenticamente, a guardare negli occhi degli altri, ad aprirsi all’esperienza di chi è più anziano di loro. La mancanza di connessione umana autentica può portare a incomprensioni e a decisioni tragiche. Abbiamo bisogno di ritrovare la capacità di ascoltare e di essere ascoltati, di comunicare realmente con empatia e rispetto.

La scuola ha un ruolo fondamentale nella formazione dei nostri figli. Dobbiamo investire in programmi educativi che insegnino il rispetto reciproco, l’importanza delle relazioni sane e la capacità di gestire i conflitti in modo costruttivo per imparare ad affrontare le difficoltà senza ricorrere alla violenza. La prevenzione della violenza inizia nelle famiglie, ma continua nelle aule scolastiche, e dobbiamo assicurarci che le scuole siano luoghi sicuri e inclusivi per tutti.
Anche i media giocano un ruolo cruciale da svolgere in modo responsabile. La diffusione di notizie distorte e sensazionalistiche non solo alimenta un’atmosfera morbosa, dando spazio a sciacalli e complottisti, ma può anche contribuire a perpetuare comportamenti violenti. Chiamarsi fuori, cercare giustificazioni, difendere il patriarcato quando qualcuno ha la forza e la disperazione per chiamarlo col suo nome, trasformare le vittime in bersagli solo perché dicono qualcosa con cui magari non siamo d’accordo, non aiuta ad abbattere le barriere. Perché da questo tipo di violenza che è solo apparentemente personale e insensata si esce soltanto sentendoci tutti coinvolti. Anche quando sarebbe facile sentirsi assolti.

Alle istituzioni politiche chiedo di mettere da parte le differenze ideologiche per affrontare unitariamente il flagello della violenza di genere. Abbiamo bisogno di leggi e programmi educativi mirati a prevenire la violenza, a proteggere le vittime e a garantire che i colpevoli siano chiamati a rispondere delle loro azioni. Le forze dell’ordine devono essere dotate delle risorse necessarie per combattere attivamente questa piaga e degli strumenti per riconoscere il pericolo.

Ma in questo momento di dolore e tristezza, dobbiamo trovare la forza di reagire, di trasformare questa tragedia in una spinta per il cambiamento. La vita di Giulia, la mia Giulia, ci è stata sottratta in modo crudele, ma la sua morte, può anzi deve essere il punto di svolta per porre fine alla terribile piaga della violenza sulle donne.

Grazie a tutti per essere qui oggi: che la memoria di Giulia ci ispiri a lavorare insieme per creare un mondo in cui nessuno debba mai temere per la propria vita. *

Cara Giulia, è giunto il momento di lasciarti andare. Salutaci la mamma. Ti penso abbracciata a lei e ho la speranza che, strette insieme, il vostro amore sia così forte da aiutare Elena, Davide e anche me non solo a sopravvivere a questa tempesta di dolore che ci ha travolto, ma anche ad imparare a danzare sotto la pioggia. Sì, noi tre che siamo rimasti vi promettiamo che, un po’ alla volta, impareremo a muovere passi di danza sotto questa pioggia.Cara Giulia, grazie, per questi 22 anni che abbiamo vissuto insieme e per l’immensa tenerezza che ci hai donato. Anch’io ti amo tanto e anche Elena e Davide ti adorano. Io non so pregare, ma so sperare: ecco voglio sperare insieme a te e alla mamma, voglio sperare insieme a Elena e Davide e voglio sperare insieme a tutti voi qui presenti: voglio sperare che tutta questa pioggia di dolore fecondi il terreno delle nostre vite e voglio sperare che un giorno possa germogliare. E voglio sperare che produca il suo frutto d’amore, di perdono e di pace.

Addio Giulia, amore mio”.

* Vi voglio leggere una poesia di Gibran che credo possa dare una reale rappresentazione di come bisognerebbe imparare a vivere.

«Il vero amore non è ne fisico ne romantico.
Il vero amore è l’accettazione di tutto ciò che è,
è stato, sarà e non sarà.
Le persone più felici non sono necessariamente
coloro che hanno il meglio di tutto,
ma coloro che traggono il meglio da ciò che hanno.
La vita non è una questione di come sopravvivere alla tempesta,
ma di come danzare nella pioggia…»

https://www.repubblica.it/cronaca/2023/12/05/news/gino_cecchettin_discorso_funerali_giulia-421580566/

Ho trovato  la citazione che segue l’asterisco nel sito on line del 5 dicembre  (cfr. link)  mentre non è presente nel testo a stampa di oggi 6  dicembre

6 Dicembre 2023Permalink

27 novembre 2023 _ Per la dignità dei bambini invisibili per legge e dei loro genitori

Spero che  il mio promemoria serva anche ad altri e perciò lo trasferirò in Facebook

PROPOSTA DI LEGGE NAZIONALE N. 2

<<Modifica all’articolo 6 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), in materia di obbligo di esibizione dei documenti di soggiorno>>

Presentata dai consiglieri HONSELL, MORETTI, MORETUZZO, CAPOZZI, BULLIAN, CARLI, CELOTTI, CONFICONI, COSOLINI, FASIOLO, LIGUORI, MARTINES, MASSOLINO, MENTIL, PELLEGRINO, PISANI, POZZO, PUTTO, RUSSO

il 22 novembre 2023

RELAZIONE ILLUSTRATIVA

Appare molto grave che l’Italia non abbia ancora raggiunto sul piano legislativo il Target 16.9 dell’Obiettivo 16 dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile dell’ONU, ovvero “Entro il 2030, fornire l’identità giuridica per tutti, compresa la registrazione delle nascite”[1].

Vige ancora, infatti, quanto introdotto dalla Legge 15 luglio 2009, n. 94 “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica”, all’articolo 1, comma 22, lettera g), ovvero la modifica del comma 2 dell’articolo 6 del “Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”, di cui al Decreto Legislativo 25 luglio 1998, n. 286, emanato ai sensi della Legge 40/1998 c.d. Turco-Napolitano. Questa era norma di civiltà che prevedeva che per i provvedimenti inerenti agli atti di stato civile o all’accesso a pubblici servizi non fosse necessario esibire il permesso di soggiorno. Per capire fino in fondo l’importanza di questa norma, ora abrogata, è sufficiente riflettere sulla circostanza che tutti i servizi di sostegno alla persona si fondano sulla premessa che la persona possa essere identificata e se ne possano quindi verificare le condizioni per assicurare l’esercizio dei diritti che a quella persona appartengono; tuttavia, senza una certificazione di nascita, una persona è semplicemente considerata «giuridicamente inesistente».

Né va sottaciuto l’articolo 22 della Costituzione che recita “Nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome” e l’art. 1 del Codice Civile che recita “La capacità giuridica si acquista al momento della nascita”: ciò nel rispetto dell’art. 10 della Costituzione “L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”.

Va rilevato altresì che l’Italia con la Legge 27 maggio 1991, n. 176 “Ratifica ed esecuzione della convenzione sui diritti del fanciullo” (New York, 20 novembre 1989) ha ratificato una convenzione internazionale in assoluta contraddizione con l’articolo 1 comma 22 della Legge n. 94 del 15 luglio 2009.

Questa Proposta di Legge Nazionale vuole, ripristinare quell’aspetto della norma abrogata nel 2009, per quanto concerne il diritto, a nostro avviso inalienabile, dei bambini ad avere una certificazione anagrafica anche quando i genitori siano migranti privi del permesso di soggiorno. Riteniamo, infatti, che la certificazione anagrafica, al pari di altri atti di stato civile e dei provvedimenti inerenti all’accesso ai pubblici servizi, debba essere considerata comunque un diritto fondamentale e inviolabile, che deve prescindere dalla condizione di irregolarità dei propri genitori, come peraltro richiede la stessa Agenda 2030 che individua proprio nel rispetto dei diritti fondamentali una delle condizioni per lo sviluppo sostenibile. Il 7 agosto 2009, il Ministero dell’interno – Dipartimento per gli affari interni e territoriali, ha adottato la circolare n.19/2009, interpretativa del citato comma 2 dell’articolo 6 del Testo unico di cui al Decreto Legislativo 25 luglio 1998, n. 286, che però si è rivelata priva della forza giuridica necessaria a dare certezza giuridica a queste fattispecie in modo uniforme in tutto il territorio nazionale, e quindi insufficiente a convincere i migranti irregolari a riconoscere i propri figli per non rischiare l’espulsione o altre gravi forme di penalizzazione.

La presente Proposta di Legge intende, quindi, ripristinare una norma di civiltà. Basti pensare a quanti italiani, tra gli anni sessanta e settanta, hanno dovuto trovare dolorose soluzioni, scegliendo
di ridurre i propri figli in clandestinità o di separarsene in quanto lavorando come stagionali
in Svizzera non era loro consentito di tenere con sé i propri figli.

Si tratta del fenomeno dei cosiddetti «bambini nascosti» o «bambini clandestini», cioè di bambini talvolta lasciati ai nonni in Italia anche per lunghissimi periodi, costretti a vedere i propri genitori solo una o due volte l’anno oppure, più spesso, semplicemente nascosti dai propri genitori, al fine di evitare la separazione, con la grave conseguenza di essere privati di ogni diritto nel Paese di destinazione.
Questa Proposta di Legge Nazionale è molto semplice ma permette all’Italia di raggiungere un target molto importante dell’Obiettivo 16 dell’Agenda 2030 ONU. Consiste nel semplice inserimento delle parole che non prevedono più l’esibizione del permesso di soggiorno per gli atti riguardanti la registrazione dell’atto di nascita e la filiazione. Si aggiunge anche l’atto di matrimonio in quanto con Decisione n. 245 del 25 luglio 2011 la Corte Costituzionale ha dichiarato parzialmente illegittima la disposizione contenuta nell’articolo 116 del Codice Civile, come modificato dall’articolo 1, comma 15, della Legge 15 luglio 2009, n. 94, la quale impone allo straniero di possedere un regolare permesso di soggiorno per potersi sposare in Italia. Dunque è un mero recepimento della sentenza della Corte Costituzionale.
Sono numerosi i motivi per i quali si ritiene importante che il Consiglio Regionale della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia faccia propria una Proposta di Legge Nazionale sulla tematica dei bambini invisibili. In primo luogo vi è una forte sensibilità da parte di varie personalità, associazioni e realtà culturali ed educative in regione sul tema dei diritti civili, molto attive su questo tema.
Cito solo a titolo d’esempio, Augusta De Piero (prima vice-presidente donna del Consiglio Regionale della VI legislatura) che ha promosso numerose campagne, l’Università di Udine che cura il portale equal sul diritto antidiscriminatorio presso il Dipartimento di Scienza giuridiche, l’associazione Movimento Focolarini FVG e una serie di associazioni che afferiscono alla cd. Rete Dasi, Gruppo FVG-Società Italiana di Medicina delle Migrazioni, ecc.

Lo stesso Consiglio Regionale ha approvato all’unanimità nella seduta n. 97 del 01 ottobre 2019, la Mozione n. 92 dal titolo “Sull’ottenimento del certificato di nascita per figli nati in Italia da persone non comunitarie irregolari”, e successivamente l’Ordine de Giorno n. 106 dal titolo “Attivazione di attività di informazione rivolte agli EE. LL e alla cittadinanza su riconoscimento dell’integrale esistenza giuridica di ogni soggetto nato in FVG” in sede di approvazione della Legge Regionale n. 26 del 2020 “Legge di Stabilità 2021”, che prevede l’impegno dell’amministrazione regionale a realizzare una campagna informativa rivolta agli Enti Locali per promuovere l’applicazione della circolare interpretativa n. 19/2009 del Ministero dell’Interno riferita alla Legge 15 luglio 2009, n. 94.  Inoltre per la posizione geografica che riveste, il Friuli Venezia Giulia ha sempre svolto un ruolo importante nei processi migratori che vedono come meta l’Italia, sia relativamente alla cosiddetta “rotta balcanica” che più recentemente in occasione degli eventi bellici in Ucraina.

Il Friuli Venezia Giulia è pertanto la regione presso la quale la maggior parte dei migranti dal Kossovo, dalla Siria, dall’Afghanistan, dal Pakistan, presenta la richiesta di asilo. Molto alto è anche il numero di lavori stranieri temporanei in questa regione: a Monfalcone ed in altri centri industriali. Infine da decenni vi è stato un flusso e una presenza costante di parecchie centinaia di Minori Stranieri non Accompagnati in Friuli Venezia Giulia e quindi delle problematiche relative al loro inserimento raggiunta la maggiore età. La nostra Regione è dunque più esposta di molte altre regioni italiane ai rischi di mancate registrazioni alla nascita.

Art. 1  (Modifica all’articolo 6 del Decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286)
Al comma 2 dell’articolo 6 del Decreto Legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), dopo le parole <<carattere temporaneo,>> sono inserite le parole << per quelli inerenti alla registrazione della dichiarazione di nascita, alla filiazione, alla registrazione di matrimonio,>>.

 

La  mia lettera ai  consiglieri firmatari

Gentili consigliere e consiglieri  regionali che avete firmato la pdln 2.

<<Modifica all’articolo 6 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), in materia di obbligo di esibizione dei documenti di soggiorno>>.

Voglio dire il mio grazie ad ognuna e ognuno  di voi per questa iniziativa, una misura di civiltà che  testimonia un  impegno responsabile e consapevole
Nel 1998, quando la legge 40  istituì il permesso di soggiorno, stabilì  fra le eccezioni al dovere di presentare documentazione riguardante il soggiorno , la registrazione degli atti di stato civile e, segnatamente ,  la registrazione delle nascite in  Italia dei figli di migranti non comunitari su  cui  ora si misura la vostra proposta comune .
E quella proposta si è resa necessaria perchè nel 2009 venne negato  quanto precedentemente stabilito e l’eccezione che ho sopra descritto fu soppressa.
In questi lunghi 14 anni che ci separano dall’imprensibile modifica  della legge (modifica, si badi bene, introdotta con voto di fiducia) , ci sono stati movimenti che hanno cercato di sensibilizzare l’opinione pubblica sul problema .
La sensibilizzazione però può provocare  buoni  sentimenti non buone pratiche  efficaci, tali da assicurare ad ogni nato in Italia la certezza di un’esistenza riconosciuta .  Per arrivare a tanto è necessaria  una legge e la vostra proposta, se approvata, offre al parlamento  l’occasione per impegnarsi finalmente in questo compito
Per indirizzarvi  questo  messaggio ho guardato nel sito della regione  le pagine di tutte e tutti voi  dove, fra le vostre attività, è menzionata la proposta di legge nazionale n. 2

L’impegno personale arricchisce l’impegno politico e si colloca a mio parere nel quadro di un’etica condivisa  che la nostra Costituzione ben delinea

<<La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale>>.

Cordialmente
Augusta De Piero

 

27 Novembre 2023Permalink

17 novembre 2023 _ Storia di un olocausto strisciante: i bambini vittime in pace e in guerra_ 1

 

Prima di trascrivere l’importante articolo di Gideon  Levy voglio ricordare che questa situazione corrisponde esattamente ai miei ricordi di ciò che ho direttamente conosciuto nella mia presenza in Palestina . Lo testimonio con uno dei miei ricordi con un link in calce.

Trascrivo da ciò che ho  copiato  da
https://www.assopacepalestina.org/2023/11/16/la-prossima-sorpresa-per-israele-viene-dalla-cisgiordania/

La prossima sorpresa per Israele viene dalla Cisgiordania

Nov 16, 2023 | Notizie  di Gideon Levy,
Haaretz, 16 novembre 2023.

Palestinesi che bruciano pneumatici durante un raid dell’IDF a Tubas, in Cisgiordania, martedì. Raneen Sawafta/Reuters

La prossima sorpresa non sarà una sorpresa. Forse sarà meno letale di quella precedente, del 7 ottobre, ma il suo prezzo sarà salato. Quando ci cadrà sulla testa, lasciandoci storditi dalla brutalità del nemico, nessuno potrà dire che non sapeva che sarebbe arrivata.

L’esercito non potrà fare questa affermazione, perché ci ha costantemente messo in guardia, ma non ha mosso un dito per evitarlo. Quindi la responsabilità dell’esercito israeliano sarà grande come per il massacro del sud, e non meno significativa di quella dei coloni e dei politici che presumibilmente gli impediscono di agire.

La prossima pentola a pressione che sta per esploderci in faccia sta bollendo in Cisgiordania. L’IDF lo sa; i suoi comandanti non smettono di avvertirci. Si tratta di avvertimenti ipocriti e bigotti, destinati a coprire le spalle all’esercito. Gli avvertimenti sono spudorati, poiché l’IDF, con le proprie mani e i propri soldati, sta alimentando l’incendio non meno dei coloni.

Fingere che potremmo trovarci a combattere su un altro fronte solo a causa dei coloni è falso e ipocrita. Se l’IDF avesse voluto, avrebbe potuto agire subito per calmare le tensioni. Se avesse voluto, avrebbe agito contro i coloni, come un normale esercito è tenuto a fare con le milizie locali e i gruppi armati.

Tra i nemici di Israele in Cisgiordania ci sono i coloni, e l’IDF non sta facendo nulla per fermarli. I suoi soldati partecipano attivamente ai pogrom, maltrattando vergognosamente i residenti, fotografandoli e umiliandoli, uccidendoli e arrestandoli, distruggendo monumenti commemorativi, come quello di Yasser Arafat a Tulkarm, e strappando migliaia di persone dai loro letti. Tutto ciò aggiunge benzina al fuoco e inasprisce le tensioni.

Soldati vendicativi, invidiosi dei loro compatrioti a Gaza, si scatenano nei territori occupati, con un dito facile ed entusiasta sul grilletto. Dall’inizio della guerra hanno ucciso quasi 200 palestinesi e nessuno li ferma. Nessun comandante regionale, di divisione o di campo ferma la furia. Devono volerlo anche loro; è difficile credere che anche loro siano paralizzati dalla paura dei coloni. Sono considerati coraggiosi, dopo tutto.

I coloni sono estasiati. L’odore di sangue e distruzione che viene da Gaza li spinge a scatenarsi come mai prima d’ora. Non c’è più bisogno di favole su lupi solitari o su mele marce. L’impresa degli insediamenti, con la sua schiera di funzionari politici e di finanziamenti, non sta combattendo contro i pogrom che ne derivano. La guerra è la loro ricompensa, la loro grande occasione. Con la copertura della guerra e della brutalità di Hamas, hanno colto l’opportunità di cacciare il maggior numero possibile di palestinesi dai loro villaggi – soprattutto quelli più poveri e piccoli – in vista della grande espulsione che avverrà dopo la prossima guerra, o quella successiva.

Questa settimana ho visitato la terra di nessuno nelle colline meridionali di Hebron. Le cose non sono mai state così prima d’ora. Ogni colono è ora membro di una “squadra di sicurezza”. Ogni “squadra di sicurezza” è una milizia armata e selvaggia, autorizzata a maltrattare allevatori e agricoltori e a cacciarli via.

Sedici villaggi in Cisgiordania sono già stati abbandonati e l’espulsione continua a pieno ritmo. L’IDF sostanzialmente non esiste. Israele, che non si è mai interessato a ciò che accade in Cisgiordania, sicuramente non ne sentirà parlare ora. I media internazionali sono invece interessati: hanno capito dove si va a parare.

Dietro a tutto questo c’è la stessa arroganza israeliana che ha permesso la sorpresa del 7 ottobre. La vita dei palestinesi è vista come spazzatura. Occuparsi del loro destino e dell’occupazione è visto come un fastidio ossessivo. L’idea prevalente è che se lo ignoriamo, le cose si aggiusteranno in qualche modo.

Ciò che sta accadendo in Cisgiordania riflette uno stato di cose incredibile. Anche dopo il 7 ottobre, Israele non ha imparato nulla. Se l’attuale disastro nel sud è avvenuto dopo anni di assedio, negazione e indifferenza, il prossimo avverrà perché, dopo il precedente, Israele non ha preso sul serio gli avvertimenti, le minacce e la gravità della situazione.

La Cisgiordania geme di dolore e nessuno in Israele ascolta il suo grido di aiuto. I coloni si stanno scatenando e nessuno in Israele cerca di fermarli. Quanto possono ancora sopportare i palestinesi? Israele dovrà pagare il conto di tutto quello che succederà. Sarà un conto più o meno salato, ma in ogni caso molto sanguinoso.

https://www.haaretz.com/opinion/2023-11-16/ty-article-opinion/.premium/israels-next-surprise-is-coming-from-the-west-bank/0000018b-d4d9-df9a-ab8b-ded9c6030000
Traduzione a cura di AssoPacePalestina

3 settembre 2010 – Colloqui (forse) di pace e una segnalazione. (diariealtro.it)

17 Novembre 2023Permalink