31 dicembre 2009 – Come distruggere la gioia della speranza

Avrei molte cose da dire, ma preferisco tacere di quegli aspetti negativi del sistema sanitario che ho conosciuto e che potrei dire solo appoggiandomi alla mia parola. Temo che il rispetto dell’ascolto mi sarebbe negato da chi ha evidentemente un vantaggio a lasciare che l’assistenza ai malati continui così come l’ho conosciuta. Ma, durante il mio soggiorno ospedaliero, ho osservato alcuni fatti di cui sono testimoni, certi e ineccepibili, tubi e muri. Così ho scritto (19 dicembre) ai più diffusi quotidiani locali la lettera che trascrivo

Una lettera non pubblicata.

10 Dicembre 2009, ospedale civile di Udine, padiglione 5, secondo piano, reparto chirurgia, stanza 4, dove mi trovo ricoverata perché devo subire un intervento chirurgico. In previsione dei limiti all’esercizio della mia autonomia che ne seguiranno, decido di farmi l’ultima doccia. L’impresa (ripeto dicembre 2009) risulta impossibile: l’acqua esce in scarsa quantità ed è fredda. Mi informo. La faccenda va così da anni. Nella normalità (pur questa precaria) il filino di liquido si fa tiepido in mattinata e tale si mantiene fino al pomeriggio; il resto è gelo. Ai malati costretti a letto gli infermieri provvedono con brocche di acqua calda. Cerco di scoprire dove si trova. Magari mi potrò lavare in condizioni confortevoli. Non vengo a capo di nulla. Circolano strane leggende metropolitane: incursione di infermieri, trasformati in acquaioli in altri reparti (ma non si racconta siano pochi? Che ragione c’è per impiegarli in lavori insensati?), perfino uso dell’acqua delle macchinette delle bevande. Chi lo sa! Non è mio compito indagare, sarebbe dovere degli amministratori dell’Azienda, evidentemente garantiti da una qualche certezza che li esime dall’esercizio elementare del proprio dovere. Il reparto è stato rinnovato attorno al 1998 quando già si usava l’acqua corrente calda e fredda. E, concentrandomi sulle date, realizzo un altro aspetto, forse ancora più abietto e crudele della negazione dell’igiene che rappresenta uno dei parametri che consentono di sostenere la propria dignità personale, in particolare quando la malattia costringe ad esibire impietosamente il proprio corpo ad altri. I bagni delle stanze non sono accessibili a disabili in carrozzella e in tutto il reparto non esiste il bagno loro destinato.. Il water infatti è incastrato fra la doccia (con robusto zoccolo) e il muro. Impossibile il necessario accostamento laterale. Chiedo esplicitamente come viene accudita in tal caso la persona disabile e mi viene risposto che sono state riscoperte le comode che vengono accostate al letto. Non credo che l’essere il medesimo oggetto appannaggio della quotidianità dell’imperatrice Maria Teresa d’Asburgo lenisca l’umiliazione e la sofferenza degli interessati e l’aggravio di lavoro degli infermieri. Nella logica che mi sembra dominare la mente di chi queste perfidie ha voluto probabilmente è scattato un meccanismo aritmetico: se a un non disabile infliggiamo una pena, a una persona che ha l’aggravio della disabilità è coerente infliggerne, specularmente, due. Vorrei sapere, e, come cittadina con diritto di elettorato attivo e passivo probabilmente ne avrei il diritto, chi ha firmato il capitolato dell’appalto per la sistemazione dei bagni in tempi in cui esistevano non solo le leggi sulla rimozione delle barriere architettoniche ma anche i relativi, minuziosi regolamenti. Data l’evidentemente diffusa scarsa competenza di chi –per ragioni quali che siano – è deputato a decidere, la consuetudine al mancato rispetto delle persone cui i sevizi pubblici sono destinati e l’indifferenza diffusa fra i cittadini non lo saprò mai. Art. 2 La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Augusta De Piero – Udine

Non solo a Udine

Contemporaneamente ho ricevuto, come membro di una mailing list il messaggio che trascrivo. L’autrice è una ginecologa di cui ho un’alta considerazione.

MZ, ti prego di sensibilizzare le donne del tuo indirizzario. Abbiamo bisogno di aiuto! E’ notte e sono di guardia: ho una signora che sta travagliando un feto anencefalo di 28 settimane, nell’altra stanza una giovane straniera spaventata che parla poco l’italiano il cui travaglio procede molto lentamente. Ambedue urlano e si lamentano : partorire è molto doloroso….. Chiamo l’anestesista per l’analgesia epidurale Mi risponde che non viene ha disposizione di metterle solo dalle 9 alle 18 nei giorni feriali. Combatto, rispondo che anche i tedeschi avevano avuto l’ordine di ammazzare tutti gli ebrei ma qualcuno….. Niente da fare. Vi prego di aiutarmi e di aiutarci. Noi stiamo combattendo dall’interno ma con difficoltà e scarsissimi risultati.

Ho immediatamente aderito alla richiesta di scrivere al quotidiano Il Piccolo e, nella stupida convinzione che potesse aprirsi un dibattito sulla dignità delle persone ricoverate in ospedale, ho inviato alla responsabile della mailing list la mia lettera, ricevendone l’inqualificabile risposta che trascrivo. Naturalmente la mia lettera non è stata diffusa e, pur concordanto sull’assoluta priorità dovuta a quelle partorienti, non posso negare una linea di continuità fra gli anestesisti da orario feriale e amministratori che si beffano dei bagni per disabili.

Cara Augusta, ti auguro prima di tutto di superare questo momento e di rimetterti. Per il resto quando si va in ospedale si smette di essere persone autonome e si diventa parte di un sistema che non riusciamo a controllare. A meno di cacciare qualche urlo…se se ne ha la forza. Di solito no e quindi si subisce. Ne riparliamo. Un abbraccio, MZ

Oltre gli urli.

Durante il mio soggiorno ospedaliero e dopo molte persone si sono dichiarate, con generosa disponibilità, pronte ad aiutarmi. Ad aiutarmi certo ma sul piano personale, in un rapporto diretto da cui, chi dopo di me avesse conosciuto le stesse frustrazioni che ho conosciuto io, sarebbe stato escluso e, se privo di amici e parenti, abbandonato o, nel migliore dei casi, ridotto ad oggetto dell’altrui benevolenza. Vorrei aprire un discorso sulle associazione, aggregazioni di varia natura, ma non ne ho la forza perché questa esperienza mi ha sconvolto. Il problema dei ‘tubi e dei muri’ è un problema politico. Chi, a suo tempo, ha governato una necessaria gara d’asta? Chi ha firmato un capitolato da cui erano esclusi i bagni per disabili (anche in situazioni temporanee di difficoltà)? Chi ha taciuto e tace sul restauro mal condotto del reparto privo di acqua calda?
Ora ho capito perché dopo un anno di impegno sul problema dei figli dei sans papier e della loro registrazione anagrafica nessuno, una volta che il ‘pacchetto sicurezza’ è diventato legge, si è fatto carico di sollecitare chi è responsabile di quella registrazione prima negata e poi problematica. Il luogo della registrazione è il comune e quindi i primi responsabili sarebbero i sindaci. La questione è sempre quella degli ‘urli’: in piazza si va, capita che si gridino nobili generalizzazioni ma si ignorano le responsabilità politiche che la Costituzione descrive. E chi non ama la piazza può soddisfarsi dei chiacchiericci di aggregazioni irresponsabili e dei sussurri di chiese e chiesuole, altrettanto appaganti e insieme deresponsabilizzanti.
Alle persone sole può capitare di aver paura, ai partiti, alle associazioni, ai gruppi, comunità, parrocchie no. Perché tacciono? Quale vantaggio traggono dal silenzio? Perché si adoperano a devastare il significato del contratto sociale affidato, per tutti, alla responsabilità di tutti? Fra silenti, addolorati o compiacenti che siano, non è concesso sperare.
Costituzione della Repubblica Italiana. art. 2: La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.

31 Dicembre 2009Permalink