14 febbraio 2024 – Voci ebraiche per la pace con Edith Bruck

Qualche giorno fa  ho pubblicato su Facebook il documento promosso da Gad Lerner con le firme dei proponenti
VOCI EBRAICHE PER LA PACE
CONTESTARE LA GUERRA DI NETANYAHU NON E’ ANTISEMITISMO
Oggi scopro che la prima delle adesioni è quella di Edith Bruck
Scrive Gad Lerner (purtroppo non riesco  a inserire la fotografia)

Sono fra i promotori di questo documento che voglio condividere con voi insieme a una fotografia del mio amico Oliviero Toscani
Siamo un gruppo di ebree ed ebrei italiani che, dopo la ricorrenza del Giorno della Memoria e nel vivere il tempo della guerra in Medio Oriente, si sono riuniti e hanno condiviso diversi sentimenti: angoscia, disagio, disperazione, senso d’isolamento. Il 7 ottobre, non solo gli israeliani ma anche noi che viviamo qui siamo stati scioccati dall’attacco terroristico di Hamas e abbiamo provato dolore, rabbia e sconcerto. E la risposta del governo israeliano ci ha sconvolti: Netanyahu, pur di restare al potere, ha iniziato un’azione militare che ha già ucciso oltre 28.000 palestinesi e molti soldati israeliani, mentre a tutt’oggi non ha un piano per uscire dalla guerra e la sorte della maggior parte degli ostaggi è ancora incerta. Purtroppo sembra che una parte della popolazione israeliana e molti ebrei della diaspora non riescano a cogliere la drammaticità del presente e le sue conseguenze per il futuro. I massacri di civili perpetrati a Gaza dall’esercito israeliano sono sicuramente crimini di guerra: sono inaccettabili e ci fanno inorridire.
Si può ragionare per ore sul significato della parola “genocidio”, ma non sembra che questo dibattito serva a interrompere il massacro in corso e la sofferenza di tutte le vittime, compresi gli ostaggi e le loro famiglie. Molti di noi hanno avuto modo di ascoltare voci critiche e allarmate provenienti da Israele : ci dicono che il paese è attraversato da una sorta di guerra tra tribù – ebrei ultraortodossi, laici, coloni – in cui ognuno tira l’acqua al proprio mulino senza nessuna idea di progetto condiviso.
Quello che succede in Israele ci riguarda personalmente: per la presenza di parenti o amici, per il significato storico dello Stato di Israele nato dopo la Shoah, per tante altre ragioni. Per questo non vogliamo restare in silenzio. Abbiamo provato forte difficoltà di fronte all’appena trascorso Giorno della memoria: non possiamo condividere la modalità con cui lo si vive se lo si riduce a una celebrazione rituale e vuota. Riconoscendo l’unicità della Shoah, consideriamo importante restituire al 27 gennaio il senso e il significato con cui era stato istituito nel 2000, vale a dire un giorno dedicato all’opportunità e all’importanza di riflettere su ciò che è stato e che quindi non dovrebbe più ripetersi, non solo nei confronti del popolo ebraico.
Il 27 gennaio 2024 è stato una scadenza particolarmente difficile e dolorosa da affrontare: a cosa serve oggi la memoria se non aiuta a fermare la produzione di morte a Gaza e in Cisgiordania? Se e quando alimenta una narrazione vittimistica che serve a legittimare e normalizzare crimini? Siamo ben consapevoli che esiste un antisemitismo non elaborato nel nostro paese e nel mondo, ne sentiamo l’atmosfera e l’odore in questi mesi soprattutto dal 7 ottobre, quando abbiamo visto incrinarsi i rapporti, anche personali, con parte della sinistra. Ma ci sembra urgente spezzare un circolo vizioso: aver subito un genocidio non fornisce nessun vaccino capace di renderci esenti da sentimenti d’indifferenza verso il dolore degli altri, di disumanizzazione e violenza sui più deboli.
Per combattere l’odio antiebraico crescente in questo preciso momento, pensiamo che l’unica possibilità sia provare a interrogarci nel profondo per aprire un dialogo di pace costruendo ponti anche tra posizioni che sembrano distanti. Non siamo d’accordo con le indicazioni che l’Unione delle Comunità ebraiche italiane ha diffuso per la giornata del 27 gennaio, in cui viene sottolineato come ogni critica alle politiche di Israele ricada sotto la definizione di antisemitismo. Sappiamo bene che cosa sia l’antisemitismo e non ne tolleriamo l’uso strumentale. Vogliamo preservare il nostro essere umani e l’universalismo che convive con il nostro essere ebree ed ebrei. In questo momento, quando tutto è difficile, stiamo vicino a chi soffre provando a pensare e sentire insieme.
14 Febbraio 2024Permalink

31 gennaio 2024 – Israele-Palestina: discutere la guerra

Nella posta arrivata oggi ho trovato questa comunicazione degli editori Laterza
L’ho copiata senza riuscire a salvare il link
Funziona solo quello  che porta all’intervento di Anna Foa

Israele-Palestina: discutere la guerra

Sono passati quasi quattro mesi dal massacro di civili israeliani da parte di Hamas e dall’inizio dell’operazione militare lanciata da Israele a Gaza.

Della guerra, che ha provocato decine di migliaia di morti, non si intravede la conclusione.

Rigettando tutti gli appelli per il cessate il fuoco, a partire da quelli delle Nazioni Unite, il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu ha dichiarato più volte che il conflitto durerà a lungo, tutto il tempo necessario ad eliminare completamente Hamas.

Ha inoltre escluso che quando la guerra sarà finita si possa comunque creare uno Stato palestinese, perché “la sicurezza di Israele richiede il controllo militare di tutto il territorio dal Giordano al mare”. Per parte sua Hamas, pur essendo in corso una trattativa per un temporaneo cessate il fuoco per favorire il rilascio degli ostaggi israeliani, non recede dal suo obiettivo di cancellare lo stato di Israele.

L’amministrazione Biden dal canto suo continua a oscillare tra il rifiuto della richiesta di cessate il fuoco (con la motivazione che ciò favorirebbe Hamas) e l’invito a Israele a tener maggiormente conto delle regole internazionali sul rispetto dei diritti umani.

Regole evocate anche dalla Corte internazionale di giustizia dell’Aja che (su iniziativa del Sudafrica) verificherà l’esistenza di un genocidio dei palestinesi a Gaza.

L’aspetto di tragica incomponibilità del conflitto nella striscia di Gaza sembra anche questo: che gli attuali protagonisti dello scontro non hanno interesse alla sua cessazione. Hamas – non l’intera comunità palestinese di Gaza – ha scientemente provocato la reazione israeliana con il selvaggio attacco del 7 ottobre. Il governo Netanyahu – non l’intera comunità israeliana – ha scientemente scatenato una risposta militare a tutto campo che tratta i morti civili come ‘danni collaterali’.

Ma non tutti gli israeliani la pensano così: nelle ultime settimane le voci critiche, anche in Israele si sono moltiplicate.

Su Haaretz l’ex primo ministro Olmert ha scritto che tutta l’efficienza dell’esercito israeliano non basterà a sconfiggere Hamas.

E comunque, la guerra in corso ha alimentato l’odio verso Israele, anche nelle nuove generazioni di palestinesi (i sondaggi dicono che il consenso verso Hamas è aumentato anche nella West Bank). Possiamo aspettare – come sostenuto dal leader del partito della Nuova Destra Naftali Bennett in una intervista alla BBC – che i bambini palestinesi siano educati su nuovi libri di testo e, potremmo aggiungere, che si dimentichino dei loro genitori, dei fratelli, delle sorelle, e degli amici uccisi dai soldati israeliani? Ma il tempo lungo della guerra non sembra essere un problema per Netanyahu, forse anche perché la sua carriera politica sembra ormai appesa al conflitto militare.

E certo alcuni esponenti del suo governo contano proprio su una guerra lunga per ridurre drasticamente la popolazione palestinese residente in Palestina, fino al punto da farla diventare una minoranza trascurabile. ‘Dobbiamo incoraggiare l’emigrazione dalla striscia di Gaza’ ha dichiarato alla radio militare israeliana il ministro delle finanze Bezalel Smotrich in una intervista ripresa dal New York Times. ‘Se a Gaza ci fossero 100 o 200.000 arabi anziché 2.000.000 la questione si porrebbe in modo molto diverso’. Dello stesso tenore le dichiarazioni del ministro della sicurezza nazionale, Itamar Ben Gvir.

Idee che certamente condividono molti tra i coloni che, ogni giorno, sostengono in armi il progetto di conquista di ogni parte della Palestina. E con loro gli israeliani che hanno votato per i partiti di destra oggi al governo, impauriti ed esasperati dalla sequenza di atti terroristici compiuti negli anni da Hamas e da altre organizzazioni militari e terroristiche palestinesi, convinti che la stragrande maggioranza dei palestinesi non accetterà mai l’esistenza dello Stato d’Israele.

Ma altri israeliani non la pensano così: non quelli che leggono Haaretz, su cui Amira Hass ha scritto che occorre dire basta alla guerra e Gideon Levy ha denunciato la disumanizzazione dei palestinesi da parte dei media del suo paese. Nelle settimane scorse l’opinione di questi israeliani ha cominciato ad esprimersi di nuovo attraverso manifestazioni di piazza – come era avvenuto prima del 7 ottobre – che chiedono a gran voce tanto la liberazione degli ostaggi quanto le dimissioni di Netanyahu.

Ma i sondaggi continuano a indicare che la maggioranza degli israeliani è a favore della continuazione della guerra. E quale sarà l’atteggiamento degli ebrei della diaspora, la cui opinione influisce in maniera significativa sui governi dei paesi occidentali? Come ha dichiarato uno dei maggiori studiosi palestinesi del conflitto, Rashid Khalidi, le guerre si concludono non solo in base ai risultati militari ma anche alle reazioni dell’opinione pubblica.

Se è vero che questa non è una guerra locale, perché potrebbe allargarsi e coinvolgere molti altri paesi, come reagirà l’opinione pubblica occidentale? Saremo in grado di discutere in maniera lucida e fondata un tema così complesso e divisivo?

 

Abbiamo rivolto queste domande ad alcuni autori della casa editrice e studiosi competenti delle diverse questioni implicate nel conflitto in corso.

Nell’intenzione di offrire un contributo di analisi alla discussione di una vicenda così difficile da comprendere in tutte le sue componenti.

Il primo intervento è di Anna Foa, la maggiore studiosa italiana della storia degli ebrei, di cui la casa editrice ha pubblicato tra l’altro: Gli ebrei in ItaliaEbrei in Europa. Dalla Peste Nera all’emancipazione XIV-XIX secoloDiaspora. Storia degli ebrei nel NovecentoPortico d’Ottavia 13. Una casa del ghetto nel lungo inverno del ’43La famiglia F.

> Qui l’intervento di Anna Foa

Molti sono gli interrogativi suscitati da questo testo, in un momento in cui, a quasi quattro mesi di distanza dall’inizio della guerra, quel sabato nero del 7 ottobre, essa non sembra voler cessare, il numero dei morti palestinesi a Gaza aumenta ogni giorno di più, e il governo di Netanyahu prospetta soluzioni sempre più estreme, come quella, per fortuna irrealistica, di gettare un’atomica su Gaza o quella di trasferire i palestinesi di Gaza su un’isola artificiale o di deportarne oltre un milione.

Chi crede di agire in nome di Dio non pone limiti alle sue azioni. E i ministri estremisti dell’ultimo governo di Netanyahu, i Ben Gvir e gli Smotrich, eredi di formazioni come il Kach, che fino all’avvento di questa destra erano addirittura impedite di far politica in Israele, sono esattamente questo: agitano un messianismo estremo, che li ha fatti paragonare in Israele a quegli zeloti del I secolo che sono stati causa della guerra con i romani e la distruzione del Tempio, dando inizio alla grande diaspora; e vogliono sbarazzarsi dei palestinesi e in realtà di tutti i non ebrei, ma forse anche di quegli ebrei che non condividono la loro strategia politico-religiosa, sono dichiaratamente razzisti e fautori della pulizia etnica, lavorano per creare una grande Israele guidata dalla Torah, come l’Iran con il Corano. A renderli pericolosi, e non un semplice fenomeno folkloristico, sia pur con le mani sporche di sangue, sta il fatto che sono ministri di un governo in carica, hanno quindi il potere di mettere in pratica quanto dicono. Molte delle loro affermazioni sono confluite nella richiesta del Sudafrica di mettere sotto accusa Israele come prove dell’intenzione di Israele di commettere genocidio. E a loro si riferisce la decisione della Corte dell’Aja, nella sua dichiarazione del 26 gennaio, di “prevenire e punire il diretto e pubblico incitamento a commettere genocidio”, comma votato anche dal giudice israeliano Aharon Barak.

E veniamo alla grande novità di questi giorni, la sentenza, provvisoria perché non decide se Israele stia effettivamente commettendo genocidio, e urgente, perché volta a fermare prima possibile l’intervento di Israele a Gaza, pur senza chiedere un vero e proprio cessate il fuoco. Ma la richiesta di obbedire nella conduzione della guerra alle norme del diritto internazionale implica di per sé un arresto, se non formale sostanziale, della guerra o almeno un suo deciso ridimensionamento. Inoltre, Israele ha un mese di tempo per dimostrare di avere obbedito alle raccomandazioni della Corte. Siamo nell’ambito di precise disposizioni volte a prevenire la possibilità di un genocidio, non a condannarlo dopo la sua realizzazione.

La decisione della Corte dell’Aja si rivela così una sorta di compromesso, ma più dal punto di vista formale che sostanziale. Se verrà rispettata, le possibilità di uscire da questa terribile guerra cresceranno di molto. Inoltre, la sentenza chiede il rilascio immediato dei prigionieri di Hamas. Se il processo andrà avanti, come sembra, ad essere posti sotto accusa saranno, oltre ad Israele, Hamas.

Queste le prospettive che la sentenza dell’Aja apre. Essa rende più facile a Biden votare a favore della mozione dell’ONU per il cessate il fuoco, già bloccata dal veto degli USA nel dicembre. Rende più facile alla società israeliana chiedere, come una sua parte sta facendo nonostante la guerra, le dimissioni del governo Netanyahu perché ne accusa direttamente i ministri di voler realizzare un genocidio, divenendo così responsabili dell’accusa del Sudafrica. Inoltre gli israeliani hanno dalla sentenza un forte appoggio nella richiesta di rilascio incondizionato degli ostaggi.

Più facile non vuol dire realizzabile. Chi pensa che dal momento che nient’altro riusciva a fermare Netanyahu ben venga la Corte dell’Aja, è ben consapevole dei rischi di questa operazione. Non tanto in sé, perché la sentenza dell’Aja si è dimostrata di un raro equilibrio e ha mostrato di aver ben presenti tutti i termini della questione e le sue conseguenze. E nemmeno per gli abitanti di Gaza, a cui difficilmente potrebbe succedere qualcosa di peggio di quello che sta già succedendo. Ma certo per gli ebrei del mondo, che vedono crescere intorno a loro l’antisemitismo. Già ora molta parte dell’opinione pubblica recepisce semplicemente che la sentenza abbia avallato l’accusa di genocidio.

Penso che possiamo e dobbiamo affrontare questo clima, queste accuse. Spiegare, parlare, discutere. Sarebbe molto peggio affrontarlo se i Ben Gvir vincessero ed attuassero il loro folle progetto. Allora davvero, se non avremo fatto nulla per contrastarli, saremo assai meno credibili nel combattere l’antisemitismo.

 

 

31 Gennaio 2024Permalink

28 Gennaio 2024 Viaggio nell’inferno di Khan Yunis: “Hamas ci spara dalle scuole, sbucano e fuggono. Li uccideremo tutti”

 

A caccia dei tunnel con i soldati israeliani nella città del Sud della Striscia. Della gente di Gaza neanche l’ombra, quartieri residenziali rasi al suolo                                            FABIANA MAGRÌ

Khan Yunis (striscia di Gaza). Spazzati come le nuvole dalle raffiche di vento, la polvere e i rumori dei combattimenti in corso nei vicoli stretti dei campi profughi di Khan Yunis arrivano fino al cortile della scuola, alla periferia orientale della città dove ci troviamo. Alle sventagliate delle mitragliatrici segue il boato del missile lanciato dal “chopper”. A Ovest, prima della linea dell’orizzonte sul mare, si alzano colonne di fumo nero. In un attimo, a un chilometro e mezzo di distanza, l’aria si fa nebbia sabbiosa e solleva residui di materiale bruciato, mentre l’elicottero israeliano è già rientrato alla base. Gli edifici della scuola elementare «sono stati usati dai terroristi per spararci addosso e attaccarci», dice a La Stampa il tenente colonnello Anshi dell’unità di riserva paracadutisti della 55esima brigata, nella 98esima Divisione “Ha-Esh” (“Formazione di Fuoco”). Dalle aule dell’istituto le brigate Al Qassam hanno ingaggiato una battaglia ravvicinata con i soldati israeliani. C’era anche Anshi. Un proiettile nemico gli ha perforato il braccio sinistro, da parte a parte. Oggi la scuola è un punto di appoggio logistico per Tsahal. Il pallone di cuoio al centro del cortile – usato evidentemente come campo da calcio oltre che come parcheggio per i tank – lascia intendere che il battaglione di paracadutisti sente di avere la situazione totalmente sotto controllo.

La porta di accesso per le truppe israeliane che operano a Khan Yunis è la breccia stessa creata da Hamas il 7 ottobre del 2023 nella barriera high tech eretta da Israele per separare e proteggere il territorio dello Stato ebraico da quello palestinese. Una sorta di contrappasso, come tendono a sottolineare i militari che venerdì ci hanno accompagnato nella Striscia – dove non si può entrare se non scortati – insieme con altre quattro testate di stampa internazionale.

A poche centinaia di metri da quel confine, ancora oggi, emergono nuovi sbocchi di tunnel. Quello su cui ci affacciamo è stato individuato appena due settimane e mezzo fa dalle forze di sorveglianza. In un campo dove non dovrebbe esserci nulla, hanno notato «una pattuglia di combattimento con 15 soldati» e hanno iniziato a indagare. All’interno del pozzo c’era una scala che scendeva in profondità. Era sporca di fango. «Evidentemente qualcuno l’aveva usata dopo le recenti piogge, quando eravamo già qui. È un’ottima posizione per sbucare fuori da sottoterra con un lanciarazzi, sparare sui carri armati e i veicoli che passano a soli 100 metri, quindi tornare indietro e fuggire verso Gaza». Il genio militare l’ha neutralizzato tra giovedì e venerdì, cioè la sera prima di mostrarlo ai giornalisti. Sul terreno c’erano ancora abbondanti tracce, in forma di schiuma solidificata, dell’esplosivo liquido utilizzato. Sembra incredibile ma dopo oltre tre mesi di operazioni militari israeliane nella Striscia, partite da Nord e scese fino a Gaza City, poi proseguite nella regione di Khan Yunis dopo la tregua di fine novembre, la portata della rete dei tunnel di Hamas, con le sue 5 mila gallerie individuate finora – dicono – è ancora capace di stupirli. Centinaia di chilometri di cemento. Un’altra Gaza, tutta sotterranea, costruita a suon di miliardi.

Generose sovvenzioni del Qatar ad Hamas, che qui comanda dal 2007, su cui il premier israeliano Benjamin Netanyahu non ha interferito.

Tsahal continua a studiare ogni tunnel. Li bonifica per spianare la strada ai suoi professionisti affinché possano raccogliere tutte le informazioni utili, applicando robotica e diverse tecnologie (su cui non possono scendere nei dettagli), sfruttando l’intelligence, le valutazioni basate sulle immagini e i dati che emergono dagli interrogatori dei militanti di Hamas catturati durante l’avanzata. Al termine delle indagini li distruggono, in modo che non possano essere più utilizzati.

A fare la scoperta di questa galleria sono stati due riservisti, un avvocato e un imprenditore immobiliare, di 55 e 66 anni. Un’età in cui la maggior parte dei soldati si accontenta di essere considerato veterano di guerra. Loro dicono: «Non potevamo restare a casa. Siamo qui per i nostri figli e le nostre famiglie». Cercare gli ostaggi israeliani non è la loro missione. E non saprebbero dire se il tunnel appena rinvenuto possa essere stato usato per trasportarne qualcuno nelle profondità di Gaza. «Ma – dicono – siamo certi che sia stato utilizzato il 7 ottobre dalle migliaia di terroristi per avvicinarsi il più possibile alla barriera e sferrare l’assalto massiccio ai kibbutzim».

Khan Younis è il più grande governatorato della Striscia. La sua superficie copre 108 dei 365 chilometri quadrati dell’enclave costiera. Solo qui risiedevano 430 mila persone, di cui i 90 mila nel campo profughi già conducevano una vita ben sotto la soglia di povertà. La loro evacuazione verso Rafah è un evento dalla portata drammatica, che esercita pressioni le cui ricadute diventeranno chiare nei giorni a venire.

Spostandosi tra la barriera e la scuola, il convoglio delle jeep militari attraversa al-Qarara, dove di civili palestinesi non ce nemmeno l’ombra. All’inizio di dicembre, lungo queste strade e tra gli edifici, si sono consumati violenti scontri a fuoco tra le forze dell’esercito israeliano e gli uomini di Hamas. «È una guerra porta a porta. Ovunque incontriamo il nemico faccia a faccia, vinciamo noi», sostiene il colonnello Anshi. Ma ammette che «quando  i terroristi si avvicinano in abiti civili, usano le case, le scuole, le moschee e gli ospedali per attaccare, è lì che riescono a coglierci di sorpresa».

Le forze israeliane avrebbero neutralizzato tra il 48 e il 60 per cento delle brigate al-Qassam. Il Jerusalem Post ha stimato che le percentuali corrispondono a 9mila miliziani su un bacino di 30-40 mila uomini di Hamas. I morti palestinesi dall’inizio dell’offensiva di terra israeliana – stime del gruppo islamico che non distingue tra civili e miliziani – sono oltre 26 mila.

Dell’elegante quartiere residenziale che doveva essere, resta ben poco. L’esercito, spiega Anshi strada facendo, rade al suolo ogni edificio in cui rilevi presenza di attività terroristiche o collegamento con esse. Che siano depositi di armi, lanciatori di razzi, imbocchi di tunnel o documenti. Le villette di al-Qarara lasciate in piedi sono poche isole tra le macerie. È il risultato dell’«approccio sistematico» utilizzato da Tsahal. «Area per area, zona per zona. Ovunque arriviamo – spiega il colonnello Anshi – smantelliamo le capacità dei terroristi, uccidiamo i militanti, facciamo saltare in aria le loro infrastrutture. Quando abbiamo finito, passiamo alla zona successiva». Quanto tempo pensi che ci vorrà ancora, gli chiediamo. «Tutto quello necessario», risponde. Poi aggiunge: «Questo è un hub del terrore che è stato costruito in oltre un decennio. Ci vorrà molto tempo per smantellarlo». Il riservista ha 55 anni. Ha partecipato a operazioni militari precedenti. «Ma questa – dice – non è paragonabile a niente che sia stato fatto prima».

In due mesi, cioè dalla ripresa del conflitto dopo la breve tregua di fine novembre tra Hamas e Israele, la città simbolo del potere dei jihadisti, è stata completamente accerchiata. A Khan Younis è nato Yahya Sinwar, il capo dei capi di Hamas. «Gli stiamo addosso”» dice il colonnello. Ma la caccia all’uomo non ha ancora raggiunto il suo obiettivo più importante.

Al termine della spedizione, si torna indietro sulle jeep che battono strade senza più nome, rese carrabili ai soli fini militari. Si passa di nuovo attraverso la breccia nella barriera e dopo appena cinque chilometri, attraverso campi e serre di banani, si arriva a Ein Hashlosha, il kibbutz così chiamato in memoria dei tre membri fondatori uccisi durante la guerra arabo-israeliana del 1948. Nel massacro dello shabbat di inizio ottobre, le vittime nelle comunità agricole intorno alla Striscia sono state 1200. E 240 i rapiti. Meno della metà sono stati rilasciati. 136 restano ancora in mano ad Hamas. Una ventina di loro sono già cadaveri. Il soldato di scorta a bordo del veicolo, sulla strada del ritorno, è malinconico. Canta tra sé e sé «Ulai» («Forse») del cantautore Aviv Geffen: «E se vedi una ragazza con gli occhi da cerbiatta, dille che la sto ancora cercando».

https://www.lastampa.it/esteri/2024/01/28/news/gaza_hamas_khan_yunis_tunnel_reportage-14026551/?ref=LSHA-BH-P2-S2-T1

28 Gennaio 2024Permalink

26 gennaio 2024 _ Convivere con Auschwitz

24 GENNAIO 2024 Mauro Barberis   Docente di Diritto, Università di Trieste

Mai più: memoria,, genocidio e unicità della Shoah nell’edizione 2024 di Convivere con Auschwitz

Mai come quest’anno la Memoria divide. Ma non la Memoria in sé: sulla celebrazione del ricordo della Shoah, destra di governo e sinistra di opposizione potrebbero persino essere accordo. Il problema sono le conseguenze del conflitto israelo-palestinese. Ce ne siamo accorti organizzando la decima edizione di Convivere con Auschwitz, in convenzione fra Stazione Rogers e Università di Trieste, il 25 gennaio al Teatro Miela a Trieste, dalle 15 in avanti, anche online. Si tratta, come i miei quattro lettori già sanno, della manifestazione annuale che, nella settimana della Memoria, dal 22 al 27 gennaio, celebra la Shoah ma cerca anche di discuterne: quest’anno, inevitabilmente, parlando di guerra e pace.

Non potevamo fingere, infatti, che non fosse accaduto il pogrom del 7 ottobre, i mille morti, la presa degli ostaggi da parte di Hamas. Ma neppure potevamo ignorare – proprio noi, solo noi – la vendetta di Netanyahu, i ventimila morti di Gaza, l’accusa di genocidio mossa per la prima volta a Israele. Come sempre, Convivere cerca di volare alto; le relazioni di Tomaso Montanari, Giuseppe Ieraci, Maurizio Prato, per tacere della mia, non sono sospette di parteggiare per nessuno. La nostra posizione, e qui parlo anche per il padre dell’evento, Gianni Peteani, è riflessa dalle parole pubblicate su Le Monde dal rettore della più grande moschea di Parigi: “” il momento di scegliere: ma non fra Israele e Palestina, fra l’Umanità e il “Male”.

I primi segnali, però, non sono incoraggianti: sento dire che a Convivere non si deve parlare della guerra, associando il conflitto israelo-palestinese alla Memoria della Shoah. Subito sono rimasto basito: di cosa parlerebbero Primo Levi e Franco Basaglia, se fossero ancora fra noi? Poi ho letto Il mio diario dei giorni dell’odio, di Michal Govrin, artista israeliana che vive in Francia, come mezzo milione di ebrei e dieci milioni di musulmani. Credo d’aver capito: dinanzi al pogrom di Hamas, vecchie ferite sono tornate a sanguinare. L’intera comunità ebraica, compresi gli oppositori di Netanyahu, si è stretta attorno a Israele. Si chiama istinto di sopravvivenza, ma anche qualcosa di più: dignità umana offesa.

Anche a me, da occidentale, europeo, italiano, viene più facile identificarmi con i ragazzi del rave sterminati, stuprati o rapiti. Ma ci sono anche gli altri, i civili palestinesi: o non sono umani anche loro? Risento discorsi che credevo dimenticati: ah, ma non saranno proprio ventimila, i morti a Gaza… E se fossero diecimila? Se fossero mille? L’accusa di genocidio è strumentale, sento pure dire: già, ma i crimini contro l’umanità sono pacificamente ammessi anche da Anna Foa. E allora qui vorrei essere chiaro, se possibile. A nessuno, a Convivere, è mai passato per la testa di equiparare i bombardamenti di Gaza a una sorta di soluzione finale del problema palestinese. Ma la Shoah non è unica, incomparabile, irripetibile. Stragi, crimini contro l’umanità, autentici genocidi costellano la nostra storia. E noi non possiamo chiudere gli occhi, mai più.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2024/01/24/mai-piu-memoria-genocidio-e-unicita-della-shoah-nelledizione-2024-di-convivere-con-auschwitz/7418538/

 

26 Gennaio 2024Permalink

7 gennaio 2024 _ Un giornalista non accetta di essere parte attiva in una informazione mutilata_

N:B: La firma è il Link in calce _ “Quanto accaduto il 7 ottobre è la vergogna di Hamas, quanto avviene dall’8 ottobre è la vergogna di noi tutti. Questo massacro ha una scorta mediatica che lo rende possibile. Questa scorta siamo noi.”
Condivido ogni parola scritta dal giornalista Raffaele Oriani nell’ interrompere la collaborazione con La Repubblica.
“Care colleghe e cari colleghi, ci tengo a farvi sapere che a malincuore interrompo la mia collaborazione con il Venerdi. Collaboro con il newsmagazine di Repubblica ormai da dodici anni, ed è sempre un grande onore vedere i propri articoli pubblicati su questo splendido settimanale. Eppure chiudo qua, perché la strage in corso a Gaza è accompagnata dall’incredibile reticenza di gran parte della stampa europea, compresa Repubblica (oggi due famiglie massacrate in ultima riga a pagina 15).
Sono 90 giorni che non capisco. Muoiono e vengono mutilate migliaia di persone, travolte da una piena di violenza che ci vuole pigrizia a chiamare guerra. Penso che raramente si sia vista una cosa del genere, così, sotto gli occhi di tutti. E penso che tutto questo non abbia nulla a che fare né con Israele, né con la Palestina, né con la geopolitica, ma solo con i limiti della nostra tenuta etica. Magari fra decenni, ma in tanti si domanderanno dove eravamo, cosa facevamo, cosa pensavamo mentre decine di migliaia di persone finivano sotto le macerie.
Quanto accaduto il 7 ottobre è la vergogna di Hamas, quanto avviene dall’8 ottobre è la vergogna di noi tutti. Questo massacro ha una scorta mediatica che lo rende possibile. Questa scorta siamo noi. Non avendo alcuna possibilità di cambiare le cose, con colpevole ritardo mi chiamo fuori”.
9 gennaio
Aggiungo il link che permette di raggiungere il  testo della risposta del comitato i redazione
https://www.repubblica.it/cronaca/2024/01/07/news/il_comunicato_del_cdr__a_fianco_dei_colleghi_che_seguono_la_guerra_no_alle_strumentalizzazioni-421824644/
7 Gennaio 2024Permalink

7 gennaio 2024 _ Francesca Mannocchi_ I palestinesi condannati all’esilio

Francesca MANNOCCHI
GAZA e i PALESTINESI condannati all’ESILIO
(LA STAMPA, 5 gennaio 2024)
Una Striscia senza palestinesi per il governo Netanyahu è «imperativo morale». Secondo il ministro Smotrich, il 90 per cento dei gazawi deve andarsene: «Paesi africani e dell’America Latina sono disposti ad assorbire i rifugiati»
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Mentre il bilancio delle vittime della guerra supera le 22 mila persone, gli esponenti politici israeliani diventano sempre più espliciti nell’obiettivo di trasferire il maggior numero di abitanti di Gaza al di là dei confini della Striscia. Le dichiarazioni, sempre più numerose e sempre più trasparenti, stanno suscitando gli allarmi delle organizzazioni umanitarie e degli alleati di Tel Aviv, soprattutto gli Stati Uniti. Allarmi che però, continuano a cadere nel vuoto.
Domenica scorsa, il ministro delle finanze Bezalel Smotrich, al vertice del partito ultranazionalista Sionismo religioso, riferendosi a Gaza, ha parlato di un ghetto in cui è necessario incoraggiare l’emigrazione. «Per evitare che Gaza resti un focolaio in cui due milioni di persone crescano nell’odio aspirando a distruggere Israele» Smotrich suggerisce che almeno il 90% della popolazione debba andarsene.
«Se a Gaza ci saranno 100 o 200 mila arabi, e non più due milioni – ha detto – parlare del “giorno dopo” sarà diverso».
È questo il tema della discussione oggi: parlare del giorno dopo. La strategia sul presente della guerra è la strategia sul futuro della Striscia. Cosa sarà domani delle persone che oggi sono di fatto intrappolate in una prigione a cielo aperto e sul cui destino molti esponenti della leadership israeliana, sembrano avere le idee chiare: ristabilire l’insediamento ebraico nel territorio e incoraggiare i palestinesi ad andarsene. Scenario che per i gazawi rappresenta la messa in atto dell’incubo di una seconda catastrofe, la Nakba, lo sfollamento forzato seguito alla guerra del 47-49, e che per gli osservatori della politica israeliana, rappresenta le ambizioni delle frange più estremiste del governo Netanyahu, a cui il Primo Ministro deve la formazione dell’ultimo governo, il sostegno politico e quindi la speranza che la sua leadership non termini con la fine della guerra.
«Incoraggiare i trasferimenti»
Il progetto di trasferire o incoraggiare lo spostamento “volontario” dei palestinesi da Gaza era, un tempo, una posizione marginale all’interno della società israeliana, per lo più sostenuta dai Kahenisti. Questa idea è andata via via normalizzandosi dopo la formazione dell’ultimo governo Netanyahu, lo scorso anno ed estremizzata dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre. Per gli esponenti politici e gli aperti sostenitori delle tesi Kaheniste, la strage di ottobre e la guerra che ne è seguita sono diventate «un’opportunità per concentrarsi sull’incoraggiamento dei residenti di Gaza a migrare», queste le parole del ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben Gvir per cui il trasferimento dei gazawi è una «scelta corretta, giusta, morale ed umana».
A novembre, i deputati Danny Danon del Likud, ex ambasciatore presso le Nazioni Unite, e Ram Ben Barak del partito di opposizione Yesh Atid, ex vicedirettore del Mossad, hanno scritto sul WSJ un editoriale dal titolo: «Il mondo dovrebbe accogliere i rifugiati di Gaza, anche se i Paesi accogliessero solo 10.000 persone ciascuno, ciò aiuterebbe ad alleviare la crisi», terminando l’appello con queste parole: «La comunità internazionale ha l’imperativo morale – e l’opportunità – di dimostrare compassione, aiutare il popolo di Gaza a muoversi verso un futuro più prospero e lavorare insieme per raggiungere maggiore pace e stabilità in Medio Oriente» .
A dicembre il ministro dell’Intelligence Gila Gamliel ha pubblicato un editoriale sul Jerusalem Post usando parole analoghe, invitando i paesi occidentali ad accogliere i residenti della Striscia di Gaza, in un atto di «reinsediamento volontario». In risposta alla richiesta di Gamliel di istituire una task force sul tema, Netanyahu la settimana scorsa ha ammesso che il governo sta lavorando per facilitare il movimento dei gazawi fuori confine. «Il problema – ha detto – è trovare Paesi disposti ad assorbirli, stiamo lavorando su questo».
La settimana scorsa sempre Danny Danon ha rincarato la tesi del gesto umanitario: «Israele deve rendere più facile per gli abitanti di Gaza partire verso altri Paesi. Un’immigrazione volontaria dei palestinesi che vogliono andarsene», ha detto, aggiungendo di essere già stato contattato da «Paesi africani e dell’America Latina disposti ad assorbire i rifugiati dalla Striscia di Gaza».
Secondo fonti anonime del gabinetto di sicurezza citate dalla testata Zman Israel il Congo sarebbe stato disposto ad accogliergli. Tra gli intermediari sul reinsediamento dei palestinesi in altri Paesi, secondo il canale israeliano Channel 12, anche l’ex primo ministro britannico Tony Blair (ma il Tony Blair Institute for Global Change, un’organizzazione no-profit da lui fondata nel 2016) ha smentito gli incontri con Gantz e Netanyahu su questo tema: «Tony Blair non sosterrebbe una simile discussione, l’idea è sbagliata di principio. Gli abitanti di Gaza dovrebbero poter restare e vivere a Gaza», scrivono nel comunicato. Le indiscrezioni di Channel 12, arrivavano dopo che due ministri del governo di estrema destra hanno ipotizzato che i coloni potranno tornare nella Striscia di Gaza a guerra finita.
Sono molti i politici israeliani che hanno cominciato esplicitamente a chiedere il ripristino degli insediamenti israeliani a Gaza (i coloni israeliani si sono ritirati dalla Striscia nel 2005), e in un recente articolo del Jerusalem Post, un geografo israeliano, ha definito la penisola egiziana del Sinai «un luogo ideale per sviluppare un ampio reinsediamento per la popolazione di Gaza».
Nelle ultime settimane sono state diffuse molte immagini di soldati israeliani che si sono ritratti nel territorio della Striscia, con cartelli che riportavano le scritte «Siamo tornati!» e «Siamo qui per restare!».
Ovviamente queste immagini hanno allarmato la comunità internazionale e confermato l’idea che il piano di Israele sia quello di sfollare forzatamente e in maniera permanente i palestinesi.
La fame di Gaza
La guerra a Gaza ha già costretto allo sfollamento la stragrande maggioranza della popolazione. Dall’inizio dell’offensiva Israele ha ripetutamente esortato i civili a spostarsi verso sud, in aree presentate come «più sicure», nei fatti però i bombardamenti hanno seguito il flusso di persone e oggi anche i grandi centri meridionali sono sotto bombardamenti continui, le infrastrutture e le abitazioni sono devastate e un milione e mezzo di persone devono far fronte a necessità mediche enormi e a una carestia incombente.
A dicembre le Nazioni Unite hanno definito la situazione a Gaza catastrofica, avvertendo che oltre il novanta per cento della popolazione si trova ad affrontare «una grave insicurezza alimentare» e dove «praticamente tutte le famiglie saltano i pasti ogni giorno».
Il rapporto rilevava che i livelli di fame rappresentano «la percentuale più alta di persone che affrontano livelli elevati di insicurezza alimentare acuta» mai registrata «per una determinata area o Paese».
Secondo Arif Husain, capo economista del Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite, intervistato il 3 gennaio dal New Yorker, a Gaza in questo momento praticamente l’intera popolazione di 2,2 milioni di persone si trova in una crisi di sicurezza alimentare. «Faccio questo lavoro da vent’anni e sono stato testimone di ogni tipo di conflitto e di ogni tipo di crisi – ha detto –. E, per me, questa situazione non ha precedenti, non ho mai visto nulla di simile in termini di gravità, di scala e quindi di velocità. A Gaza c’è una doccia ogni 450 persone, c’è un bagno ogni 220 persone. Più di 1 milione e mezzo di persone vive in luoghi molto congestionati. Un quarto della popolazione versa già in livelli catastrofici di fame. Se ciò che sta accadendo continua o peggiora, molto presto, entro i prossimi sei mesi, avremo una vera e propria carestia».
L’espulsione dei gazawi come «atto morale»
In una lunga e dettagliata ricostruzione sulla diffusione delle tesi kahaniste nella società israeliana, a novembre il quotidiano Hareetz, ha pubblicato un lungo articolo dal titolo: La destra israeliana sta cercando di riformulare il trasferimento della popolazione di Gaza come un «atto morale». L’idea di espellere gli arabi verso altri Paesi un tempo, dice Haaretz, era legata a Meir Kahane e ad altri radicali di estrema destra, e quindi considerata un anatema dalla maggior parte degli israeliani.
Oggi la situazione è cambiata e l’idea sta guadagnando terreno come soluzione «morale» alla guerra. Rimettendo in fila i passaggi che hanno reso esplicito, accettabile nella società israeliana questo scenario, Hareetz ne ricostruisce alcuni passaggi di comunicazione nei tre mesi di guerra: a un mese dall’inizio dell’offensiva, il conduttore televisivo Guy Lerer scrisse sui suoi social: «Perché milioni di rifugiati siriani sono andati in Turchia e milioni di ucraini sono andati in tutte le parti d’Europa? – perché in ogni guerra esistono i rifugiati ad eccezione della guerra nella Striscia di Gaza?». Lo stesso giorno su Channel 12, il canale informativo più seguito del paese, il parlamentare Ram Ben Barak disse: «Se consideriamo tutta Gaza composta da rifugiati, disperdiamoli in giro per il mondo. Ci sono 2,5 milioni di persone lì. Ogni Paese potrebbe accogliere 20.000 persone – 100 Paesi. È umano, è logico, meglio essere un rifugiato in Canada che un rifugiato a Gaza. Se il mondo vuole davvero risolvere questo problema, può farlo». Sia Lerer che Ben Barak sono seguaci delle idee del rabbino ultranazionalista Meir Kahane, ma quello che è interessante e inquietante allo stesso tempo è che le loro tesi, che un tempo sarebbero state appannaggio dell’estrema destra, oggi stanno diventando sentire comune nella società israeliana.
Dieci giorni dopo la strage del 7 ottonre, era stato pubblicato un documento che cercava di dare legittimità all’idea del trasferimento della popolazione. Il dottor Raphael BenLevi, dell’organizzazione di destra Tikvah Fund e ricercatore presso l’Istituto Misgav per la sicurezza nazionale e la strategia sionista, sempre citato da Haaretz, ha scritto che l’unico modo per stabilizzare il confine sud di Israele «è agire per spingere la popolazione nella penisola del Sinai e creare un’iniziativa internazionale per assorbire gli sfollati del Sinai in paesi stranieri. Nonostante l’opposizione prevista, Israele deve agire per creare una situazione intollerabile a Gaza, che obbligherà altri Paesi ad aiutare la partenza della popolazione – e gli Stati Uniti a esercitare forti pressioni a tal fine».
Come a dire: quanto più la situazione a Gaza sarà intollerabile, tanto più i civili spingeranno per lasciare la Striscia. E, di conseguenza, sarà inevitabile che gli sforzi diplomatici cominceranno a muoversi per convincere i paesi arabi ad accogliere i rifugiati e i paesi Occidentali a fare la loro parte.
A cercare di piegare l’espulsione dei gazawi secondo queste tesi è anche un articolo uscito su Hashiloach, ad ottobre, dal titolo: «Necessario, morale e possibile: non tornare a Gaza». L’autore, Yoav Sorek, presenta delle argomentazioni «etiche» alla sua tesi, passaggio che Haaretz definisce un «sofisticato upgrade per i Kahanisti».
Sorek sa che il rischio del trasferimento forzato, che è un crimine di guerra, rischia di provocare l’isolamento di Israele dai suoi alleati internazionali, perciò delinea una tesi secondo cui l’unico modo per abbandonare l’invito alla vendetta e l’uccisione dei civili, è trasferire la popolazione. «Il trasferimento di una popolazione o l’attuazione di uno scambio di popolazione sono pratiche pervasive nella risoluzione dei conflitti e sono completamente indipendenti al crimine noto come “pulizia etnica”».
Trasferire per non uccidere dunque. Questo lo scambio esplicitamente proposto dalle frange estremiste della politica e, dunque, della società israeliana, questo il dilemma morale di cui l’Occidente e i Paesi arabi stanno prendendo coscienza.
In tale contesto la migrazione presentata come “volontaria” equivale sempre di più a uno sfollamento forzato illegale.
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7 Gennaio 2024Permalink

22 dicembre 2023 _ Parlano i Patriarchi e le chiese di Gerusalemme

Una denuncia di tutte le azioni violente e un appello per chiederne la fine: è quanto contiene il Messaggio di Natale dei Patriarchi e dei Capi delle Chiese di Gerusalemme, diffuso oggi, nella Città santa. “Negli ultimi due mesi e mezzo – si legge nel testo – la violenza della guerra ha portato a sofferenze inimmaginabili per milioni di persone nella nostra amata Terra Santa. I suoi continui orrori hanno portato miseria e dolore inconsolabile a innumerevoli famiglie in tutta la nostra regione. La speranza sembra lontana e irraggiungibile”. Eppure, ricordano i leader religiosi, è “in un mondo simile che nostro Signore è nato per darci speranza. Dobbiamo ricordare che durante il primo Natale la situazione non era molto lontana da quella odierna. Così la Beata Vergine Maria e San Giuseppe ebbero difficoltà a trovare un luogo dove nascere il loro figlio. C’è stata l’uccisione di bambini. C’era un’occupazione militare. E c’era la Sacra Famiglia che veniva sfollata come rifugiata. Esteriormente, non c’era motivo di festeggiare se non la nascita del Signore Gesù”. “Questo è il messaggio divino di speranza e di pace che il Natale di Cristo ispira in noi”, ribadiscono i capi religiosi, ed “è in questo spirito natalizio che denunciamo tutte le azioni violente e chiediamo la loro fine. Allo stesso modo invitiamo le persone di questa terra e di tutto il mondo a cercare le grazie di Dio affinché possiamo imparare a camminare insieme sui sentieri della giustizia, della misericordia e della pace. Infine, invitiamo i fedeli e tutti coloro di buona volontà a lavorare instancabilmente per il sollievo degli afflitti e per una pace giusta e duratura in questa terra che è ugualmente sacra alle tre fedi monoteiste”.

22 Dicembre 2023Permalink

10 dicembre 2023 _ La voce della poesia non può morire

Sto pensando a lui, Refat Al-Areer poeta, scrittore, docente di letteratura, ucciso a Gaza ieri in un bombardamento, con la sua famiglia. Tra i fondatori di NON SIAMO NUMERI. Le sue parole:
Se dovessi morire
tu devi vivere
per raccontare la mia storia,
per vendere le mie cose,
per comprare un pezzo di stoffa
e qualche stringa.
(rendilo bianco con una lunga coda)
cosicché un bambino, da qualche parte a Gaza
guardando il cielo negli occhi
in attesa di suo padre che se ne andò in una fiamma –
e non diede l’addio a nessuno
nemmeno alla sua stessa carne
nemmeno a se stesso –
veda l’aquilone, il mio aquilone che tu hai fatto,
volare là sopra
e pensi per un momento
che un angelo sia lì
a riportare indietro amore.”
“Se dovessi morire
fa’ che porti speranza,
fa’ che sia un racconto.”
10 Dicembre 2023Permalink

9 dicembre 2023 _ Un caso di detenzione amministrativa (?) in Israele che sembra chiudersi positivamente

Il ricercatore italo-palestinese, arrestato ad agosto delle autorità israeliane e scarcerato un mese fa, ha superato il confine con la Giordania. La felicità della moglie, originaria del Molise

Il servizio di Dario Tescarollo, montaggio di Piero Manocchio

Presto Khaled El Qaisi potrà finalmente tornare in Italia: dopo mesi di preoccupazione per il suo destino, sembra arrivare il lieto fine per il ricercatore italo-palestinese dell’Università La Sapienza di Roma.

Era stato arrestato dalle autorità israeliane il 31 agosto scorso al valico di Allenby tra Cisgiordania e Giordania. Un mese dopo, a inizio ottobre, il tribunale israeliano di Rishon Le Tzion si pronunciò per la sua scarcerazione con la condizione del divieto di espatrio per una settimana. Khaled ha così potuto soggiornare liberamente nella casa di famiglia di Betlemme, poi però, l’8 ottobre, è scoppiato il conflitto in Israele e da quel momento alla lontananza si è sommata la preoccupazione delle bombe.

Oggi la situazione si è sbloccata; fonti diplomatiche confermano che il 28enne italo-palestinese si trova in territorio giordano e che presto farà ritorno in Italia per riabbracciare la propria famiglia. “Khaled ha attraversato il confine con la Giordania. Finalmente potremo riabbracciarlo”, le parole che la moglie Francesca Antinucci, di Campobasso, ha scritto sul proprio profilo Facebook.

https://www.rainews.it/tgr/molise/articoli/2023/12/khaled-el-qaisi-ha-lasciato-la-palestina-presto-il-ritorno-in-italia-e7e2c5fa-b28d-46cb-b6f2-358b039d6655.html

Ne avevo scritto nl mio blog diariealtro  il 7 settembre

7 settembre 2023_ Una notizia dalla Palestina

9 Dicembre 2023Permalink