11 ottobre 2023. Due articoli che non diffonderò. Il pregiudizio si trova ovunque

9 Ottobre 2023     Sulle “colpe” di Israele

Perché tra l’editoriale di Haaretz, che attribuisce a Netanyahu una grande responsabilità, e la dichiarazione degli studenti di Harvard, che accusano il regime israeliano, c’è un’enorme differenza.
di Anna Momigliano

Ci sono i fatti, in questo caso fatti atroci, che cambieranno la storia, in peggio, nei decenni a venire, e poi ci sono le reazioni ai fatti, che a volte fanno schifo pure quelle ma di cui ci dimenticheremo nel giro di una settimana. Proprio perché delle seconde presto non ci ricorderemo più, vale la pena di cristallizzarle per un secondo. Mentre dei terroristi attaccavano cittadine, kibbutz, persino un festival, nel Sud di Israele, ammazzando civili, uomini, donne e bambini, stanandoli casa per casa, mentre i terroristi – chiamateli anche “gruppo radicale” come ha fatto il Post, non sono quelle due parole che fanno la differenza – postavano festanti immagini di cadaveri dissacrati, in un raccapricciante cross-over tra Bucha e il Bataclan, capitava che un giornale israeliano pubblicasse un editoriale che accusava il primo ministro: «Il disastro che si è abbattuto su Israele porta la responsabilità chiara di una persona: Benjamin Netanyahu». Quell’editoriale, nella sua versione in inglese, è girato moltissimo sui social occidentali.

Sui social occidentali però è girata moltissimo anche un’altra accusa, lo screenshot di una dichiarazione, firmata da svariate dozzine di associazioni studentesche di Harvard, che decretavano: «Riteniamo il regime israeliano interamente responsabile dei fatti violenti». Il ragionamento era questo: l’attacco terroristico non si è svolto in un vuoto storico, sono decenni che gli israeliani hanno fatto di Gaza una prigione a cielo aperto, sono 75 anni che gli israeliani ammazzano i palestinesi, la priorità adesso è evitare la “rappresaglia coloniale”. Il fatto che le due accuse, quella di Haaretz e quella degli studenti di Harvard, girassero nella stessa bolla, mi spinge a pensare che la gente non ha capito un cazzo.

A questo punto si potrebbe fare un bel discorsetto sul moral high ground, sul fatto che i giornalisti di Haaretz (glasnost: persone che conosco, giornale con cui collaboro) scrivevano sotto i razzi, mentre perdevano amici e parenti, mentre aspettavano notizie di un redattore asserragliato coi figli piccoli in un kibbutz, e invece le Karen di Harvard sputavano sentenze dal New England. Si potrebbe buttarla sul moral high ground, che su internet tira parecchio, ma la verità è che sono due accuse completamente diverse, perché dicono cose completamente diverse.

Cosa intende Haaretz quando dà la colpa a Netanyahu?

Che è un incompetente e un pazzoide nazionalista, dove le due cose vanno a braccetto. Da quando è al potere, Netanyahu ha concentrato tutti gli sforzi a consolidare la presenza dei coloni e dell’esercito in Cisgiordania, ma ha di fatto indebolito l’apparato securitario in tutto il resto del Paese. Quando i terroristi sono entrati nei kibbutz e nelle cittadine vicine a Gaza non c’era neanche mezzo soldato, e sì che quelle parti un tempo erano considerate pericolose. Accecato dalla sete espansionistica, ma anche dall’illusione che i terroristi palestinesi non fossero veramente pericolosi (sorpresa: lo sono), Netanyahu ha trasformato l’esercito israeliano in una forza di protezione per il coloni, e abbiamo visto i risultati, per tutti.

Le Karen di Harvard invece dicono altro. Dicono: l’occupazione è disumana, è da mo’ che i palestinesi vengono ammazzati a Gaza, che cosa vi aspettavate? Dicono: la priorità non è evitare che di ripeta il cross-over tra Bucha e il Bataclan, ma evitare che Israele si vendichi. Spero non ci sia bisogno di spiegare perché è moralmente ripugnante, ma forse si può ricordare perché è, fattualmente, suicida, che, se facciamo nostra la prospettiva del “che cosa vi aspettavate?”, si va verso una escalation senza fine. Ora, l’indignazione per la conclusione (ve la traduco: Israele se l’è andata a cercare) non deve evitare di riconoscere che alcuni dei punti da cui partono sono validi. L’occupazione è moralmente sbagliata, è una violazione dei diritti umani e civili dei Palestinesi, e deve finire. Certo, l’occupazione è una delle cause per cui il conflitto continua ad andare avanti, e non si vedono vie d’uscita senza che essa finisca. Ma pensare che sia quella l’origine di tutto, e che basti eliminare quella per porre fine alle violenze significa non avere capito nulla, foss’anche che la guerra tra arabi e israeliani è cominciata da ben prima del 1967. Alle Karen di Harvard non penserà più nessuno tra qualche giorno. Forse non penseranno più neppure loro a quella dichiarazione, visto che a ottobre ci sono gli esami di metà semestre. Per gli altri, quelli per cui la guerra è un incubo, non un’occasione di virtue signalling, il peggio deve ancora venire.

https://www.rivistastudio.com/israele-           Per  aprire il link aggiungere    attacco-hamas

10 Ott. 2023  Moni Ovadia: “Israele ha coltivato l’odio, ora a pagare sono gli innocenti” di Lara Tomasetta 

alle 13:42 – Aggiornato il 11 Ott. 2023 alle 16:48

Israele dichiara lo stato di guerra. Una colonna di tank si dirige verso Gaza. Diluvio di bombe sulla striscia. Scontri con Hamas al confine. Il nuovo bilancio dei morti israeliani e palestinesi è in continuo aumento. Moni Ovadia, intellettuale, attore, scrittore e musicista di origini ebraiche parla di “pentola a pressione che doveva esplodere”. E punta il dito anche contro la comunità internazionale, colpevole di non essere intervenuta per cercare una soluzione di pace concreta, lasciando Isreale “libera di colonizzare i territori palestinesi”.

L’ambasciatore d’Israele a Roma, Alon Bar, ha dichiarato a TPI: “noi, finora, avevamo imparato a vivere con questa costante minaccia del terrorismo palestinese, in qualche modo adeguandoci. Pensavamo potesse durare. Ma avevamo torto. Oggi abbiamo imparato che questo non è più possibile”. Come commenta questa affermazione?

«Più che convivere con la minaccia del terrorismo palestinese, gli israeliani hanno sigillato Gaza in una scatola di sardine. Cioè sottoponendo gli abitanti di Gaza a una vita infernale. L’Onu ha dichiarato Gaza territorio inabitabile 2 anni fa, mi sembra improprio il discorso. Convivere col terrorismo palestinese sì, in qualche modo l’affermazione è vera ma dimentica la cosa fondamentale, che la vita del palestinese a Gaza non è una vita da esseri umani. In quelle condizioni l’odio e l’esasperazione montano, ora dopo ora, minuto dopo minuto, e il risultato è stato questo».

Cos’è Gaza oggi? Una prigione? Un campo di concentramento?

«Peggio. È una scatola di sardine esagitata. Tutto è sotto il controllo di Israele, i confini terrestri, quelli marittimi e lo spazio aereo. Decidono loro, l’energia, l’elettricità e l’acqua. Ed è una delle zone più popolate del mondo. Poi ci sono state diverse operazioni israeliane che hanno reso la vita ancora più infernale. Gli israeliani hanno deciso: teniamoci il pericolo del terrorismo. Hanno fatto tutto fuorché cercare una soluzione. A Gaza non si può entrare, non si può uscire».

Stiamo vedendo le immagini di un film di cui ci è stato mostrato solo il finale. Ma cosa è successo prima?

«Sono 75 anni che Gaza è sigillata, prima c’erano anche i coloni israeliani ma non solo. Il popolo palestinese è diviso tra Gaza e Cisgiordania. In Cirsgiordania gli israeliani si sono appropriati di terre, hanno tenuto in prigione anche quella parte di palestinesi. La situazione è veramente spaventosa e allora questa violenza che è scoppiata doveva venir fuori prima o poi. Non è un modo di vivere quello».

Tutto questo ovviamente non giustifica l’orrore di questo giorni.

«È ovvio. Come sempre pagano gli innocenti. Anche questi israeliani che sono stati uccisi in modo atroce. Quelli che sono stati presi come ostaggi, non posso immaginare l’angoscia loro e quella dei loro parenti. Ma tutto questo perché nessuno si è curato dei palestinesi, schiavi e non padroni del loro destino».

Il ruolo di Hamas qual è?

«È la forza che governa quel territorio. Una forza che ha la parte armata. Ma le condizioni di vita a Gaza sono un inferno, è normale che la gente covi odio e disperazione, quando si viene rinchiusi e blindati. Nessuno riuscirebbe a vivere in una condizione del genere senza cercare di ribellarsi. Naturalmente ognuno si ribella con i mezzi che ha. I palestinesi in pratica hanno il terrorismo perché non hanno un esercito. Non hanno le armi, né l’esercito strutturato che ha Israele. Quindi esprimono la loro ribellione con gli strumenti che hanno. E anche se questo ha prodotto un orrore spaventoso che ci ferisce e ci lascia sgomenti, si è lasciata marcire questa situazione senza intervenire».

Lei ha parlato anche di una comunità internazionale “complice”.

«Certo, la comunità internazionale non ha fatto niente per imporre una soluzione politica basata sulla legalità nazionale. I governi israeliani hanno occupato, colonizzato e sottoposto a un regime vessatorio di prigionia 2 milioni di palestinesi a Gaza e altri 3 milioni in Cisgiordania. Forse di più. Non è un modo per evitare che poi scoppi la pentola a pressione. Si coltiva l’odio. Quattro bambini su cinque a Gaza sono depressi. Alcuni meditano il suicidio. Sono come dei topi che non posso uscire. Tutti hanno detto che Israele ha diritto di difendersi, i diritti dei palestinesi? Ci fosse stato qualcuno che avesse detto questo concetto. Ci vuole anche il rispetto dei palestinesi. Invece no. Loro devono star lì e morire in quella situazione. Adesso ci saranno migliaia di morti, però questa esplosione di ribellione selvaggia e violenza è motivata dalle condizioni di vita. Ci sono bambini che non hanno mai vissuto se non in prigionia. Ragazzini che poi hanno reazioni pensando a quando potranno farlo anche loro. Questa situazione è un disastro. E la comunità internazionale avrebbe dovuto imporre a Israele di risolvere questa situazione sulla base di negoziati veri, non di chiacchiere senza costrutto».

Amiram Levin, ex generale israeliano, a inizio 2023 ha rilasciato un’intervista alla radio Kan in Israele in cui ha fatto riferimento al “totale apartheid” nella Cisgiordania occupata: “Da 56 anni non vi è democrazia. Vige un totale apartheid. L’IDF (esercito israeliano), che è costretto a gestire il potere in quei luoghi, è in disfacimento dall’interno. Osserva dal di fuori, sta a guardare i coloni teppisti e sta iniziando a diventare complice dei crimini di guerra”.
È così?

«Prima di sentire Lei, ascoltavo l’opinione di uno studioso dell’ISPI che diceva non è una democrazia, è una democrazia etnica. Israele è una democrazia per gli ebrei, non per i palestinesi. I palestinesi non vivono in democrazia ma in apartheid. In discriminazione».

Il leader più longevo di Israele, che si vantava di non aver mai cominciato una guerra, ora deve condurre un conflitto che si annuncia lungo e difficile. Sapendo che questo sarà probabilmente il suo passo di addio. Cosa pensa di Netanyahu?

«Netanyahu è il peggio del peggio per me. È un uomo che sta cercando di sfuggire alla galera e si appoggia al peggio della società israeliana e della classe dirigente. A dei fanatici che sostengono il partito dei coloni e che sono totalmente incompetenti. E questa è anche la ragione per la quale il tanto celebrato servizio segreto israeliano non ha potuto fronteggiare i missili che arrivavano. Evidentemente si occupavano di altro. Di dare spazio ai coloni per derubare i palestinesi delle loro terre».

L’attacco contro Israele si crede fosse preparato da mesi e si nutrono sospetti sul ruolo dell’Iran. Lei come giudica?

«Ognuno fa la sua politica in quei territori. La cosiddetta realpolitik impone di cercarsi i propri amici, quelli che possono servire. L’Iran vuole avere un ruolo e questo evidentemente provoca delle politiche di potere.È possibile che l’Iran abbia fornito dei missili, non escludo che quel Paese fondato su un fondamentalismo fanatico abbia svolto una funzione, ma questo avviene in un contesto che favorisce il peggio del peggio. Che cos’hanno da perdere i palestinesi di Gaza e quelli della Cisgiordania? L’Iran si appoggia ad Hamas, ad Hezobollah. Questo le garantisce di poter giocare un ruolo».

Cosa pensa dell’atteggiamento del governo italiano?

«Non è solo il governo italiano. I governi europei si limitano a fare dichiarazioni di circostanza. “Siamo vicini a Israele”. Che razza di posizione è questa? È per dire noi siamo quelli bravi che stanno con quelli bravi. Invece di partecipare a un movimento di paesi che avrebbero dovuto sollecitare una risoluzione di pace. Quante volte si è sentito dire “due popoli, due stati”. Sono chiacchiere, vaniloqui perché la possibilità di renderlo realtà è stata compromessa dall’attività di colonizzazione israeliana. Non correre rischi. Altrimenti gli israeliani mi dicono che sono antisemita. Perché questa è la storia. Questo non è far politica, mettere la testa sotto la sabbia. In particolare gli europei che non sanno muovere un passo se non arriva la Nato a dirgli cosa fare».

https://www.tpi.it/esteri/moni-ovadia-israele-ha-coltivato-lodio-ora-a-pagare-sono-gli-innocenti-202310101045968/?fbclid=IwAR0t-aqiWw-3eXx8q4urhyz7lYyVgCrZdhnoM8uKJFaEzT583iWEphz3BIo

11 Ottobre 2023Permalink

7 settembre 2023_ Una notizia dalla Palestina

Trasferisco quanto ricevuto, girato da una amica.
Pubblico perché i miei ricordi di soggiorno in Palestina e di attraversamento dei checkpoint sola, senza la protezione di alcun gruppo, rendono credibile ciò che viene narrato
Spero che alla cittadina italiana, abbandonata ad Amman con il bambino , l’ambasciata italiana assicuri sicurezza e protezione.
E soprattutto dia notizia per quanto possibile della sorte di Khaled El Qaisi.
Pur nella differenza della situazione non dimentico Giulio Regeni.

Israele arresta Khaled El Qaisi, ricercatore italo-palestinese

Israele arresta Khaled El Qaisi, ricercatore italo-palestinese
     

redazione

Pagine Esteri, 6 settembre 2023 –  Lo scorso 31 agosto il giovane ricercatore italo-palestinese Khaled El Qaisi è stato arrestato dalle autorità israeliane al valico di Allenby, tra Cisgiordania e Giordania. Ne danno notizia la moglie del ricercatore, Francesca Antinucci, e la madre, Lucia Marchetti.

El Qaisi, di doppia nazionalità, italiana e palestinese, la scorsa settimana, diretto ad Amman, stava attraversando il valico di Allenby  con moglie e figlio dopo aver trascorso le vacanze con la propria famiglia a Betlemme. Al controllo dei bagagli e dei documenti è stato ammanettato sotto lo sguardo del figlio di 4 anni, e della moglie.

Antinucci spiega che alle richieste di delucidazioni sui motivi del fermo, non è seguita risposta alcuna da parte degli agenti di frontiera israeliani. Invece le sono state sottoposte domande per poi essere allontanata col figlio verso il territorio giordano, senza telefono, senza contanti né contatti, in un paese straniero. Solo nel tardo pomeriggio la moglie e il bambino sono riusciti a raggiungere l’Ambasciata italiana ad Amman grazie all’aiuto di alcune persone.

Khaled El Qaisi, aggiungono la madre e la moglie, ancora non ha potuto incontrare il suo avvocato. Si è solo saputo che affronterà un’udienza davanti a giudici israeliani domani, 7 settembre, presso il tribunale di Rishon Lezion.

Traduttore e studente di Lingue e Civiltà Orientali all’Università La Sapienza di Roma, stimato per il suo impegno nella raccolta, divulgazione e traduzione di materiale storico, è tra i fondatori del Centro Documentazione Palestinese, associazione che mira a promuovere la cultura palestinese in Italia.

A sostegno di Khaled El Qaisi, l’intergruppo parlamentare per la Pace tra Palestina e Israele ha inviato una lettera-appello al ministro degli esteri Antonio Tajani, per sollecitare un intervento delle autorità di governo italiane su quelle israeliane. Pagine Esteri

 

 

7 Settembre 2023Permalink

31 marzo 2019 – Un papa e un re fanno il loro lavoro

VIAGGIO APOSTOLICO DI SUA SANTITÀ FRANCESCO IN MAROCCO
[30-31 MARZO 2019]

APPELLO
DI SUA MAESTÀ IL RE MOHAMMED VI
E DI SUA SANTITÀ PAPA FRANCESCO
SU GERUSALEMME / AL QODS CITTÀ SANTA E LUOGO DI INCONTRO
________________________________________

In occasione della visita al Regno del Marocco, Sua Santità Papa Francesco e Sua Maestà il Re Mohammed VI, riconoscendo l’unicità e la sacralità di Gerusalemme / Al Qods Acharif e avendo a cuore il suo significato spirituale e la sua peculiare vocazione di Città della Pace, condividono il seguente appello:

«Noi riteniamo importante preservare la Città santa di Gerusalemme / Al Qods Acharif come patrimonio comune dell’umanità e soprattutto per i fedeli delle tre religioni monoteiste, come luogo di incontro e simbolo di coesistenza pacifica, in cui si coltivano il rispetto reciproco e il dialogo.

A tale scopo devono essere conservati e promossi il carattere specifico multi-religioso, la dimensione spirituale e la peculiare identità culturale di Gerusalemme / Al Qods Acharif.

Auspichiamo, di conseguenza, che nella Città santa siano garantiti la piena libertà di accesso ai fedeli delle tre religioni monoteiste e il diritto di ciascuna di esercitarvi il proprio culto, così che a Gerusalemme / Al Qods Acharif si elevi, da parte dei loro fedeli, la preghiera a Dio, Creatore di tutti, per un futuro di pace e di fraternità sulla terra».

Rabat, 30 marzo 2019

S.M. il Re Mohammed VI
Amir al Mouminine

S.S. Papa Francesco

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/events/event.dir.html/content/vaticanevents/it/2019/3/30/appello.html

 

31 Marzo 2019Permalink

20 luglio 2018 – I ‘figli degli altri’ fra Israele e l’Italia

Un articolo che si presenta da sé
“si nota non solo un crescente fascismo israeliano, ma anche un razzismo simile al nazismo degli esordi”.

1 marzo 2018  Da «Micromega» Zeev Sternhell    [Nota 1 ]
“Israele, fascismo in crescita e razzismo come nazismo degli esordi” [Nota 2 ]
Spesso mi chiedo come, tra 50 o 100 anni, uno storico interpreterà la nostra epoca. Quand’è – si chiederà – che la popolazione in Israele ha iniziato a realizzare che lo Stato, nato dalla guerra d’indipendenza, sulle rovine dell’ebraismo europeo, e pagato col sangue dei combattenti, alcuni dei quali erano sopravvissuti all’Olocausto, si è trasformato in una tale mostruosità per i suoi abitanti non ebrei? Quand’è che alcuni israeliani hanno capito che la loro crudeltà e la capacità di prevaricazione sugli altri, palestinesi o africani, ha iniziato a erodere la legittimità morale della loro esistenza come entità sovrana?
La risposta, potrebbe dire quello storico, è racchiusa nelle azioni di parlamentari come Miki Zohar e Bezalel Smotrich e nelle proposte di legge del ministro della Giustizia Ayelet Shaked. La legge dello Stato-nazione, che sembra formulata dal peggiore degli ultranazionalisti europei, è stata solo l’inizio. Dato che la sinistra non ha protestato contro di essa nelle manifestazioni in Rotchild Boulevard, quella è stata l’inizio della fine della vecchia Israele, la cui dichiarazione di indipendenza rimarrà come pezzo da museo. Un reperto archeologico che insegnerà alla gente ciò che Israele sarebbe potuta diventare, se solo la sua società non fosse stata disintegrata dalla devastazione morale causata dall’occupazione e dall’apartheid nei Territori.
La sinistra non è più in grado di sconfiggere l’ultranazionalismo tossico che si è sviluppato qui, la cui versione europea ha praticamente sterminato la maggioranza del popolo ebraico. Le interviste per Haaretz di Ravit Hech a Smotrich e Zohar (3 dicembre 2016 e 28 ottobre 2017) dovrebbero essere ampiamente diffuse su tutti i media in Israele e nel mondo ebraico. In entrambe, si nota non solo un crescente fascismo israeliano, ma anche un razzismo simile al nazismo degli esordi.
Come ogni ideologia, la teoria nazista della razza si è sviluppata nel corso degli anni. All’inizio, ha solo privato gli ebrei dei loro diritti umani e civili. È possibile che, se non ci fosse stata la Seconda Guerra Mondiale, la “questione ebraica” si sarebbe risolta con la sola espulsione “volontaria” degli ebrei dalle terre del Reich. Dopotutto, molti ebrei austriaci e tedeschi erano riusciti ad andarsene in tempo. È possibile che questo sia il futuro dei palestinesi.
Smotrich e Zohar, infatti, non vogliono nuocere fisicamente ai palestinesi, a patto che questi non si ribellino contro i loro padroni ebrei. Vogliono semplicemente privarli dei diritti umani fondamentali, come l’autogoverno nel loro Stato e la libertà dall’oppressione, o l’uguaglianza di diritti nel caso in cui i territori siano ufficialmente annessi a Israele. Per questi due rappresentanti della maggioranza alla Knesset, i palestinesi sono condannati a restare sotto occupazione per sempre. È probabile che anche il Comitato centrale del Likud la pensi così. Il ragionamento è semplice: gli arabi non sono ebrei, quindi non possono rivendicare la proprietà di alcuna porzione della terra che è stata promessa al popolo ebraico.
Secondo il ragionamento di Smotrich, Zohar e Shaked, un ebreo di Brooklin che non ha mai messo piede in questo Paese è il legittimo proprietario di questa terra, mentre un palestinese, la cui famiglia vive qui da generazioni, è uno straniero che vive qui solo grazie alla benevolenza degli ebrei. “Un palestinese – ha detto Zohar a Hecht – non ha alcun diritto all’autodeterminazione nazionale perché non possiede la terra in questo Paese. Per senso del vivere civile gli riconosco la residenza, dato che è nato qui e vive qui; non gli dirò di andarsene. Ma, mi dispiace dirlo, loro hanno un enorme handicap: non sono nati ebrei”.
Da ciò si può presumere che, anche se si convertissero tutti, si facessero crescere i payot (riccioli laterali) e studiassero la Torah, non servirebbe. Questa è la realtà dei richiedenti asilo sudanesi ed eritrei e dei loro figli, che sono israeliani a tutti gli effetti. Era lo stesso con i nazisti. Poi c’è l’apartheid, che si può applicare in determinate circostanze agli arabi con cittadinanza israeliana. La maggior parte degli israeliani non sembra preoccupata.
* di Elena Bellini da Nena News

[Nota 1]
Zeev Sternhell, 83 anni, il più autorevole storico israeliano. Tra le sue opere, ricordiamo «Nascita d’Israele. Miti, storia, contraddizioni»; «Nascita dell’ideologia fascista»; «Contro l’illuminismo. Dal XVIII° secolo alla guerra fredda», editi in Italia da Baldini, Castoldi, Dalai. Nel 2008, è stato insignito della più prestigiosa onorificenza culturale e scientifica del suo Paese: il Premio Israele per le Scienze politiche.
La denuncia lo storico israeliano Zeev Sternhell: “Israele vuole privare i palestinesi dei diritti umani fondamentali. La sinistra non è più in grado di sconfiggere l’ultranazionalismo tossico che si è sviluppato qui, la cui versione europea ha praticamente sterminato la maggioranza del popolo ebraico”.
di Zeev Sternhell, da Haaretz *

[Nota 2]
http://temi.repubblica.it/micromega-online/israele-fascismo-in-crescita-e-razzismo-come-nazismo-degli-esordi/
Ripreso da Tiziano Sguazzero su facebook
https://www.facebook.com/tiziano.sguazzero?hc_ref=ARTMaJhz2kBKmuzKZ5dPDjWOANpExPkl4SivX1tBGwY63YP0qkVUAEFDLCL2yTDGHCU&fref=nf

[Nota 3] A proposito dell’articolo pubblicato ieri: Qualcuno parla anche in Italia
Gad Lerner
L’idolatria dello Stato-Nazione diventa legge a stretta maggioranza e divide Israele. Svilisce la tradizione ebraica, umilia i palestinesi, legittima l’espansionismo dei coloni nei territori occupati. Netanyahu brinda con Orbàn ma è un giorno triste per chi ama quella terra

20 Luglio 2018Permalink

20 luglio 2018 – Ancora un articolo di Gideon Levy, giornalista di Israele

La legge che dice la verità su Israele di Gideon Levy, Haaretz, Israele

Il parlamento israeliano, la Knesset, ha approvato una delle leggi più importanti della sua storia, oltre che quella più conforme alla realtà. La legge sullo stato-nazione (che definisce Israele come la patria storica del popolo ebraico, incoraggia la creazione di comunità riservate agli ebrei, declassa l’arabo da lingua ufficiale a lingua a statuto speciale) mette fine al generico nazionalismo di Israele e presenta il sionismo per quello che è. La legge mette fine anche alla farsa di uno stato israeliano “ebraico e democratico”, una combinazione che non è mai esistita e non sarebbe mai potuta esistere per l’intrinseca contraddizione tra questi due valori, impossibili da conciliare se non con l’inganno.
Se lo stato è ebraico non può essere democratico, perché non esiste uguaglianza. Se è democratico, non può essere ebraico, poiché una democrazia non garantisce privilegi sulla base dell’origine etnica. Quindi la Knesset ha deciso: Israele è ebraica. Israele dichiara di essere lo stato nazione del popolo ebraico, non uno stato formato dai suoi cittadini, non uno stato di due popoli che convivono al suo interno, e ha quindi smesso di essere una democrazia egualitaria, non soltanto in pratica ma anche in teoria. È per questo che questa legge è così importante. È una legge sincera.
Le proteste contro la proposta di legge erano nate soprattutto come un tentativo di conservare la politica di ambiguità nazionale.
Il presidente della repubblica, Reuven Rivlin, e il procuratore generale di stato, i difensori pubblici della moralità, avevano protestato, ottenendo le lodi del campo progressista. Il presidente aveva gridato che la legge sarebbe stata “un’arma nelle mani dei nemici di Israele”, mentre il procuratore generale aveva messo in guardia contro le sue “conseguenze internazionali”. La prospettiva che la verità su Israele si riveli agli occhi del mondo li ha spinti ad agire. Rivlin, va detto, si è scagliato con grande vigore e coraggio contro la clausola che permette ai comitati di comunità di escludere alcuni residenti e contro le sue implicazioni per il governo, ma la verità è che a scioccare la maggior parte dei progressisti non è stato altro che vedere la realtà codificata in legge.

Era bello dire che l’apartheid riguardava solo il Sudafrica
Anche il giurista Mordechai Kremnitzer ha denunciato invano il fatto che la proposta di legge avrebbe “scatenato una rivoluzione, né più né meno. Sancirà la fine di Israele come stato ebraico e democratico”. Ha poi aggiunto che la legge avrebbe reso Israele un paese guida “per stati nazionalisti come Polonia e Ungheria”, come se non fosse già così da molto tempo. In Polonia e Ungheria non esiste un popolo che esercita la tirannia su un altro popolo privo di diritti, un fatto che è diventato una realtà permanente e un elemento inscindibile del modo in cui agiscono Israele e il suo governo, senza che se ne intraveda la fine.
Tutti questi anni d’ipocrisia sono stati piacevoli. Era bello dire che l’apartheid riguardava solo il Sudafrica, perché lì tutto il sistema si basava su leggi razziali, mentre noi non avevamo alcuna legge simile. Dire che quello che succede a Hebron non è apartheid, che quello che succede in Cisgiordania non è apartheid e che l’occupazione in realtà non faceva parte del regime. Dire che eravamo l’unica democrazia della regione, nonostante i territori occupati. Era piacevole sostenere che, poiché gli arabi israeliani possono votare, la nostra è una democrazia egualitaria. O fare notare che esiste un partito arabo, anche se non ha alcuna influenza. O dire che gli arabi possono essere ammessi negli ospedali ebraici, che possono studiare nelle università ebraiche e vivere dove meglio credono (sì, come no).
Ma quanto siamo illuminati. La nostra corte suprema ha stabilito, nel caso dei Kaadan, che una famiglia araba poteva comprare una casa a Katzir, una comunità ebraica, solo dopo anni di dispute. Quanto siamo tolleranti nel consentire agli arabi di parlare arabo, una delle lingue ufficiali. Quest’ultima è chiaramente una menzogna. L’arabo non è mai stato neanche remotamente trattato come una lingua ufficiale, come succede invece per lo svedese in Finlandia, la cui minoranza è nettamente più piccola di quella araba in Israele.
Era comodo ignorare che i terreni di proprietà del Fondo nazionale ebraico, che includono buona parte delle terre dello stato, erano riservati ai soli ebrei, una posizione sostenuta dalla corte suprema, e affermare che fossimo una democrazia. Era molto più piacevole considerarci egualitari. Adesso ci sarà uno stato che dice la verità. Israele è solo per gli ebrei, anche sulla carta. Lo stato nazione del popolo ebraico, non dei suoi abitanti. I suoi arabi sono cittadini di seconda classe e i suoi abitanti palestinesi non hanno statuto, non esistono. Il loro destino è determinato da Gerusalemme, ma non sono parte dello stato. È più facile per tutti così.
Rimane un piccolo problema con il resto del mondo, e con l’immagine d’Israele che questa legge in parte macchia. Ma non è un grave problema. I nuovi amici d’Israele saranno fieri di questa legge. Per loro sarà una luce che illumina le nazioni. Tanto le persone dotate di coscienza di tutto il mondo conoscono già la verità, e da tempo devono farci i conti. Sarà un’arma nelle mani del movimento Bds (boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele)? Sicuramente. Israele se l’è guadagnata, e ora ne ha fatto una legge.
(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano israeliano Haaretz.
Opinion A Law That Tells the Truth About Israel
The nation-state law makes it plain. Israel is for Jews only, on the books. It’s easier this way for everyone Gideon Levy Jul 12, 2018 5:01 AM

https://www.haaretz.com/opinion/.premium-a-law-that-tells-the-truth-about-israel-1.6267705

Finisce l’oggi e recupero l’ieri che il nome di Gideon Levy mi richiama in un passaggio fondamentale della mia vita che ho testimoniato nel mio blog
21 agosto 2010 – Chi garantisce il diritto di esistere?
21 agosto 2010   –  diariealtro.it/?p=511

20 Luglio 2018Permalink

5 maggio 2018 – Il giro d’Italia parte da Gerusalemme – Un appello

Leggo un significativo appello che trascrivo per intero con una particolare attenzione al primo firmatario, Bruno Segre, presenza già graditissima nel mio blog di cui metto alcuni riferimenti in calce all’appello
Il 14 maggio 1948 nasce lo stato di Israele.

70° anniversario di Israele, la lettera di denuncia di 32 ebrei italiani
Pubblichiamo la lettera aperta sottoscritta da 32 ebrei italiani a proposito dell’operazione di immagine organizzata in occasione del 70°anniversario della nascita dello Stato di Israele, operazione che coinvolge anche il nostro paese con la partenza del Giro d’Italia con grande risonanza mediatica da Gerusalemme.

Nel prossimo maggio lo Stato d’Israele compirà 70 anni. Se per molti ebrei la memoria del maggio ‘48 sarà quella di una rinascita portentosa dopo la Shoà e un’oppressione subita per molti secoli, i palestinesi vivranno lo stesso passaggio storico ricordando con ira e umiliazione la Nakba, la “catastrofe”: famiglie disperse, esistenze spezzate, proprietà perdute, il tragico inizio dell’esodo di una popolazione civile di oltre settecentomila persone.

Molto problematica è in particolare oggi la situazione di Gerusalemme, città che Israele, dopo averne annesso la parte orientale, celebra come “capitale unita, eterna e indivisibile”. Tale statuto, oltre a non essere riconosciuto dalla stragrande maggioranza dei governi mondiali, secondo i dettami dell’accordo di Oslo del 1993 doveva essere oggetto di negoziati fra le parti in causa. Gerusalemme Est resta quindi, secondo le norme internazionali, una città occupata con i suoi 230.000 ebrei che vi abitano in aperta violazione delle suddette norme.

A rafforzare la pretesa del governo israeliano su Gerusalemme e a infliggere l’ennesima pugnalata al già moribondo processo di pace è calata nel dicembre 2017, come un colpo di maglio, l’iniziativa di Donald Trump di riconoscere ufficialmente la città quale capitale dello Stato d’Israele: una decisione che ne trascura completamente la complessità simbolica, ne ignora la natura molteplice e la condizione giuridica, obliterando l’esistenza dei suoi residenti arabi palestinesi (quasi 350.000, tre quarti dei quali vivono al di sotto della soglia della povertà, privi del diritto di acquistare terreni, costruire o ingrandire le proprie abitazioni – da cui spesso, anzi, vengono scacciati – e di prendere parte alle elezioni in Israele).

L’amministrazione americana ha già annunciato che trasferirà l’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme proprio in coincidenza con il 70° “Giorno dell’indipendenza”, una “scelta che” ha commentato il primo ministro Netanyahu lo “trasformerà… in una celebrazione ancora più significativa”.

Ma un’altra iniziativa concorrerà, nelle intenzioni dei suoi organizzatori, a rendere memorabile la ricorrenza: la partenza del Giro d’Italia da Gerusalemme. A pretesto e giustificazione di questa scelta, la volontà di onorare la memoria di Gino Bartali che ha trovato un posto nel “Giardino dei giusti” di Yad Vashem, nel 2013, grazie alla sua opera di salvataggio – peraltro non così ben documentata – di alcuni ebrei fra il ’43 e il ’44. È invece indubbio il finanziamento che riceverà la RCS insieme alla sua “Gazzetta dello Sport” grazie a tale operazione: 12 milioni di euro, più altri 4 offerti agli organizzatori dal miliardario israelo-canadese Sylvan Adams, presidente onorario del Comitato Grande Partenza Israele che afferma (da “Nena News”, 20 novembre 2017): “Questa storica Grande Partenza della 101esima edizione del Giro ci permetterà di presentare il nostro paese a oltre cento milioni di spettatori tra quelli collegati via televisione e presenti lungo le strade”. E gli fa eco Yariv Levin, ministro del Turismo israeliano: “Come parte di una rivoluzione nel marketing, che vede Israele quale destinazione turistica e per il tempo libero, stiamo portando il Giro d’Italia nel nostro paese”.

Se ne può quindi dedurre che il Giro d’Italia così concepito assecondi l’esigenza israeliana di presentare al pubblico, nazionale e internazionale, una facciata ripulita dalle immagini di violazioni e violenze coniugandola con la ricerca di RCS Sport di capitali e di una visibilità che immetta decisamente anche il ciclismo nel sistema di affari in cui il profitto detta le scelte e le agende dello sport.

A proposito di agende, in quella della prevista kermesse gerosolimitana figura, dal 13 al 15 maggio, la “Marcia delle nazioni: dall’Olocausto alla nuova vita”. Stando al testo del programma, si prevede che si raccolgano a Gerusalemme migliaia di cristiani provenienti da tutti i paesi per prendere parte a un convegno speciale. “Insieme con israeliani di ogni segmento della società, le masse dei credenti in Cristo marceranno dalla Knesset al Monte Zion e recheranno onore ai sopravvissuti dell’Olocausto, dimostrando pubblicamente che le nazioni si ergono a fianco d’Israele per dire ‘No!’ all’antisemitismo.”

Infine, ciliegina sulla torta, è del 16 marzo la notizia che la Commissione giustizia della Knesset sottoporrà, nelle prossime settimane, al parlamento un pacchetto di leggi che trasformano definitivamente Israele in uno “stato ebraico”, abolendo così una volta per tutte la tanto fastidiosa parola “democratico” dal suo statuto e facendo in tal modo, finalmente, “chiarezza” sulla propria natura: sempre, è ovvio, per festeggiare il 70° anniversario (vedi a questo link). Tale passaggio sancirà, ancora definitivamente, l’esclusione dai diritti dei non ebrei residenti in Israele e faciliterà alle istituzioni preposte il compito di sbarazzarsi innanzitutto dei palestinesi ma anche degli immigrati non graditi.

Legittimando e rendendo irreversibile l’annessione di Gerusalemme Est e l’occupazione della Cisgiordania, l’intera operazione intorno al 70° anniversario della nascita d’Israele viola la legge internazionale e affossa forse definitivamente il processo di pace.

In quanto ebrei, consideriamo tale operazione un vulnus ai valori di giustizia e di ricerca della pace su cui si fonda la parte migliore della nostra tradizione. Ci rivolgiamo quindi a coloro che hanno ancora a cuore tali valori perché respingano un’operazione così dannosa per gli ebrei e tanta parte di umanità, chiedendo a ciascuno, con un atto di responsabilità personale, di sottoscrivere la nostra denuncia.

Bruno Segre, Susanna Sinigaglia, Stefano Sarfati, Anna Farkas, Carla Ortona, Stefania Sinigaglia, Giorgio Forti, Giorgio Canarutto, Joan Haim, Miriam Marino, Paola Canarutto, Sergio Sinigaglia, Marco Ramazzotti, Fabrizio Albert, Marina Ascoli, Guido Ortona, Giovanni Levi, Simona Sermoneta, Shmuel Gertel, Giorgio Segrè, Bruno Osimo, Ester Fano, Renata Sarfati, Irene Albert, Paolo Amati, Dino Levi, Barbara Agostini, Ferruccio Osimo, Lavinia Osimo, Antoine Dubois, Daniel Magrizos, Marina Morpurgo.

(2 maggio 2018)

http://temi.repubblica.it/micromega-online/70-anniversario-di-israele-la-lettera-di-denuncia-di-32-ebrei-italiani/
-  7 settembre 2014 – Ricevo da Bruno Segre Una lettera aperta agli ebrei americani
…………………………… …..https://diariealtro.it/?p=3317

- 16 maggio 2015 – Il Vaticano apre a rapporti con la Palestina
…………………………………. https://diariealtro.it/?p=3780

– 16 settembre 2016 – Appello agli ebrei del mondo
……………… ……………https://diariealtro.it/?p=4595

Chi è Bruno Segre
Bruno Segre, storico e saggista, è nato a Lucerna nel 1930, ha studiato filosofia alla scuola di Antonio Banfi; si è occupato di sociologia della cooperazione e di educazione degli adulti nell’ambito del movimento Comunità fondato da Adriano Olivetti; ha insegnato in Svizzera dal 1964 al 1969; per oltre dieci anni ha fatto parte del Consiglio del “Centro di documentazione ebraica contemporanea” di Milano; per molti anni ha presieduto l’associazione italiana “Amici di Neve Shalom Wahat as-Salam”; nel quadro di un’intensa attività pubblicistica, ha dedicato contributi a vari aspetti e momenti della cultura e della storia degli ebrei; per anni ha diretto la prestigiosa rivista di vita e cultura ebraica “Keshet”. Tra le opere di Bruno Segre: Gli ebrei in Italia, Giuntina, Firenze 2001; Shoah, Il Saggiatore, Milano 1998, 2003

5 Maggio 2018Permalink

26 ottobre 2017 – Leggendo Haaretz, quotidiano di Israele

16 0ttobre 2017 Amira  Hass, Haaretz
Quando Israele annuncia una chiusura dei territori occupati, crea la falsa impressione che i palestinesi normalmente abbiano libertà di movimento – cosa che non avviene dal gennaio 1991.

Alcuni articoli pubblicati su Haaretz prima della festa di Sukkot (festa del pellegrinaggio, una delle più importanti festività ebraiche, che dura 8 giorni tra settembre e ottobre, ndtr.) mi hanno ricordato la grande distanza tra il 21 di Schocken Street (gli uffici di Haaretz) e Qalandya, Nablus o Jayyous. Mi hanno ricordato (ancora e ancora) quanto malamente io abbia fallito nei miei tentativi di descrivere, spiegare ed illustrare la politica israeliana di restrizione della libertà di movimento. Poiché ho scritto migliaia di pagine sulla politica di chiusura nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania fin da quando è stata istituita nel gennaio 1991, riconosco la mia personale responsabilità sulla questione.
Parecchi miei colleghi di Haaretz (anche in un editoriale) hanno giustamente criticato l’ordine della leadership politica e militare israeliana di vietare l’uscita dei palestinesi dalla Cisgiordania durante l’intera festa di Sukkot. I giornalisti hanno sottolineato la crudeltà di recare danno alla vita di decine di migliaia di lavoratori con una punizione collettiva, con un blocco.
Ma questi articoli hanno creato la falsa impressione che i checkpoint siano normalmente aperti per tutti e, di conseguenza, giustificano in qualche modo il termine usato dall’apparato militare – “attraversamenti”, come se fossero valichi di frontiera tra due Stati uguali e sovrani.
Dalle critiche contenute negli articoli sembra che, proprio come l’israeliano medio può salire su un autobus o su una macchina e viaggiare verso est in qualunque giorno della settimana ed a qualunque ora, un comune palestinese possa analogamente imboccare le stesse superstrade di lusso e dirigersi ad ovest. Verso il mare. O a Gerusalemme. Dalla sua famiglia in Galilea; a sua scelta, per quasi tutti i giorni e a qualunque ora, tranne durante lo Shabbat [festa ebraica del riposo che avviene di sabato ndt] e i giorni di festività.
Ripetiamolo ancora una volta: il blocco non è mai stato tolto da quando venne imposto alla popolazione nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania (esclusa Gerusalemme est) il 15 gennaio 1991. Come potremmo definirlo oggi, più di 26 anni dopo? Il blocco è il ripristino della Linea Verde (confine de facto dello stato di Israele fino al 1967, ndtr.) – ma solo in una direzione e per un solo popolo. E’ inesistente per gli ebrei, ma esiste sicuramente per i palestinesi (insieme al suo nuovo rafforzamento, la barriera di separazione in Cisgiordania).
A volte il blocco è meno rigido; a volte di più. In altri termini, a volte parecchi palestinesi ottengono permessi di ingresso in Israele, a volte pochi, o nessuno del tutto, o quasi nessuno (a Gaza). Ma è sempre una minoranza di palestinesi a cui Israele concede i permessi – soprattutto perché alcuni settori dell’economia israeliana (in particolare quello dell’agricoltura e dell’edilizia, e anche il servizio di sicurezza dello Shin Bet) hanno bisogno di loro.
Per quasi due decenni, e per propri calcoli politici interni, Israele ha rispettato il diritto dei palestinesi alla libertà di movimento – con poche eccezioni – e loro entravano in Israele e viaggiavano tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania senza dover chiedere un permesso a tempo limitato.
Ma dal 1991 Israele ha negato il diritto alla libertà di movimento a tutti i palestinesi in queste aree, con poche eccezioni, in base a criteri e quote che stabilisce e modifica come gli conviene.
Il gennaio 1991 è storia antica per molti lettori e soggetti interessati, alcuni dei quali sono addirittura nati dopo quella data. Ma per tutti i palestinesi che hanno più di 42 anni, il gennaio 1991 è una delle tante date che segnano un altro arretramento e un altro cambiamento in negativo nelle loro vite.
Nella storiografia della nostra dominazione sui palestinesi, il 15 gennaio 1991 dovrebbe essere studiato come una pietra miliare (non la prima né l’unica) dell’apartheid israeliano. Un Paese che va dal mare (Mediterraneo) al fiume (Giordano), due popoli, un governo la cui politica determina le vite di entrambi i popoli; il diritto democratico di eleggere un governo è garantito ad un solo popolo e a parte del secondo. Questo è risaputo. Due sistemi giuridici separati; due sistemi di infrastrutture separati e ineguali – uno potenziato per un popolo, uno sgangherato e deteriorato per l’altro.
E non meno importante: libertà di movimento per un popolo; diversi gradi di restrizione del movimento, fino alla totale assenza di libertà di muoversi, per l’altro. Il mare? Gerusalemme? Gli amici che vivono in Galilea? Sono tutti lontani da Qalqilyah (cittadina palestinese in Cisgiordania, ndtr.) come la luna – e non solo durante la festa di Sukkot.
E’ importante anche la tecnica di come è stato in realtà attuato il blocco. Un cambiamento drastico non accade mai all’improvviso, non è mai dichiarato pubblicamente. Viene sempre presentato come una reazione – non come un’iniziativa. (Gli israeliani vedono il blocco come un mezzo per impedire gli attacchi suicidi , ignorando appositamente che è iniziato molto prima che quelli cominciassero).AMIRA

Dal 1991 la negazione della libertà di movimento è solo diventata più tecnologicamente sofisticata: strade separate, checkpoint e metodi di perquisizione più umilianti e dispendiosi di tempo; costanti identificazioni biometriche; un sistema infrastrutturale che consente il ripristino dei checkpoint intorno alle enclave della Cisgiordania e le mantiene separate tra di loro. La gradualità calcolata e la mancata comunicazione preventiva di questa politica e dei suoi obbiettivi, la chiusura interna delle enclave palestinesi circondate dall’area C (sotto il controllo israeliano, ndtr.) – tutto questo normalizza la situazione.
Il blocco (come elemento fondamentale dell’apartheid) è percepito come lo stato naturale e permanente, la situazione standard di cui la popolazione non si accorge più. Ecco perché un peggioramento temporaneo della situazione, annunciato anticipatamente, desta attenzione o rilevanza.
Comunque, io non sono un tipo megalomane, quindi non assumo tutta la responsabilità sulle mie spalle. L’incapacità delle parole di descrivere e spiegare a fondo i tanti aspetti della dominazione israeliana sui palestinesi è un fenomeno sociologico e psicologico, che non è attribuibile all’impotenza di uno o due scrittori. Le parole non pervengono – anche per coloro che si oppongono al blocco – in tutto il loro significato, perché è dura vivere costantemente con la consapevolezza e la comprensione che abbiamo creato un regime di oscurità per i non ebrei; che il nostro demone che pianifica di peggiorare le cose è abilissimo e che noi viviamo benissimo accanto agli orrori che abbiamo creato.
(Traduzione di Cristiana Cavagna)

https://www.haaretz.com/misc/article-print-page/.premium-1.817381?&ts=_1508366008946

 

26 Ottobre 2017Permalink

10 febbraio 2017 – A proposito delle colonie nei Territori palestinesi

David Grossman: “Il mondo è stanco di questo conflitto ma così Israele va verso l’apartheid”

Lo scrittore commenta la decisione del governo di annettere le colonie nei Territori palestinesi: “È contro ogni legge: ci saranno conseguenze pesanti”  di FRANCESCA CAFERRI

La decisione del primo ministro Netanyahu e del suo governo è un cambiamento drammatico, un’escalation che porterà conseguenze difficili da immaginare ora: un Paese non può avere colonie in un’area che non gli appartiene. È contro la nostra legge, contro la legge internazionale. Tutti quelli che sono stati parte di questa decisione prima o poi ne pagheranno conseguenze pesanti”. All’indomani del voto della Knesset sull’annessione delle colonie israeliane a Gerusalemme e in Cisgiordania, la voce di David Grossman, uno dei più grandi scrittori contemporanei ma anche una delle più lucide coscienze critiche di Israele, suona triste: come quella di chi, nel futuro, non vede molti segni di speranza per il proprio, amatissimo, Paese.

Signor Grossman, qual è il senso di questa decisione?

“Questo è solo uno dei segni della direzione che ha preso questo governo, che è quella che va verso l’annessione dei Territori: vogliono farne parte dello Stato di Israele, ma una parte che non avrà gli stessi diritti dei cittadini israeliani. Il voto della Knesset è un altro passo verso la trasformazione di Israele da Stato democratico a Stato di apartheid “.

Eppure non mi sembra che ci sia stata una forte opposizione. Sbaglio?

“Non sbaglia affatto. L’opposizione politica interna è molto debole. Allo stesso tempo il mondo sembra essersi stancato dell’infinito conflitto fra Israele e i palestinesi: capisco la stanchezza, ma è pericoloso lasciare Israele e i palestinesi da soli perché la situazione può sfociare in violenza in tempi rapidissimi. Io non credo alla teoria secondo cui l’Isis o Al Qaeda sono nate a causa del conflitto israelo-palestinese, ma so per certo che risolvere in modo equo questo conflitto farà diminuire l’incendio che infiamma altre crisi. Per questo l’Europa, gli Stati Uniti e i Paesi arabi dovrebbero interessarsi di quello che sta accadendo. Ma oggi tutti aspettano di sapere cosa farà Donald Trump, perché il mondo è diventato il palcoscenico di uno show con un unico protagonista, lui”.

Lei cosa si aspetta da Trump? Cosa crede che porterà la sua era per Israele?

“Il secondo nome di Trump è ‘imprevedibile’. Credo che neanche lui sappia come reagirà: è chiaro che ha un’empatia verso Netanyahu e verso la destra israeliana e che disprezza i musulmani. Ha promesso di spostare l’ambasciata a Gerusalemme, una scelta che potrebbe provocare reazioni violente nel mondo arabo e fra i palestinesi. Eppure coltivo una flebile, e un po’ folle, speranza: presto Trump potrebbe cominciare a chiedersi se è davvero conveniente per gli Stati Uniti investire tanti soldi in questo fallimentare processo di pace, visto che Israele non fa che compiere passi che peggiorano la situazione. Potrebbe proporre a Putin di lanciare insieme un piano per il conflitto che né Israele né i palestinesi potrebbero rifiutare, senza andare incontro a durissime conseguenze. Ma capisco che questa speranza poggi su flebili basi”

Vorrei chiudere con una domanda personale: guardando Israele oggi, sembra che la voce degli intellettuali sia quasi l’unica a contrapporsi a Netanyahu. È così? E se la risposta è positiva: non ci si sente soli?

“Io, come molti dei miei colleghi, cerco di essere il più connesso possibile al mondo che mi circonda. Per questo capisco che oggi lo spazio per la speranza è molto ridotto. Ho compreso il senso della sua domanda: so bene che opinioni come la mia sono marginali e spesso anche disprezzate in Israele. Ma questo avviene perché negli ultimi anni, sotto il regime di Netanyahu, un dibattito che dovrebbe essere logico e razionale si è trasformato in qualcosa di emotivo. L’idea stessa di come essere cittadini di questo Stato è cambiata: si è passati dall’idea di appartenere a uno Stato democratico, basato sulla legge, a quella di appartenere a uno Stato basato sulla religione. Quello che conta oggi è se sei ebreo o no: nel primo caso hai diritti e privilegi, altrimenti quasi non sei benvenuto. È molto pericoloso: è una situazione in cui l’irrazionalità vince e ci spinge in un angolo in cui ci sentiamo soli e abbandonati dal resto del mondo”.

Il che ci riporta alla solitudine…

“Israele non è solo: gode di molto supporto nel mondo, e anche di molta simpatia. È il nostro primo ministro che incoraggia la crescita di un sentimento di isolamento. Così facendo spinge il Paese in un angolo pericoloso. Ci porta a perpetuare questa situazione di guerra: se la guerra è il tuo destino, fai di tutto per essere un guerriero migliore. Ma così facendo perdi ogni traccia di speranza. Nonostante tutto questo, e per rispondere alla sua domanda, le dico che sento ancora intorno l’appoggio verso chi ha opinioni simili alla mia. Se ci fosse un leader che non manipolasse le nostre ansie, che non usasse i fantasmi di traumi passati per farci paura, credo che molti israeliani lo ascolterebbero. Perché tanti di noi, nel profondo del cuore, sanno bene che abbiamo preso una strada pericolosa. La tragedia è che un leader così non c’è. Così la nostra società diventa sempre più apatica: e questo è grave, perché una società apatica diventa facilmente plasmabile da chi ha un’agenda nazionalista e violenta. Il rischio è che in Israele queste persone si impossessino del nostro futuro”.

FONTE:

http://www.repubblica.it/esteri/2017/02/09/news/david_grossman_il_mondo_e_stanco_di_questo_conflitto_ma_cosi_israele_va_verso_l_apartheid_-157918329/

10 Febbraio 2017Permalink

24 dicembre 2016 – Astensione degli USA all’ONU in merito agli insediamenti israeliani nei Territori.

Approfitto del testo inserito in fb da Tiziano Sguazzero.
Tiziano Sguazzero
· 1 h ·

 Storica astensione degli Usa, approvata la risoluzione Onu contro le colonie israeliane

Israele/Territori Palestinesi Occupati. Rabbia di Israele per la decisione dell’Amministrazione Obama di non bloccare con il veto la risoluzione che riafferma lo status di territori occupati per Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est. Colpo di coda di Obama che tra un mese lascerà la Casa

Grazie a una astensione, senza alcun dubbio storica, degli Stati Uniti, ieri sera il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha approvato una risoluzione di aperta condanna degli insediamenti coloniali israeliani costruiti contro il diritto internazionale nei Territori palestinesi occupati. Le colonie – si legge nel testo – «non hanno validità legale». E’ il colpo di coda di Obama che Benyamin Netanyahu temeva e che ha cercato in tutti i modi di impedire. Gli Stati Uniti non possono appoggiare gli insediamenti coloniali e la soluzione dei Due Stati nello stesso tempo, ha spiegato la decisione di astenersi l’ambasciatrice americana all’Onu, Samantha Power. Rabbiosa la reazione di Israele. «Né il Consiglio di sicurezza dell’Onu né l’Unesco possono spezzare il legame fra il popolo di Israele e la terra di Israele», ha urlato l’ambasciatore israeliano all’Onu, Danny Danon sorvolando il “dettaglio” che i Territori palestinesi occupati non sono parte di Israele. Dopo aver sistematicamente bloccato all’Onu per otto anni ogni risoluzione di condanna dello Stato ebraico, Barack Obama ha inflitto un duro colpo a Netanyahu. Si è vendicato degli attacchi israeliani subiti per anni. Netanyahu inoltre non aveva esitato, nel marzo 2015, ad umiliarlo di fronte al Congresso Usa parlando contro l’accordo sul nucleare iraniano fortemente voluto dalla Casa Bianca.

È finita a stracci in faccia. Netanyahu, ingrato, dimenticando il recente via libera della Casa Bianca a un piano di aiuti militari a Israele per 40 miliardi di dollari nei prossimi dieci anni, in anticipo sul voto di ieri sera, usando un funzionario governativo aveva accusato Obama e il segretario di stato John Kerry di aver messo in atto una «spregevole mossa contro Israele alle Nazioni Unite». Il presidente americano uscente, aveva aggiunto il funzionario, ha coordinato le mosse all’Onu con i palestinesi per riaffermare lo status di città occupata di Gerusalemme e della sua zona araba: «L’amministrazione Usa ha segretamente confezionato con i palestinesi, alle spalle di Israele, una risoluzione estrema che avrebbe dato il vento in poppa al terrorismo e al boicottaggio e che avrebbe fatto del Muro del Pianto territorio palestinese occupato». Obama, ha aggiunto, «avrebbe dovuto subito dichiarare la sua volontà di mettere il veto su questa risoluzione, invece l’ha sostenuta. Questo è un abbandono che rompe decenni di politica americana a protezione di Israele all’Onu e mina le prospettive di lavorare con la prossima Amministrazione nel far avanzare la pace».

Invece il governo Netanyahu lavorerà molto bene e in piena sintonia con la prossima Amministrazione americana. L’ha detto subito l’ambasciatore Danon: «Non ho dubbi sul fatto che la nuova amministrazione americana e il nuovo segretario generale dell’Onu apriranno una nuova era in termini di relazioni dell’Onu con Israele». D’altronde gli sviluppi di giovedì notte, prima dell’approvazione ieri sera della risoluzione, lo dicono con estrema chiarezza. Netanyahu infatti era riuscito a bloccare il voto e a frenare l’Amministrazione Obama. Prima ha bombardato di telefonate gli egiziani, promotori del progetto di risoluzione, poi ha messo in moto gli “amici” alle Nazioni Unite. Determinante è stato anche il presidente eletto Usa Donald Trump che è intervenuto in ogni modo, anche via twitter, per far congelare il voto. Il Cairo giovedì aveva ceduto, subito. Trump, in una conversazione telefonica con il leader egiziano Abdel Fattah al Sisi, aveva messo le cose in chiaro: al comando presto ci sarò io, l’Egitto riceve sostanziosi aiuti americani, Israele e le sue politiche non si toccano. Al Sisi – che non ha mai digerito la politica di Obama in Medio Oriente, troppo morbida, a suo dire, con i Fratelli musulmani, e il mese scorso aveva applaudito alla vittoria di Trump – ieri ha spiegato di aver concordato il presidente eletto «che alla nuova amministrazione Usa deve essere data la possibilità di risolvere il conflitto israelo-palestinese».

Allo stesso tempo era scesa in campo la squadra di Trump per ricordare ad Obama che il suo mandato è agli sgoccioli e che non può fare un passo tanto importante in politica estera aggirando l’Amministrazione che entrerà in carica dopo il 20 gennaio. «La decisione del Cairo di ritirare la risoluzione rappresenta il primo concreto atto della cooperazione tra Trump e Netanyahu», ha commentato la tv israeliana Canale 2. Obama però non ha resistito al desiderio di mettere in atto la sua vendetta e ieri ha scagliato il suo colpo. Troppo tardi però. Questa vendetta non basta a cancellare le ombre, gigantesche, sulla sua presidenza. Pesano le mancate promesse fatte nel 2009 quando aveva parlato di una svolta nella politica mediorientale degli Usa, specie nei riguardi dei palestinesi senza Stato. Svolta che non è mai avvenuta, l’occupazione israeliana non è mai terminata. E con Trump può solo consolidarsi.

24 Dicembre 2016Permalink

24 ottobre 2016 — Quando l’uso strumentale della storia può costruire le condizioni per rinnovare non sopiti, anche speculari, razzismi.

Il 21 ottobre del 2015 Huffington Post  pubblicava un articolo redazionale dal titolo: “Benyamin Netanyahu: “Sono stati i palestinesi a spingere Hitler allo sterminio degli ebrei” “. Berlino: “Non cambiamo la storia” (link in calce)

L’articolo torna a girare non so per quale ragione. Lo ricopio e ricordo che pochi giorni fa c’è stato l’anniversario dello deportazione degli ebrei dal ghetto di Roma, di cui ho scritto nel mio blog il 16 ottobre e che Israele non riconosce (in consonanza con la Turchia) il genocidio armeno. Anche di questo ho pubblicato documentazione nel mio blog il 13 luglio scorso. Così ho dato spazio, il 16 settembre,  a un ‘Appello agli ebrei nel mondo’ (primi firmatari gli scrittori David Grossman e Amos Oz).

21 ottobre del 2015 “Benyamin Netanyahu: “Sono stati i palestinesi a spingere Hitler allo sterminio degli ebrei” “. Berlino: “Non cambiamo la storia”

Conosciamo bene i fatti, non c’è nessun motivo per cambiare la storia”, poche e lapidarie le parole del portavoce di Angela Merkel, Steffen Seibert, rispondendo alle affermazioni di Netanyahu sulla Shoah secondo cui Hitler all’epoca non voleva “sterminare” gli ebrei, ma “espellerli”. “Conosciamo bene l’origine dei fatti – ha aggiunto – ed è giusto che la responsabilità sia sulle spalle dei tedeschi”.

Le affermazioni del premier Benyamin Netanyahu hanno suscitato molto scalpore. Secondo quanto ha detto il premier israeliano, HItler fu convinto alla Soluzione finale dal Muftì di Gerusalemme Haj Amin Al-Husseini. “Hitler -ha detto al Congresso sionista- all’epoca non voleva sterminare gli ebrei ma espellerli. Il Muftì andò e gli disse ‘se li espelli, verranno in Palestina. ‘Cosa dovrei fare?’ chiese e il Muftì rispose ‘Bruciali'”.

Come ricorda oggi il quotidiano Haaretz, Netanyahu aveva già sostenuto tale tesi in un discorso tenuto alla Knesset nel 2012, quando definì Husseini “uno dei principali architetti” della soluzione finale. Una ricostruzione avanzata da diversi storici, ha sottolineato il quotidiano, ma respinta dai più accreditati ricercatori sull’olocausto.

Interpellati oggi dal quotidiano Yedioth Aharonot, diversi storici hanno di nuovo respinto tale ricostruzione. Il professore dan michman, a capo dell’istituto per la ricerca sull’olocausto dell’università di bar-ilan, tel aviv, e presidente dell’istituto internazionale per la ricerca sull’olocausto dello Yad Vashem, ha confermato l’incontro tra Hitler e il muftì, sottolineando però che questo avvenne quando la soluzione finale era già stata avviata.

Anche il presidente degli storici dello Yad Vashem, Dina Porat, ha respinto la ricostruzione di Netanyahu: “Non si può dire che è stato il muftì a dare a Hitler l’idea di uccidere o bruciare gli ebrei. Non è vero”.

Dura la replica del leader dell’opposizione Isaac Herzog: “Una pericolosa distorsione. Chiedo a Netanyahu di correggerla immediatamente perché minimizza la Shoah… e la responsabilità di Hitler nel terribile disastro del nostro popolo”.

L’affermazione di Netanyahu è totalmente senza basi”, ha invece commentato Efraim Zuroff, direttore del Centro Wiesenthal di Gerusalemme. “Che il Muftì spingesse sui nazisti e volesse l’invasione della Palestina è fuori discussione, ma Hitler non doveva essere convinto da nessuno”.

“Non ho avuta alcuna intenzione di sollevare Hitler dalla responsabilità per l’Olocausto e la Soluzione Finale”, ha in seguito precisato Netanyahu.

Fonti:

http://www.huffingtonpost.it/2015/10/21/netanyahu-palestinesi-hitler_n_8344490.html

16 ottobre 2016: La necessità della memoria,   https://diariealtro.it/?p=4656

13 luglio 2016 ‘Uso politico del negazionismo’   https://diariealtro.it/?p=4472

16 settembre 2016 ‘Appello agli ebrei nel mondo’ https://diariealtro.it/?p=4595

24 Ottobre 2016Permalink