25 agosto 2024 Predicazione di apertura del Sinodo della pastora Sophie Langeneck

Quando fu vicino alla città, alla discesa del monte degli Ulivi, tutta la folla dei discepoli, con gioia, cominciò a lodare Dio a gran voce per tutte le opere potenti che avevano viste, dicendo: «Benedetto il Re che viene nel nome del Signore; pace in cielo e gloria nei luoghi altissimi!»

Alcuni farisei, tra la folla, gli dissero: «Maestro, sgrida i tuoi discepoli!» Ma egli rispose: «Vi dico che se costoro tacciono, le pietre grideranno».

(Luca 19: 37-40)

Care sorelle e cari fratelli,

quante volte ci è stato detto di stare zitti, che fosse meglio tacere, che non c’erano parole adeguate, anzi…ogni parola era inopportuna, fastidiosa, stucchevole, di troppo, perché la nostra parola può essere scomoda, creare dissenso, seminare dubbio ed essere divisiva.

Ecco, questo deve essere ciò che hanno pensato i farisei, quando hanno chiesto a Gesù di sgridare e far tacere i suoi discepoli.

Ma Gesù risponde loro con una frase che è la pietra miliare di ogni confessione di fede, e può diventare un motore per la nostra testimonianza: “se anche questi tacciono, le pietre grideranno!”. Quando anche i discepoli non potessero parlare di Gesù, non testimoniassero del Regno dei cieli, lo farebbero le pietre del selciato dell’ingresso di Gerusalemme.

Per i farisei sentire acclamare Gesù come re, assistere alla folla che lo loda con canti di festa, lui che è re di un regno senza confini, fa proprio rabbia.

Alla rabbia dei farisei Gesù risponde con una frase quasi incendiaria, con una provocazione: “se anche questi tacciono, le pietre grideranno!”.

Questa frase però è anche una dimostrazione del potere nuovo e diverso di Gesù rispetto all’autorità che zittisce e condanna al silenzio. Gesù invita a prendere la parola, non per piacere agli altri o per mettersi in mostra ma per dare un messaggio rivoluzionario, pericoloso, scandaloso in ogni tempo: Gesù è il re di un regno inimmaginabile, un regno dove non c’è sopraffazione, dove non c’è chi controlla e chi è controllato, chi abusa e chi è abusato, chi combatte e chi si difende, chi si vendica e chi è vendicato.

La provocazione resta tale anche per i lettori del Vangelo di ogni tempo, è un balsamo per tutti coloro che si sentono dei credenti imperfetti e impacciati: a prescindere dall’efficacia della loro testimonianza i fatti diranno che Gesù è il re della storia.

È una sfida per ogni credente, quella di cogliere i segni della salvezza ed esprimere anche il giudizio di Dio sulla storia umana con la propria voce che è più udibile di quella di una pietra. Ma spesso rimaniamo assordati nel silenzio dei nostri pensieri e diventiamo complici del “non voler disturbare”, ci nascondiamo dietro il tanto altro che abbiamo da fare.

Eppure dobbiamo ripartire dalla vocazione che abbiamo ricevuto, non solo chi tra noi è pastore, teologo, predicatrice, ma tutti e tutte noi credenti siamo chiamati ad annunciare l’Evangelo, anche quando questo compito si fa irriverente, scomodo!

Le pietre del selciato di Gerusalemme, vicino al monte degli ulivi, avrebbero gridato tutta la regalità di Gesù di Nazareth, il figlio di Dio venuto dalla Galilea, avrebbero acclamato il messia della periferia.

Il fatto che Gesù sia re di un regno senza confini e senza corona rivela tutta la fragilità e la disumanità dei regni di cui è stata costellata la storia, regni che spesso hanno usato proprio Gesù e Dio per legittimare il loro potere. Gesù è re dei giudei ma non in alternativa all’impero romano; è re del Regno di Dio, suo Padre, un regno i cui sudditi sono chiamati ad annunciare, a collaborare e costruire, in cui non c’è un potere oppressivo e un confine territoriale, neppure temporale, ma si vive l’utopia dell’amore di Dio per ognuno e ciascuna.

Se Gesù è re, allora nessun regno di questo mondo è veramente legittimo, vorrei dire: nessun potere di questo mondo ha autorità.

La teologia luterana ortodossa certo non sarebbe d’accordo con questa mia affermazione, ma ritengo vero per noi oggi che nessun potere può sentirsi tutelato dal Deus vult, Dio lo vuole.

Nessun potere al mondo può credersi assoluto ma deve permettere alla “voce che disturba”, al dissenso, di elevarsi.

La voce che afferma che Gesù è il Re esprime la relatività di ogni potere umano esistente. Questa parola diventa scomoda e urticante per ogni potere e per ogni autorità: la regalità di Gesù si esercita nella potenza che si dimostra nella debolezza (2 Cor 12). La regalità di Gesù rimane così “spina nella carne” di ogni potere umano.

Possiamo dire che Dio è re per regnare in un regno che sfida e surclassa ogni potere umano perché è un regno di pace, di giustizia e di amore, un regno il cui re non ha scettro né corona, non ha cioè il potere esercitato con controllo e oppressione.

Un regno che non ha tempo perché è in ogni tempo, in ogni pagina della storia.

Nel Medioevo il teologo hussita Nicola da Dresda usa l’immagine forte delle pietre che gridano la testimonianza che mancava in quel tempo della storia, per difendere la parola pubblica e la predicazione delle donne in un tempo in cui, a qualche centinaio di chilometri, le donne che osavano un ruolo pubblico nella società erano accusate di stregoneria e qualche volta condannate al rogo.

Una pagina della storia del cristianesimo e del movimento valdese su cui spesso sorvoliamo; eppure il nesso tra le donne e le pietre è un nesso che nella storia valdese della testimonianza ritorna prepotente così come nel dibattito sinodale sul ministero pastorale e l’accesso alla Facoltà delle donne negli anni ’50: se l’Evangelo può essere annunciato da elementi inerti, tanto più lo possono fare le donne, se preparate.

Altri credenti hanno sentito le pietre gridare ancora novanta anni fa mentre i cristiano-tedeschi si piegavano al culto della persona del Führer; poco dopo anche in Casa valdese si discuteva la posizione della chiesa durante il fascismo. È stato necessario ritornare a Gesù Cristo, per la chiesa confessante, per la teologia della chiesa valdese.

E oggi che cosa grideranno le pietre?

Potremmo dire banalmente che gridano contro ogni guerra e ogni sopraffazione.

Eppure credo che ancora oggi grideranno di Gesù Cristo, il fondamento della nostra esistenza come chiesa e come comunità di credenti: se guardassimo a Gesù Cristo non ci pronunceremmo solo contro la guerra ma ci impegneremmo per costruire pace a partire dal nostro contesto prossimo, di relazioni personali e comunitarie.

Le pietre grideranno l’ingiustizia ma noi discepoli e discepole potremmo certamente metterci all’opera per una società che impari nuovamente a confrontarsi e discutere in un pluralismo di idee e opinioni, per una chiesa che non tema la secolarizzazione o l’estinzione.

A noi, care sorelle e cari fratelli,

questa promessa di un’evangelizzazione dal basso del selciato giunga come un antidoto allo scoraggiamento dei nostri piccoli numeri, della stabile decrescita.

Sia piuttosto un incoraggiamento a continuare a tessere rete e costruire legami per moltiplicare l’amore di Dio.

L’Evangelo di Gesù Cristo viene proclamato ogni volta che una squadra di Breakfast Time, un gruppo di volontari di ogni comunità distribuiscele colazioni ai senza tetto, ogni volta che come comunità locali cerchiamo di superare l’ingiusto svantaggio economico di chi è sempre più povero; ogni volta che ci impegniamo per la legalità non solo a parole; ogni volta che apriamo attività nuove per dire chi è il Dio di Gesù Cristo a persone che forse in chiesa e ad uno studio biblico non verrebbero mai.

E se persino le pietre, che sono gli esseri più immobili e inerti che possiamo immaginare, potranno testimoniare di Gesù, allora noi che potremmo mai dire di più?

Certamente potremo confessare il nostro peccato: l’ingiustizia, il conflitto, l’odio che abbiamo visto e taciuto, che abbiamo persino disseminato nel mondo, che non siamo riusciti ad arginare e allora sì che avremo parlato del regno di Dio, che Gesù Cristo ci ha annunciato.

La buona notizia che questa parola di Gesù ci offre è ancora una volta tutta la sua radicalità, e tutta la sua scomodità; eppure senza questa fatica, vana è la nostra fede.

Perché abbiamo avuto tutti e tutte almeno una volta la tentazione di ergerci noi personalmente a sovrani e governanti del nostro mondo anche solo per un minuto e invece è venuto il tempo di riconoscere il nostro peccato e annunciare al mondo una cosa che questi 850 anni di storia della chiesa valdese ci hanno mostrato in maniera chiara: la parola pubblica della chiesa si distingue dal brusio delle epoche storiche perché annuncia Gesù Cristo, un re senza corona con un potere diverso da quello del mondo.

Questa verità non diventerà mai relativa, e non verrà mai meno.

Amen.

26 Agosto 2024Permalink

22 dicembre 2023 _ Parlano i Patriarchi e le chiese di Gerusalemme

Una denuncia di tutte le azioni violente e un appello per chiederne la fine: è quanto contiene il Messaggio di Natale dei Patriarchi e dei Capi delle Chiese di Gerusalemme, diffuso oggi, nella Città santa. “Negli ultimi due mesi e mezzo – si legge nel testo – la violenza della guerra ha portato a sofferenze inimmaginabili per milioni di persone nella nostra amata Terra Santa. I suoi continui orrori hanno portato miseria e dolore inconsolabile a innumerevoli famiglie in tutta la nostra regione. La speranza sembra lontana e irraggiungibile”. Eppure, ricordano i leader religiosi, è “in un mondo simile che nostro Signore è nato per darci speranza. Dobbiamo ricordare che durante il primo Natale la situazione non era molto lontana da quella odierna. Così la Beata Vergine Maria e San Giuseppe ebbero difficoltà a trovare un luogo dove nascere il loro figlio. C’è stata l’uccisione di bambini. C’era un’occupazione militare. E c’era la Sacra Famiglia che veniva sfollata come rifugiata. Esteriormente, non c’era motivo di festeggiare se non la nascita del Signore Gesù”. “Questo è il messaggio divino di speranza e di pace che il Natale di Cristo ispira in noi”, ribadiscono i capi religiosi, ed “è in questo spirito natalizio che denunciamo tutte le azioni violente e chiediamo la loro fine. Allo stesso modo invitiamo le persone di questa terra e di tutto il mondo a cercare le grazie di Dio affinché possiamo imparare a camminare insieme sui sentieri della giustizia, della misericordia e della pace. Infine, invitiamo i fedeli e tutti coloro di buona volontà a lavorare instancabilmente per il sollievo degli afflitti e per una pace giusta e duratura in questa terra che è ugualmente sacra alle tre fedi monoteiste”.

22 Dicembre 2023Permalink

4 giugno 2023 – Testi conciliari non più attuali

Faccio memoria per me di questi testi conciliari  quassi  totalmente rimossi dalla pratica della chiesa cattolica.
Certamente il linguaggio curiale non  ne aiuta  la  conoscenza ma nulla impedirebbe di proporli attualizzandoli  nell’espressione –
Il che non si vuol fare  soprattutto quando si  parla di diritti  umani fondamentali
Il silenzio ostentato  e praticato dai vertici /Conferenza episcopale  Italiana ) alla base del modo cattolico, sia clero che laici, fa male

CRISTIANI

«Ai laici spettano propriamente, anche se non esclusivamente, gli impegni e le attività temporali. Quando essi, dunque, agiscono quali cittadini del mondo, sia individualmente sia associati, non solo rispetteranno le leggi proprie di ciascuna disciplina, ma si sforzeranno di acquistare una vera perizia in quei campi. Daranno volentieri la loro cooperazione a quanti mirano a identiche finalità. Nel rispetto delle esigenze della fede e ripieni della sua forza, escogitino senza tregua nuove iniziative, ove occorra, e ne assicurino la realizzazione. Spetta alla loro coscienza, già convenientemente formata, di inscrivere la legge divina nella vita della città terrena. Dai sacerdoti i laici si aspettino luce e forza spirituale. Non pensino però che i loro pastori siano sempre esperti a tal punto che, ad ogni nuovo problema che sorge, anche a quelli gravi, essi possano avere pronta una soluzione concreta, o che proprio a questo li chiami la loro missione; assumano invece essi, piuttosto, la propria responsabilità, alla luce della sapienza cristiana e facendo attenzione rispettosa alla dottrina del Magistero. Per lo più sarà la stessa visione cristiana della realtà che li orienterà, in certe circostanze, a una determinata soluzione. Tuttavia, altri fedeli altrettanto sinceramente potranno esprimere un giudizio diverso sulla medesima questione, come succede abbastanza spesso e legittimamente. Ché se le soluzioni proposte da un lato o dall’altro, anche oltre le intenzioni delle parti, vengono facilmente da molti collegate con il messaggio evangelico, in tali casi ricordino essi che nessuno ha il diritto di rivendicare esclusivamente in favore della propria opinione l’autorità della Chiesa» (Gaudium et Spes, n. 43).

LA CHIESA

«La Chiesa tuttavia, non desidera affatto intromettersi nel governo della città terrena. Essa non rivendica a se stessa altra sfera di competenza, se non quella di servire gli uomini amorevolmente e fedelmente, con l’aiuto di Dio» (Ad gentes, n. 12)

«La Chiesa non pone la sua speranza nei privilegi offertile dall’autorità civile. Anzi essa rinunzierà all’esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti, ove constatasse che il loro uso può far dubitare della sincerità della sua testimonianza o nuove esigenze esigessero altre disposizioni» (Gaudium et Spes, n. 76).

4 Giugno 2023Permalink

21 maggio 2023: Rapito — Il caso del bambino Edgardo Mortara diventa un film

Leggo , riportate fra le numerose  notizie da “pagine ebraiche” del 21 maggio 2015:

Bokertov 21 Maggio 2023 – 1 Sivan 5783

Il caso Mortara. Sarà presentato il 23 maggio in anteprima a Cannes il film di Marco Bellocchio “Rapito” dedicato alla vicenda di Edgardo Mortara, il bambino ebreo sottratto con la forza dalla Chiesa di Pio IX alla sua famiglia. Tra i protagonisti del film, l’attore Filippo Timi, che interpreta il cardinale Antonelli, consigliere di Pio IX. Timi, intervistato da L’Espresso, del film afferma che alla base “c’è un tema molto umano, la sottrazione di un bambino alla propria famiglia, alla propria mamma, confesso che quando ho visto il film ero in lacrime. Ma ho trovato stupenda anche la figura del Papa:

il film mostra il crollo del potere della Chiesa, la scena con un enorme muro abbattuto ne è potente metafora”.
Rispetto al caso Mortara, Repubblica Bologna segnala come in città vi sia la mostra “Il ratto del fanciullo. Il caso Mortara e la Bologna ponti ficia nei documenti dell’Archiginnasio” che ricostruisce la vicenda contestualizzandone i luoghi, l’eco mediatica, il processo.

Daniel Reichel

https://mail.google.com/mail/u/0/#inbox/FMfcgzGsmhXrprzSFKRnbdSQNbWTmWph

Il mio blog diariealtro ne aveva già parlato

https://diariealtro.it/?p=7454

Aggiungo da pagine ebraiche –  Moked

moked/מוקד il portale dell’ebraismo italiano

Rapimento di Edgardo Mortara,

un sopruso che parla al presente

Pubblicato in Attualità il ‍‍22/05/2023 – 2 סיון 5783

“La storia del rapimento di Edgardo Mortara è talmente atroce che, se non fosse vera, nessuno ci crederebbe”. Un dramma, la riflessione del giornalista Daniele Scalise, in primo luogo per la prima vittima di questa vicenda: il piccolo Edgardo, strappato alla famiglia dalla Chiesa di Pio IX. “La lotta della famiglia per riaverlo, il ruolo del papa, poi il suo diventare un prete, ma odiato da tutto l’ambiente cattolico in cui si trovava. Un storia da romanzo”. E da cui Scalise – dopo aver firmato il saggio storico Il caso Mortara (ed. Mondadori) a cui si è ispirato il regista Marco Bellocchio per il suo “Rapito” (in concorso a Cannes)- ha effettivamente tratto un romanzo: Un posto sotto questo cielo (Longanesi), presentato in anteprima al centro sociale della Comunità ebraica di Torino nei giorni del Salone del Libro. Un’iniziativa organizzata in collaborazione con l’Associazione Italia-Israele di Torino. A dialogare con l’autore, dopo i saluti del presidente della Comunità torinese Dario Disegni e del presidente della Associazione Italia-Israele locale Dario Peirone, la studiosa Elèna Mortara. “Una storia atroce e incredibile”, ha ricordato Disegni. Eppure vera e soprattutto, ha messo in evidenza Mortara, pronipote di Edgardo, un caso dall’impatto internazionale. “La battaglia per riavere Edgardo (che poi riallacciò i contatti con i suoi cari) fu in definitiva perduta, ma la guerra per l’Emancipazione ebraica, su cui questo caso ebbe grande influenza, fu vinta: il rapimento generò una reazione internazionale. I cattolici liberali si schierarono al fianco della minoranza perseguitata e contro la cultura dominante. Non un fatto scontato che parla di una lotta ancora attuale”, la riflessione di Mortara, autrice sul caso Writing for Justice: Victor Séjour, the Kidnapping of Edgardo Mortara, and the Age of Transatlantic Emancipations, premiato con il riconoscimento europeo “American Studies Network Book Prize”.

Attraverso un’attenta analisi del romanzo di Scalise, Mortara ha ricordato al pubblico quanto sia in genere poco consapevole dell’importanza di questa vicenda. E come “non sia una storia così lontana: Edgardo (nato nel 1851 e sottratto dalle autorità pontificie alla famiglia nel 1858) è morto nel 1940 e nella mia famiglia la sua storia era molto presente. Era lo ‘zio prete’ con tutta le contraddizioni che questa definizione può assumere in una famiglia ebraica”. Se la memoria di questo rapimento, emblema dell’abuso della Chiesa di Pio IX sulla minoranza ebraica, era sempre ben chiaro nella memoria familiare, molto meno lo è in quella collettiva italiana. “Spero che la nuova attenzione, tra questo nuovo romanzo di Scalise e il film di Bellocchio, restituisca la giusta consapevolezza di questo passato”. Che parla al presente perché è rimasta una ferita aperta. E lo dimostra, ha rilevato Scalise, l’atteggiamento odierno della Chiesa: due voci autorevoli a cui il giornalista si era rivolto per capire come la questione oggi venga percepita nel mondo cattolico si sono rifiutate di parlare. Il suo ultimo lavoro in ogni caso è un romanzo e non una ricostruzione storica fedele, tiene a precisare, anche alla luce di alcuni elementi critici messi in luce da Elèna Mortara. “Mi sono preso abusivamente e con piacere la libertà di inventare. Quello che mi interessava era immaginare la devastazione di quest’uomo, Edgardo, sfruttando quegli appunti dei suoi diari di cui ero riuscito a leggere alcuni passaggi. Pagine in cui si vedeva l’odio che lui suscitava, diventato prete, negli altri sacerdoti, nei superiori. In cui si raccontava dell’umiliazione subita per mano di Pio IX, che non aveva desiderio di averlo accanto. Un uomo che non riusciva a trovare un suo posto sotto questo cielo”. Edgardo fu strappato alla famiglia sulla base di un presunto battesimo fatto in segreto da una domestica. I gendarmi pontifici il 23 giugno del 1858 si presentarono nella casa bolognese dei Mortara e portarono via il bambino. Sopruso che divenne emblema della violenza pontificia sulla minoranza ebraica e generò reazione in tutto il mondo ebraico e non solo, come hanno sottolineato Scalise e Mortara.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

21 Maggio 2023Permalink

26 luglio 2022 _ Leggere il presente con Dietrich Bonhoeffer

Il Regno  15 luglio 2022   Mariapia Veladiano   Rimane il rischio

Il Prologo di Resistenza e resa (Queriniana, Brescia, 2002. Traduzione di Maria Cristina Laurenzi) si intitola Dieci anni dopo (pp. 21-40), e in poche pagine densissime Dietrich Bonhoeffer riflette su che cosa abbia portato al disastro assoluto dell’avvento del nazismo. I dieci anni sono quelli trascorsi da quando Hitler ha preso il potere. In questi anni Bonhoeffer si è separato dalla Chiesa nella quale si era formato, traditrice e asservita al Führer, si è speso nella Chiesa confessante – quella parte della Chiesa protestante che attraverso un lungo e sofferto percorso di chiarificazione si staccò dalla Chiesa del Reich – è entrato a far parte della resistenza dell’Ammiraglio Canaris. Senza sforzo le pagine folgoranti di Bonhoeffer possono essere rilette con uno sguardo rivolto al nostro tempo.

– «La grande mascherata del male ha scompaginato tutti i concetti etici. Per chi proviene dal mondo concettuale della nostra etica tradizionale il fatto che il male si presenti nella figura della luce, del bene operare, della necessità storica, di ciò che è giusto socialmente, ha un effetto semplicemente sconcertante». All’epoca il bene operare era il sogno della rivincita tedesca, la riconquista e l’espansione come spazio vitale del popolo, con Dio al proprio fianco, Gott mit Uns.

Nei nostri tempi secolarizzati Dio non lo invoca nessuno e chi lo fa spesso lo fa con malizia e strumentalmente, ma il resto c’è. Il mito di un progresso che diventa rapina, verso la massa dei poveri, eppure continua, che inquina e si mangia il pianeta, eppure continua, che crea ingiustizie crescenti, eppure continua, perché questa è la modernità, brilla come fosse luce e bene e ci ottunde il giudizio. La mascherata del male.

– Poi c’è «il “fanatismo etico”. Il fanatico crede di potersi opporre al potere del male armato della purezza del principio». I nostri principi non negoziabili, vivisezionati e isolati dalla storia che sola li rende intelligibili, di volta in volta piegati a qualche demagogia che vuol salvare il mondo negandone la complessità. Ma non c’è purezza del principio, c’è la storia, la bellezza multiforme di una storia che chiede di esser ascoltata e accolta con le sue ombre.

– «L’uomo della coscienza – invece – si difende solitario dallo strapotere delle situazioni di emergenza davanti alle quali è richiesta la decisione». Ma non ce la fa, perché sono «troppo innumerevoli e seducenti» i travestimenti del male e si perde da solo e allora finisce con il mentire a sé stesso per non disperarsi: «Una cattiva coscienza può essere più salutare e più forte di una coscienza ingannata».

– Poi c’è il dovere. «Ciò che viene ordinato appare in questo contesto come la cosa più certa; dell’ordine è responsabile solo chi lo impartisce, non chi lo esegue». Nessuna responsabilità personale, la disumanizzazione burocratica degli uffici pubblici contemporanei, non dipende da me, non dipende da me. La spersonalizzazione dei poteri, per cui non si sa nemmeno a chi si sta obbedendo.

Poi «c’è chi, sfuggendo al confronto pubblico, sceglie il rifugio della virtù privata. Ma costui deve chiudere occhi e bocca davanti all’ingiustizia che lo circonda». Il ritiro nel privato, il mio bene, non rubo, non picchio, non uccido. Il perbenismo assopito di una classe (media) che coltiva il proprio, dentro il recinto di casa. Operazione impossibile perché la complessità della realtà intanto uccide i poveri, avvelena il pianeta, e fa bruciare il mondo e chissà se si salverà.

– E la ragione? «Palese è il fallimento delle persone “ragionevoli” che, animate dalle migliori intenzioni ma misconoscendo ingenuamente la realtà, credono di poter rimettere in piedi tutta la dissestata impalcatura servendosi di una dose di ragione». Qui c’è la diffidenza di Bonhoeffer verso la ragione che è sempre ragione caduta e quindi incapace di sollevarsi sopra sé stessa. Non basta a salvare il mondo dal male, serve qualcosa di straordinario.

Ma c’è ancora tempo? O abbiamo perso troppo tempo? Certo, essere pessimisti sembra più saggio, scrive, perché non espone al ridicolo del pronostico fallito, ma «nessuno deve disprezzare l’ottimismo inteso come volontà di futuro, anche quando questo dovesse condurre cento volte all’errore». Il pessimismo blocca l’azione responsabile, non va bene pensare che tutto è perduto. Quanto al tempo, «tempo perduto è il tempo non messo a frutto, il tempo vuoto», scrive Bonhoeffer.

Chissà che cosa direbbe oggi, ma quello che scrive nel 1943 sembra ancora una risposta per noi: «La memoria e la riconsiderazione della lezione appresa fanno parte di una vita responsabile». Lo straordinario che serve al mondo soffocato dal male per lui è chiaramente l’azione di fede responsabile: «Io credo che Dio può e vuole far nascere il bene da ogni cosa… Io credo che in ogni situazione critica Dio vuole darci tanta capacità di resistenza quanta ci è necessaria… In questa fede dovrebbe essere vinta ogni paura del futuro».

Qualsiasi cosa abbiamo perso, quel che resta è l’azione responsabile che rischia, rischia la coscienza, il dovere, la virtù, per chi crede rischia anche di dover uscire dai binari sicuri del preservarsi una dimensione di santità. Rischia e si affida alla misericordia.

Ci sono cristiani così nel tempo presente? O stiamo scappando? La lettera del 30 aprile 1944, quella in cui annuncia il tema del mondo non-religioso, Bonhoeffer chiude con la citazione di Pr 24,11ss: «Libera quelli che sono condotti alla morte/e salva quelli che sono trascinati al supplizio. / Se tu dicessi: “Io non lo sapevo”, / credi che l’intenda colui che pesa i cuori? / Colui che veglia sulla tua vita lo sa; egli renderà a ciascuno secondo le sue opere».

Nessuna fuga possibile per il cristiano, dice Bonhoeffer, nessun ritiro dalla responsabilità spacciata per devozione.

 

https://www.alzogliocchiversoilcielo.com/2022/07/mariapia-veladiano-rimane-il-rischio.html

26 Luglio 2022Permalink

7 aprile 2022 – Giancarla Codrignani fra l’ecumenismo velleitario e l’elogio di Erasmo da Rotterdam

QUALE BILANCIO DEL NOSTRO VELLEITARIO ECUMENISM?                          Aprile 2022
Giancarla Codrignani

Li chiamiamo “fratelli ortodossi” ma oggi, per colpa di una guerra, chi sono davvero per noi? Francesco conferma l’abbraccio ai “fratelli”, ma non può, anche se vorrebbe, ripetere la mediazione che fu possibile a Giovanni XXIII quando il mondo rabbrividì per il pericolo dell’istallazioni di missili balistici sovietici a Cuba, una provocazione piena di minacce per gli Usa di Kennedy e la Russia di Krusciov: era il 1962 e la logica delle sfide e relativo onore da salvare – che connota i maschi e anche i governi (oggi contagia anche la vicepresidente americana Pamela Harris)- imponeva la risposta armata, un’altra guerra “mondiale” vent’anni dopo la “seconda”.
A nulla erano valsi i tentativi e i Due Grandi – che non volevano arrivare all’amato ok corral anche nel Far West americano – trovarono non indecoroso cedere al Papa.
Oggi Francesco non può permetterselo. La chiesa ortodossa ha sofferto il dramma dello scisma del patriarcato di Kiev che nel 2019 si è proclamato “autocefalo” ottenendo la legittimazione del patriarcato di Alessandria e degli ortodossi greci, non dal patriarcato istituzionale di Costantinopoli.  L’azione anarchica e, soprattutto, nazionalista dell’ortodossia ucraina si è di fatto resa responsabile del distacco politico dal patriarcato di Mosca da cui dipendeva.
Una vertenza sull’autocefalia non fa ridere, tanto più in questo momento e nonostante il buon senso che vorrebbe le chiese disimpegnate dagli interessi dei governanti. In questi giorni non si tratta più, infatti, di questioni teologiche, ma di quel potere che non è solo giuridico e canonico, ma amministrativo e politico. Il patriarca di Mosca Kiril nega la legittimazione del patriarcato di Kiev nel momento in cui è chiara la sua opposizione alla Russia di Putin e allo stesso modo il dittatore post sovietico intende recuperare a gloria della Santa Madre Russia, l’impero russo zarista con la benedizione del patriarca di Mosca. Solo che la fraternità e la comunione se ne vanno senza Cristo dietro la guerra.

intanto anche noi siamo rimasti fuori dal cuore dell’ecumenismo. Bisogna che confessiamo di essere clericali: preghiamo, studiamo (pochi) teologia ecumenica, facciamo bellissimi convegni.
In realtà siamo sempre noi (cattolici) la maggioranza; inevitabile, ma anche poco sensibili alla solitudine ignara del mondo cattolico di base non coinvolto nella ricerca di una fraternità confessionale di reciproca libertà. In genere nelle parrocchie non si conosce neppure il significato dell’impegno: siamo prigionieri della tradizione “colta” di una pratica detta “ecumenica”, che, se vuol dire universale, sarebbe meglio tradurla. Ma, di fatto, mi sento – proprio per il mio interesse rimasto di nicchia oggi più di quando il Sae prese il volo con Maria Vingiani – in difficoltà: sono arrivati tanti ortodossi in questo mese di guerra, tutti accolti con emozione condivisa, per la libertà dell’Ucraina. Ma la maggioranza degli arrivati trova qui da noi i/le parenti che lavorano in Italia: molte badanti hanno potuto accogliere la madre o la sorella con i bambini per la generosità delle famiglie dove da anni curano un nostro anziano.

Ma non le abbiamo mai viste alle nostre riunioni.

Ai margini, per chi cerca di dare senso all’ecumenismo, c’era stato il caso di Bose.
La formula postconciliare della Comunità monastica di Enzo Bianchi si è modificata diventando “monastero”, una trasformazione chiaramente alternativa anche sul piano della spiritualità e delle tematiche di studio. La Comunità era nata mista, comprensiva di uomini e di donne, non era riservata a soli presbiteri (l’abate Enzo Bianchi non lo è) e nemmeno ai soli cattolici. Infatti nell’attività di ricerca privilegiava la relazione e lo studio dell’ortodossia. Ricordando questa “fratellanza” sempre aperta alla partecipazione, non si può non pensare all’importanza che poteva avere la relazione con i vari patriarcati nella tragedia della guerra attuale che ha sciaguratamente approfondito il solco tra Kiev e Mosca anche sul versante religioso cristiano. La chiesa di Mosca invece di accogliere l’unità di fede come sostegno comune nella situazione blasfema della guerra, ha scelto di accettare la sfida e seguire la tradizione conservatrice che vuole l’Occidente corrotto e immorale e il primato della madre Russia. Anche se Papa Francesco, dopo essere stato bloccato dalla tensione tra i patriarcati, riuscirà, senza interferire in casa altrui, a richiamare Kiril all’abbraccio cristiano con il papa cattolico romano, la guerra estrema farà pagare cari i suoi costi, tra cui la frustrazione di quando i conflitti entrano nelle chiese.

LA GUERRA 12  è passato un mese dall’inizio  Giancarla Codrignani

La storia che abbiamo alle spalle, ma anche la testimonianza della libertà di opinione:

Nel 1511 esce l’Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam .

Non si usa più far miracoli: roba d’altri tempi. Insegnare ai fedeli è faticoso; interpretare le Sacre Scritture è lavoro da farsi a scuola; pregare è una perdita di tempo; spargere lacrime è misero e femmineo; vivere in povertà̀ è spregevole. Turpe la sconfitta e indegna di chi a mala pena ammette il re al bacio dei suoi piedi beati: infine, spiacevole la morte, e infamante la morte sulla croce.

Rimangono solo le armi e le “dolci  benedizioni” di cui parla san Paolo, e di cui fanno uso con tanta larghezza: interdetti, sospensioni, condanne aggravate, anatemi, esposizione di ritratti a titolo di vergogna, e quella tremenda folgore con cui, a un cenno del capo, mandano le anime dei mortali all’inferno e oltre. Di quella folgore, i santissimi padri in Cristo, e di Cristo vicari, si servono col massimo della violenza, soprattutto contro coloro che, per diabolico impulso, tentano di rimpicciolire e rosicchiare il patrimonio di Pietro. Benché́ le parole dell’Apostolo nel Vangelo siano: “Abbiamo abbandonato tutto e ti abbiamo seguito”, essi identificano il patrimonio di Pietro con i campi, le città, i tributi, i dazi, il potere. E mentre, accesi dall’amore di Cristo, combattono per queste cose col ferro e col fuoco, non senza grandissimo spargimento di sangue cristiano, credono di difendere apostolicamente la Chiesa, sposa di  Cristo, annientando da valorosi quelli che chiamano i nemici.

Come se la Chiesa avesse nemici peggiori dei pontefici empi; di Cristo non fanno parola: fosse per loro, svanirebbe nell’oblio; legiferando all’insegna dell’avidità, lo mettono in catene; con le loro interpretazioni forzate ne alterano l’insegnamento; coi loro turpi costumi lo uccidono.

Poiché́ la Chiesa cristiana è stata fondata, rafforzata e ingrandita col sangue, ora, come se Cristo fosse morto lasciando i fedeli senza una protezione conforme alla sua legge, governano con la spada, e, pur essendo la guerra una cosa tanto crudele da convenire alle belve più che agli uomini, tanto pazza che anche i poeti hanno immaginato fossero le Furie a scatenarla, così rovinosa da portare con sé la totale corruzione dei costumi, tanto ingiusta da offrire ai peggiori predoni la migliore occasione di affermarsi, tanto empia da non avere nulla in comune con Cristo, tuttavia, trascurando tutto il resto, fanno solo la guerra. Si possono vedere vecchi decrepiti che, inalberando un vigoroso spirito giovanile, non si sgomentano davanti alle spese, non cedono alle fatiche, non indietreggiano di un pollice se si trovano a mettere a soqquadro le leggi, la religione, la pace, l’intero genere umano. Né mancano colti adulatori, pronti a chiamare questa evidente follia zelo, pietà, fortezza, escogitando stratagemmi che permettono d’impugnare il ferro mortale e di immergerlo nelle viscere del fratello senza venir meno a quella suprema carità̀ che secondo il dettato di Cristo un cristiano deve al suo prossimo.

7 Aprile 2022Permalink

31 marzo 2022 – Sintetizzo alcune documentazioni che ho raccolto nel mio blog nei giorni precedenti e nel 2020

Per correttezza riporto i link anche alle pagine del mio blog, oltre che alle fonti.

30  marzo 2022  Da Il Mulino  12 marzo:
Le chiese in Ucraina e la sfida della pace ?                        di Adalberto Mainardi
https://www.rivistailmulino.it/a/le-chiese-in-ucraina-e-la-sfida-della-pace
https://diariealtro.it/?p=7895

Da Il Foglio  29 marzo 2022  Quella di Putin è la prima dichiarazione di guerra ufficiale all’omosessualità                di  Adriano  Sofri
https://www.ilfoglio.it/piccola-posta/2022/03/29/news/quella-di-putin-e-la-prima-dichiarazione-di-guerra-ufficiale-all-omosessualita–3853885/
https://diariealtro.it/?p=7893

Avevo sfiorato l’argomento (in un contesto evidentemente diverso ) nel 2020 e riporto quanto scritto nel mio blog:

« 13 giugno 2020   Quanto i vescovi non dicono il vero
Provo a scrivere le mie sempre più sconsolate considerazioni in merito all’intreccio pericoloso e per me inaccettabile sulle motivazioni con cui i Vescovi italiani si oppongono alla proposta di legge
“ … contrasto dell’omofobia e della transfobia  nonché delle altre discriminazioni riferite all’identità sessuale” (C 107) .
I vescovi non attaccano frontalmente la proposta, la aggirano affermando –  che “non si riscontra alcun vuoto normativo o lacune – che giustifichino l’urgenza di nuove disposizioni»..
https://diariealtro.it/?p=7334

L’affermazione precedente non è vera:  la violenza omofobica è sempre presente e documentata  e il vuoto normativo c’è:  ci sono nati in Italia cui viene negato per legge il nome e l’identità riconosciuta.
E anche questa (a mio parere) è violenza.

Le “nuove disposizioni” che chiedo da anni (devo dire in un clima di sconsolante isolamento quale spetta a una vecchia pensionata)  riguardano l’abrogazione dell’art. 1 comma 22 lettera  G della legge 94/2009 (“Disposizioni in materia di sicurezza pubblica”) . Tale norma , imponendo la presentazione del permesso di soggiorno per la registrazione dell’atto di nascita di un figlio  in Italia ,  può  ridurre  genitori non comunitari irregolari a uno stato di paura tale da  indurli a  non registrare  la nascita di un loro bambino per non scoprire la loro condizione.
Esiste una circolare che consente ciò che la legge nega  ma è ben chiaro che non si può chiedere ai migranti di destreggiarsi fra leggi e circolari. Inoltre la circolare che porta il n. 19/2009 (Ministero dell’interno) NON è in alcun  modo diffusa.
Mentre preciso che l’abrogazione di cui ho scritto non comporta onere di spesa ed è sostanzialmente  la ripresentazione  del testo della cd legge Turco Napolitano, segnalo che ho ottenuto dalla consapevole cortesia del direttore della   Caritas  Italiana una informazione importante che mi ha consentito di proporre in un mio pubblico intervento, trascritto anche nel sito equal uniud diritto antidiscriminatorio dell’Università di Udine lo scorso gennaio.

Copio:
« Il dr. Forti, questo il suo nome, ha scritto ribadendo l’iscrizione alla nascita come diritto costituzionalmente garantito ma testimoniando nel contempo il fatto che l’efficacia della circolare non è assoluta.
Leggo  e trascrivo: “Ad oggi purtroppo non tutte la anagrafi seguono pedissequamente la citata circolare che stabilisce: Per lo svolgimento delle attività riguardanti le dichiarazioni di nascita e di riconoscimento di filiazione (registro di nascita – dello stato civile) non devono essere esibiti documenti inerenti al soggiorno trattandosi di dichiarazioni rese, anche a tutela del minore, nell’interesse pubblico della certezza delle situazioni di fatto».

 

 

 

31 Marzo 2022Permalink

30 marzo 2022 – LE CHIESE IN UCRAINA E LA SFIDA DELLA PACE

LE CHIESE IN UCRAINA E LA SFIDA DELLA PACE

12 MARZO 2022           Le chiese in Ucraina si presentano all’appuntamento della storia tragicamente divise. Chi sono e come vedono se stessi i cristiani in Ucraina? Come le chiese hanno risposto al conflitto?
Che cosa è cambiato con la guerra?                                                         di Adalberto Mainardi

Il panorama religioso dell’Ucraina contemporanea vede oltre cinquanta religioni ufficialmente registrate. Chiesa maggioritaria è la Chiesa ortodossa ucraina, canonicamente parte del Patriarcato di Mosca, ma con uno statuto di ampia autonomia accordato nel concilio episcopale del 1990 e confermato dal concilio locale della Chiesa ortodossa russa del 2009 (lo stesso che elesse l’attuale patriarca Kirill). Capo della Chiesa ortodossa ucraina è il metropolita di Kiev, consacrato dal patriarca di Mosca ma eletto dall’episcopato ucraino (l’attuale metropolita Onufrij Berezovskii è stato eletto nel 2014).

Nel 1992 si era però formata la Chiesa ortodossa ucraina-Patriarcato di Kiev, con un seguito di alcuni milioni di fedeli, non riconosciuta dalle altre chiese ortodosse. Inoltre nel 1990, dopo l’incontro con Giovanni Paolo II, Gorbačev legalizzò la Chiesa greco-cattolica ucraina, che poté uscire dalla clandestinità cui era stata costretta da Stalin nel 1946. La convivenza delle tre comunità negli anni Novanta fu caratterizzata da tensioni ed episodi di violenza, che si riverberarono sullo stesso dialogo teologico cattolico-ortodosso, con una lunga battuta d’arresto fino al 2006.

Ma è l’autocefalia della Chiesa ucraina il nodo attorno a cui si stringono i problemi dell’ortodossia contemporanea. Nel 2016 il concilio panortodosso di Creta non riusciva ad affrontare il problema di quale Chiesa avesse il diritto di concedere a un’altra l’autocefalia (cioè la piena indipendenza):
il patriarca ecumenico di Costantinopoli? O la Chiesa madre? O l’insieme delle Chiese ortodosse? Per motivi diversi, quattro Chiese ortodosse disertarono l’assise di Creta: Mosca, Antiochia, la Chiesa ortodossa bulgara e la Chiesa di Georgia. A livello panortodosso, il problema canonico della concessione dell’autocefalia rimase irrisolto e lo scisma della Chiesa ucraina drammaticamente aperto.

Dopo l’annessione russa della Crimea e la destabilizzazione del Donbass nel 2014, la spinta politica a creare una Chiesa ucraina autocefala «canonica» crebbe considerevolmente. La metropolia di Kiev, culla storica della Chiesa ortodossa russa, dipendeva canonicamente dal patriarca di Costantinopoli fino alla fine del XVII secolo, quando la situazione politica ne provocò il passaggio al patriarcato di Mosca (eretto nel 1589). Nel 2018, il patriarca ecumenico Bartolomeo ritenne di revocare il tomos patriarcale del 1686 che concedeva al patriarca di Mosca il privilegio di consacrare il metropolita di Kiev. I fedeli fino ad allora ritenuti scismatici della Chiesa ortodossa ucraina-Patriarcato di Kiev e della minoritaria Chiesa ortodossa autocefala ucraina furono accolti nella comunione con Costantinopoli e in un concilio, alla presenza di due esarchi nominati dal patriarca ecumenico, costituirono la Chiesa ortodossa d’Ucraina (15 dicembre 2018).

A questa Chiesa, nel gennaio 2019, Bartolomeo concesse l’autocefalia. L’evento fu salutato dall’allora presidente ucraino Petro Poroshenko, che l’aveva fortemente voluto, come un nuovo «battesimo della Rus’», e la nascita di «una Chiesa senza Putin, ma una Chiesa con Dio e con l’Ucraina». Il Patriarcato di Mosca reagì rompendo la comunione eucaristica con Costantinopoli  e con le Chiese che successivamente riconobbero la Chiesa ortodossa d’Ucraina (la Chiesa greca, il Patriarcato di Alessandria e la Chiesa di Cipro).

La Chiesa ortodossa ucraina, rimasta fedele a Mosca, fu oggetto di attacchi e discriminazioni. Un progetto di legge imponeva di rinominarla «Chiesa ortodossa russa in Ucraina» (una disposizione che avrebbe potuto privarla dell’antichissimo monastero delle Grotte di Kiev). Il capo delle relazioni esterne del Patriarcato di Mosca, metropolita Ilarion Alfeev, nell’aprile 2021 protestò energicamente: «Il centro di questa Chiesa non è Mosca, ma Kiev: è una Chiesa indipendente, elegge i propri vescovi e il proprio primate. Non è una Chiesa di russi, ma di ucraini».

La guerra di Putin ha agito come detonatore in una situazione ecclesiale attraversata da tensioni irrisolte.  Le reazioni delle Chiese le hanno rese manifeste

Non sorprendono i toni del primate della Chiesa ortodossa d’Ucraina, metropolita Epifanij («un cinico attacco […] nostro comune compito è respingere il nemico, difendere la patria, il nostro futuro dalla tirannia dell’aggressore»), o dell’Arcivescovo maggiore della Chiesa greco cattolica ucraina, Svjatoslav Sevchuk («il nemico fraudolento ha invaso il suolo ucraino, portando con sé morte e devastazione […] è sacro dovere di ciascuno difendere la patria […] La vittoria dell’Ucraina sarà la vittoria della potenza di Dio sulla bassezza e l’insolenza dell’uomo»).

Ma se Putin, che ancora il 21 febbraio definiva la Chiesa ortodossa ucraina «perseguitata» dal regime di Kiev, si aspettava da essa un appoggio, si sbagliava. In un appassionato appello «al presidente della Russia» nel giorno dell’invasione, il metropolita Onufrij chiede di «fermare immediatamente la guerra fratricida […] Una guerra simile non ha giustificazione né per Dio né per l’uomo». Se individua la responsabilità del presidente russo, il messaggio di Onufrij non cede alla tentazione di invocare da Dio la vittoria sul nemico. Non c’è un nemico da distruggere, ma un fratello che non abbiamo il diritto di uccidere.

Le parole di Onufrij hanno reso più imbarazzante il silenzio del patriarca Kirill, che solo la sera del 24 febbraio si rivolge ai «fedeli figli della Chiesa ortodossa russa» senza parlare di guerra («questi eventi», «sventura») ed esortando «tutte le parti in conflitto a fare il possibile per evitare vittime civili». La cautela di Kirill, del resto, è condivisa. L’Unione dei battisti russi nel suo appello per la pace sostituisce la parola «guerra» con l’espressione «situazione complicata ai confini con l’Ucraina».

La dichiarazione del patriarca è parsa insufficiente al suo stesso clero, se oltre 250 preti e monaci hanno sottoscritto un appello in cui chiedono «la cessazione della guerra fratricida in Ucraina»,
di non perseguire per legge chi manifesta per la pace, «perché questo è il comandamento divino: “Beati gli operatori di pace”». Il 28 febbraio il sinodo della Chiesa ortodossa ucraina domanda con insistenza al patriarca di Mosca di «dire la sua parola di primate sulla cessazione del versamento fratricida di sangue in Ucraina». Il 2 marzo il segretario generale del Consiglio ecumenico delle Chiese di Ginevra, Ioan Sauca, ortodosso romeno, chiede ufficialmente a Kirill «di mediare perché la guerra possa essere fermata», e di «far sentire la sua voce per i fratelli e le sorelle che soffrono».

Nell’omelia della Domenica del perdono (6 marzo), che precede l’inizio della Quaresima, il patriarca Kirill sembra rispondere a queste sollecitazioni. Parla del «deterioramento della situazione nel Donbass» e individua come ragione dell’ostilità verso la Repubblica separatista il suo intransigente rifiuto al gay pride, biglietto di ingresso nel felice mondo del consumismo e dell’apparente «libertà» (un’eco del discorso di Ivan Karamazov contro la teodicea della modernità?). La guerra in corso, sembra dire il patriarca, è una lotta escatologica tra il bene e il male, ne va «della salvezza umana, di dove l’umanità si colloca», tra i sommersi o i salvati, «alla destra o alla sinistra di Dio Salvatore, che viene nel mondo come Giudice e Datore della ricompensa». Non tutti se ne rendono conto, prosegue. Bisogna chiamare peccato ciò che è peccato. L’omosessualità è un peccato. Negarlo è defraudare Dio del suo ruolo di giudice.
Da otto anni, nel silenzio dell’Occidente, è in corso un genocidio nel Donbass (una guerra dimenticata che ha già fatto 19.000 vittime). La sofferenza degli abitanti del Donbass è la sofferenza dei martiri. Si tratta di «una lotta che non ha un significato fisico ma metafisico».

L’omelia del patriarca ha lasciato stupefatti molti commentatori. Certo, mentre chiede di pregare per il popolo ortodosso del Donbass, Kirill dimentica che in Ucraina c’è un altro popolo ortodosso che è il suo stesso gregge; quando ricorda che perdonare è cessare di odiare il nemico, non si accorge che sta costruendo un nemico «esterno» (l’Occidente corrotto) addossandogli la responsabilità «più pesante», cioè di allargare «l’abisso tra i fratelli, colmandolo di odio, malizia e morte» (la guerra tra Russia e Ucraina), e sta assolvendo il presidente russo.

Ma la sua parola non deve stupire. Non è, banalmente, la degradazione dell’ideale evangelico a poltiglia ideologica. È il coerente sviluppo dell’idea del «mondo russo» (Russkij mir), costruita all’inizio degli anni Duemila. Un’idea di civiltà e insieme un’impresa politica, che tiene insieme eredità culturale e valori religiosi, principi etici tradizionali e capacità performativa post-secolare, una versione 2.0 della «Idea russa» combinata con l’ideale romantico della «Santa Rus’», di cui sarebbero portatori i popoli usciti dal battesimo nel Dniepr, russi, ucraini, bielorussi, come un’unica civiltà con una specifica missione: testimoniare un’alternativa valoriale allo smarrimento etico dell’Occidente, che dietro l’ipocrita difesa dei diritti umani nasconde l’idolo unico del profitto. Non è casuale la consonanza con la persuasione putiniana che russi e ucraini (e bielorussi) siano un unico popolo, fratelli che non possono e non devono abitare in case straniere. Il patriarca del resto ha salutato con favore gli emendamenti alla Costituzione russa del 2020, che introducono la menzione di Dio (art. 67,1 comma 2), la difesa del matrimonio come unione tra uomo e donna (72, comma 1), la promozione dei valori tradizionali della famiglia (114, comma 1).

Il conflitto ucraino sta brutalmente mostrando che il «mondo russo» non è più armonico del mondo occidentale. L’unità religiosa non è rafforzata dalle bombe ma polverizzata. Numerose parrocchie e vescovi della Chiesa ortodossa ucraina hanno cessato di menzionare il nome del patriarca nell’anafora eucaristica. Il solco scavato dalla guerra tra il patriarca di Mosca e la Chiesa ortodossa ucraina sta però anche segnalando che le ragioni della divisione tra le Chiese in Ucraina non sono così profonde. Non toccano l’essenza della fede. Forse la tragedia della guerra può aiutare le Chiese a comprendere che il Vangelo chiede un parlare chiaro: sì, sì, no, no. Chiede di chiamare la guerra «guerra», il peccato «peccato». Di dire che la divisione è un peccato, che la guerra è un peccato. Che solo l’amore salva. Che l’invocazione della pace deve radicarsi nella verità e nella giustizia, nella promozione della libertà e della vita dell’altro.

https://www.rivistailmulino.it/a/le-chiese-in-ucraina-e-la-sfida-della-pace

30 Marzo 2022Permalink

28 ottobre 2020 Fratelli tutti – Commenti de La barba di Aronne e di Noi siamo chiesa

Il profumo della fratellanza. L’incontro interreligioso in Campidoglio

Chiesa di tutti Chiesa dei poveri 23/10/2020, 14:43

Newsletter n. 207 del 10 ottobre 2020

Dalla barba di Aronne

Care Amiche e Amici,

non era mai successo che la Repubblica Italiana – insieme al papato della Chiesa cattolica, al patriarcato di Costantinopoli, al Rabbino capo di Francia, al rappresentante del Grande Imam del Cairo, a un buddista giapponese, a una indù e a molti altri leader religiosi del mondo intero – firmasse un appello a tutte le altre Repubbliche e Regni per chiedere ai governi e a tutti gli uomini e le donne di passare a condotte di fraternità e di pace e costruire una sola umanità,  nella persuasione, che è anche una confessione di fede, che “nessuno si salva da solo”.

È accaduto martedì sera, e non in un’enclave religiosa come Assisi, ma a Roma, nella piazza del Campidoglio, che un tempo fu l’ombelico del mondo e dove dopo l’ultima guerra mondiale nacque l’unità dell’Europa, così come ora si vorrebbe che da lì nascesse l’unità del mondo.

Si dirà che questo evento, promosso dalla comunità di s. Egidio, ma con l’evidente regia e governo di papa Francesco, è stato un evento di vertice, senza partecipazione di popolo, che infatti non c’era a causa della pandemia; e tuttavia  il vero ospite dell’incontro è stato il popolo di Roma con il suo Comune, il suo retaggio e la sua Sindaca. Ed è verissimo che si è trattato di un’iniziativa dei leader, come se il mondo improvvisamente avesse trovato un bandolo, una guida; ma il movente non è stato il potere,  è stato che  “i fratelli vivano insieme”, ciò che, come dice il salmo delle Ascensioni, è ragione di soavità e di gioia e  “come olio profumato”  dal capo scende sulla barba, la barba di Aronne, e da lassù si spande in tutto il mondo, in modo che si faccia l’unità, perché non uno, non gli uni invece degli altri, non gli uni contro gli altri, ma tutti insieme siano salvi.

E non a caso negli straordinari discorsi dei leader, davvero ciascuno eco di culture diverse, sono stati convocati, per compiere l’impresa, il passato e il futuro. Papa Francesco ha evocato una sola parola di Gesù: «Basta!», la parola detta ai discepoli che volevano approvvigionarsi di spade. Il patriarca Bartolomeo ha chiamato in causa Anassìmene, il filosofo di Mileto del VI secolo a.C. che aveva individuato i quattro elementi su cui tutto si tiene, l’aria, l’acqua, il fuoco, la terra, per dire che se a tenerli insieme non è la casa comune, di cui dobbiamo aver cura, tutto si disintegra  ed esce dalla vita creata da Dio; e questa casa è come una casa di specchi, dove il volto di ciascuno riflette l’immagine di Dio e si riflette nel volto degli altri. Il Rabbino di Parigi ha ricordato un midrash in cui si racconta la nascita del tempio, e insieme lo si demitizza: c’erano due fratelli che avevano un campo di cui condividevano il raccolto, e ognuno voleva dare di più all’altro, sicché spesso si alzava di notte per andare ad aggiungere del proprio grano  altro grano al raccolto dell’altro, sicché i due cumuli risultavano sempre uguali; finché una notte essi si incontrarono, scoprirono il reciproco dono e si abbracciarono piangendo; e sulla terra bagnata da quelle lagrime Dio volle che fosse costruito il suo tempio; perciò  il tempio che ora si deve ricostruire è questa fraternità. Il presidente Mattarella ha messo in campo la Repubblica Italiana che «riconosce e onora» gli sforzi delle religioni per contribuire a un avvenire di sviluppo e di eguaglianza per le persone e i popoli, offrendo in tal modo una “testimonianza che è profezia”. E su tutti vegliava, con la mano stesa, Marco Aurelio, l’imperatore filosofo che aveva dato del povero la definizione più rigorosa: «colui che ha bisogno dell’aiuto altrui e non ricava da se stesso tutto ciò che è utile alla vita», il che equivale a dire che tutti siamo poveri, «nessuno si salva da solo».

E poi è successa una cosa straordinaria: il rappresentate del Grande Imam di Al Azhar, Ahmad Al Tayyeb, ha raccontato la scena, a cui ha assistito, di papa Francesco e l’Imam Al Tayyeb che si spartivano un pezzo di pane alla tavola del papa a Santa Marta. Certamente quello spezzar del pane non era stato preceduto in quel caso da alcuna formula di consacrazione; però se si pensa che il divieto della “communicatio in sacris” è il macigno che ancora rimane a impedire l’incontro ecumenico tra le diverse Chiese cristiane, si può misurare la portata profetica di questo comunicare nel pane tra il papa cristiano e l’imam islamico; qui, come nel pensiero comune che, per dichiarazione esplicita del papa ha contribuito ad ispirargli l’enciclica Fratelli tutti, siamo oltre il dialogo tra Islam e cristianesimo, siamo a una comunione in cammino.

Nel sito pubblichiamo una lettura di “Noi siamo Chiesa” dell’enciclica Fratelli tutti“Un appassionato appello all’unità umana”.

L’articolo che trascrivo viene dal sito di Adista       https://www.adista.it/articolo/64364

Per raggiungere l’articolo di Noi siamo chiesa, segnalato al termine del testo de La Barba di Aronne, trascrivo anche il link.  Merita veramente una lettura

https://www.chiesadituttichiesadeipoveri.it/un-appassionato-invito-allunita-umana

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28 Ottobre 2020Permalink

27 ottobre 2020 – Cominciò nel 2001

«Costruiamo una sola umanità!»: il 27 ottobre, XIX Giornata ecumenica del dialogo cristiano-islamico 

redazione 25/10/2020, 08:09

La Giornata  ecumenica del dialogo cristiano-islamico nasce dall’iniziativa di un gruppo di intellettuali, religiosi e professori universitari che nel 2001, all’indomani della tragedia delle Torri gemelle, decise di lanciare un appello al dialogo con l’islam. «Noi, cristiane e cristiani di diverse confessioni e laici, impegnati da anni nel faticoso cammino del dialogo coi musulmani italiani o in un lavoro culturale sull’islam – recitava il primo appello – crediamo che l’orrendo attentato di New York e Washington costituisca una sfida non solo contro l’Occidente ma anche contro quell’islam, largamente maggioritario in tutto il mondo, che si fonda sui valori della pace, della giustizia e della convivenza civile».

I promotori intendevano scongiurare «un allarme preoccupante», ossia che quanto accaduto potesse «mettere in discussione o rallentare il dialogo con i fratelli musulmani, compagni di strada sul cammino della costruzione di una società pluralista, accogliente, rispettosa dei diritti umani e dei valori democratici».

La Giornata giunge nel 2020 diciassettesima edizione e che, da alcuni anni, ricorre il 27 ottobre “nello spirito di Assisi”: il primo e grande incontro mondiale delle Religioni per la pace, voluto da papa Giovani Paolo II nel 1986 nella città umbra.

L’appello dei promotori per questa edizione rileva il fatto che: «dopo 19 anni siamo ancora a parlare di dialogo cristiano-islamico come fosse la prima volta. Ma molto è cambiato. Il nostro è stato un cammino importante e positivo. Il pensiero va ai tanti amici e amiche del dialogo che hanno costruito centinaia di iniziative dal nord al sud del paese, a chi non c’è più e a chi ha percorso con noi un pezzo di strada. E come il primo giorno sentiamo forte il bisogno di riscoprire l’umanità che tutti ci unisce. E come il primo giorno sentiamo forte il bisogno di impegnarci contro le guerre, la produzione delle armi e contro l’ingiustizia sociale che nega il lavoro, le cure mediche, distrugge l’ambiente e ogni spiritualità basata sul riconoscersi fratelli e sorelle con un’unica Madre Terra da amare e difendere».

La pandemia del covid-19 è stato «un segnale forte per tutta l’umanità – scrivono gli organizzatori -.  Ci ha detto con chiarezza che non siamo onnipotenti e che abbiamo bisogno gli uni degli altri per costruire una vita degna di essere vissuta. Occorre superare ogni discriminazione e affermare sempre che “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”(art. 3 Costituzione). Occorre fermare la guerra e la produzione di armamenti».

questa pagina è possibile leggere l’appello integrale..

https://www.ildialogo.org/cEv.php?=http://www.ildialogo.org/cristianoislamico/2020_1595665407.htm

27 Ottobre 2020Permalink