26 luglio 2022 _ Leggere il presente con Dietrich Bonhoeffer

Il Regno  15 luglio 2022   Mariapia Veladiano   Rimane il rischio

Il Prologo di Resistenza e resa (Queriniana, Brescia, 2002. Traduzione di Maria Cristina Laurenzi) si intitola Dieci anni dopo (pp. 21-40), e in poche pagine densissime Dietrich Bonhoeffer riflette su che cosa abbia portato al disastro assoluto dell’avvento del nazismo. I dieci anni sono quelli trascorsi da quando Hitler ha preso il potere. In questi anni Bonhoeffer si è separato dalla Chiesa nella quale si era formato, traditrice e asservita al Führer, si è speso nella Chiesa confessante – quella parte della Chiesa protestante che attraverso un lungo e sofferto percorso di chiarificazione si staccò dalla Chiesa del Reich – è entrato a far parte della resistenza dell’Ammiraglio Canaris. Senza sforzo le pagine folgoranti di Bonhoeffer possono essere rilette con uno sguardo rivolto al nostro tempo.

– «La grande mascherata del male ha scompaginato tutti i concetti etici. Per chi proviene dal mondo concettuale della nostra etica tradizionale il fatto che il male si presenti nella figura della luce, del bene operare, della necessità storica, di ciò che è giusto socialmente, ha un effetto semplicemente sconcertante». All’epoca il bene operare era il sogno della rivincita tedesca, la riconquista e l’espansione come spazio vitale del popolo, con Dio al proprio fianco, Gott mit Uns.

Nei nostri tempi secolarizzati Dio non lo invoca nessuno e chi lo fa spesso lo fa con malizia e strumentalmente, ma il resto c’è. Il mito di un progresso che diventa rapina, verso la massa dei poveri, eppure continua, che inquina e si mangia il pianeta, eppure continua, che crea ingiustizie crescenti, eppure continua, perché questa è la modernità, brilla come fosse luce e bene e ci ottunde il giudizio. La mascherata del male.

– Poi c’è «il “fanatismo etico”. Il fanatico crede di potersi opporre al potere del male armato della purezza del principio». I nostri principi non negoziabili, vivisezionati e isolati dalla storia che sola li rende intelligibili, di volta in volta piegati a qualche demagogia che vuol salvare il mondo negandone la complessità. Ma non c’è purezza del principio, c’è la storia, la bellezza multiforme di una storia che chiede di esser ascoltata e accolta con le sue ombre.

– «L’uomo della coscienza – invece – si difende solitario dallo strapotere delle situazioni di emergenza davanti alle quali è richiesta la decisione». Ma non ce la fa, perché sono «troppo innumerevoli e seducenti» i travestimenti del male e si perde da solo e allora finisce con il mentire a sé stesso per non disperarsi: «Una cattiva coscienza può essere più salutare e più forte di una coscienza ingannata».

– Poi c’è il dovere. «Ciò che viene ordinato appare in questo contesto come la cosa più certa; dell’ordine è responsabile solo chi lo impartisce, non chi lo esegue». Nessuna responsabilità personale, la disumanizzazione burocratica degli uffici pubblici contemporanei, non dipende da me, non dipende da me. La spersonalizzazione dei poteri, per cui non si sa nemmeno a chi si sta obbedendo.

Poi «c’è chi, sfuggendo al confronto pubblico, sceglie il rifugio della virtù privata. Ma costui deve chiudere occhi e bocca davanti all’ingiustizia che lo circonda». Il ritiro nel privato, il mio bene, non rubo, non picchio, non uccido. Il perbenismo assopito di una classe (media) che coltiva il proprio, dentro il recinto di casa. Operazione impossibile perché la complessità della realtà intanto uccide i poveri, avvelena il pianeta, e fa bruciare il mondo e chissà se si salverà.

– E la ragione? «Palese è il fallimento delle persone “ragionevoli” che, animate dalle migliori intenzioni ma misconoscendo ingenuamente la realtà, credono di poter rimettere in piedi tutta la dissestata impalcatura servendosi di una dose di ragione». Qui c’è la diffidenza di Bonhoeffer verso la ragione che è sempre ragione caduta e quindi incapace di sollevarsi sopra sé stessa. Non basta a salvare il mondo dal male, serve qualcosa di straordinario.

Ma c’è ancora tempo? O abbiamo perso troppo tempo? Certo, essere pessimisti sembra più saggio, scrive, perché non espone al ridicolo del pronostico fallito, ma «nessuno deve disprezzare l’ottimismo inteso come volontà di futuro, anche quando questo dovesse condurre cento volte all’errore». Il pessimismo blocca l’azione responsabile, non va bene pensare che tutto è perduto. Quanto al tempo, «tempo perduto è il tempo non messo a frutto, il tempo vuoto», scrive Bonhoeffer.

Chissà che cosa direbbe oggi, ma quello che scrive nel 1943 sembra ancora una risposta per noi: «La memoria e la riconsiderazione della lezione appresa fanno parte di una vita responsabile». Lo straordinario che serve al mondo soffocato dal male per lui è chiaramente l’azione di fede responsabile: «Io credo che Dio può e vuole far nascere il bene da ogni cosa… Io credo che in ogni situazione critica Dio vuole darci tanta capacità di resistenza quanta ci è necessaria… In questa fede dovrebbe essere vinta ogni paura del futuro».

Qualsiasi cosa abbiamo perso, quel che resta è l’azione responsabile che rischia, rischia la coscienza, il dovere, la virtù, per chi crede rischia anche di dover uscire dai binari sicuri del preservarsi una dimensione di santità. Rischia e si affida alla misericordia.

Ci sono cristiani così nel tempo presente? O stiamo scappando? La lettera del 30 aprile 1944, quella in cui annuncia il tema del mondo non-religioso, Bonhoeffer chiude con la citazione di Pr 24,11ss: «Libera quelli che sono condotti alla morte/e salva quelli che sono trascinati al supplizio. / Se tu dicessi: “Io non lo sapevo”, / credi che l’intenda colui che pesa i cuori? / Colui che veglia sulla tua vita lo sa; egli renderà a ciascuno secondo le sue opere».

Nessuna fuga possibile per il cristiano, dice Bonhoeffer, nessun ritiro dalla responsabilità spacciata per devozione.

 

https://www.alzogliocchiversoilcielo.com/2022/07/mariapia-veladiano-rimane-il-rischio.html

26 Luglio 2022Permalink

7 aprile 2022 – Giancarla Codrignani fra l’ecumenismo velleitario e l’elogio di Erasmo da Rotterdam

QUALE BILANCIO DEL NOSTRO VELLEITARIO ECUMENISM?                          Aprile 2022
Giancarla Codrignani

Li chiamiamo “fratelli ortodossi” ma oggi, per colpa di una guerra, chi sono davvero per noi? Francesco conferma l’abbraccio ai “fratelli”, ma non può, anche se vorrebbe, ripetere la mediazione che fu possibile a Giovanni XXIII quando il mondo rabbrividì per il pericolo dell’istallazioni di missili balistici sovietici a Cuba, una provocazione piena di minacce per gli Usa di Kennedy e la Russia di Krusciov: era il 1962 e la logica delle sfide e relativo onore da salvare – che connota i maschi e anche i governi (oggi contagia anche la vicepresidente americana Pamela Harris)- imponeva la risposta armata, un’altra guerra “mondiale” vent’anni dopo la “seconda”.
A nulla erano valsi i tentativi e i Due Grandi – che non volevano arrivare all’amato ok corral anche nel Far West americano – trovarono non indecoroso cedere al Papa.
Oggi Francesco non può permetterselo. La chiesa ortodossa ha sofferto il dramma dello scisma del patriarcato di Kiev che nel 2019 si è proclamato “autocefalo” ottenendo la legittimazione del patriarcato di Alessandria e degli ortodossi greci, non dal patriarcato istituzionale di Costantinopoli.  L’azione anarchica e, soprattutto, nazionalista dell’ortodossia ucraina si è di fatto resa responsabile del distacco politico dal patriarcato di Mosca da cui dipendeva.
Una vertenza sull’autocefalia non fa ridere, tanto più in questo momento e nonostante il buon senso che vorrebbe le chiese disimpegnate dagli interessi dei governanti. In questi giorni non si tratta più, infatti, di questioni teologiche, ma di quel potere che non è solo giuridico e canonico, ma amministrativo e politico. Il patriarca di Mosca Kiril nega la legittimazione del patriarcato di Kiev nel momento in cui è chiara la sua opposizione alla Russia di Putin e allo stesso modo il dittatore post sovietico intende recuperare a gloria della Santa Madre Russia, l’impero russo zarista con la benedizione del patriarca di Mosca. Solo che la fraternità e la comunione se ne vanno senza Cristo dietro la guerra.

intanto anche noi siamo rimasti fuori dal cuore dell’ecumenismo. Bisogna che confessiamo di essere clericali: preghiamo, studiamo (pochi) teologia ecumenica, facciamo bellissimi convegni.
In realtà siamo sempre noi (cattolici) la maggioranza; inevitabile, ma anche poco sensibili alla solitudine ignara del mondo cattolico di base non coinvolto nella ricerca di una fraternità confessionale di reciproca libertà. In genere nelle parrocchie non si conosce neppure il significato dell’impegno: siamo prigionieri della tradizione “colta” di una pratica detta “ecumenica”, che, se vuol dire universale, sarebbe meglio tradurla. Ma, di fatto, mi sento – proprio per il mio interesse rimasto di nicchia oggi più di quando il Sae prese il volo con Maria Vingiani – in difficoltà: sono arrivati tanti ortodossi in questo mese di guerra, tutti accolti con emozione condivisa, per la libertà dell’Ucraina. Ma la maggioranza degli arrivati trova qui da noi i/le parenti che lavorano in Italia: molte badanti hanno potuto accogliere la madre o la sorella con i bambini per la generosità delle famiglie dove da anni curano un nostro anziano.

Ma non le abbiamo mai viste alle nostre riunioni.

Ai margini, per chi cerca di dare senso all’ecumenismo, c’era stato il caso di Bose.
La formula postconciliare della Comunità monastica di Enzo Bianchi si è modificata diventando “monastero”, una trasformazione chiaramente alternativa anche sul piano della spiritualità e delle tematiche di studio. La Comunità era nata mista, comprensiva di uomini e di donne, non era riservata a soli presbiteri (l’abate Enzo Bianchi non lo è) e nemmeno ai soli cattolici. Infatti nell’attività di ricerca privilegiava la relazione e lo studio dell’ortodossia. Ricordando questa “fratellanza” sempre aperta alla partecipazione, non si può non pensare all’importanza che poteva avere la relazione con i vari patriarcati nella tragedia della guerra attuale che ha sciaguratamente approfondito il solco tra Kiev e Mosca anche sul versante religioso cristiano. La chiesa di Mosca invece di accogliere l’unità di fede come sostegno comune nella situazione blasfema della guerra, ha scelto di accettare la sfida e seguire la tradizione conservatrice che vuole l’Occidente corrotto e immorale e il primato della madre Russia. Anche se Papa Francesco, dopo essere stato bloccato dalla tensione tra i patriarcati, riuscirà, senza interferire in casa altrui, a richiamare Kiril all’abbraccio cristiano con il papa cattolico romano, la guerra estrema farà pagare cari i suoi costi, tra cui la frustrazione di quando i conflitti entrano nelle chiese.

LA GUERRA 12  è passato un mese dall’inizio  Giancarla Codrignani

La storia che abbiamo alle spalle, ma anche la testimonianza della libertà di opinione:

Nel 1511 esce l’Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam .

Non si usa più far miracoli: roba d’altri tempi. Insegnare ai fedeli è faticoso; interpretare le Sacre Scritture è lavoro da farsi a scuola; pregare è una perdita di tempo; spargere lacrime è misero e femmineo; vivere in povertà̀ è spregevole. Turpe la sconfitta e indegna di chi a mala pena ammette il re al bacio dei suoi piedi beati: infine, spiacevole la morte, e infamante la morte sulla croce.

Rimangono solo le armi e le “dolci  benedizioni” di cui parla san Paolo, e di cui fanno uso con tanta larghezza: interdetti, sospensioni, condanne aggravate, anatemi, esposizione di ritratti a titolo di vergogna, e quella tremenda folgore con cui, a un cenno del capo, mandano le anime dei mortali all’inferno e oltre. Di quella folgore, i santissimi padri in Cristo, e di Cristo vicari, si servono col massimo della violenza, soprattutto contro coloro che, per diabolico impulso, tentano di rimpicciolire e rosicchiare il patrimonio di Pietro. Benché́ le parole dell’Apostolo nel Vangelo siano: “Abbiamo abbandonato tutto e ti abbiamo seguito”, essi identificano il patrimonio di Pietro con i campi, le città, i tributi, i dazi, il potere. E mentre, accesi dall’amore di Cristo, combattono per queste cose col ferro e col fuoco, non senza grandissimo spargimento di sangue cristiano, credono di difendere apostolicamente la Chiesa, sposa di  Cristo, annientando da valorosi quelli che chiamano i nemici.

Come se la Chiesa avesse nemici peggiori dei pontefici empi; di Cristo non fanno parola: fosse per loro, svanirebbe nell’oblio; legiferando all’insegna dell’avidità, lo mettono in catene; con le loro interpretazioni forzate ne alterano l’insegnamento; coi loro turpi costumi lo uccidono.

Poiché́ la Chiesa cristiana è stata fondata, rafforzata e ingrandita col sangue, ora, come se Cristo fosse morto lasciando i fedeli senza una protezione conforme alla sua legge, governano con la spada, e, pur essendo la guerra una cosa tanto crudele da convenire alle belve più che agli uomini, tanto pazza che anche i poeti hanno immaginato fossero le Furie a scatenarla, così rovinosa da portare con sé la totale corruzione dei costumi, tanto ingiusta da offrire ai peggiori predoni la migliore occasione di affermarsi, tanto empia da non avere nulla in comune con Cristo, tuttavia, trascurando tutto il resto, fanno solo la guerra. Si possono vedere vecchi decrepiti che, inalberando un vigoroso spirito giovanile, non si sgomentano davanti alle spese, non cedono alle fatiche, non indietreggiano di un pollice se si trovano a mettere a soqquadro le leggi, la religione, la pace, l’intero genere umano. Né mancano colti adulatori, pronti a chiamare questa evidente follia zelo, pietà, fortezza, escogitando stratagemmi che permettono d’impugnare il ferro mortale e di immergerlo nelle viscere del fratello senza venir meno a quella suprema carità̀ che secondo il dettato di Cristo un cristiano deve al suo prossimo.

7 Aprile 2022Permalink

31 marzo 2022 – Sintetizzo alcune documentazioni che ho raccolto nel mio blog nei giorni precedenti e nel 2020

Per correttezza riporto i link anche alle pagine del mio blog, oltre che alle fonti.

30  marzo 2022  Da Il Mulino  12 marzo:
Le chiese in Ucraina e la sfida della pace ?                        di Adalberto Mainardi
https://www.rivistailmulino.it/a/le-chiese-in-ucraina-e-la-sfida-della-pace
https://diariealtro.it/?p=7895

Da Il Foglio  29 marzo 2022  Quella di Putin è la prima dichiarazione di guerra ufficiale all’omosessualità                di  Adriano  Sofri
https://www.ilfoglio.it/piccola-posta/2022/03/29/news/quella-di-putin-e-la-prima-dichiarazione-di-guerra-ufficiale-all-omosessualita–3853885/
https://diariealtro.it/?p=7893

Avevo sfiorato l’argomento (in un contesto evidentemente diverso ) nel 2020 e riporto quanto scritto nel mio blog:

« 13 giugno 2020   Quanto i vescovi non dicono il vero
Provo a scrivere le mie sempre più sconsolate considerazioni in merito all’intreccio pericoloso e per me inaccettabile sulle motivazioni con cui i Vescovi italiani si oppongono alla proposta di legge
“ … contrasto dell’omofobia e della transfobia  nonché delle altre discriminazioni riferite all’identità sessuale” (C 107) .
I vescovi non attaccano frontalmente la proposta, la aggirano affermando –  che “non si riscontra alcun vuoto normativo o lacune – che giustifichino l’urgenza di nuove disposizioni»..
https://diariealtro.it/?p=7334

L’affermazione precedente non è vera:  la violenza omofobica è sempre presente e documentata  e il vuoto normativo c’è:  ci sono nati in Italia cui viene negato per legge il nome e l’identità riconosciuta.
E anche questa (a mio parere) è violenza.

Le “nuove disposizioni” che chiedo da anni (devo dire in un clima di sconsolante isolamento quale spetta a una vecchia pensionata)  riguardano l’abrogazione dell’art. 1 comma 22 lettera  G della legge 94/2009 (“Disposizioni in materia di sicurezza pubblica”) . Tale norma , imponendo la presentazione del permesso di soggiorno per la registrazione dell’atto di nascita di un figlio  in Italia ,  può  ridurre  genitori non comunitari irregolari a uno stato di paura tale da  indurli a  non registrare  la nascita di un loro bambino per non scoprire la loro condizione.
Esiste una circolare che consente ciò che la legge nega  ma è ben chiaro che non si può chiedere ai migranti di destreggiarsi fra leggi e circolari. Inoltre la circolare che porta il n. 19/2009 (Ministero dell’interno) NON è in alcun  modo diffusa.
Mentre preciso che l’abrogazione di cui ho scritto non comporta onere di spesa ed è sostanzialmente  la ripresentazione  del testo della cd legge Turco Napolitano, segnalo che ho ottenuto dalla consapevole cortesia del direttore della   Caritas  Italiana una informazione importante che mi ha consentito di proporre in un mio pubblico intervento, trascritto anche nel sito equal uniud diritto antidiscriminatorio dell’Università di Udine lo scorso gennaio.

Copio:
« Il dr. Forti, questo il suo nome, ha scritto ribadendo l’iscrizione alla nascita come diritto costituzionalmente garantito ma testimoniando nel contempo il fatto che l’efficacia della circolare non è assoluta.
Leggo  e trascrivo: “Ad oggi purtroppo non tutte la anagrafi seguono pedissequamente la citata circolare che stabilisce: Per lo svolgimento delle attività riguardanti le dichiarazioni di nascita e di riconoscimento di filiazione (registro di nascita – dello stato civile) non devono essere esibiti documenti inerenti al soggiorno trattandosi di dichiarazioni rese, anche a tutela del minore, nell’interesse pubblico della certezza delle situazioni di fatto».

 

 

 

31 Marzo 2022Permalink

30 marzo 2022 – LE CHIESE IN UCRAINA E LA SFIDA DELLA PACE

LE CHIESE IN UCRAINA E LA SFIDA DELLA PACE

12 MARZO 2022           Le chiese in Ucraina si presentano all’appuntamento della storia tragicamente divise. Chi sono e come vedono se stessi i cristiani in Ucraina? Come le chiese hanno risposto al conflitto?
Che cosa è cambiato con la guerra?                                                         di Adalberto Mainardi

Il panorama religioso dell’Ucraina contemporanea vede oltre cinquanta religioni ufficialmente registrate. Chiesa maggioritaria è la Chiesa ortodossa ucraina, canonicamente parte del Patriarcato di Mosca, ma con uno statuto di ampia autonomia accordato nel concilio episcopale del 1990 e confermato dal concilio locale della Chiesa ortodossa russa del 2009 (lo stesso che elesse l’attuale patriarca Kirill). Capo della Chiesa ortodossa ucraina è il metropolita di Kiev, consacrato dal patriarca di Mosca ma eletto dall’episcopato ucraino (l’attuale metropolita Onufrij Berezovskii è stato eletto nel 2014).

Nel 1992 si era però formata la Chiesa ortodossa ucraina-Patriarcato di Kiev, con un seguito di alcuni milioni di fedeli, non riconosciuta dalle altre chiese ortodosse. Inoltre nel 1990, dopo l’incontro con Giovanni Paolo II, Gorbačev legalizzò la Chiesa greco-cattolica ucraina, che poté uscire dalla clandestinità cui era stata costretta da Stalin nel 1946. La convivenza delle tre comunità negli anni Novanta fu caratterizzata da tensioni ed episodi di violenza, che si riverberarono sullo stesso dialogo teologico cattolico-ortodosso, con una lunga battuta d’arresto fino al 2006.

Ma è l’autocefalia della Chiesa ucraina il nodo attorno a cui si stringono i problemi dell’ortodossia contemporanea. Nel 2016 il concilio panortodosso di Creta non riusciva ad affrontare il problema di quale Chiesa avesse il diritto di concedere a un’altra l’autocefalia (cioè la piena indipendenza):
il patriarca ecumenico di Costantinopoli? O la Chiesa madre? O l’insieme delle Chiese ortodosse? Per motivi diversi, quattro Chiese ortodosse disertarono l’assise di Creta: Mosca, Antiochia, la Chiesa ortodossa bulgara e la Chiesa di Georgia. A livello panortodosso, il problema canonico della concessione dell’autocefalia rimase irrisolto e lo scisma della Chiesa ucraina drammaticamente aperto.

Dopo l’annessione russa della Crimea e la destabilizzazione del Donbass nel 2014, la spinta politica a creare una Chiesa ucraina autocefala «canonica» crebbe considerevolmente. La metropolia di Kiev, culla storica della Chiesa ortodossa russa, dipendeva canonicamente dal patriarca di Costantinopoli fino alla fine del XVII secolo, quando la situazione politica ne provocò il passaggio al patriarcato di Mosca (eretto nel 1589). Nel 2018, il patriarca ecumenico Bartolomeo ritenne di revocare il tomos patriarcale del 1686 che concedeva al patriarca di Mosca il privilegio di consacrare il metropolita di Kiev. I fedeli fino ad allora ritenuti scismatici della Chiesa ortodossa ucraina-Patriarcato di Kiev e della minoritaria Chiesa ortodossa autocefala ucraina furono accolti nella comunione con Costantinopoli e in un concilio, alla presenza di due esarchi nominati dal patriarca ecumenico, costituirono la Chiesa ortodossa d’Ucraina (15 dicembre 2018).

A questa Chiesa, nel gennaio 2019, Bartolomeo concesse l’autocefalia. L’evento fu salutato dall’allora presidente ucraino Petro Poroshenko, che l’aveva fortemente voluto, come un nuovo «battesimo della Rus’», e la nascita di «una Chiesa senza Putin, ma una Chiesa con Dio e con l’Ucraina». Il Patriarcato di Mosca reagì rompendo la comunione eucaristica con Costantinopoli  e con le Chiese che successivamente riconobbero la Chiesa ortodossa d’Ucraina (la Chiesa greca, il Patriarcato di Alessandria e la Chiesa di Cipro).

La Chiesa ortodossa ucraina, rimasta fedele a Mosca, fu oggetto di attacchi e discriminazioni. Un progetto di legge imponeva di rinominarla «Chiesa ortodossa russa in Ucraina» (una disposizione che avrebbe potuto privarla dell’antichissimo monastero delle Grotte di Kiev). Il capo delle relazioni esterne del Patriarcato di Mosca, metropolita Ilarion Alfeev, nell’aprile 2021 protestò energicamente: «Il centro di questa Chiesa non è Mosca, ma Kiev: è una Chiesa indipendente, elegge i propri vescovi e il proprio primate. Non è una Chiesa di russi, ma di ucraini».

La guerra di Putin ha agito come detonatore in una situazione ecclesiale attraversata da tensioni irrisolte.  Le reazioni delle Chiese le hanno rese manifeste

Non sorprendono i toni del primate della Chiesa ortodossa d’Ucraina, metropolita Epifanij («un cinico attacco […] nostro comune compito è respingere il nemico, difendere la patria, il nostro futuro dalla tirannia dell’aggressore»), o dell’Arcivescovo maggiore della Chiesa greco cattolica ucraina, Svjatoslav Sevchuk («il nemico fraudolento ha invaso il suolo ucraino, portando con sé morte e devastazione […] è sacro dovere di ciascuno difendere la patria […] La vittoria dell’Ucraina sarà la vittoria della potenza di Dio sulla bassezza e l’insolenza dell’uomo»).

Ma se Putin, che ancora il 21 febbraio definiva la Chiesa ortodossa ucraina «perseguitata» dal regime di Kiev, si aspettava da essa un appoggio, si sbagliava. In un appassionato appello «al presidente della Russia» nel giorno dell’invasione, il metropolita Onufrij chiede di «fermare immediatamente la guerra fratricida […] Una guerra simile non ha giustificazione né per Dio né per l’uomo». Se individua la responsabilità del presidente russo, il messaggio di Onufrij non cede alla tentazione di invocare da Dio la vittoria sul nemico. Non c’è un nemico da distruggere, ma un fratello che non abbiamo il diritto di uccidere.

Le parole di Onufrij hanno reso più imbarazzante il silenzio del patriarca Kirill, che solo la sera del 24 febbraio si rivolge ai «fedeli figli della Chiesa ortodossa russa» senza parlare di guerra («questi eventi», «sventura») ed esortando «tutte le parti in conflitto a fare il possibile per evitare vittime civili». La cautela di Kirill, del resto, è condivisa. L’Unione dei battisti russi nel suo appello per la pace sostituisce la parola «guerra» con l’espressione «situazione complicata ai confini con l’Ucraina».

La dichiarazione del patriarca è parsa insufficiente al suo stesso clero, se oltre 250 preti e monaci hanno sottoscritto un appello in cui chiedono «la cessazione della guerra fratricida in Ucraina»,
di non perseguire per legge chi manifesta per la pace, «perché questo è il comandamento divino: “Beati gli operatori di pace”». Il 28 febbraio il sinodo della Chiesa ortodossa ucraina domanda con insistenza al patriarca di Mosca di «dire la sua parola di primate sulla cessazione del versamento fratricida di sangue in Ucraina». Il 2 marzo il segretario generale del Consiglio ecumenico delle Chiese di Ginevra, Ioan Sauca, ortodosso romeno, chiede ufficialmente a Kirill «di mediare perché la guerra possa essere fermata», e di «far sentire la sua voce per i fratelli e le sorelle che soffrono».

Nell’omelia della Domenica del perdono (6 marzo), che precede l’inizio della Quaresima, il patriarca Kirill sembra rispondere a queste sollecitazioni. Parla del «deterioramento della situazione nel Donbass» e individua come ragione dell’ostilità verso la Repubblica separatista il suo intransigente rifiuto al gay pride, biglietto di ingresso nel felice mondo del consumismo e dell’apparente «libertà» (un’eco del discorso di Ivan Karamazov contro la teodicea della modernità?). La guerra in corso, sembra dire il patriarca, è una lotta escatologica tra il bene e il male, ne va «della salvezza umana, di dove l’umanità si colloca», tra i sommersi o i salvati, «alla destra o alla sinistra di Dio Salvatore, che viene nel mondo come Giudice e Datore della ricompensa». Non tutti se ne rendono conto, prosegue. Bisogna chiamare peccato ciò che è peccato. L’omosessualità è un peccato. Negarlo è defraudare Dio del suo ruolo di giudice.
Da otto anni, nel silenzio dell’Occidente, è in corso un genocidio nel Donbass (una guerra dimenticata che ha già fatto 19.000 vittime). La sofferenza degli abitanti del Donbass è la sofferenza dei martiri. Si tratta di «una lotta che non ha un significato fisico ma metafisico».

L’omelia del patriarca ha lasciato stupefatti molti commentatori. Certo, mentre chiede di pregare per il popolo ortodosso del Donbass, Kirill dimentica che in Ucraina c’è un altro popolo ortodosso che è il suo stesso gregge; quando ricorda che perdonare è cessare di odiare il nemico, non si accorge che sta costruendo un nemico «esterno» (l’Occidente corrotto) addossandogli la responsabilità «più pesante», cioè di allargare «l’abisso tra i fratelli, colmandolo di odio, malizia e morte» (la guerra tra Russia e Ucraina), e sta assolvendo il presidente russo.

Ma la sua parola non deve stupire. Non è, banalmente, la degradazione dell’ideale evangelico a poltiglia ideologica. È il coerente sviluppo dell’idea del «mondo russo» (Russkij mir), costruita all’inizio degli anni Duemila. Un’idea di civiltà e insieme un’impresa politica, che tiene insieme eredità culturale e valori religiosi, principi etici tradizionali e capacità performativa post-secolare, una versione 2.0 della «Idea russa» combinata con l’ideale romantico della «Santa Rus’», di cui sarebbero portatori i popoli usciti dal battesimo nel Dniepr, russi, ucraini, bielorussi, come un’unica civiltà con una specifica missione: testimoniare un’alternativa valoriale allo smarrimento etico dell’Occidente, che dietro l’ipocrita difesa dei diritti umani nasconde l’idolo unico del profitto. Non è casuale la consonanza con la persuasione putiniana che russi e ucraini (e bielorussi) siano un unico popolo, fratelli che non possono e non devono abitare in case straniere. Il patriarca del resto ha salutato con favore gli emendamenti alla Costituzione russa del 2020, che introducono la menzione di Dio (art. 67,1 comma 2), la difesa del matrimonio come unione tra uomo e donna (72, comma 1), la promozione dei valori tradizionali della famiglia (114, comma 1).

Il conflitto ucraino sta brutalmente mostrando che il «mondo russo» non è più armonico del mondo occidentale. L’unità religiosa non è rafforzata dalle bombe ma polverizzata. Numerose parrocchie e vescovi della Chiesa ortodossa ucraina hanno cessato di menzionare il nome del patriarca nell’anafora eucaristica. Il solco scavato dalla guerra tra il patriarca di Mosca e la Chiesa ortodossa ucraina sta però anche segnalando che le ragioni della divisione tra le Chiese in Ucraina non sono così profonde. Non toccano l’essenza della fede. Forse la tragedia della guerra può aiutare le Chiese a comprendere che il Vangelo chiede un parlare chiaro: sì, sì, no, no. Chiede di chiamare la guerra «guerra», il peccato «peccato». Di dire che la divisione è un peccato, che la guerra è un peccato. Che solo l’amore salva. Che l’invocazione della pace deve radicarsi nella verità e nella giustizia, nella promozione della libertà e della vita dell’altro.

https://www.rivistailmulino.it/a/le-chiese-in-ucraina-e-la-sfida-della-pace

30 Marzo 2022Permalink

28 ottobre 2020 Fratelli tutti – Commenti de La barba di Aronne e di Noi siamo chiesa

Il profumo della fratellanza. L’incontro interreligioso in Campidoglio

Chiesa di tutti Chiesa dei poveri 23/10/2020, 14:43

Newsletter n. 207 del 10 ottobre 2020

Dalla barba di Aronne

Care Amiche e Amici,

non era mai successo che la Repubblica Italiana – insieme al papato della Chiesa cattolica, al patriarcato di Costantinopoli, al Rabbino capo di Francia, al rappresentante del Grande Imam del Cairo, a un buddista giapponese, a una indù e a molti altri leader religiosi del mondo intero – firmasse un appello a tutte le altre Repubbliche e Regni per chiedere ai governi e a tutti gli uomini e le donne di passare a condotte di fraternità e di pace e costruire una sola umanità,  nella persuasione, che è anche una confessione di fede, che “nessuno si salva da solo”.

È accaduto martedì sera, e non in un’enclave religiosa come Assisi, ma a Roma, nella piazza del Campidoglio, che un tempo fu l’ombelico del mondo e dove dopo l’ultima guerra mondiale nacque l’unità dell’Europa, così come ora si vorrebbe che da lì nascesse l’unità del mondo.

Si dirà che questo evento, promosso dalla comunità di s. Egidio, ma con l’evidente regia e governo di papa Francesco, è stato un evento di vertice, senza partecipazione di popolo, che infatti non c’era a causa della pandemia; e tuttavia  il vero ospite dell’incontro è stato il popolo di Roma con il suo Comune, il suo retaggio e la sua Sindaca. Ed è verissimo che si è trattato di un’iniziativa dei leader, come se il mondo improvvisamente avesse trovato un bandolo, una guida; ma il movente non è stato il potere,  è stato che  “i fratelli vivano insieme”, ciò che, come dice il salmo delle Ascensioni, è ragione di soavità e di gioia e  “come olio profumato”  dal capo scende sulla barba, la barba di Aronne, e da lassù si spande in tutto il mondo, in modo che si faccia l’unità, perché non uno, non gli uni invece degli altri, non gli uni contro gli altri, ma tutti insieme siano salvi.

E non a caso negli straordinari discorsi dei leader, davvero ciascuno eco di culture diverse, sono stati convocati, per compiere l’impresa, il passato e il futuro. Papa Francesco ha evocato una sola parola di Gesù: «Basta!», la parola detta ai discepoli che volevano approvvigionarsi di spade. Il patriarca Bartolomeo ha chiamato in causa Anassìmene, il filosofo di Mileto del VI secolo a.C. che aveva individuato i quattro elementi su cui tutto si tiene, l’aria, l’acqua, il fuoco, la terra, per dire che se a tenerli insieme non è la casa comune, di cui dobbiamo aver cura, tutto si disintegra  ed esce dalla vita creata da Dio; e questa casa è come una casa di specchi, dove il volto di ciascuno riflette l’immagine di Dio e si riflette nel volto degli altri. Il Rabbino di Parigi ha ricordato un midrash in cui si racconta la nascita del tempio, e insieme lo si demitizza: c’erano due fratelli che avevano un campo di cui condividevano il raccolto, e ognuno voleva dare di più all’altro, sicché spesso si alzava di notte per andare ad aggiungere del proprio grano  altro grano al raccolto dell’altro, sicché i due cumuli risultavano sempre uguali; finché una notte essi si incontrarono, scoprirono il reciproco dono e si abbracciarono piangendo; e sulla terra bagnata da quelle lagrime Dio volle che fosse costruito il suo tempio; perciò  il tempio che ora si deve ricostruire è questa fraternità. Il presidente Mattarella ha messo in campo la Repubblica Italiana che «riconosce e onora» gli sforzi delle religioni per contribuire a un avvenire di sviluppo e di eguaglianza per le persone e i popoli, offrendo in tal modo una “testimonianza che è profezia”. E su tutti vegliava, con la mano stesa, Marco Aurelio, l’imperatore filosofo che aveva dato del povero la definizione più rigorosa: «colui che ha bisogno dell’aiuto altrui e non ricava da se stesso tutto ciò che è utile alla vita», il che equivale a dire che tutti siamo poveri, «nessuno si salva da solo».

E poi è successa una cosa straordinaria: il rappresentate del Grande Imam di Al Azhar, Ahmad Al Tayyeb, ha raccontato la scena, a cui ha assistito, di papa Francesco e l’Imam Al Tayyeb che si spartivano un pezzo di pane alla tavola del papa a Santa Marta. Certamente quello spezzar del pane non era stato preceduto in quel caso da alcuna formula di consacrazione; però se si pensa che il divieto della “communicatio in sacris” è il macigno che ancora rimane a impedire l’incontro ecumenico tra le diverse Chiese cristiane, si può misurare la portata profetica di questo comunicare nel pane tra il papa cristiano e l’imam islamico; qui, come nel pensiero comune che, per dichiarazione esplicita del papa ha contribuito ad ispirargli l’enciclica Fratelli tutti, siamo oltre il dialogo tra Islam e cristianesimo, siamo a una comunione in cammino.

Nel sito pubblichiamo una lettura di “Noi siamo Chiesa” dell’enciclica Fratelli tutti“Un appassionato appello all’unità umana”.

L’articolo che trascrivo viene dal sito di Adista       https://www.adista.it/articolo/64364

Per raggiungere l’articolo di Noi siamo chiesa, segnalato al termine del testo de La Barba di Aronne, trascrivo anche il link.  Merita veramente una lettura

https://www.chiesadituttichiesadeipoveri.it/un-appassionato-invito-allunita-umana

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28 Ottobre 2020Permalink

27 ottobre 2020 – Cominciò nel 2001

«Costruiamo una sola umanità!»: il 27 ottobre, XIX Giornata ecumenica del dialogo cristiano-islamico 

redazione 25/10/2020, 08:09

La Giornata  ecumenica del dialogo cristiano-islamico nasce dall’iniziativa di un gruppo di intellettuali, religiosi e professori universitari che nel 2001, all’indomani della tragedia delle Torri gemelle, decise di lanciare un appello al dialogo con l’islam. «Noi, cristiane e cristiani di diverse confessioni e laici, impegnati da anni nel faticoso cammino del dialogo coi musulmani italiani o in un lavoro culturale sull’islam – recitava il primo appello – crediamo che l’orrendo attentato di New York e Washington costituisca una sfida non solo contro l’Occidente ma anche contro quell’islam, largamente maggioritario in tutto il mondo, che si fonda sui valori della pace, della giustizia e della convivenza civile».

I promotori intendevano scongiurare «un allarme preoccupante», ossia che quanto accaduto potesse «mettere in discussione o rallentare il dialogo con i fratelli musulmani, compagni di strada sul cammino della costruzione di una società pluralista, accogliente, rispettosa dei diritti umani e dei valori democratici».

La Giornata giunge nel 2020 diciassettesima edizione e che, da alcuni anni, ricorre il 27 ottobre “nello spirito di Assisi”: il primo e grande incontro mondiale delle Religioni per la pace, voluto da papa Giovani Paolo II nel 1986 nella città umbra.

L’appello dei promotori per questa edizione rileva il fatto che: «dopo 19 anni siamo ancora a parlare di dialogo cristiano-islamico come fosse la prima volta. Ma molto è cambiato. Il nostro è stato un cammino importante e positivo. Il pensiero va ai tanti amici e amiche del dialogo che hanno costruito centinaia di iniziative dal nord al sud del paese, a chi non c’è più e a chi ha percorso con noi un pezzo di strada. E come il primo giorno sentiamo forte il bisogno di riscoprire l’umanità che tutti ci unisce. E come il primo giorno sentiamo forte il bisogno di impegnarci contro le guerre, la produzione delle armi e contro l’ingiustizia sociale che nega il lavoro, le cure mediche, distrugge l’ambiente e ogni spiritualità basata sul riconoscersi fratelli e sorelle con un’unica Madre Terra da amare e difendere».

La pandemia del covid-19 è stato «un segnale forte per tutta l’umanità – scrivono gli organizzatori -.  Ci ha detto con chiarezza che non siamo onnipotenti e che abbiamo bisogno gli uni degli altri per costruire una vita degna di essere vissuta. Occorre superare ogni discriminazione e affermare sempre che “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”(art. 3 Costituzione). Occorre fermare la guerra e la produzione di armamenti».

questa pagina è possibile leggere l’appello integrale..

https://www.ildialogo.org/cEv.php?=http://www.ildialogo.org/cristianoislamico/2020_1595665407.htm

27 Ottobre 2020Permalink

30 maggio 2020. Sono avvilita. A quando una legge sulla libertà religiosa?

Mi rendo conto che da quasi un mese non scrivo nulla.
In realtà queste notizie del 7 maggio mi hanno avvilito.
Ho ben presente la ministra Lamorgese che firmava accordi a norma dell’art. 7 della Costituzione (Chiesa cattolica), dell’art. 8 (chiese e organizzazioni religiose comunque denominate che hanno firmato intese ), gli altri denominati come culti ammessi (Legge 24 giugno 1929 n.1159).
Quando un legge sulla libertà religiosa mai?

7 maggio 2020
È stato sottoscritto questa mattina a Palazzo Chigi, dal presidente della Conferenza episcopale italiana Gualtiero Bassetti con il presidente del Consiglio dei ministri Giuseppe Conte e il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese, il protocollo che individua le misure di sicurezza sanitarie da rispettare per la ripresa delle celebrazioni liturgiche alla presenza dei fedeli a partire dal 18 maggio.
La responsabile del Viminale ha dichiarato che «il ministero dell’Interno ha già avviato un confronto costruttivo con tutte le altre comunità di fede in relazione alla sua missione istituzionale di garantire la libertà di culto». «Siamo a buon punto con la sottoscrizione di altri protocolli con tutte le aree confessionali, sia quelle che hanno raggiunto un’intesa con lo Stato sia quelle che ne sono ancora prive, per consentire a tutti le migliori condizioni per lo svolgimento delle pratiche religiose, pur nel rispetto delle precauzioni necessarie per contenere la diffusione del virus varate dal Governo».
Il documento – condiviso dalla Cei con il capo del dipartimento delle Libertà civili e l’Immigrazione Michele di Bari e poi approvato dal Comitato tecnico scientifico – disciplina l’accesso ai luoghi di culto in occasione delle cerimonie liturgiche prevedendo, tra l’altro, che l’accesso alla chiesa sia contingentato e regolato da volontari o collaboratori che, oltre a favorire l’accesso e l’uscita, vigilino sul numero massimo di presenze consentite. Dovrà essere in ogni modo evitato ogni assembramento, sia nell’edificio, sia nei luoghi annessi, come per esempio le sagrestie e il sagrato.
L’accesso ai luoghi di culto per le celebrazioni liturgiche dovrà avvenire indossando mascherine e non è comunque consentito in caso di sintomi influenzali/respiratori.
Tutti i luoghi di culto dovranno essere igienizzati regolarmente al termine di ogni celebrazione.
Tra le attenzioni da osservare nelle celebrazioni liturgiche, si segnalano le indicazioni di omettere lo scambio del segno della pace e di prevedere che la raccolta delle offerte non avvenga durante le celebrazioni, ma in appositi contenitori.
Particolare attenzione dovrà essere rivolta alla distribuzione della Comunione avendo cura, tra l‘altro, di offrire l’ostia senza alcun contatto con le mani dei fedeli.
Ove il luogo di culto non sia idoneo alle celebrazioni liturgiche, secondo le indicazioni del protocollo, le celebrazioni potranno avvenire all’aperto.
«È il risultato dell’intenso dialogo di questi mesi tra il governo e la Cei, intensificato fin dall’inizio dell’emergenza Covid-19, che ha già portato all’individuazione delle misure di sicurezza sanitaria per le celebrazioni liturgiche senza popolo e, da ultimo, di quelle per la ripresa della celebrazione dei funerali», ha dichiarato il ministro Lamorgese.
Firmato protocollo che detta le misure di sicurezza per le cerimonie religiose
Video a disposizione con licenza CC-BY-NC-SA 3.0 IT

7 Maggio 2020
“La firma del protocollo con la Conferenza episcopale italiana – avvenuta questa mattina a Palazzo Chigi – è un passo decisivo per la graduale ripresa delle celebrazioni liturgiche alla presenza dei fedeli”, ha dichiarato il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese. “E’ il risultato dell’intenso dialogo di questi mesi tra il governo e la Cei, intensificato fin dall’inizio dell’emergenza Covid-19, che ha già portato all’individuazione delle misure di sicurezza sanitaria per le celebrazioni liturgiche senza popolo e, da ultimo, di quelle per la ripresa della celebrazione dei funerali”.
La responsabile del Viminale ha poi ricordato che “il ministero dell’Interno ha già avviato un confronto costruttivo con tutte le altre comunità di fede in relazione alla sua missione istituzionale di garantire la libertà di culto”.
“Siamo a buon punto con la sottoscrizione di altri protocolli con tutte le aree confessionali, sia quelle che hanno raggiunto un’intesa con lo Stato sia quelle che ne sono ancora prive, per consentire a tutti le migliori condizioni per lo svolgimento delle pratiche religiose, pur nel rispetto delle precauzioni necessarie per contenere la diffusione del virus varate dal governo”, ha concluso il ministro Lamorgese .
(ANSA) – ROMA, 7 MAG – “Siamo a buon punto con la sottoscrizione di altri protocolli con tutte le aree confessionali, sia quelle che hanno raggiunto un’intesa con lo Stato sia quelle che ne sono ancora prive, per consentire a tutti le migliori condizioni per lo svolgimento delle pratiche religiose, pur nel rispetto delle precauzioni necessarie per contenere la diffusione del virus varate dal governo”. Lo ha detto il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese, dopo la firma del protocollo con la Conferenza episcopale italiana
“Il ministero dell’Interno – ha aggiunto – ha già avviato un confronto costruttivo con tutte le altre comunità di fede in relazione alla sua missione istituzionale di garantire la libertà di culto”. (ANSA).

7 Maggio 2020Temi: SicurezzaCittadinanza e altri diritti civili Prevenzione e soccorso
Ultimo aggiornamento:
Venerdì 8 Maggio 2020, ore 12:46
https://www.interno.gov.it/it/notizie/dal-18-maggio-riprenderanno-celebrazioni-liturgiche-alla-presenza-dei-fedeli

https://www.interno.gov.it/it/sala-stampa/comunicati-stampa/protocollo-ripresa-celebrazioni-liturgiche-alla-presenza-dei-fedeli

https://www.regione.vda.it/notizieansa/details_i.asp?id=348668

30 Maggio 2020Permalink

6 maggio 2020 – Quando regnano ignoranza e opportunismo il danno può essere grave

Lettera ai miei corrispondenti

Mi è stato proposto di firmare una lettera, copia di quella che muove dalla diocesi di Bergamo:
Riflessioni a proposito del Comunicato della presidenza CEI al Governo ‘Conte’ del 26 Aprile 2020.
La lettera è un documento sofferto di grande dignità nel clima di lutto che tutti ci coinvolge nel pensiero dei morti di corona virus, lutto che nel territorio bergamasco ha raggiungo un picco che sgomenta.
La lettera – dal titolo parresia – merita di essere conosciuta e perciò pubblico un link che consente di raggiungerla e di leggere contestualmente anche il comunicato della CEI di cui pure, per dovuta trasparenza, allego il link.                                                                                                       [fonte 1] e [fonte 2].
Non ho firmato la lettera perché il tono nobile, corretto, esatto anche nell’uso dei termini appropriati, mal si connette purtroppo a una situazione di sconcertante volgarità dominante che da noi si è risolta persino in un pubblico appello di un parroco udinese (ma non credo sia solo) a celebrare la messa in ‘obiezione di coscienza’ alle indicazioni del governo sulla fase 2.
Forse ho sbagliato.
Non so.
Il mio timore è che in questo marasma culturale, politico e religioso si fissino dei paletti che, quando usciremo dalla pandemia, rendano accettabile la negazione di fondamenti democratici della nostra convivenza.
E questo, secondo me, richiede esplicita chiarezza che nella lettera “parresia” non traspare in una forma dichiarata, immediatamente accessibile in un momento in cui si scontrano – con reciproca incosciente strumentalità – più fanatismi che ricerche di responsabilità efficace.
E il traballante linguaggio governativo che si è proposto in questa occasione non è certo tale da far chiarezza. Ma non potevano trovare, fra i tanti esperti di cui si sono giovati, anche qualche storico che li aiutasse ad affrontare un discorso che è – anche – di ‘libertà religiosa’ e che li aiutasse a farlo in maniera meno approssimativa e grossolana?
Un consiglio: quando ne avranno tempo rileggano gli scritti, vecchi ma non appassiti, di Arturo Carlo Jemolo. Ne trarranno non piccolo giovamento. O almeno l’ho tratto io nelle mie lontane letture giovanili.

Al termine pubblico il link per raggiungere il testo del teologo Alberto Maggi che dà un fondamento biblico alla condanna del fanatismo.                                                                                                   [fonte 4]
Alberto Maggi è biblista cattolico e religioso dell’Ordine dei Servi di Maria italiano.
E’ un contributo di intelligenza consapevole che regalo a me stessa e, se qualcuno lo vuole leggere, propongo anche in chiaro perché ben si collega alla responsabile, pubblica posizione di papa Francesco che non mi sembra essere stata condivisa dalla CEI.

Gli zelanti accecati dal fanatismo religioso
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ZELO E FANATISMO
Il profeta Elia era indubbiamente “pieno di zelo per il Signore” (1 Re 19,14), ma la storia insegna che non esistono persone più pericolose di quelle che, animate dallo sacro zelo, finiscono poi nel fanatismo che le accieca. Lo zelo che animava Elia era in realtà un furore che portava questo sant’uomo a sterminare tutti quelli che lui riteneva nemici del suo Dio (“e con zelo li ridusse a pochi”, Sir 48,2). Nella Bibbia si narra della sua sfida con i quattrocentocinquanta profeti di una divinità concorrente, Baal. Il bellicoso Elia non si accontentò della schiacciante vittoria e dell’umiliazione inflitta, ma li volle uccidere tutti: “Afferrate i profeti di Baal; non ne scappi neppure uno!”. Li afferrarono. Elia “li fece scendere al torrente Kison, ove li ammazzò” (1 Re 18,49). Ai sacerdoti sgozzati sono da aggiungere anche un centinaio di guardie incenerite: “Se sono uomo di Dio, scenda un fuoco dal cielo e divori te e i tuoi cinquanta. Scese un fuoco dal cielo e divorò quello con i suoi cinquanta” (2 Re 1,9-12). Elia, ottenebrato dal suo fanatismo, presumeva di essere rimasto l’unico a credere nel Signore, al quale grida la sua indignata protesta: “Sono pieno di zelo per il Signore, Dio degli eserciti, poiché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo…!” (1 Re 19,10.14). Con fine ironia il Signore gli chiede di darsi una calmata (“Su, ritorna sui tuoi passi”), e di aprire bene gli occhi… No, non è vero che è rimasto il solo, perché in Israele ci sono almeno “settemila persone, che non si sono piegati a Baal” (1 Re 19,18). Era il fanatismo di Elia, che come una trave conficcata negli occhi, ne storpiava lo sguardo e gli impediva di vedere la realtà, e lo rendeva pericoloso.
Purtroppo l’elenco dei massacri perpetrati da parte di santi uomini per difendere l’onore di Dio è molto lungo nella Bibbia: un fiume di sangue che scaturisce dall’Antico Testamento, cominciando da Mosè, che per vendicare l’oltraggio del vitello d’oro non esitò a scatenare una strage fratricida: “Passate e ripassate nell’accampamento da una porta all’altra; uccida ognuno il proprio fratello, ognuno il proprio amico, ognuno il proprio vicino” (Es 32,25), ammazzando “circa tremila uomini del popolo” (Es 32,28), per sfociare nel Nuovo Testamento, a Saulo, il fanatico fariseo, anche lui “pieno di zelo per Dio” (At 22,3), insuperabile osservante di ogni minimo dettaglio della Legge (Fil 3,5-6), che spirava “minacce e stragi contro i discepoli del Signore” (At 9,1). Corresponsabile della lapidazione di Stefano, primo martire cristiano (At 7,58), Saulo ne approvò l’uccisione (At 8,19) e continuò a perseguitare e far ammazzare i cristiani in nome di Dio (At 26,9-11), riconoscendo lui stesso di essere stato “quanto a zelo, persecutore della Chiesa” (Fil 3,6).
Gesù denuncerà con veemenza lo zelo omicida di questi fanatici, individuandolo negli “scribi e farisei ipocriti”, la casta religiosa al potere. L’ostentata osservanza della Legge da parte di questi zelanti custodi della tradizione, non è segno di fedeltà a Dio, ma al contrario li rende incapaci di riconoscere gli inviati del Signore al loro appari¬re. Lo faranno dopo, quando inviati e profeti saranno morti, assassinati dai sedicenti rappre¬sentanti di Dio, in nome di dottrine che pretendono contrabbandare come volontà divina, mentre in realtà sono solo “precetti di uomini” (Mc 7,7; Is 29,13). A quanti innalzano i sepolcri ai profeti, e adornano le tombe dei giusti dopo averli uccisi, Gesù li accusa di aver da sempre versato sangue innocente sopra la terra, “dal sangue del giusto Abele fino al sangue di Zaccaria” (Mt 23,29-37). Col riferimento ad Abele e Zaccaria, Gesù cita il primo e l’ultimo omicidio riportati dalla Bibbia. Il fratricidio di Abele, a opera di Caino, appare nel Libro della Genesi (Gen 4,8), primo libro della Scrittura, e l’assassinio di Zaccaria, per mano del re Ioas, nel secondo libro delle Cronache (2 Cr 24,20 21), l’ultimo della Bibbia ebraica. Gesù rinfaccia a scribi e farisei, fanatici cultori della Scrittura, che proprio questa, dal primo libro all’ultimo, attesta che sono sempre stati assassini.Quel che può sconcertare, è che a perpetrare l’uccisione per rendere culto a Dio, non sono i criminali, ma i devoti, non i delinquenti ma le persone profondamente religiose. Il furore religioso che li anima non fa scorgere in essi alcuna contraddizione nel loro comportamento, perché la violenza, quando viene esercitata in nome di Dio, esenta da esami o scrupoli di coscienza, ed è giustificata e addirittura sublimata nella preghiera: “Le lodi di Dio sulla loro bocca e la spada a due tagli nelle loro mani” (Sal 149,6). Con la bocca si loda il Signore, e con la spada si uccidono le sue creature, e si arriva a proclamare beati gli autori delle stragi: “Figlia di Babilonia devastatrice, beato chi ti renderà quanto ci hai fatto. Beato chi afferrerà i tuoi piccoli e li sfracellerà contro la pietra” (Sal 138,9).Veramente mai si ammazza con tanto gusto come quando lo si fa in nome di Dio, perché i diligenti difensori della verità si sentono come investiti da un mandato divino, che li esenta dal chiedersi le conseguenze del loro gesto, e quello che agli occhi del mondo non è altro che un’ingiustizia, un crimine, per chi lo compie è obbedienza alla volontà divina. Persone tanto ligie e ossequienti a ogni dettame della religione, scrupolose e zelanti per quel che riguarda regole e devozioni, possono essere poi dure e spietate nel perseguitare quanti giudicano non vivere correttamente il loro credo. E per colpire peccatori ed eretici, apostati e infedeli, ogni forma di violenza diventa lecita, da quella morale, attraverso l’emarginazione e la calunnia, la diffamazione e la delazione, a quella fisica, soffocando la libertà o addirittura, laddove è possibile, sopprimendo la vita.
Per Gesù, un’istituzione religiosa che accetti come culto a Dio la sofferenza e la morte dell’uomo, non è altro che un’associazione atea e criminale, i cui adepti non sono che assassini (“Voi avete per padre il diavolo e volete compiere i desideri del padre vostro. Egli era omicida fin da principio”, Gv 8,44). Gesù dichiara che chiunque uccide credendo di rendere culto a Dio (Gv 16,2), in realtà dimostra di non conoscerlo (“E faranno ciò, perché non hanno conosciuto né il Padre né me”, Gv 16,3). Chi usa la violenza in nome di Dio, lo fa perché non conosce il Padre, anche se si presenta come strenuo difensore del suo onore. Quanti conoscono il Padre non saranno mai persecutori ma perseguitati (“Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi, Gv 15,20). Il Padre di Gesù non è neutrale. Tra chi perseguita, anche se pretende di farlo in nome di Dio, e chi viene perseguitato, il Signore si schiera sempre a fianco dei perseguitati, trasformando la sofferenza che ne deriva, in una beatitudine, suprema espressione di felicità: “Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli” (Mt 5,10). È pertanto evidente che lo zelo per il rispetto ai dettami di testi ritenuti sacri, e per questo considerati immutabili, non è sufficiente per la loro retta intelligenza, come emerge dall’insegnamento e dalla vita di Gesù il Cristo, il Figlio di Dio. Per il Signore non basta che un testo sia considerato sacro, occorre anche che l’uomo sia considerato tale. Per questo, ogni qualvolta Gesù si è trovato di fronte alla scelta se osservare la Legge divina o fare il bene concreto dell’uomo, egli non ha mai esitato, ha scelto sempre il bene dell’uomo, la sua salute prima dell’osservanza del precetto (Mc 3,1-6; Gv 5,1-18). Facendo il bene dell’uomo si è sempre certi di fare anche il bene di Dio. Troppo spesso per il bene di Dio si sono fatti e si fanno soffrire agli uomini.

[fonte 1]
http://www.aclibergamo.it/2020/05/02/lettera-di-parresia-a-proposito-del-comunicato-cei-al-governo-conte/
[fonte 2]
https://www.chiesacattolica.it/dpcm-la-posizione-della-cei/

[fonte 3]
https://www.ansa.it/sito/notizie/politica/2020/04/05/coronavirus-salvini-permettere-le-messe-a-pasqua-_81e512ac-9a26-4ffb-8de7-c0f0ab85d763.html

[fonte 4]
https://www.illibraio.it/zelanti-1372002/

6 Maggio 2020Permalink

15 aprile 2020 – Schiavi della pubblica opinione producono schiavi.

Chi guardasse il calendario del mio blog ad ogni 16 aprile potrà leggere
1995 Pakistan: assassinio del sindacalista Iqbal Masih. Aveva 12 anni
Da allora il 16 aprile è Giornata Mondiale contro la schiavitù infantile –
Istituita in memoria di Iqbal, un bambino pakistano che a soli cinque anni viene consegnato ad un fabbricante di tappeti. Una fabbrica in cui i lavoratori sono tutti bambini che in regime di totale sfruttamento vengono costantemente percossi per ogni minimo errore di lavorazione o per ogni cenno di rimostranza. Iqbal riesce a scappare e, da un incontro con un’attivista per i diritti minorili, comincia la sua battaglia anti-sfruttamento e inizia a lottare contro la schiavitù infantile. La sua piccola voce, le sue denunce, fanno il giro del mondo raggiungendo una tale forza da costringere la fabbrica dove lavorava, e molte altre, a chiudere. Tuttavia è proprio in questo frangente che il bambino pakistano diviene un bersaglio e sarà a causa della sua denuncia che sarà ucciso il 16 aprile 1995.

Con mia meraviglia i giornali oggi ne parlano, ne parla la giornalista di Prima Pagina.
Nel mio blog, oltre alla data, c’era una nota promemoria con cui l’avevo associato ad altri bambini con storie d’attualità
Si può leggere il 28 settembre 2019 con il link https://diariealtro.it/?p=6897
Lascio perdere diariealtro e cerco di capire che succede

Ieri La Stampa aveva un breve articolo di Andrea Riccardi, ex ministro e fondatore della comunità di Sant’Egidio che evidenzia come regolarizzare gli immigrati sarebbe vantaggioso e giusto.
L’articolo non è leggibile ai non abbonati e non trovo più il quotidiano sparito fra quelli che cerco disperatamente di leggere con esiti deprimenti per l’insufficienza del tempo-

Mi soccorre un articolo on line
Coronavirus, Riccardi: ‘Regolarizzare immigrati irregolari, potenziali focolai di infetti’
L’articolo è firmato da Pasquale De Marte e accanto trovo anche l’indicazione per un video di Chiara Esposito [fonte 2]

La guerra contro la diffusione del Coronavirus va combattuta su più fronti.
Uno di questi potrebbe essere quello delle persone che rischiano di sfuggire al controllo in quanto irregolari. E’ il caso dei migranti, molto spesso lavoratori stagionali ai limiti della schiavitù, che possono diventare un preoccupante veicolo di contagio. A lanciare l’allarme e a proporre misure di regolarizzazione straordinarie è l’ex ministro per l’Integrazione del governo Monti, Andrea Riccardi. Il fondatore della comunità di Sant’Egidio, in un’intervista rilasciata a La Stampa, ha spiegato tutte le problematiche connesse al mondo del lavoro e a chi è sul territorio italiano in maniera borderline o comunque irregolare.
Un esercito di invisibili in Italia
Non è un segreto che in Italia ci siano molte persone che lavorano senza un permesso di soggiorno. Come spiega lo stesso Riccardi, si tratta di persone provenienti dall’Est Europa che lavorano come colf, badanti e baby sitter. A loro si aggiungono indiani, africani o persone del Bangladesh che prestano il loro servizio e fanno la fame. “Non hanno – evidenzia l’ex ministro- diritti e fanno la fame”. A rendere più complicata la loro situazione, secondo Riccardi, ci sarebbe stata ,la loro esclusione dagli ammortizzatori sociali straordinari del periodo.
“E’ stato – fa sapere – un errore gravissimo lasciarli senza tutele”.
Tuttavia, secondo Andrea Riccardi, sotto il profilo strettamente lavorativo il problema va affrontato sotto due aspetti. Il primo è strettamente legato alla manodopera. “Secondo Confagricoltura – evidenzia – occorrono 200.000 lavoratori, sono a rischio la produzione e gli allevamenti”.
Per Riccardi, migranti decisivi nella ripresa
La richiesta di manodopera e l’emergenza sanitaria fa nascere, secondo l’ex ministro, la necessità di offrire maggiori garanzie per chi potrebbe lavorare nelle campagne e assistere gli anziani. Tenerli ai margini potrebbe diventare un rischio destinato a diventare sensibile sotto ogni punto di vista. “In Italia – ha detto – ci sono 600.000 migranti irregolari che vivono ai margini e possono alimentare focolai di infezione.
Occorre regolarizzarli prevedendo permessi di soggiorno temporanei per garantire la tutela sociale. Nella fase 2 ci sarà ancora più bisogno di loro”.
Riccardi ha fatto sapere che non vuole sentir parlare di sanatoria, ma necessità di regolarizzare gli immigrati che potrebbero giocare un ruolo decisivo nella ripresa del Paese.
Dopo il Ministro Teresa Bellanova che aveva palesato la necessità di manodopera straniera nei campi, un’altra voce arriva sulla stessa lunghezza d’onda.

Concludo ragionando sul nuovo modello di inclusione, tramite regolarizzazione

Invisibili utili che di conseguenza devono diventare visibili; adulti impegnati nel salvare i prodotti dell’agricoltura nel nostro territorio e badanti che devono salvare famiglie abbandonate con soggetti bisognosi di assistenza
Invisibili inutili e perciò abbandonati dalle istituzioni, dalle norme di legge, alle associazioni culturali, assistenziali, dalle chiese cristiane finalmente ecumeniche nell’accettazione che, a seguito della legge 94/2009, ci siano nati nel nostro territorio cui, accuratamente classificati per condizioni burocratiche, viene negato anche il nome .
Il metodo non è quello usato in Pakistan per il povero Iqbal ma è più morbido e possibilmente altrettanto efficace .

Schiavi della pubblica opinione producono schiavi.
Meritano segnalazione i pochi che si sono rifiutati di partecipare alla distruzione di nati in Italia, distruzione gradita all’indifferenza dei più.

Di seguito accanto ad ogni passaggio indico la data più recente in cui ne ho scritto nel blog diariealtro dove si possono trovare i link per risalire alle fonti.
Ha espresso il sui dissenso la Società Italiana di Medicina delle Migrazioni (e va segnalata in proposito l’attività del GrIS FVG) anche in sede congressuale nel 2014,
La ministra Lamorgese ha dato dignità alla circolare che affida ai comuni l’aggiramento eticamente e politicamente sostenibile dei comuni che la applicano. (7 settembre 2019)
Il consigliere Furio Honsell ha richiamato il ruolo dei comuni con una mozione approvata dal consiglio regionale del FVG (3 ottobre 2919) l.
Ha dato notizia della necessità di cambiare la legge il gruppo Convention on the Rights of the Child
anche con la pubblicazione del 10° Rapporto di aggiornamento sul monitoraggio della Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia. (14 marzo 2020)
Ha consentito alla mia ipotesi il giurista Pietro Ichino
(direttamente al suo sito: https://www.pietroichino.it/?p=54020 )

FONTI
[fonte 1]
https://www.lastampa.it/topnews/primo-piano/2020/04/14/news/coronavirus-andrea-riccardi-regolarizziamo-tutti-gli-immigrati-cosi-possiamo-evitare-il-contagio-1.38715498
[fonte 2]
https://it.blastingnews.com/politica/2020/04/coronavirus-riccardi-regolarizzare-immigrati-irregolari-potenziali-focolai-di-infetti-003115143.html

15 Aprile 2020Permalink

27 marzo 2020 – L’Hospitale sulla antica via dei pellegrini a S. Tomaso di Majano (Udine). La New Entry corrisponde al tag GIULY

Ho ricevuto queste riflessioni dagli Amici dell’Hospitale di San Tomaso di Majano ,esse esprimono molto bene quello che ho pensato io in questi giorni. In effetti trovo straordinario il cambiamento che è riuscito a fare questo virus , riuscendo a stravolgere in pochi giorni il nostro forsennato correre e tante nostre abitudini e tante nostre false certezze. Giuly

Poco più di quindici giorni fa pensavamo che nessuno potesse fermare questo mondo in caduta libera che vedeva molti costretti a spremere ogni ora del loro tempo in una corsa sfrenata e irrazionale di consumi e spostamenti e tanti altri più o meno disperati impegnati invece ad attendere pazientemente di poterci entrare in quel mondo. Tutti sapevamo che era una follia destinata al collasso prima o poi, certo. Ma non potevamo immaginare che fosse così presto e che quell’equilibrio squilibrato fosse così precario. In due settimane si è fermato tutto per un fenomeno più o meno naturale come lo fu l’Influenza spagnola del 1918 o la peste del periodo antico e quella del 1348, del 1360, 1370, 1380, 1399,

tratto dal testo “L’Hospitale di San Giovanni di Gerusalemme” MDP, mappa concessa gentilmente da Markus e Kristine Banduch

1410, 1420 e poi del 1511 e del ‘600: un’epidemia pandemica. Ne usciremo questo lo speriamo ma è già un’immane tragedia per migliaia di persone e famiglie. Purtroppo non sta andando tutto bene, proprio per niente. Quasi mille morti al giorno, soli senza i propri cari, spesso senza un sacerdote, e ormai anche senza dottori. Mi ricordo nel 1996 quando parlammo per la prima volta di globalizzazione, pensai: E le epidemie, chi le fermerà? Pensavo anche alle epidemie di tipo politico-culturale. È la prima epidemia mondiale, ma non pensavamo che quel mondo fosse così fragile. Tutto basato sull’instabilità, sull’orlo della crisi: il sistema economico che consuma tutti gli altri, l’ambiente, l’umanità e la sua sanità.

Solo la primavera non ha subito rallentamenti anzi la città respira, i canali di Venezia sono trasparenti. Chi non leggeva un libro prima non lo legge neanche adesso. “Solo il mestiere del contadino si può ancora praticare”. La criminalità è gli incidenti stradali sono calati dell’80%.
Sembra che sia stata dichiarato il Cessate il Fuoco generale mondiale, sarebbe magnifico. Le famiglie hanno ritrovato, sia pure per forza, l’intimità e il tempo libero, certo quelle che per fortuna non sono state colpite dal virus o non sono rimaste divise dai confini che sono effettivamente stati chiusi, infine, ma per chiuderci dentro. Migliaia di lavoratori stranieri sono tornati in massa ai loro paesi, e molti che già meditavano il rientro non torneranno.
La cura dell’ospedale gratuito improvvisamente è di nuovo la cosa più importante, quello che ti cura perché vali tutto a prescindere da ricchezza, status, età, e patologie pregresse.
Rimpiangiamo di non esserci stretti la mano e guardati in faccia quando potevamo, speriamo di poterlo fare più avanti.

Abbiamo di nuovo bisogno solo delle cose essenziali, cibo e cure, tutti allo stesso modo. Tutto quello che ci sembrava importante non vale più, l’epidemia ha improvvisamente azzerato tutto. Eppure per la natura tutto sembra normale, la primavera apparentemente noncurante prosegue la sua rinascita, spinta dalla forza della vita, ci mostra la via.

Nulla sarà come prima, per un po’, anche se cercheremo di tornare dove eravamo, questo è certo. La vita umana è fragile. Non possiamo essere sempre impreparati a questo. Ma qui è la comunità umana globale a mostrare la sua fragilità. Sono saltati tutti i parametri, il Nord contamina il Sud, chi era chiamato ad accogliere ha bisogno improvvisamente dell’accoglienza, anche chi non aveva bisogno di nessuno ora necessita di cibo, dell’essenziale, della cura e del sacrificio di tanti.
Ma già ciascuno pensa a come uscirne più potente di prima a spese del vicino. Troviamo invece che questa possa essere un’occasione chiara per provare un cambiamento. Per riprovare la cura reciproca tra comunità umane. La comunità umana globale dovrebbe riconoscersi, ritrovare coscienza di sé, del senso del suo progetto, be’ almeno cominciare riprendere un percorso consapevole. Sembra un’utopia ma è già tutto accaduto nel tempo antico, quando è stato inventato l’ospedale gratuito, tra occidente e oriente, quello che ora ci sta salvando. Sembra difficile ma ora questa prova ci ha fatto volgere, tutta l’umanità, dalla parte giusta. La cura reciproca ha molti nomi antichi, ha a che fare con l’essenza dell’umanità, non è solo una pratica provvisoria per uscire dalla prova, ma è la via.
Allora, se non ora quando?

https://hospitalesangiovanni.wordpress.com/

 

27 Marzo 2020Permalink