30 dicembre 2022 – La stampa Marinella Perroni. Il Dio bambino, ostaggio dei pagani
Mi stupisce che l’articolo di Michela Murgia apparso per Natale su La Stampa abbia creato tanto sconcerto: qualche giorno prima ho letto un articolo su Le Monde che è molto più radicale ed esplosivo di quello di Murgia e per il quale nessuno si è sentito di gridare allo scandalo. Né teologi si sono spesi per rassicurare che le schegge vaganti non minano il sistema che resta impavidamente sempre uguale a sé stesso.
Dopo teologi ben noti da tempo anche al grande pubblico ho deciso di intervenire nel dibattito perché mi sembra che l’attenzione sia stata catturata più dal sasso che dallo stagno. Lo faccio da biblista e teologa e non perché Murgia ne abbia bisogno e nemmeno per solidarietà tra donne, nonostante ne meriti tanta, visto che viene fatta oggetto di un odio sociale che ha pochi eguali: se Murgia fosse un maschio, sarebbe gratificata dall’appellativo di polemista, nobile mestiere anche all’interno della grande tradizione letteraria cristiana. Ma, non lo è.
E’ la compattezza di prospettiva da parte di teologi del calibro di Mancuso, Forte e Bianchi che mi ha fatto seriamente pensare. Innanzi tutto perché si sono espressi con autorevolezza, ma sembra non abbiano capito che l’intento di Murgia era quello di difenderci da un’omiletica natalizia che, nobilitando devozionalmente l’infantilismo, concorre a omologare il Natale-cristiano alla paccottiglia pagana o, nel migliore dei casi, ad allontanare i credenti dalla messa natalizia. Forse per noi donne è più facile percepirlo, visto che siamo costrette a stare sempre «al di qua», cioè lì dove la parola autorevole della predicazione deve essere solo ascoltata e mai può essere pronunciata. Lì dove, cioè, si è prese in ostaggio da un’omiletica in cui la retorica del Dio-bambino, quando non irrita, scoraggia.
Anche papa Francesco fa ricorso alla logica del Dio-bambino, ma almeno lo fa con la forza di una tradizione spirituale che rispetta l’esigenza etica dell’annuncio messianico: forse, vuole ben dire qualcosa che la sapienza liturgica della Chiesa ci invita a celebrare, il 26 dicembre, Stefano, primo martire cristiano, e il 28 i santi innocenti come prospettive assolutamente irrinunciabili per comprendere l’evento della nascita del Messia. Troppo fedele al Vangelo di Matteo e in contrapposizione all’irenismo di quello di Luca? Se così fosse, sarebbe bene che i predicatori lo spiegassero, no? È troppo chiedere che chi esercita l’alto ministero della predicazione studi un po’ prima di prendere la parola? Non bastano le chiese sempre più vuote?
Quanto mi sta più a cuore è, però, altro. Non possiamo far finta di non sapere che, dai quattro Vangeli che fin dall’antichità la Chiesa ha considerato canonici, come anche da Paolo, non viene riconosciuta alcuna rilevanza teologica agli avvenimenti della nascita di Gesù e ciò significa che appartengono al bagaglio della tradizione come valore aggiunto, importante, certo, ma sempre aggiunto. Della predicazione di Gesù e del racconto della sua passione, cioè dei fatti di Pasqua, non si può in nessun modo fare a meno, mentre tutto ciò che riguarda quanto può essere avvenuto prima del ministero pubblico di Gesù va capito come frutto dell’enorme sforzo da parte dei suoi seguaci di rendere ragione della fede nella sua risurrezione. In ogni momento culturale la trasmissione della fede cristiana ha messo alla prova la credibilità del suo annuncio. E i due cosiddetti «Vangeli dell’infanzia» di Matteo e Luca non vogliono raccontare fatti, ma tentare di tradurre in termini narrativi la potenza della dichiarazione giovannea «e il verbo si è fatto carne».
Gli storici sanno molto bene che il riferimento al censimento di Augusto ha per l’evangelista Luca ben altro valore che non quello di una notizia di cronaca. Come per Matteo, quanto fa di Gesù il figlio di David, cioè il Messia, è l’appartenenza di Giuseppe alla casa di David e non il fatto di essere nato a Betlemme. Il 25 dicembre, il freddo e il gelo, il bue e l’asino e tutto il resto, non sono nemmeno valore aggiunto, sono semplicemente aggiunte.
Il concetto di incarnazione va maneggiato con cura, e non richiede di storicizzare i singoli racconti contenuti nei Vangeli dell’infanzia, ma impone di rendere ragione del rapporto che sempre esiste tra storia e narrazione. Altrimenti non possiamo stupirci che gli adolescenti si allontanino da quanto hanno ricevuto durante il catechismo come hanno fatto nei confronti di Babbo Natale. Senza poi pensare che il delicatissimo e indispensabile sforzo di dialogo ebraico-cristiano richiede una coraggiosa revisione delle nostre convinzioni, come lo richiederebbero le acquisizioni in ambito biblico che non possono più consentire troppo facili espropri dall’Antico Testamento. Il ricorso ai bisogni della religiosità popolare, poi, è a volte perfino offensivo. I Vangeli dell’infanzia di Matteo e Luca sono, infatti, il risultato di una raffinatissima tessitura che si realizza sulla sottile linea di confine tra teologia e letteratura che il popolo ha capito sempre prima e meglio delle tante formule astratte che ha dovuto accettare di mandare a memoria.
La drammatica situazione attuale fuori e dentro le chiese è un monito: oggi la fede richiede intelligenza critica. E posso assicurare che la ricezione delle parole di Michela Murgia da parte anche di molte comunità cristiane è stata quanto mai positiva. Perché pensare può significare uscire dal sistema, ma mai attentare alla fede.
Marinella Perroni “Il Dio bambino ostaggio dei pagani” (alzogliocchiversoilcielo.com)
23 dicembre – Cosa ha detto Michela Murgia – solo audio
https://www.lastampa.it/audio/audioarticoli/2022/12/23/audio/i_cattolici_amano_un_dio_bambino_perche_rifiutano_la_complessita-12430568/
4 agosto 2022 _ Marinella Perroni “Lo sproposito di dottorar le donne
È stato davvero un piacere leggere nei giorni scorsi su SettimanaNews, il portale dei Dehoniani, un bellissimo pezzo di Anita Prati dal titolo Lo sproposito di dottorar le donne. Con malcelata ironia, Prati contrappone l’accesso delle donne agli studi accademici, una realtà di fatto che – sia pure a fatica se solo si pensa che ha avuto inizio nel Seicento – si va
comunque imponendo, a una ferma convinzione del santo cardinale Gregorio Barbarigo. Al centro dell’interesse di Anita Prati c’è Elena Lucrezia Cornaro Piscopia, intellettuale veneziana e oblata benedettina. La sua vicenda è ben conosciuta soprattutto dalle teologhe per il suo carattere rivoluzionario prima ancora che per il suo valore esemplare: a Elena Lucrezia i notabili del Sacro Collegio dell’Università di Padova, il 25 giugno 1678, attribuiscono il titolo di magistra et doctrix in philosophia e le consegnano le insegne del dottorato. La prima al mondo. Non però – come avrebbe voluto – in teologia: quando, per volere del padre di Elena, venne fatta richiesta all’Università di Padova di riconoscerle la laurea in teologia, la reazione del vescovo Barbarigo fu senza appello: «È uno sproposito dottorar una donna, ci renderebbe ridicoli a tutto il mondo».
A lui, come a tanti altri come lui, la storia non ha dato né darà ragione. Con buona pace della misoginia, ecclesiastica e non solo, ancora imperante.
Una nuova memoria collettiva: la materia c’è….
C’è voluto del tempo però, e – come Anita Prati mette in risalto con grande finezza – è stata necessaria la convergenza tra la filantropia di Mary Clark Thompson, che nel 1906 dona alla Biblioteca del Vassar College di Poughkeepsie una vetrata nella quale è raffigurata la scena del conferimento del dottorato, l’acume della badessa benedettina Mechtild Pynsent, che a fine ’800 pubblica una sua biografia in lingua inglese e, soprattutto, l’impegno appassionato di Ruth Crawford, che all’inizio del ’900 restituisce alla vicenda umana e intellettuale di Elena Cornaro spessore storico sullo sfondo del protagonismo femminile nel Seicento veneziano.
Un filo memoriale della sua riscoperta, dunque, che si snoda lungo secoli e senza il quale la storia di questa donna si sarebbe andata a perdere nel silenzio «come è accaduto per infinite altre storie di donne». Perché non i fatti tessono la storia, ma la memoria. Il filo memoriale va però intessuto nell’ordito di una memoria collettiva che conferisce consapevolezza identitaria a qualsiasi gruppo umano.
In molte ci siamo fatte carico dell’entusiasmante fatica della memoria, sempre più convinte che la storia delle donne non può che essere la ricostruzione di un’immensa mappa genealogica. Per noi teologhe cristiane, poi, questo ha significato recuperare gli infiniti reperti di protagonismo femminile presenti nella Bibbia e portarli alla luce nella loro autenticità, liberarli cioè dalle scorie secolari di un’interpretazione sessista o, per dirlo con la scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie, dal pericolo di un’unica storia, quella maschile.
… eppure non passa
Un lavoro arduo, sempre scandito da una domanda martellante: perché non passa? Perché il filo memoriale delle donne bibliche che abbiamo ricostruito non ce la fa a diventare patrimonio comune delle nostre Chiese nelle quali domina ancora un’interpretazione dei testi biblici del tutto funzionale al mantenimento di un sistema fondato sulla gerarchia dei sessi?
Anita Prati ha ragione quando ricorda che l’arco di tempo che ha visto le donne impegnate a sanare gli spaventosi vuoti di memoria che riguardano la loro storia è ancora molto breve, e cita le parole con cui, nel 1622, Marie de Gournay stigmatizza le conseguenze di una cultura fondata sulla gerarchia dei sessi:«Beato te lettore, se non appartieni al sesso cui tutti i beni sono vietati, con la privazione della libertà, nell’intento di costituirgli come sola felicità, come virtù sovrane e uniche: l’essere ignorante, fare la sciocca e servire».
È vero che la lunga esperienza cristiana è saldamente radicata nella persona e nel messaggio di colui che è venuto “non per farsi servire, ma per servire” (Mc 10,45) e che ha posto il servizio come regola aurea della vita della sua comunità discepolare (Gv 13,12-17).
Si tratta però del servizio, non dell’asservimento a cui sono state sottoposte le donne, prigioniere dei molti servizi, ma private di ogni forma di diaconia ecclesiale pubblicamente riconosciuta. Anche, e soprattutto, la diaconia dell’intelligenza della fede e della potenza della sua trasmissione. Evocando Barbarigo potremmo dire che ci sono ancora tanti “santi” uomini che considerano uno sproposito “dottorar le donne”.
E ancora “la donna accoglie, l’uomo orienta”
La domanda continua a martellare: come è possibile che, ancora oggi, nel recente documento della Cei che viene consegnato alle Chiese locali per orientare il secondo anno del Cammino sinodale, dal titolo I cantieri di Betania, si ratificano e si veicolano dolorosi stereotipi che, oltre tutto, alterano seriamente la comprensione del racconto evangelico della visita di Gesù alle sorelle di Betania?
Viene fatto di sfuggita, in sordina, ma, forse, è inquietante proprio questa assenza di consapevolezza.
In tutto il documento si fa riferimento al testo di Luca in termini metaforici e, insieme, esemplari, e l’attribuzione di significati prende sempre più le distanze dal senso proprio del racconto evangelico. Nel paragrafo “Il cantiere dell’ospitalità e della casa” l’accento cade sulla necessità, anche da parte di Gesù stesso, di una famiglia per sentirsi amato e sul fatto che, nei primi secoli, «l’esperienza cristiana ha una forma domestica». Fin qui, forse, poco da obbiettare.
Ma perché poi, quando si delineano i caratteri della chiesa domestica, si afferma che in essa la comunità vive «una maternità accogliente e una paternità che orienta»? Senza rendersi conto che questa considerazione apre in realtà uno squarcio sugli stereotipi di genere che pesano come un macigno sulle nostre Chiese e «voce dal sen fuggita poi richiamar non vale» (Metastasio).
La strada da percorrere è ancora lunga e, forse, per ora c’è solo da sperare che un numero crescente di padri (e di madri) orientino le figlie allo studio, senza paura di “dottorar le donne”. La rivoluzione, infatti, è un’onda che viene da molto lontano
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