13 novembre 2023 – La pace può costare cara_ Le voci che la ricordano devono fasi memoria collettiva

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Dalla pagina fb di Maurizio Acerbo
UN POST DA LEGGERE E CONDIVIDERE:
Ho tradotto questo articolo da The Nation Magazine e vi invito a leggerlo:
Mio fratello è stato massacrato il 7 ottobre. So che avrebbe chiesto il cessate il fuoco.
di Noy Katsman
Se l’unica giustificazione per la guerra di Israele contro Gaza fosse quella di vendicare morti come la sua, per lui sarebbe impossibile digerire la macchia morale.
Mio fratello, Hayim Katsman, è stato uno dei 31 massacrati americani in Israele il 7 ottobre. Avendo la doppia cittadinanza, Hayim si è trasferito a Holit dopo aver conseguito il dottorato a Seattle, continuando la sua ricerca sul sionismo religioso mentre serviva il kibbutz in difficoltà che amava. Il giorno degli attacchi, mio fratello ha usato il suo corpo per proteggere il suo vicino, Avital, dai proiettili in arrivo. Le ha salvato la vita.
Si potrebbe dire che Hayim è morto nello stesso modo in cui ha vissuto: sacrificando se stesso per proteggere gli altri. Insegnante, sostenitore e amico fidato delle comunità agricole palestinesi delle colline a sud di Hebron, mio ​​fratello spesso interveniva per disinnescare le tensioni con i coloni ebrei prima che degenerassero in violenza. Hayim ha prestato servizio volontario nei giardini di Rahat, una città beduina, e presso l’Academia for Equality, un’organizzazione che sostiene gli accademici palestinesi in Israele. Era anche un DJ di musica araba, sempre alla ricerca di connessioni interculturali. Mio fratello ha trascorso i suoi 32 anni radicato nella convinzione che tutta la vita – israeliana e palestinese, araba ed ebraica – è ugualmente preziosa. E non ha mai rinunciato alla speranza che un futuro più luminoso e pacifico fosse possibile per tutti.
Ho pensato molto a cosa direbbe Hayim in questo momento. Con il bilancio delle vittime a Gaza che ora supera le 10.000, so cosa si chiederebbe: tutte queste vite preziose perdute, a quale scopo? Perché se l’unica giustificazione fosse quella di vendicare morti come la sua, la macchia morale sarebbe impossibile da sopportare per mio fratello. Vorrebbe che i suoi due governi, Stati Uniti e Israele, negoziassero e attuassero un cessate il fuoco umanitario immediato – e perseguissero un percorso verso la libertà e la sicurezza per tutti – prima che sia troppo tardi.
Si suppone che il governo israeliano abbia a cuore la restituzione dei nostri circa 240 ostaggi, cosa che solo un cessate il fuoco renderebbe possibile. Ma ha smesso di ascoltare le famiglie delle vittime, come la mia. Il 28 ottobre, le famiglie dei rapiti hanno chiesto al primo ministro Benjamin Netanyahu di mediare uno scambio totale dei palestinesi incarcerati in Israele con i loro cari: “Tutti per tutti”, hanno implorato . Ma a quanto pare, il gabinetto di Netanyahu considera gli ostaggi poco più che un danno collaterale, pezzi degli scacchi nei “ giochi psicologici ” di Hamas, come ha detto il ministro della Difesa Yoav Gallant. Negoziare oltre la barriera Gaza-Israele semplicemente non è la loro priorità, anche se sono in gioco vite israeliane innocenti.
Per quanto riguarda le vite innocenti dei palestinesi, il disprezzo è ancora più sfacciato. Tra i decessi registrati finora, oltre 4.000 sono bambini di Gaza, un numero di vittime infantile in quattro settimane superiore a quello registrato in tutte le zone di conflitto del mondo in qualsiasi degli ultimi quattro anni. Gallant ha definito senza mezzi termini i suoi obiettivi militari a Gaza: “Stiamo combattendo gli animali umani… Elimineremo tutto”. A giudicare dagli sviluppi sul campo da allora – dai ripetuti attacchi aerei sui rifugiati nel campo di Jabalia a Gaza, all’uso indiscriminato e illegale del fosforo bianco nelle città densamente popolate di Gaza – la comunità internazionale deve prenderlo in parola.
L’obiettivo ufficiale di tutto ciò è distruggere Hamas con ogni mezzo necessario, per rendere Israele di nuovo sicuro. Ma questo ci rende davvero più sicuri? Per i milioni di palestinesi, circa 240 ostaggi israeliani e innumerevoli altri americani e cittadini stranieri ancora intrappolati da qualche parte tra i valichi di Erez e Rafah – circondati su tutti i lati da fuoco, macerie e cadaveri insanguinati – l’incubo è continuo ed inimmaginabile. Con ogni nuovo giorno di guerra, migliaia di vite di soldati israeliani – e, sempre più, la sicurezza dell’intera regione – sono in pericolo. Eppure, il governo israeliano deve ancora darci un’idea chiara di quale obiettivo politico spera di raggiungere.
Per la morte di Hayim e quella di altre 1.400 persone, ha detto il presidente israeliano Isaac Herzog , non è solo Hamas ma “un’intera nazione là fuori ad essere responsabile”. Mio fratello troverebbe spregevole questa logica morale. Hayim non vorrebbe mai che i palestinesi di Gaza pagassero con la propria vita per la sua vita. Sarebbe nauseato al pensiero che gli ostaggi israeliani subissero la stessa sorte che è toccata a lui. La cosa più urgente è che mio fratello avrebbe il cuore spezzato nel sapere che la sua morte ha ispirato la stessa violenza vendicativa a cui si è opposto per tutta la vita.
Hayim chiederebbe il cessate il fuoco, per riportare indietro gli ostaggi, per salvare quante più vite possibili e per avviare un nuovo processo diplomatico, con una nuova leadership da entrambe le parti, in modo che tutti, palestinesi e israeliani, possano godere di pace, sicurezza e libertà.
Che la sua memoria sia una benedizione e uno standard morale per noi da vivere e seguire.

 

13 Novembre 2023Permalink

1 novembre 2023 – Un nome alle cose: pogrom

Lettura da conservare – vedi anche  31 ottobre – Sofri

30 ottobre  2023    La Repubblica
Lo sguardo sul Male  di Ezio Mauro

Convinti di aver capito la lezione che viene dal passato, non credevamo che i nostri figli avrebbero vissuto la contemporaneità di un  pogrom,  con i tagliagole che attaccano di notte per uccidere uomini, donne e bambini inermi, colpevoli soltanto di essere ebrei e per questo giustiziati come potatori di una colpa perenne, inestinguibile.  Nel 2023 sembra di sentire la voce dei lamenti e dei  racconti in yiddish testimoniati nella letteratura dell’Europa centrorientale,  con la storia che non impara da se stessa (nonostante le fosse comuni  del genocidio nel 1995 a Srebrenica) e il male che riemerge  da ogni sconfitta, pronto a contendere il destino dell’umanità.
Ma è inutile negare che nel massacro programmato dai terroristi di Hamas abbiamo intravisto  – in diverse proporzioni e tutt’altro contesto –  la stessa scintilla dell’Olocausto con l’ebreo da annientare come perpetua e suprema missione,  fuori dal tempo e indifferente allo spazio dove si compie.
Certo la Shoah parla attraverso la sua  unicità che contiene il mistero dell’inconcepibile e fissa il limite supremo dell’abiezione: ma l’eccidio del
7 ottobre ha nel suo significato universale l’eco di quegli stessi propositi di annientamento e distruzione sul cui rigetto si è costruita la civiltà occidentale del Dopoguerra.
Proprio per queste ragioni anche il pogrom di Hamas è un uniucum dei nostri anni , e non per il numero di vittime , che resta spaventoso : ma perché i morti non sono combattenti in azioni di guerra ma bensì civili, inseguiti e uccisi nella normalità della loro esistenza quotidiana , nell’esercizio personale delle scelte autonome, nella libertà delle piccole cose che è il tessuto pratico, concreto , del modo di vivere in democrazia.  Questa caratteristica  – persone trasformate in bersaglio non per ciò che hanno fatto ma per ciò che sono, dato sufficiente e anzi dirimente nel decretarne la morte – porta l’accaduto fuori dalla dimensione della politica e addirittura oltre la morale , e ci chiede di giudicarlo semplicemente  e finalmente come una dimensione del disumano.
Il problema è che non riusciamo a tenere lo sguardo fermo sul male . Anche la morale,  troppo indaffarata e sollecitata da un mondo fuori controllo, procede per stereotipi assegnando una specifica categoria ad ogni vicenda,  e finisce per giudicare la categoria, non l’avvenimento. E’ un giudizio disincarnato, prevedibile ma meccanico, quasi automatico dunque non riflessivo, che ci consente di rimanere al riparo delle nostre convinzioni e dei nostri pregiudizi senza lasciarci investire e deviare dalla furia degli eventi incalzati alla continua metamorfosi del male: che mentre si riproduce cambia ogni volta la sua configurazione per sorprenderci, tentarci, sedurci, fino a catturarci. Tutto conferma l’indebolimento della nostra capacità di conoscere e capire, fondamento indispensabile  di qualsiasi scelta consapevole nel prendere posizione .  Il risultato  è che il giudizio del cittadino rischia di impigliarsi nei luoghi comuni gregari del pensiero egemone o nella semplificazione del controcanto populista, ottundendosi, oppure di smarrirsi soverchiato dalla portata universale dei fenomeni che deve valutare, arrendendosi..
Semplicemente, non  reggiamo il peso del reale. Senza più sovrastrutture ideologiche e culturali capaci di ingannare e consolare ma anche di decifrare e tradurre, incasellando, non sappiamo maneggiare  l’evidenza rovente di ciò che accade fuori dagli schemi costruiti per semplificarci la visione del mondo , con l’obiettivo di decantare le vicende che ci sconcertano, decontaminandole fino a banalizzarle. Rifuggiamo dalla potenza della realtà, oppure la consumiamo da semplici spettatori. Proiettandola all’esterno della nostra testimonianza  di vita, illudendoci di essere al riparo protetti dallo schermo artificiale che trasforma l’esperienza in rappresentazione, dunque intangibili.
In realtà quel che cerchiamo di evitare non è tanto la vulnerabilità ,  ma la responsabilità, cioè la coscienza di essere anche noi , dovunque siamo, parti in causa  del nuovo disordine mondiale che ci minaccia.
Ecco perché fatichiamo a chiamare il pogrom col  suo nome, nell’unico significato possibile: per mantenere una distanza  che salvi intatti i nostri equilibrismi politici  e i nostri meccanismi ideologici, evitando che la novità antica del tragico  nella sua potenza getti tutto per aria, costringendoci a ricominciare a pensare da capo per capire. Come è possibile che di fronte alla chiarezza pedagogica dell’assalto di Hamas e dell’invasione russa dell’Ucraina noi siamo incapaci di farci investire integralmente dall’accaduto, per giudicarlo nella sua essenza, passando dalla commiserazione alla condivisione? Invece procediamo per compensazione nelle colpe , per sottrazione di senso , per concatenazione di responsabilità fino a smarrire il bandolo di un giudizio e la capacità di cogliere  la portata autentica di ciò che è successo. Illudendoci in questo modo di stare nella storia mentre invece al massimo siamo dentro l’opportunismo della realpolitik.
L’esperienza italiana col progetto di eversione armata e omicida ci ha insegnato che il primo strumento di contrasto al terrorismo è sempre la capacità di chiamarlo col suo nome, senza infingimenti e ambiguità. Così non ci possono essere dubbi sulla natura di Hamas , sui suoi metodi e i suoi obiettivi,  dichiarati.  Le scelte sciagurate compiute dal governo di Israele sono un’altra cosa, fanno parte della politica e non di uno statuto di sterminio, meritano condanna e opposizione ma non possono diventare un elemento di giustificazione o un’attenuante. Anche la sofferenza e la disumanità delle condizioni di vita cui sono costretti i palestinesi a Gaza devono essere considerate dci per sé , nel loro significato che testimonia la negazione di un diritto, e valutate per questo: mentre sotto i bombardamenti la vita della popolazione civile della Striscia si riduce a semplice corollario collaterale del nemico, Hamas, senza distinguere. Abbiamo oggi l’autonomia e la libertà per capire e giudicare queste diverse realtà che ci interpellano? Non ci accorgiamo nemmeno che nel declinare l’unica vera soluzione alla crisi mediorientale infinita  -due popoli, due stati  –  noi occidentali condensiamo in una formula due distorsioni clamorose: la prima è l’affidamento della popolazione palestinese tenuta in gabbia a un’organizzazione terroristica, lasciando marcire nella corruzione e nell’inabilità l’Anp, il solo interlocutore istituzionale e politico possibile; la seconda è la noncuranza con cui ribadiamo, accanto al diritto all’autodeterminazione palestinese (che per quel popolo continua ad essere un miraggio fino a sembrare un inganno) , il diritto di Israele ad esistere: come se la sopravvivenza fosse una semplice variabile gregaria della politica, un’opzione tecnica che va  ogni volta protocollata , perché in quella parte del mondo può entrare in revoca.
Da un linguaggio così malato non può  venire alcun rimedio , perché ci rende incapaci di leggere ciò che stiamo vivendo, o di cui stiamo morendo. Finché i fatti si vendicano , soverchiandoci fuori dai nostri schemi di comodo, dove la realtà ci aspetta.

1 Novembre 2023Permalink

31 0tt0bre 2023 – Una riflessione di Adriano Sofri

31 OTT 2023  Il Foglio                                                             piccola posta
La vendetta non può essere indiscriminata     Adriano Sofri

Nessuno che guardi la giovane Shani Louk, uccisa da Hamas, e “resti umano”, come si dice, deve vergognarsi di desiderare la vendetta per Israele. Ma quello che sta accadendo a Gaza è un’ingiustizia, una violazione della legge, e prima ancora è un abuso e una perversione della vendetta

Non è vero che il perdono sia la miglior vendetta. Il perdono non ha niente a che fare con la vendetta, salvo che sia un perdono malignamente simulato, per rendere più forte il tormento del nemico. Non è vero nemmeno che la vendetta sia il contrario della giustizia. La vendetta sta fra l’ingiustizia estrema e la giustizia ideale, è insieme un passo verso la giustizia e una sua contraffazione. Si può desiderare e perseguire la vendetta meditatamente, senza vergognarsene. All’indomani del 7 ottobre, chi avrebbe osato raccomandare alla gente di Israele il perdono? (Magari in quella forma così di successo nella nostra scena quotidiana, il microfono caldo puntato contro la madre chiedendole: “E scusi, lei perdona?”). Di più, chi avrebbe osato deprecarne un desiderio di vendetta? La giustizia è una vendetta proporzionata e sottratta all’offeso per essere delegata a un’autorità, divina o terrena – e, dove c’è, a una legge e alle sue procedure – riconosciuta superiore.

Ci sono circostanze in cui la rinuncia alla vendetta appare inaccettabile e derisoria. La giustizia, in uno dei punti essenziali cui è arrivata in una parte del mondo, ripudia la pena di morte. La vendetta no, e anche in quelle parti di mondo ha bisogno della morte, e la chiama guerra. Gli israeliani che hanno esplicitamente rivendicato (è la stessa parola) la volontà di vendetta, non hanno bestemmiato. Ma la vendetta pone un problema decisivo, ancora più della giustizia: che non deve sbagliare bersaglio, nemmeno di poco. La giustizia è bendata, per non essere parziale, la vendetta ha l’occhio bene aperto, per non mancare la mira. La vendetta non può essere indiscriminata. Gaza è un’ingiustizia, una violazione della legge, ma è prima ancora un abuso e una perversione della vendetta.

Nessuno che guardi la giovane Shani Louk e “resti umano”, come si dice, deve vergognarsi di desiderare la vendetta. Israele, in molte drammatiche occasioni, aveva dilazionato la vendetta per salvare vite minacciate: ceduto al ricatto, riservandosi di farlo pagare carissimo a tempo debito. Si possono scambiare mille prigionieri per un ostaggio, diecimila per 229, e fissarsi nella memoria il nome e le facce dei ricattatori, e contare i giorni. Altra cosa, tutt’altra sproporzione, incomparabile, è quella fra 1.400 morti civili israeliani trucidati e migliaia di civili di Gaza uccisi senza colpa. Questa volta Israele è corso all’attacco indiscriminato, e a una vendetta accecata dall’offesa e dall’ira. La giustizia vuole, presume, di essere impersonale in chi la esercita, personale in chi ne è sanzionato. La vendetta, di cui oggi sento di riconoscere il valore, ha solo questo in comune col perdono, che devono ambedue essere freddi, e stare alla larga dal mucchio. (Ho scritto così, benché la vendetta scaldi il cuore ben più che la giustizia). Infine, ancora più della giustizia, la vendetta non può permettersi lo scialo di danni collaterali.

31 Ottobre 2023Permalink

31 ottobre 2023 – C’era una volta re Erode. E’ tornato a farci visita

Ha scritto Furio Honsell
Questa sera, quando forse suonerà alla mia porta qualche gruppetto di bimbi del quartiere, attratti dalla zucca sul muretto della casa, e darò loro qualche dolcetto in risposta alla domanda che mi porranno, penserò con ancora maggior dolore ai bimbi di #Gaza che, nati e cresciuti nell‘#apartheid, alla stessa ora non potranno fare altrettanto perché mortalmente esposti alla barbara rappresaglia dell’esercito israeliano in risposta alle barbarie del 7 ottobre.
Penserò anche a quei bambini invisibili in Italia a cui le norme del nostro Paese non permettono ancora di avere un nome senza che questo comporti dei rischi per i loro genitori, se irregolari.
E mi chiederò cosa ho fatto per ridurre aritmeticamente, come avrebbe detto Camus, l’ingiustizia nel mondo …
Sabato scorso ho partecipato a due presidi a Udine. Uno antifascista, promosso dall’#ANPI, dove sono intervenuto per ribadire come fascismo significhi negare i diritti degli altri e come antifascismo voglia dire all’opposto difendere i diritti degli altri. La scelta tra fascismo e antifascismo è la scelta tra abbruttimento ed emancipazione.
L’altro presidio, promosso da Ospiti in Arrivo, era invece di condanna del genocidio del popolo palestinese in corso a Gaza. Sono intervenuto per ricordare come più di un anno fa avevo organizzato a Trieste la presentazione del Rapporto di #Amnesty International ”Israel’s Apartheid against Palestinians” e di quanto scarsa fosse stata la partecipazione; ho concluso denunciando i “doppi standard” nel mondo occidentale.
I #diritti o sono di tutti oppure non sono.

Ho commentato anch’io

Sono vissuta per parecchi mesi in Cisgiordania (nel 2003 e nel 2005 ), ho visitato più volte Gaza in viaggi organizzati dalla rivista Confronti che mi hanno reso possibile l’ascolto di parti diverse anche in contraddizione fra loro.
Naturalmente avendo io fatto una scelta personale estranea alle diverse espressioni della società civile come schierata nella realtà in cui vivo mi sono resa conto di essere un cane sciolto non degno di ascolto. Quindi capisco l’avvertimento di Nabil Bahar.
So che occorre avere spalle molto larghe e che occorre vivere , con idee chiare, il rifiuto della follia dell’uso dei bambini come ‘bottino di guerra ‘ , usandone l’immagine per dar sapore a dichiarazioni appartenenti a schieramenti contrapposti
Condivido perciò totalmente la considerazione di Furio Honsell sui bambini nati in Italia e resi invisibili, cui una norma di legge dal 2009 crea ostacolo alla registrazione anagrafica.
Qui non siamo in regime militare ma la negazione dell’esistenza e della identità è guerra condotta con mezzi diversi da quelli militari..
Ringrazio perciò Furio Honsell per aver colto il significato pesante di quello che il parlamento italiano tutto e la società civile pure considerano un problema insignificante,
Secondo me ogni crepa nei fondamenti del nostro ordinamento costituzionale come si esprime nei suoi principi non è piccola cosa ma il segnale dell’inizio di un degrado di cui non sappiamo quando accelererà dando luogo a nuovi e imprevisti orrori.
31 Ottobre 2023Permalink

17 ottobre 2023 _ Armare lo sguardo_ B’Tselem

16 OTTOBRE 2023ANTICHI SAMUEL, LESSICO DELLA CONTEMPORANEITÀ  di SAMUEL ANTICHI

Raccontare il conflitto israelo-palestinese, il caso di B’Tselem.

Con l’attacco da parte di Hamas contro Israele il 7 ottobre scorso, l’Occidente rivolge nuovamente l’attenzione a un conflitto che imperversa in realtà da settantacinque anni e il cui acuirsi era già riconducibile alla ri-elezione di Benjamin Netanyahu nel novembre 2022. L’occupazione israeliana, oltre a livello territoriale, si è contraddistinta per un processo di armamento dello sguardo che prevede l’appropriazione del campo di percezione e della rappresentabilità, limitando lo spettro visivo con schermi difensivi, alzando muri e torri di controllo. Inoltre, come sottolinea l’architetto Eyal Weizman, gli insediamenti israeliani sono costruiti molto spesso su zone collinari in modo da poter adottare una separazione verticale, dall’alto verso il basso, tra loro e i villaggi palestinesi a valle, impiegando una one-way hierarchy of vision.

Analogamente, le strade sono direzionate e le finestre delle abitazioni orientate verso i villaggi palestinesi. Questo permette anche ai coloni israeliani di indirizzare lo sguardo costantemente verso il nemico in una forma di controllo e sorveglianza. Il processo di armamento dello sguardo viene incrementato a partire dal 2011 quando l’esercito di difesa israeliano (IDF) inizia a fornire videocamere ai soldati che operano nei territori occupati attraverso un’iniziativa denominata Documenting Warrior Project. In aggiunta, l’anno successivo, viene formata un’unità speciale di “Camera-combattenti” (Lochamim-Tzalmim) addestrati in campo militare e cinematografico. A partire dall’operazione “Margine di protezione”, campagna militare delle forze armate israeliane nella striscia di Gaza, nell’estate del 2014, i video-operatori seguono costantemente l’esercito di difesa producendo quelle che potremmo definire, parafrasando il pensiero di Judith Butler, compliant images, immagini che aderiscono alla prospettiva visuale dello stato colonizzatore, dove «lo sguardo rimane limitato ai parametri stabiliti di una determinata azione» (Butler 2005, p. 822).

Più recentemente, l’IDF ha incoraggiato i militari ad utilizzare anche i propri smartphone per raccogliere materiale video da pubblicare, andando ad arricchire ulteriormente i canali ufficiali dell’esercito. Oltre ai soldati muniti di videocamera e operatori embedded, troviamo anche un corpo speciale composto da sole donne denominato Tazpitaniot (osservatrici) che controllano da remoto i filmati di più di 1700 camere di sicurezza posizionate in punti strategici a Gaza e in Cisgiordania. Le strutture di video sorveglianza si estendono con l’utilizzo di droni e della fotografia aerea per la mappatura e controllo del territorio.

Dall’altra parte invece, per controbilanciare il regime scopico egemonico imposto dall’occupazione israeliana, l’organizzazione non governativa B’Tselem, – Centro di Informazione per i diritti umanitari nei territori occupati, ad esempio, ha lanciato nel 2007 Camera Distribution Project, tre anni prima delle Primavere Arabe, che hanno reso evidente il ruolo dei digital e social media nel trasmettere e restituire i conflitti politici così come denunciare la violazione dei diritti umanitari. Il progetto, che inizialmente si chiamava Shooting Back, ha l’intento di “armare” i cittadini palestinesi fornendo loro una handycam in modo da poter contrattaccare, filmando, le violenze subite e perpetrate dall’esercito israeliano. Camera Project, esponendo le ingiustizie, le violenze e gli abusi subiti dai cittadini palestinesi nel regime di occupazione, mettendo in discussione la legittimità dei comportamenti dei coloni israeliani a livello internazionale, decostruisce lo stesso apparato di potere che queste azioni regolarizza.

Ridotti a corpi da osservare, controllare e ispezionare, soggetti ad un regime scopico di occupazione, la pratica documentaria come forma di attivismo rende visibile l’invisibilità a cui è confinata la popolazione palestinese. Le videocamere nelle mani dei volontari tentano di rovesciare la dominazione visuale imposta dai colonizzatori rivendicando il proprio right to look, «un’autonomia basata su uno dei suoi principi primi: il diritto all’esistenza» (Mirzoeff 2011, p. 477). Questo aspetto richiama inoltre il carattere di precarietà delle vite perse in guerra espresso da Judith Butler che sottolinea come, all’interno delle dinamiche di potere, dominio e prevaricazione esercitate da un regime oppressivo, alcune vite non vengano considerate da compiangere, in quanto «non si possono percepire vite specifiche come ferite o perse se prima non sono percepite come viventi» (Butler 2009, p. 50). Dal momento della sua fondazione, B’Tselem ha svolto un lavoro di documentazione e di ricerca pubblicando statistiche, informazioni così come testimonianze e filmati sulle violazioni dei diritti umani perpetrate da Israele nei confronti della popolazione palestinese. L’archivio video di B’Tselem contiene più di 5000 ore di materiale video, di cui una buona parte è accessibile online.

L’amateurized media universe che ha preso vita a partire dai filmati realizzati dai volontari di B’Tselem per certi versi si discosta da quello di altre forme di video-attivismo, per esempio la narrazione della guerra civile siriana, caratterizzato come sottolinea Papadopoulos da ipermobilità, opacità, non narratività e raw audio. L’intenzione più che fornire allo spettatore un’esperienza soggettiva e incarnata, immergerlo all’interno della natura del conflitto, è quella di carattere sia testimoniale che informativo. Piuttosto che focalizzare l’attenzione esclusivamente sulla rappresentazione grafica della violenza perpetrata dall’esercito israeliano attraverso immagini sensazionalistiche, l’obiettivo è quello di mostrare le pratiche di controllo dei coloni esponendo azioni ormai iscrivibili alla routine quotidiana. Molti dei video realizzati dai volontari cercano di mostrare il meccanismo strutturale dell’occupazione che consiste prima di tutto nell’invasione e nell’appropriazione dello spazio privato, perquisizioni nelle case durante la notte, abbattimento di abitazioni, espropriazione di terreni, blocco dell’accesso alle cisterne dell’acqua, azioni legali e permesse che diventano parte di un vero e proprio piano regolatore.

I volontari di B’Tselem nello specifico, una volta che iniziano a collaborare al progetto, prendono parte ad una serie di workshop in cui i field researchers e i membri dell’organizzazione insegnano loro alcune tecniche di ripresa da utilizzare in determinati contesti. Oltre a istruzioni di base, come mi è stato detto nelle interviste che ho condotto nel mio periodo di ricerca a Gerusalemme presso l’organizzazione, un punto su cui ci si sofferma nel workshop è l’importanza di tenere la videocamera stabile, perché troppi movimenti rischiano di rendere il tutto troppo confuso e di infastidire e confondere lo spettatore.

Per stabilizzare l’inquadratura, viene insegnata ai volontari la cosiddetta posizione del T Rex in cui i gomiti sono attaccati e la videocamera posizionata all’altezza del petto. Per evitare di doversi accostare troppo all’azione e mettere magari a rischio la propria vita, uno strumento per avvicinare lo sguardo della camera impiegato spesso nei video di B’Tselem, che non viene invece pressoché mai usato nei filmati amatoriali della guerra civile siriana, è lo zoom. Il consiglio rimane comunque quello di fare uno zoom ad allargare il campo e quindi inserire il contesto piuttosto che uno zoom in dove l’inquadratura rischia di diventare meno stabile. Con l’intento di raccogliere materiale per mostrare il meccanismo strutturale e sistemico dell’occupazione e della violazione dei diritti umanitari, B’Tselem pone l’attenzione su quella che Žižek ha definito objective violence, una violenza molto spesso invisibile perché insita all’interno di determinate dinamiche di potere coloniale.

Contrariamente, la violenza soggettiva mostra «una perturbazione dello stato normale e pacifico delle cose», per questo motivo è visibile ed esercitata da un soggetto chiaramente identificabile (una persona armata) contro una vittima chiaramente identificabile (persona ferita dal colpo dell’arma) (Žižek 2008, p. 2). Se da una parte, la violenza soggettiva richiama particolare attenzione perché squarcia il velo di normalità, un “non-violent zero level”, la violenza oggettiva mostra «la violenza inerente a questo normale stato delle cose», le dinamiche di violenza e soprusi che reggono sistematicamente i meccanismi di un regime oppressivo (ibidem).

Piuttosto che collezionare esclusivamente immagini di violenza grafica che potrebbero avere un apporto prevalentemente sensazionalistico, andando a costituire singoli frammenti di violenza soggettiva, B’Tselem nel suo raccogliere materiale in un archivio digitale dove vengono mostrati i meccanismi che regolano le dinamiche di occupazione, e come queste perdurino nel tempo, cerca di rendere visibile la violenza oggettiva, provando a raggiungere un impatto maggiore. Usando la macchina da presa come arma di comunicazione di massa, tentano di rovesciare la dominazione visuale imposta dai colonizzatori mettendo in mostra le dinamiche di potere che regolarizzano la violazione perpetua dei diritti umanitari nei territori occupati.

Riferimenti bibliografici

  1. Berdugo, The Weaponized Camera in the Middle East Videography, Aesthetics, and Politics in Israel and Palestine, Bloomsbury, London, 2021.
  2. Butler, Photography, War, Outrage, in “PMLA”, v. 120, n. 3, 2005.

Id., Frames of War: When Is Life Grievable?, Verso, London, 2009.

  1. Mirzoeff, The Right to Look, in “Critical Inquiry”, v. 37, n. 3, 2011.
  2. Papadopoulos, Citizen camera-witnessing: Embodied political dissent in the age of mediated mass self-communication, in “New media & society”, v. 16, v. 5, 2013.
  3. Weizman, Hollow Land: Israel’s Architecture of Occupation, Verso, London, 2007.
  4. Žižek, Violence: Six sideways reflections, Picador, New York, 2008.

NOTA

B’Tselem (ebraico: בצלם, “a immagine di”, come in Genesi 1:27) è una organizzazione israeliana non governativa (ONG). Il B’Tselem si riferisce a sé stesso come “Il Centro di informazione israeliano per i diritti umani nei territori occupati”. Il gruppo è stato fondato il 3 febbraio 1989 da un gruppo di personalità pubbliche israeliane, tra cui avvocati, accademici, giornalisti e membri della Knesset. Il suo direttore esecutivo è Jessica Montel.

Gli obbiettivi dichiarati di B’Tselem sono “documentare ed educare il pubblico ed i politici israeliani sulle violazioni dei diritti umani compiuti dallo stato di Israele nei territori occupati, impegnarsi nella lotta contro il fenomeno della negazione tra i cittadini israeliani e contribuire a creare una cultura dei diritti umani in Israele”.

Nel dicembre 1989 l’organizzazione ha ricevuto il Carter-Menil Human Rights Prize. B’Tselem è finanziata dal ministero degli esteri del Regno Unito e della Norvegia, come pure le fondazioni con sede in Europa e Nord America.

 

17 Ottobre 2023Permalink

15 ottobre 2023 – Spinoza e molto altro

Vito Mancuso: Ecco che cosa significa nascere in una “Striscia”

Il numero uno di Hamas (che al momento risiede in Qatar da dove ha diffuso un video che lo ritrae mentre prega il suo Dio ringraziandolo per l’avvenuto massacro di israeliani da parte dei suoi) si chiama Ismail Haniyeh ed è nato nel 1962, il mio stesso anno di nascita.

Il numero due di Hamas (che al momento è nella Striscia di Gaza e che per gli israeliani è un uomo già morto) si chiama Yahya Sinwar ed è nato anch’egli nel 1962. Avrei potuto essere loro compagno di classe, seduto nello stesso banco, giocare insieme al pallone. Solo sulla carta, ovviamente, perché in realtà, mentre io sono nato in un operoso paese della Brianza parte di uno Stato nazionale relativamente prospero, essi sono nati entrambi in un campo profughi della Striscia di Gaza privi di uno stato che rappresenti la loro nazione (non a caso ho dovuto scrivere “Striscia”, non Stato). Cosa significa nascere in una Striscia? Cosa significa nascere e crescere in un campo profughi di persone cacciate dalle loro case ed espulse dalla loro terra, e senza nessuna credibile prospettiva di poter superare quella condizione avendo finalmente uno Stato nazionale e riavendo una casa? Significa crescere a pane e odio. A volte può persino mancare il pane, l’odio però mai; anzi, di sicuro esso viene accresciuto dalla mancanza del pane.

Sarà per il medesimo anno di nascita, ma io non posso fare a meno di chiedermi che cosa avrebbe rappresentato per me crescere in quelle condizioni. Che cosa sarei diventato io, venuto al mondo nello stesso anno del numero 1 e del numero 2 di Hamas, se fossi nato lì, da genitori cacciati dalle loro case e dalla loro terra, e vedendo che le speranze di ristabilire un minimo di decenza delle mie condizioni vitali invece di crescere diminuiscono giorno per giorno fino a risultare inesistenti?

Non pensi il lettore che questo mio discorso sia teso a giustificare o anche solo a giudicare con minore severità il massacro del 7 ottobre perpetrato dai militanti, o meglio terroristi, di Hamas. No, nessuna giustificazione di nessun tipo. Sono convinto però che non si debba deporre l’intelligenza che ricerca le cause perché solo così si va alla vera radice dei problemi. Ha scritto uno dei più grandi pensatori ebrei di tutti i tempi, Baruch Spinoza, che citerò molto in questo articolo: «Mi sono impegnato a fondo non a deridere, né a compiangere, né tanto meno a detestare le azioni degli uomini, ma a comprenderle» (Trattato politico, I, 4). Comprendere: di questo si tratta, e quindi la domanda è: il massacro di Hamas è riconducibile alle condizioni in cui i palestinesi versano dal 1948 a oggi, diventate via via sempre più intollerabili? “Il più grande carcere a cielo aperto”, come è stata giustamente definita la Striscia di Gaza, e il continuo furto di terreno da parte dei coloni israeliani nella Cisgiordania, possono rappresentare la spiegazione sufficiente dell’odio assassino di Hamas? A tale questione io rispondo di no.

Non dico che la situazione sociale e politica del popolo palestinese non sia in gioco nella genesi di quell’odio; dico che essa non basta a spiegare la ripetuta decapitazione di bambini ebrei, assunta quale simbolo più tragico dell’enorme massacro. Se le inique condizioni di Gaza fossero la ragione sufficiente, dovremmo logicamente concludere che gli oltre due milioni di palestinesi della Striscia sarebbero disposti a compiere il medesimo gesto: tutti pronti a sgozzare bambine e bambini indifesi. Naturalmente io non posso sapere con sicurezza che non sia davvero così, ma la mia ragione si rifiuta di procedere con queste generalizzazioni grossolane perché il suo compito è strutturalmente un altro: la distinzione. Distinguere è il lavoro per eccellenza del ragionamento debitamente condotto, e come dall’aggressività e dal disprezzo della proprietà altrui da parte dei coloni israeliani non è lecito inferire che tutti gli israeliani siano pronti a calpestare il diritto internazionale, così allo stesso modo dal massacro di Hamas non è lecito inferire che tutti gli abitanti della Striscia di Gaza siano pronti a compiere i crimini inqualificabili di qualche giorno fa.

Ma se non bastano le condizioni sociopolitiche a comprendere il massacro di Hamas, quali altri fattori occorre convocare? La risposta non è difficile: l’odio. Non l’odio come vampata di ira più incandescente del solito che in qualche momento può incendiare l’animo, no; ben più radicalmente, l’odio quale persistente e sistematica ideologia che, a freddo e totalmente in possesso delle sue facoltà, non pensa ad altro che al nemico e alla sua eliminazione. L’odio quale carburante della vita di un essere umano. Perché questo è il punto: che si può fare dell’odio la propria fonte di energia, la propria sorgente vitale, la ragione del proprio esistere. L’odio può conferire una sorta di macabra vitalità e lucidità alla mente.

Ha affermato Sami Modiano, sopravvissuto ad Auschwitz: «Non è vero che l’odio è cieco, ha la vista molto acuta, quella di un cecchino, e se si addormenta il suo sonno non è mai eterno, ritorna». E che l’odio abbia la vista molto acuta lo dimostra l’accuratezza con cui Hamas ha preparato e condotto il massacro.

Torniamo ai suoi capi. Si può nascere nello stesso anno, nella stessa città o nello stesso campo profughi, persino nella stessa famiglia, e avere vite diverse, addirittura opposte. Per fortuna o sfortuna che sia, noi siamo esseri indeterminati. Per fortuna o sfortuna che sia, la libertà esiste davvero. Ha scritto un altro sopravvissuto ad Auschwitz, lo psicologo ebreo viennese Victor Frankl, riflettendo sulle condizioni nel campo di sterminio: «Tutto ciò che accade all’anima dell’uomo è il frutto di una decisione interna. In linea di principio ogni uomo, anche se condizionato da gravissime circostanze esterne, può in qualche modo decidere cosa sarà di sé». Si può leggere il Corano e trarne insegnamenti di odio e di violenza; lo si può leggere e trarne insegnamenti di amore e di pace. Lo stesso vale per la Bibbia, dove pure vi sono passi di odio infuocato e altri di amore luminoso. Perché alcuni leggono il loro libro sacro nel primo modo e altri nel secondo? Lo stesso vale per ogni altra lettura, a cominciare da quella più importante di tutte, la nostra vita: perché alcuni la interpretano come odio e altri, a parità di condizioni, come volontà di pace?

Dopo aver osservato con il più rigoroso distacco le azioni umane nella loro genesi e nel loro sviluppo, Spinoza giunge alla conclusione che «l’odio non può mai essere buono» (Etica IV, 45). Sono del tutto d’accordo con lui. Mai vuol dire “mai”, anche quando si tratta di rispondere all’odio ricevuto. Soprattutto quando ad agire è lo Stato, come Spinoza specifica: «Tutto ciò che appetiamo perché siamo affetti dall’odio è turpe e ingiusto nello Stato». La caratteristica peculiare di un vero politico è la capacità di affrontare il nemico con determinazione ma senza odio, perché, come ha scritto sempre Spinoza, «ognuno che è guidato dalla ragione desidera anche per gli altri il bene che appetisce per sé» (Etica, IV, 73). Desideri la terra? Dai la terra anche al tuo nemico. Desideri l’acqua? Dai l’acqua al tuo nemico. E così per ogni altro bene vitale. Dietro queste parole del più grande filosofo ebreo, io rivedo il nobile volto di Yitzhak Rabin.

 

Vito Mancuso, La Stampa 15 ottobre 2023

https://www.alzogliocchiversoilcielo.com/2023/10/vito-mancuso-ecco-che-cosa-significa.html

 

15 Ottobre 2023Permalink

15 ottobre 2023 – La conoscenza fa paura, ovunque

14 OTTOBRE 2023              Sospeso il premio per la palestinese  Adania Shibli alla Fiera del Libro di Francoforte.
                                             Scrittori e case editrici arabe lasciano l’evento di Shady Hamadi |

La Fiera del Libro di Francoforte annuncia la cancellazione della cerimonia di premiazione di Adenia Shibli, autrice palestinese del libro “Un dettaglio minore”. La motivazione, diffusa in una nota da Litprom, agenzia letteraria che organizza il premio, è “la guerra in Israele”. In compenso, “spazio addizionale sarà concesso alle voci israeliane”, ha fatto sapere, quasi in contemporanea, Juergen Boos, direttore della fiera tedesca.

Il libro della Shibli si trascina dietro polemiche fin da questa estate, cioè da quando Ulrich Noller, giornalista e membro della giuria del premio, si era dimesso contro la decisione di premiare la scrittrice palestinese. A riaccendere la discussione c’è stato poi un articolo di giornale, uscito questa settimana, in cui il libro, che racconta la vera storia di una beduina stuprata e uccisa dai soldati israeliani nel 1949, è stato accusato di “descrivere Israele come una macchina assassina”. Il volume, tradotto e pubblicato in tedesco nel 2022, si è aggiudicato il prestigioso premio LiBeraturpreis, dato ad autori provenienti dall’Asia, Africa e Mondo arabo. Annualmente, il riconoscimento viene consegnato durante una cerimonia solenne alla Fiera del Libro di Francoforte che è uno dei più grandi e autorevoli ritrovi dell’editoria mondiale.

Le dichiarazioni di Boos e la cancellazione della cerimonia di premiazione della Shibli hanno sollevato la protesta delle case editrici arabe e di molti autori. Dall’Autorità del libro di Sharja, fino all’Associazione degli editori arabi degli Emirati, passando per molte case editrici indipendenti arabe e scrittori, è arrivato l’annuncio del ritiro della loro partecipazione dall’evento a Francoforte. “Sosteniamo il ruolo della cultura e dei libri – scrive in un comunicato l’associazione degli editori arabi degli Emirati –, per incoraggiare il dialogo e la comprensione fra le persone”. E concludono: “Crediamo che questo ruolo sia importante ora più che mai”.

Said Khatibi, celebre scrittore algerino, ha anche lui annunciato la cancellazione della sua partecipazione perché, scrive su Facebook, “speravamo che la letteratura giocasse un ruolo importante per costruire un dialogo fra le parti”. Ma, continua Khatibi che aveva in programma due incontri, “la fiera ha preso una posizione politica di una sola parte contro l’altra”, i palestinesi. Nei giorni passati, il direttore Boos aveva dichiarato che “la fiera condannava fermamente il barbaro terrore di Hamas” e che “il loro pensiero era per le vittime, i loro parenti e le persone che stanno soffrendo per questa guerra”, non menzionando le vittime a palestinesi. A tentare di spegnere le polemiche è la Litprom che, dopo il polverone, ha comunicato di voler riorganizzare la cerimonia. Ma soltanto dopo la fine della fiera.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2023/10/14/sospeso-il-premio-per-la-palestinese-adania-shibli-alla-fiera-del-libro-di-francoforte-scrittori-e-case-editrici-arabe-lasciano-levento/7323358/

 

Un precedente italiano documentato il 4 marzo 2022
https://diariealtro.it/?p=7858

15 Ottobre 2023Permalink

15 ottobre 2023 _ Allarme in Europa_ Antisemitismo

Pagine Ebraiche 24 / L’Unione informa 15 ottobre 2023 – 30 Tishrì 5784

Allarme in Europa. Dopo il massacro l’odio

Germania, Francia e Gran Bretagna sono tra i paesi dove le aggressioni antisemite sono molto aumentate dopo il 7 ottobre data del massacro di oltre 1.300 civili israeliani per mano dei terroristi di Hamas. Violenze fisiche, insulti e minacce ad adulti e bambini, sinagoghe sfregiate con scritte anti-israeliane, manifestazioni inneggianti le azioni terroristiche solo alcuni degli atti registrati. Ci sarà “tolleranza zero contro l’antisemitismo”, ha promesso il cancelliere tedesco Olaf Scholz. Sostenuto anche dai governi francese e britannico, Scholz ha vietato tutte le attività inneggianti i crimini di Hamas in Israele, compreso l’uso dei loro simboli, in Germania. “Chiunque lo farà sarà perseguito”, ha dichiarato. Negli ultimi giorni in Francia 24 persone sono state arrestate in seguito a una serie di incidenti antisemiti: il ministero dell’Interno ha vietato le manifestazioni pro-palestinesi nel paese, ritenendole una minaccia all’ordine pubblico. Dal 7 ottobre in Regno Unito sono più che quadruplicati gli episodi di antisemitismo rispetto all’anno precedente. A registrarlo, un report del Community Security Trust, ente che si occupa di sicurezza delle comunità ebraiche. Il governo di Londra, sulla base di questa indagine, si è impegnato a stanziare nuovi fondi per proteggere scuole e sinagoghe.

In Italia la minaccia antisemita è soprattutto circoscritta alla rete e non c’è stata una crescita del fenomeno, spiegano i ricercatori del Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea (Cdec) di Milano. La situazione continua ad essere però monitorata attentamente e il governo ha garantito massima tutela alle istituzioni ebraiche. Venerdì Hamas ha istigato i musulmani a manifestare a favore dei palestinesi nel giorno di preghiera: sulla base di questo incitamento, le tre scuole ebraiche di Amsterdam hanno deciso di rimanere chiuse. Anche nel nord di Londra alcune scuole ebraiche non hanno aperto i cancelli venerdì. Sabato alcune centinaia di manifestanti ha invaso Trafalgar Square sventolando vessilli anti-israeliani. In Spagna, la comunità ebraica di Barcellona ha cancellato settimane di eventi a causa delle preoccupazioni per la sicurezza.

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15 Ottobre 2023Permalink

11 ottobre 2023 – Una voce grande: Gideon Levy

Gideon Levy, firma prestigiosa di Haaretz, a suo tempo arrivato in Israele facendo l’aliyah:
Gideon Levy: “Israele punisce i palestinesi dal 1948, senza fermarsi un attimo”
Dietro tutto quello che è successo, l’arroganza israeliana. Pensavamo che ci fosse permesso fare qualsiasi cosa, che non avremmo mai pagato un prezzo o saremmo stati puniti per questo.
Continuiamo senza confusione. Arrestiamo, uccidiamo, maltrattiamo, derubiamo, proteggiamo i coloni massacrati, visitiamo la Tomba di Giuseppe, la Tomba di Otniel e l’Altare di Yeshua, tutto nei territori palestinesi, e ovviamente visitiamo il Monte del Tempio – più di 5.000 ebrei sul trono.
Spariamo a persone innocenti, caviamo loro gli occhi e spacchiamo loro la faccia, li deportiamo, confischiamo le loro terre, li saccheggiamo, li rapiamo dai loro letti, effettuiamo la pulizia etnica, continuiamo anche l’irragionevole blocco di Gaza, e tutto andrà bene.
Costruiamo un’enorme barriera attorno alla Striscia, la sua struttura sotterranea costa tre miliardi di shekel e siamo al sicuro. Ci affidiamo ai geni dell’Unità 8200 e agli agenti dello Shin Bet che sanno tutto e ci avviseranno al momento opportuno.
Stiamo spostando metà dell’esercito dall’enclave di Gaza all’enclave di Huwara solo per garantire le celebrazioni del trono dei coloni, e tutto andrà bene, sia a Huwara che a Erez.
Poi si scopre che un primitivo, antico bulldozer può sfondare anche gli ostacoli più complessi e costosi del mondo con relativa facilità, quando c’è un grande incentivo a farlo.
Guarda, questo ostacolo arrogante può essere superato da biciclette e motociclette, nonostante tutti i miliardi spesi per questo, e nonostante tutti i famosi esperti e imprenditori che hanno guadagnato un sacco di soldi.
Pensavamo di poter continuare il controllo dittatoriale di Gaza, gettando qua e là briciole di favore sotto forma di qualche migliaio di permessi di lavoro in Israele – questa è una goccia nell’oceano, anch’essa sempre condizionata ad un comportamento corretto – e in al ritorno, mantenetelo come la loro prigione.
Facciamo la pace con l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti – e i nostri cuori dimenticano i palestinesi, così che possano essere spazzati via, come molti israeliani avrebbero voluto.
Continuiamo a detenere migliaia di prigionieri palestinesi, compresi quelli detenuti senza processo, la maggior parte dei quali prigionieri politici, e non accettiamo di discutere il loro rilascio anche dopo decenni di prigione.
Diciamo loro che solo con la forza i loro prigionieri possono ottenere la libertà.
Pensavamo che avremmo continuato con arroganza a respingere ogni tentativo di soluzione politica, semplicemente perché non ci conveniva impegnarci in essa, e sicuramente tutto sarebbe continuato così per sempre.
E ancora una volta si è rivelato non essere così. Diverse centinaia di militanti palestinesi hanno sfondato la recinzione e hanno invaso Israele in un modo che nessun israeliano avrebbe potuto immaginare.
Alcune centinaia di combattenti palestinesi hanno dimostrato che è impossibile imprigionare due milioni di persone per sempre, senza pagare un prezzo elevato. Proprio come ieri il vecchio bulldozer palestinese fumante ha demolito il muro, il più avanzato di tutti i muri e le recinzioni, ha anche strappato di dosso il mantello dell’arroganza e dell’indifferenza israeliana.
Ha demolito anche l’idea che sia sufficiente attaccare Gaza di tanto in tanto con droni suicidi e vendere questi droni a mezzo mondo per mantenere la sicurezza.
Ieri Israele ha visto immagini che non aveva mai visto in vita sua: veicoli militari palestinesi che pattugliavano le sue città e ciclisti provenienti da Gaza che entravano dai suoi cancelli.
Queste immagini dovrebbero strappare il velo dell’arroganza. I palestinesi di Gaza hanno deciso che sono disposti a pagare qualsiasi cosa per un assaggio di libertà. C’è qualche speranza per questo? NO. Israele imparerà la lezione? NO.
Ieri già parlavano di spazzare via interi quartieri di Gaza, di occupare la Striscia di Gaza e di punire Gaza “come non è mai stata punita prima”. Ma Israele punisce Gaza dal 1948, senza fermarsi un attimo.
75 anni di abusi e il peggio l’attende adesso. Le minacce di “appiattire Gaza” dimostrano solo una cosa: che non abbiamo imparato nulla. L’arroganza è destinata a durare, anche se Israele ha ancora una volta pagato un prezzo elevato.
Benjamin Netanyahu ha una responsabilità molto pesante per quanto accaduto e deve pagarne il prezzo, ma la questione non è iniziata con lui e non finirà dopo la sua partenza.
Ora dobbiamo piangere amaramente per le vittime israeliane. Ma dobbiamo piangere anche per Gaza. Gaza, la cui popolazione è composta principalmente da rifugiati creati da Israele; Gaza, che non ha conosciuto un solo giorno di pace.
11 Ottobre 2023Permalink

15 settembre 2023 – Imperativo quasi categorico : Difendere Dio

De La stampa    15 Settembre 2023

Lo sgradevole sentore della guerra di religione   di Lucetta Scaraffia

«Dobbiamo difendere  Dio e gli elementi della nostra civiltà» : sono queste le parole sfuggite alla nostra presidente del Consiglio dopo il colloquio con Orban e sono parole che a dir poco lasciano perplessi: Sappiamo bene come sia difficile rispondere all’impronta su qualunque argomento  e per giunta in un  momento di grande tensione  interna e internazionale, ma quando si tratta  di dire cosa si vuole difendere sarebbe senz’altro meglio stare un po’ più attenti e cercare di spiegarsi meglio. Difendere Dio, oltre che affermazione  teologicamente dubbia – se mai è Dio che ci difende – è un obiettivo molto vago, che non corrisponde in nulla al problema che dobbiamo affrontare , cioè la crescente ondata migratoria di giovani maschi – in prevalenza provenienti da Paesi di tradizione islamica. Costoro infatti potrebbero rispondere che anche loro difendono Dio, e forse con molto maggiore entusiasmo e molta maggiore convinzione  di noi europei. Il fatto che il Dio che difendono è diverso da quello della maggior parte di noi  non va certo dimenticato, ma le parole di Meloni sembrano alludere a un Dio che invece è solo nostro ,  quasi che solo da queste parti si creda in un Dio e si lasciano dietro uno sgradevole , sgradevolissimo, sentore di guerra di religione.
Si può supporre , naturalmente , che Meloni, dicendo quello che ha detto, intendesse parlare di difesa della nostra tradizione cristiana davanti a un’ondata migratoria c he porta in Europa tanti mussulmani spesso assai rigidi nel modo di vivere la loro identità religiosa. Il che, è bene dirlo subito, rappresenta un problema  reale,  un problema che  esiste e si fa sempre più grave. In una società secolarizzata come è la nostra,  infatti, si è creato un vuoto religioso e in gran  parte anche etico che è facile sia riempito da chi ha idee forti e una fede molto sentita.  Sappiamo per esempio che in molti Paesi europei dove è stata forte la migrazione islamica – come l’Olanda, la Gran Bretagna, la Svezia e perfino la Germania – si sta discutendo  se addirittura accettare i principi della sharìa anche nei tribunali locali, creando in tal modo una sorta di sistema giuridico parallelo. Un sistema che, ricordiamolo sempre, non riconosce la libertà delle donne , il diritto a convertirsi a un’altra religione e altri diritti che noi consideriamo giustamente fondamentali.
Ma le nostre società , la nostra civiltà così intrisa d’incertezza sul senso e il valore della propria identità ha non  poche difficoltà, con il suo  relativismo diffuso, a resistere all’ondata di certezze che ci viene rovesciata addosso dall’immigrazione islamica.  Viviamo infatti in un contesto culturale che  non ha chiarito quali siano “gli elementi della nostra civiltà da difendere”. Ammettiamolo:  chi di noi si sentirebbe così sicuro , ad esempio , nel redigere un elenco dei suddetti “elementi”? Allora sarebbe stato opportuno che magari Meloni avesse chiarito meglio quali sarebbero a suo avviso gli elementi da “difendere “, e magari cercasse su tale  elenco il consenso più vasto dell’opinione pubblica. Solo con la chiarezza  e la consapevolezza di chi siamo  , cioè della nostra tradizione culturale , possiamo avviare un confronto con quel mondo così diverso che, nel sentire di molti, ci sta accerchiando, e avviene un confronto vero, che permetta di uscire dall’utopia di un multiculturalismo impraticabile ma anche dalla prospettiva di un  inevitabile  scontro di civiltà.

15 Settembre 2023Permalink