L’obiezione di coscienza è una virtù. Da coltivare. Intervista a Mao Valpiana
Luca Kocci 03/12/2022, 21:34 Tratto da: Adista Notizie n° 42 del 10/12/2022
41303 VERONA-ADISTA. Per approfondire i temi dell’obiezione di coscienza e del militarismo (v. notizia precedente), Adista ha intervistato Mao Valpiana, presidente del Movimento nonviolento e componente dell’esecutivo di Rete italiana Pace e Disarmo.
Il 15 dicembre saranno cinquanta anni dall’approvazione della prima legge per l’obiezione di coscienza al servizio militare. Nonostante i suoi molti limiti, credo che si sia trattato di una legge molto importante per il movimento per la pace. Cosa ne pensi?
Pochi giorni dopo l’approvazione della legge, Azione nonviolenta (dicembre 1972) titolava «Votata la legge truffa sull’obiezione di coscienza», con il sottotitolo «Chi per grazia sovrana verrà ammesso a compiere il servizio civile alternativo, dovrà pagarlo con una ferma maggiorata di 8 mesi, rimanendo in più sempre soggetto a tutti gli effetti, quale “soldato distaccato”, alla giurisdizione militare». Per rendere ancor meglio il giudizio fortemente negativo sulla legge, Pietro Pinna, l’estensore dell’articolo presentato come editoriale non firmato, scriveva: «Un Parlamento il quale doveva riconoscere il diritto, aperto a tutti, a obiettare (…) vota una legge che si traduce e serve al suo opposto, cioè a statuire il reato dell’obiezione di coscienza. Non c’è da farsi meraviglia di quest’esito, abnorme e logico insieme, da parte di un Parlamento composto di forze politiche che, dalla prima all’ultima, di destra e di sinistra, sono tutte concordi sul principio sommo (per il potere) della necessità dell’apparato di guerra». In sostanza si dice che non viene riconosciuta l’istanza fondativa dell’obiezione, cioè la messa in discussione radicale della struttura dell’esercito, come strumento di guerra. Tuttavia, dopo le dichiarazioni di principio, si riconosce che la legge apre comunque uno spiraglio che dovrà essere utilizzato per ottenere altri risultati, passando dalla testimonianza degli obiettori in carcere, alle lotte per la costruzione e la gestione del servizio civile. E infatti, furono proprio il Movimento nonviolento e il Partito radicale, protagonisti della lotta e del digiuno per ottenere la legge, a fondare e sostenere la Lega degli obiettori di coscienza, che dal 1973 in poi gestì la nascita e la crescita del servizio civile come pratica di impegno per il movimento pacifista dentro la società.
Quali sono stati gli effetti di quella legge sulla società italiana?
Il servizio civile, così come si è sviluppato in Italia, è stato una “invenzione” degli obiettori stessi. Lo Stato aveva predisposto un servizio civile nazionale unico, che immaginava nel corpo, allora militarizzato, dei pompieri. Gli obiettori rifiutarono, non rispondendo alla chiamata, e contrapposero invece un servizio civile diversificato, da attuarsi negli enti del privato sociale (assistenziali, culturali, ambientali, sindacali, ecc.) che si convenzionavano con il Ministero della Difesa per accogliere gli obiettori nelle loro sedi sparse su tutto il territorio nazionale. Dopo le prime resistenze da parte dell’amministrazione militare, passò e si diffuse questo modello di servizio civile, che presto divenne uno dei più avanzati d’Europa. L’obiettore di coscienza in pochi anni divenne una figura riconosciuta che lavorava nel territorio a fianco degli ultimi. Enti o associazioni importanti, come la Comunità di Capodarco, l’Istituto don Calabria, l’ospedale psichiatrico di Basaglia, accolsero per primi gli obiettori, e “sdoganarono” questa figura dandone un’immagine positiva.
La fine della leva obbligatoria è stata una vittoria per il movimento? Oppure l’esercito dei professionisti ha provocato delle conseguenze negative – a cominciare dall’aumento delle spese per gli armamenti – di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze?
La leva obbligatoria è un’invenzione napoleonica, che rispondeva alla concezione “moderna” della guerra su larga scala. Dopo la prima e soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, cambia nei fatti anche la concezione della guerra stessa, sempre più sofisticata, sempre più tecnica, sempre più professionale. La leva popolare quindi ha un suo naturale decadimento, che lascia il posto al professionismo militare. Diminuisce il numero dei soldati, ma cresce la spesa. La sospensione dell’obbligo, cioè della schiavitù militare, è per noi certamente un fatto positivo, anche se questo non cambia di una virgola il male della struttura militare di preparazione e attuazione della guerra, che per certi versi diventa ancor peggiore.
C’è una “terza via” fra esercito di leva e dei professionisti?
No. La nostra prospettiva resta quella del disarmo unilaterale; quindi per noi la via è quella dell’abolizione degli eserciti.
Con la “sospensione” della leva obbligatoria, non si parla più di obiezione, che invece resta un valore da rilanciare. Basta vedere quello che sta succedendo oggi nella guerra in Ucraina, con migliaia di obiettori, di cui però i grandi mezzi di informazione preferiscono non dire nulla. Cosa ne pensi?
Sono d’accordo. L’obiezione di coscienza resta un caposaldo della nonviolenza. Prima ancora di fare del bene è importante non collaborare con il male, diceva il Mahatma Gandhi. I ragazzi russi e ucraini che rifiutano le armi, rischiando di persona e affrontando il carcere e il disprezzo, sono gli unici che si sottraggono alla guerra e prefigurano una via di pace. I mezzi di informazione non ne parlano perché sanno che il loro esempio sarebbe contagioso, come lo fu per molti ragazzi americani ai tempi del Vietnam. Ogni recluta può essere un obiettore di coscienza, ogni soldato un disertore. Dobbiamo aiutare e sostenere ogni singolo obiettore, dell’una e dell’altra parte: patrioti disarmati che non vogliono odiare la patria altrui.
Quella fiscale contro le spese militari poterebbe essere una campagna di obiezione da rilanciare oggi?
Purtroppo il sistema tributario odierno, con la tassazione alla fonte, non permette più una vera e propria obiezione fiscale alle spese militari, come si poteva fare con la Campagna che mettemmo in atto dal 1981 al 1998. Tuttavia nella nostra proposta di legge per la Difesa civile non armata e nonviolenta, sostenuta dalla campagna “Un’altra difesa è possibile”, è prevista la possibilità dell’opzione fiscale, cioè la possibilità per il cittadino contribuente di scegliere se finanziare la difesa armata o la difesa nonviolenta. Dobbiamo impegnarci affinché questa prospettiva diventi politicamente realizzabile.
Dopo la manifestazione nazionale del 5 novembre, è ipotizzabile la ripresa di un movimento per la pace che possa contare su “grandi numeri”? Oppure dal 2003 – il movimento pacifista «superpotenza mondiale», come scriveva il New York Times – a oggi sono cambiate troppe cose e quella situazione non è più proponibile? Perché?
Portare più di centomila persone in piazza, coinvolgendo oltre 600 organizzazioni, è stato un risultato politico importante. Soprattutto perché la manifestazione del 5 novembre a Roma non è un fatto isolato, ma fa parte di un percorso che è partito da lontano, da quando è iniziato il processo di costruzione della “Rete italiana pace e disarmo” che dà voce a un movimento pacifista finalmente maturo, che non si accontenta di slogan o ritualità, che è anche un soggetto politico autonomo ed indipendente. La mobilitazione permanente in atto che ora si riconosce nel cartello “Europe for Peace”, ha l’ambizione di mettere in campo un movimento europeo che possa essere interlocutore di partiti, governi e diplomazie per la costruzione di una Agenda di pace. Il movimento pacifista è già maggioritario nell’opinione pubblica