31 gennaio 2024 – Israele-Palestina: discutere la guerra

Nella posta arrivata oggi ho trovato questa comunicazione degli editori Laterza
L’ho copiata senza riuscire a salvare il link
Funziona solo quello  che porta all’intervento di Anna Foa

Israele-Palestina: discutere la guerra

Sono passati quasi quattro mesi dal massacro di civili israeliani da parte di Hamas e dall’inizio dell’operazione militare lanciata da Israele a Gaza.

Della guerra, che ha provocato decine di migliaia di morti, non si intravede la conclusione.

Rigettando tutti gli appelli per il cessate il fuoco, a partire da quelli delle Nazioni Unite, il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu ha dichiarato più volte che il conflitto durerà a lungo, tutto il tempo necessario ad eliminare completamente Hamas.

Ha inoltre escluso che quando la guerra sarà finita si possa comunque creare uno Stato palestinese, perché “la sicurezza di Israele richiede il controllo militare di tutto il territorio dal Giordano al mare”. Per parte sua Hamas, pur essendo in corso una trattativa per un temporaneo cessate il fuoco per favorire il rilascio degli ostaggi israeliani, non recede dal suo obiettivo di cancellare lo stato di Israele.

L’amministrazione Biden dal canto suo continua a oscillare tra il rifiuto della richiesta di cessate il fuoco (con la motivazione che ciò favorirebbe Hamas) e l’invito a Israele a tener maggiormente conto delle regole internazionali sul rispetto dei diritti umani.

Regole evocate anche dalla Corte internazionale di giustizia dell’Aja che (su iniziativa del Sudafrica) verificherà l’esistenza di un genocidio dei palestinesi a Gaza.

L’aspetto di tragica incomponibilità del conflitto nella striscia di Gaza sembra anche questo: che gli attuali protagonisti dello scontro non hanno interesse alla sua cessazione. Hamas – non l’intera comunità palestinese di Gaza – ha scientemente provocato la reazione israeliana con il selvaggio attacco del 7 ottobre. Il governo Netanyahu – non l’intera comunità israeliana – ha scientemente scatenato una risposta militare a tutto campo che tratta i morti civili come ‘danni collaterali’.

Ma non tutti gli israeliani la pensano così: nelle ultime settimane le voci critiche, anche in Israele si sono moltiplicate.

Su Haaretz l’ex primo ministro Olmert ha scritto che tutta l’efficienza dell’esercito israeliano non basterà a sconfiggere Hamas.

E comunque, la guerra in corso ha alimentato l’odio verso Israele, anche nelle nuove generazioni di palestinesi (i sondaggi dicono che il consenso verso Hamas è aumentato anche nella West Bank). Possiamo aspettare – come sostenuto dal leader del partito della Nuova Destra Naftali Bennett in una intervista alla BBC – che i bambini palestinesi siano educati su nuovi libri di testo e, potremmo aggiungere, che si dimentichino dei loro genitori, dei fratelli, delle sorelle, e degli amici uccisi dai soldati israeliani? Ma il tempo lungo della guerra non sembra essere un problema per Netanyahu, forse anche perché la sua carriera politica sembra ormai appesa al conflitto militare.

E certo alcuni esponenti del suo governo contano proprio su una guerra lunga per ridurre drasticamente la popolazione palestinese residente in Palestina, fino al punto da farla diventare una minoranza trascurabile. ‘Dobbiamo incoraggiare l’emigrazione dalla striscia di Gaza’ ha dichiarato alla radio militare israeliana il ministro delle finanze Bezalel Smotrich in una intervista ripresa dal New York Times. ‘Se a Gaza ci fossero 100 o 200.000 arabi anziché 2.000.000 la questione si porrebbe in modo molto diverso’. Dello stesso tenore le dichiarazioni del ministro della sicurezza nazionale, Itamar Ben Gvir.

Idee che certamente condividono molti tra i coloni che, ogni giorno, sostengono in armi il progetto di conquista di ogni parte della Palestina. E con loro gli israeliani che hanno votato per i partiti di destra oggi al governo, impauriti ed esasperati dalla sequenza di atti terroristici compiuti negli anni da Hamas e da altre organizzazioni militari e terroristiche palestinesi, convinti che la stragrande maggioranza dei palestinesi non accetterà mai l’esistenza dello Stato d’Israele.

Ma altri israeliani non la pensano così: non quelli che leggono Haaretz, su cui Amira Hass ha scritto che occorre dire basta alla guerra e Gideon Levy ha denunciato la disumanizzazione dei palestinesi da parte dei media del suo paese. Nelle settimane scorse l’opinione di questi israeliani ha cominciato ad esprimersi di nuovo attraverso manifestazioni di piazza – come era avvenuto prima del 7 ottobre – che chiedono a gran voce tanto la liberazione degli ostaggi quanto le dimissioni di Netanyahu.

Ma i sondaggi continuano a indicare che la maggioranza degli israeliani è a favore della continuazione della guerra. E quale sarà l’atteggiamento degli ebrei della diaspora, la cui opinione influisce in maniera significativa sui governi dei paesi occidentali? Come ha dichiarato uno dei maggiori studiosi palestinesi del conflitto, Rashid Khalidi, le guerre si concludono non solo in base ai risultati militari ma anche alle reazioni dell’opinione pubblica.

Se è vero che questa non è una guerra locale, perché potrebbe allargarsi e coinvolgere molti altri paesi, come reagirà l’opinione pubblica occidentale? Saremo in grado di discutere in maniera lucida e fondata un tema così complesso e divisivo?

 

Abbiamo rivolto queste domande ad alcuni autori della casa editrice e studiosi competenti delle diverse questioni implicate nel conflitto in corso.

Nell’intenzione di offrire un contributo di analisi alla discussione di una vicenda così difficile da comprendere in tutte le sue componenti.

Il primo intervento è di Anna Foa, la maggiore studiosa italiana della storia degli ebrei, di cui la casa editrice ha pubblicato tra l’altro: Gli ebrei in ItaliaEbrei in Europa. Dalla Peste Nera all’emancipazione XIV-XIX secoloDiaspora. Storia degli ebrei nel NovecentoPortico d’Ottavia 13. Una casa del ghetto nel lungo inverno del ’43La famiglia F.

> Qui l’intervento di Anna Foa

Molti sono gli interrogativi suscitati da questo testo, in un momento in cui, a quasi quattro mesi di distanza dall’inizio della guerra, quel sabato nero del 7 ottobre, essa non sembra voler cessare, il numero dei morti palestinesi a Gaza aumenta ogni giorno di più, e il governo di Netanyahu prospetta soluzioni sempre più estreme, come quella, per fortuna irrealistica, di gettare un’atomica su Gaza o quella di trasferire i palestinesi di Gaza su un’isola artificiale o di deportarne oltre un milione.

Chi crede di agire in nome di Dio non pone limiti alle sue azioni. E i ministri estremisti dell’ultimo governo di Netanyahu, i Ben Gvir e gli Smotrich, eredi di formazioni come il Kach, che fino all’avvento di questa destra erano addirittura impedite di far politica in Israele, sono esattamente questo: agitano un messianismo estremo, che li ha fatti paragonare in Israele a quegli zeloti del I secolo che sono stati causa della guerra con i romani e la distruzione del Tempio, dando inizio alla grande diaspora; e vogliono sbarazzarsi dei palestinesi e in realtà di tutti i non ebrei, ma forse anche di quegli ebrei che non condividono la loro strategia politico-religiosa, sono dichiaratamente razzisti e fautori della pulizia etnica, lavorano per creare una grande Israele guidata dalla Torah, come l’Iran con il Corano. A renderli pericolosi, e non un semplice fenomeno folkloristico, sia pur con le mani sporche di sangue, sta il fatto che sono ministri di un governo in carica, hanno quindi il potere di mettere in pratica quanto dicono. Molte delle loro affermazioni sono confluite nella richiesta del Sudafrica di mettere sotto accusa Israele come prove dell’intenzione di Israele di commettere genocidio. E a loro si riferisce la decisione della Corte dell’Aja, nella sua dichiarazione del 26 gennaio, di “prevenire e punire il diretto e pubblico incitamento a commettere genocidio”, comma votato anche dal giudice israeliano Aharon Barak.

E veniamo alla grande novità di questi giorni, la sentenza, provvisoria perché non decide se Israele stia effettivamente commettendo genocidio, e urgente, perché volta a fermare prima possibile l’intervento di Israele a Gaza, pur senza chiedere un vero e proprio cessate il fuoco. Ma la richiesta di obbedire nella conduzione della guerra alle norme del diritto internazionale implica di per sé un arresto, se non formale sostanziale, della guerra o almeno un suo deciso ridimensionamento. Inoltre, Israele ha un mese di tempo per dimostrare di avere obbedito alle raccomandazioni della Corte. Siamo nell’ambito di precise disposizioni volte a prevenire la possibilità di un genocidio, non a condannarlo dopo la sua realizzazione.

La decisione della Corte dell’Aja si rivela così una sorta di compromesso, ma più dal punto di vista formale che sostanziale. Se verrà rispettata, le possibilità di uscire da questa terribile guerra cresceranno di molto. Inoltre, la sentenza chiede il rilascio immediato dei prigionieri di Hamas. Se il processo andrà avanti, come sembra, ad essere posti sotto accusa saranno, oltre ad Israele, Hamas.

Queste le prospettive che la sentenza dell’Aja apre. Essa rende più facile a Biden votare a favore della mozione dell’ONU per il cessate il fuoco, già bloccata dal veto degli USA nel dicembre. Rende più facile alla società israeliana chiedere, come una sua parte sta facendo nonostante la guerra, le dimissioni del governo Netanyahu perché ne accusa direttamente i ministri di voler realizzare un genocidio, divenendo così responsabili dell’accusa del Sudafrica. Inoltre gli israeliani hanno dalla sentenza un forte appoggio nella richiesta di rilascio incondizionato degli ostaggi.

Più facile non vuol dire realizzabile. Chi pensa che dal momento che nient’altro riusciva a fermare Netanyahu ben venga la Corte dell’Aja, è ben consapevole dei rischi di questa operazione. Non tanto in sé, perché la sentenza dell’Aja si è dimostrata di un raro equilibrio e ha mostrato di aver ben presenti tutti i termini della questione e le sue conseguenze. E nemmeno per gli abitanti di Gaza, a cui difficilmente potrebbe succedere qualcosa di peggio di quello che sta già succedendo. Ma certo per gli ebrei del mondo, che vedono crescere intorno a loro l’antisemitismo. Già ora molta parte dell’opinione pubblica recepisce semplicemente che la sentenza abbia avallato l’accusa di genocidio.

Penso che possiamo e dobbiamo affrontare questo clima, queste accuse. Spiegare, parlare, discutere. Sarebbe molto peggio affrontarlo se i Ben Gvir vincessero ed attuassero il loro folle progetto. Allora davvero, se non avremo fatto nulla per contrastarli, saremo assai meno credibili nel combattere l’antisemitismo.

 

 

31 Gennaio 2024Permalink

28 Gennaio 2024 Viaggio nell’inferno di Khan Yunis: “Hamas ci spara dalle scuole, sbucano e fuggono. Li uccideremo tutti”

 

A caccia dei tunnel con i soldati israeliani nella città del Sud della Striscia. Della gente di Gaza neanche l’ombra, quartieri residenziali rasi al suolo                                            FABIANA MAGRÌ

Khan Yunis (striscia di Gaza). Spazzati come le nuvole dalle raffiche di vento, la polvere e i rumori dei combattimenti in corso nei vicoli stretti dei campi profughi di Khan Yunis arrivano fino al cortile della scuola, alla periferia orientale della città dove ci troviamo. Alle sventagliate delle mitragliatrici segue il boato del missile lanciato dal “chopper”. A Ovest, prima della linea dell’orizzonte sul mare, si alzano colonne di fumo nero. In un attimo, a un chilometro e mezzo di distanza, l’aria si fa nebbia sabbiosa e solleva residui di materiale bruciato, mentre l’elicottero israeliano è già rientrato alla base. Gli edifici della scuola elementare «sono stati usati dai terroristi per spararci addosso e attaccarci», dice a La Stampa il tenente colonnello Anshi dell’unità di riserva paracadutisti della 55esima brigata, nella 98esima Divisione “Ha-Esh” (“Formazione di Fuoco”). Dalle aule dell’istituto le brigate Al Qassam hanno ingaggiato una battaglia ravvicinata con i soldati israeliani. C’era anche Anshi. Un proiettile nemico gli ha perforato il braccio sinistro, da parte a parte. Oggi la scuola è un punto di appoggio logistico per Tsahal. Il pallone di cuoio al centro del cortile – usato evidentemente come campo da calcio oltre che come parcheggio per i tank – lascia intendere che il battaglione di paracadutisti sente di avere la situazione totalmente sotto controllo.

La porta di accesso per le truppe israeliane che operano a Khan Yunis è la breccia stessa creata da Hamas il 7 ottobre del 2023 nella barriera high tech eretta da Israele per separare e proteggere il territorio dello Stato ebraico da quello palestinese. Una sorta di contrappasso, come tendono a sottolineare i militari che venerdì ci hanno accompagnato nella Striscia – dove non si può entrare se non scortati – insieme con altre quattro testate di stampa internazionale.

A poche centinaia di metri da quel confine, ancora oggi, emergono nuovi sbocchi di tunnel. Quello su cui ci affacciamo è stato individuato appena due settimane e mezzo fa dalle forze di sorveglianza. In un campo dove non dovrebbe esserci nulla, hanno notato «una pattuglia di combattimento con 15 soldati» e hanno iniziato a indagare. All’interno del pozzo c’era una scala che scendeva in profondità. Era sporca di fango. «Evidentemente qualcuno l’aveva usata dopo le recenti piogge, quando eravamo già qui. È un’ottima posizione per sbucare fuori da sottoterra con un lanciarazzi, sparare sui carri armati e i veicoli che passano a soli 100 metri, quindi tornare indietro e fuggire verso Gaza». Il genio militare l’ha neutralizzato tra giovedì e venerdì, cioè la sera prima di mostrarlo ai giornalisti. Sul terreno c’erano ancora abbondanti tracce, in forma di schiuma solidificata, dell’esplosivo liquido utilizzato. Sembra incredibile ma dopo oltre tre mesi di operazioni militari israeliane nella Striscia, partite da Nord e scese fino a Gaza City, poi proseguite nella regione di Khan Yunis dopo la tregua di fine novembre, la portata della rete dei tunnel di Hamas, con le sue 5 mila gallerie individuate finora – dicono – è ancora capace di stupirli. Centinaia di chilometri di cemento. Un’altra Gaza, tutta sotterranea, costruita a suon di miliardi.

Generose sovvenzioni del Qatar ad Hamas, che qui comanda dal 2007, su cui il premier israeliano Benjamin Netanyahu non ha interferito.

Tsahal continua a studiare ogni tunnel. Li bonifica per spianare la strada ai suoi professionisti affinché possano raccogliere tutte le informazioni utili, applicando robotica e diverse tecnologie (su cui non possono scendere nei dettagli), sfruttando l’intelligence, le valutazioni basate sulle immagini e i dati che emergono dagli interrogatori dei militanti di Hamas catturati durante l’avanzata. Al termine delle indagini li distruggono, in modo che non possano essere più utilizzati.

A fare la scoperta di questa galleria sono stati due riservisti, un avvocato e un imprenditore immobiliare, di 55 e 66 anni. Un’età in cui la maggior parte dei soldati si accontenta di essere considerato veterano di guerra. Loro dicono: «Non potevamo restare a casa. Siamo qui per i nostri figli e le nostre famiglie». Cercare gli ostaggi israeliani non è la loro missione. E non saprebbero dire se il tunnel appena rinvenuto possa essere stato usato per trasportarne qualcuno nelle profondità di Gaza. «Ma – dicono – siamo certi che sia stato utilizzato il 7 ottobre dalle migliaia di terroristi per avvicinarsi il più possibile alla barriera e sferrare l’assalto massiccio ai kibbutzim».

Khan Younis è il più grande governatorato della Striscia. La sua superficie copre 108 dei 365 chilometri quadrati dell’enclave costiera. Solo qui risiedevano 430 mila persone, di cui i 90 mila nel campo profughi già conducevano una vita ben sotto la soglia di povertà. La loro evacuazione verso Rafah è un evento dalla portata drammatica, che esercita pressioni le cui ricadute diventeranno chiare nei giorni a venire.

Spostandosi tra la barriera e la scuola, il convoglio delle jeep militari attraversa al-Qarara, dove di civili palestinesi non ce nemmeno l’ombra. All’inizio di dicembre, lungo queste strade e tra gli edifici, si sono consumati violenti scontri a fuoco tra le forze dell’esercito israeliano e gli uomini di Hamas. «È una guerra porta a porta. Ovunque incontriamo il nemico faccia a faccia, vinciamo noi», sostiene il colonnello Anshi. Ma ammette che «quando  i terroristi si avvicinano in abiti civili, usano le case, le scuole, le moschee e gli ospedali per attaccare, è lì che riescono a coglierci di sorpresa».

Le forze israeliane avrebbero neutralizzato tra il 48 e il 60 per cento delle brigate al-Qassam. Il Jerusalem Post ha stimato che le percentuali corrispondono a 9mila miliziani su un bacino di 30-40 mila uomini di Hamas. I morti palestinesi dall’inizio dell’offensiva di terra israeliana – stime del gruppo islamico che non distingue tra civili e miliziani – sono oltre 26 mila.

Dell’elegante quartiere residenziale che doveva essere, resta ben poco. L’esercito, spiega Anshi strada facendo, rade al suolo ogni edificio in cui rilevi presenza di attività terroristiche o collegamento con esse. Che siano depositi di armi, lanciatori di razzi, imbocchi di tunnel o documenti. Le villette di al-Qarara lasciate in piedi sono poche isole tra le macerie. È il risultato dell’«approccio sistematico» utilizzato da Tsahal. «Area per area, zona per zona. Ovunque arriviamo – spiega il colonnello Anshi – smantelliamo le capacità dei terroristi, uccidiamo i militanti, facciamo saltare in aria le loro infrastrutture. Quando abbiamo finito, passiamo alla zona successiva». Quanto tempo pensi che ci vorrà ancora, gli chiediamo. «Tutto quello necessario», risponde. Poi aggiunge: «Questo è un hub del terrore che è stato costruito in oltre un decennio. Ci vorrà molto tempo per smantellarlo». Il riservista ha 55 anni. Ha partecipato a operazioni militari precedenti. «Ma questa – dice – non è paragonabile a niente che sia stato fatto prima».

In due mesi, cioè dalla ripresa del conflitto dopo la breve tregua di fine novembre tra Hamas e Israele, la città simbolo del potere dei jihadisti, è stata completamente accerchiata. A Khan Younis è nato Yahya Sinwar, il capo dei capi di Hamas. «Gli stiamo addosso”» dice il colonnello. Ma la caccia all’uomo non ha ancora raggiunto il suo obiettivo più importante.

Al termine della spedizione, si torna indietro sulle jeep che battono strade senza più nome, rese carrabili ai soli fini militari. Si passa di nuovo attraverso la breccia nella barriera e dopo appena cinque chilometri, attraverso campi e serre di banani, si arriva a Ein Hashlosha, il kibbutz così chiamato in memoria dei tre membri fondatori uccisi durante la guerra arabo-israeliana del 1948. Nel massacro dello shabbat di inizio ottobre, le vittime nelle comunità agricole intorno alla Striscia sono state 1200. E 240 i rapiti. Meno della metà sono stati rilasciati. 136 restano ancora in mano ad Hamas. Una ventina di loro sono già cadaveri. Il soldato di scorta a bordo del veicolo, sulla strada del ritorno, è malinconico. Canta tra sé e sé «Ulai» («Forse») del cantautore Aviv Geffen: «E se vedi una ragazza con gli occhi da cerbiatta, dille che la sto ancora cercando».

https://www.lastampa.it/esteri/2024/01/28/news/gaza_hamas_khan_yunis_tunnel_reportage-14026551/?ref=LSHA-BH-P2-S2-T1

28 Gennaio 2024Permalink

27 gennaio 2024. Un paio di scarpette per ricordo di un nato … o forse no

Oggi Facebook mi ha automaticamente rinnovato la memoria del mio post di due anni fa:: una poesia di Joyce Lussu
Non posso non pensare ai piedini dei bambini che oggi in Italia devono essere invisibile e ignoti  perché se diventassero visibili sarebbero noti e denuncerebbero  la doppia colpa dei loro genitori: non averli registrati alla nascita e tenerli nascosti perchè  la legge italiana dal 2009 li ha  voluti piccole spie della irregolarità burocratica dei loro genitori.
Qualcuno irritato dalla mia insistenza nel quasi isolato denunciare mi dice che probabilmente neppure ci sono. A me basta sapere che potrebbero esserci.
A  rivelarli non  ci saranno scarpette rosse. Chissà!
Se non sappiamo chi e come li rivelerà sappiamo però che il cinismo politico forte della beffa perpetrate in legge quasi 15 anni fa si nutre dell’indifferenza , scelta di vita di molte e molti.

C’è un paio di scarpette rosse

numero ventiquattro
quasi nuove:
sulla suola  interna si vede ancora la marca di fabbrica
“Schulze Monaco”.

C’è un paio di scarpette rosse
in cima a un mucchio di scarpette infantili
a Buchenwald
erano di un bambino di tre anni e mezzo
chi sa di che colore erano gli occhi
bruciati nei forni
ma il suo pianto lo possiamo immaginare
si sa come piangono i bambini
anche i suoi piedini li possiamo immaginare
scarpa numero ventiquattro
per l’eternità
perché i piedini dei bambini morti non crescono.

C’è un paio di scarpette rosse
a Buchenwald
quasi nuove
perché i piedini dei bambini morti
non consumano le suole.

27 Gennaio 2024Permalink

27 gennaio 2024 _ Quando le memorie si intrecciano

Giusti fra le nazioni nella ex Jugoslavia

i  tre racconti che potrete leggere con il link in calce mi sono stati offerti da Božidar Stanišić che così ci dice di sé:
“ nato a Visoko (Bosnia, 1956), è laureato in letterature degli slavi meridionali a Sarajevo. Insegna fino al 1992, quando fugge dalla guerra civile rifiutandosi di indossare qualunque tipo di divisa. Arriva in Italia e, aiutato dal Centro Ernesto Balducci, trova la residenza a Zugliano (Udine), dove con la famiglia vive tuttora”.
Oggi lavora e continua a scrivere.  Ha pubblicato  molti lavori di di narrativa e saggistica
La bibliografia è ampia  ed è accessibile on line

Olocausto: i Giusti tra le nazioni in Jugoslavia / Balcani / aree / Home – Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa (balcanicaucaso.org)

27 Gennaio 2024Permalink

26 gennaio 2024 _ Convivere con Auschwitz

24 GENNAIO 2024 Mauro Barberis   Docente di Diritto, Università di Trieste

Mai più: memoria,, genocidio e unicità della Shoah nell’edizione 2024 di Convivere con Auschwitz

Mai come quest’anno la Memoria divide. Ma non la Memoria in sé: sulla celebrazione del ricordo della Shoah, destra di governo e sinistra di opposizione potrebbero persino essere accordo. Il problema sono le conseguenze del conflitto israelo-palestinese. Ce ne siamo accorti organizzando la decima edizione di Convivere con Auschwitz, in convenzione fra Stazione Rogers e Università di Trieste, il 25 gennaio al Teatro Miela a Trieste, dalle 15 in avanti, anche online. Si tratta, come i miei quattro lettori già sanno, della manifestazione annuale che, nella settimana della Memoria, dal 22 al 27 gennaio, celebra la Shoah ma cerca anche di discuterne: quest’anno, inevitabilmente, parlando di guerra e pace.

Non potevamo fingere, infatti, che non fosse accaduto il pogrom del 7 ottobre, i mille morti, la presa degli ostaggi da parte di Hamas. Ma neppure potevamo ignorare – proprio noi, solo noi – la vendetta di Netanyahu, i ventimila morti di Gaza, l’accusa di genocidio mossa per la prima volta a Israele. Come sempre, Convivere cerca di volare alto; le relazioni di Tomaso Montanari, Giuseppe Ieraci, Maurizio Prato, per tacere della mia, non sono sospette di parteggiare per nessuno. La nostra posizione, e qui parlo anche per il padre dell’evento, Gianni Peteani, è riflessa dalle parole pubblicate su Le Monde dal rettore della più grande moschea di Parigi: “” il momento di scegliere: ma non fra Israele e Palestina, fra l’Umanità e il “Male”.

I primi segnali, però, non sono incoraggianti: sento dire che a Convivere non si deve parlare della guerra, associando il conflitto israelo-palestinese alla Memoria della Shoah. Subito sono rimasto basito: di cosa parlerebbero Primo Levi e Franco Basaglia, se fossero ancora fra noi? Poi ho letto Il mio diario dei giorni dell’odio, di Michal Govrin, artista israeliana che vive in Francia, come mezzo milione di ebrei e dieci milioni di musulmani. Credo d’aver capito: dinanzi al pogrom di Hamas, vecchie ferite sono tornate a sanguinare. L’intera comunità ebraica, compresi gli oppositori di Netanyahu, si è stretta attorno a Israele. Si chiama istinto di sopravvivenza, ma anche qualcosa di più: dignità umana offesa.

Anche a me, da occidentale, europeo, italiano, viene più facile identificarmi con i ragazzi del rave sterminati, stuprati o rapiti. Ma ci sono anche gli altri, i civili palestinesi: o non sono umani anche loro? Risento discorsi che credevo dimenticati: ah, ma non saranno proprio ventimila, i morti a Gaza… E se fossero diecimila? Se fossero mille? L’accusa di genocidio è strumentale, sento pure dire: già, ma i crimini contro l’umanità sono pacificamente ammessi anche da Anna Foa. E allora qui vorrei essere chiaro, se possibile. A nessuno, a Convivere, è mai passato per la testa di equiparare i bombardamenti di Gaza a una sorta di soluzione finale del problema palestinese. Ma la Shoah non è unica, incomparabile, irripetibile. Stragi, crimini contro l’umanità, autentici genocidi costellano la nostra storia. E noi non possiamo chiudere gli occhi, mai più.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2024/01/24/mai-piu-memoria-genocidio-e-unicita-della-shoah-nelledizione-2024-di-convivere-con-auschwitz/7418538/

 

26 Gennaio 2024Permalink

24 gennaio 2024 – La polizia municipale di Monfalcone identifica i minori al doposcuola organizzato dal Centro Islamico

   23 Gennaio 2024  Monfalcone, la sindaca leghista contro la comunità musulmana. Prima il divieto di preghiera, ora l’identificazione di adulti e bimbi nel Centro islamico

Interviene anche l’Ucoii e annuncia un esposto in Procura. Davanti al Tar il ricorso contro lo stop ai momenti religiosi.
Cisint: «Palesi violazioni della legalità»

LORENZA RAPINI

Prima lo stop alle attività di culto nei luoghi di aggregazione, poi il controllo dei vigili urbani in un centro di aggregazione musulmano: il braccio di ferro tra la sindaca leghista di Monfalcone, vicino Gorizia, Anna Maria Cisint e la comunità islamica non solo non si ferma ma si intensifica. Mentre la sindaca continua sulla stessa linea e dice: «Palesi violazioni della legalità».

Ora, dopo questo ultimo episodio dell’ingresso della polizia municipale nel Centro Darus Salam con l’identificazione degli adulti presenti e anche dei bambini impegnati nelle attività di doposcuola, si muove l’Ucoii, l’Unione delle comunità islamiche d’Italia, che annuncia un esposto in Procura a Gorizia per chiedere di far luce su questi controlli. «A Monfalcone si è passato il segno. L’irruzione della polizia locale nel centro culturale islamico Darus Salam denunciata dall’ing. Konate è un sopruso inaccettabile. Un blitz che non ha risparmiato neanche i bambini che stavano frequentando il doposcuola. Gli agenti, infatti, senza provvedimenti dell’autorità giudiziaria hanno fatto accesso in una proprietà privata e hanno identificato non solo gli adulti ma hanno voluto anche i nominativi dei bambini presenti», fanno sapere dall’Ucoii. E ancora: «La persecuzione che la sindaca Cisint sta portando avanti contro oltre il 20% dei suoi cittadini rischia di alimentare ulteriori dissapori e fenomeni di discriminazione. Al posto di creare ponti si cerca di tagliare ogni via di comunicazione con una comunità laboriosa, che paga le tasse, e che chiede soltanto di vedersi riconoscere il diritto di professare la propria fede in pace. L’Unione delle comunità islamiche d’Italia si appella al prefetto di Gorizia, Raffaele Ricciardi, affinché vigili sull’operato del primo cittadino».

Lo sfogo su Facebook per l’ingresso dei vigili e i loro controlli al Centro islamico è di Bou Konate, ex assessore ai lavori pubblici di Monfalcone e animatore delle comunità islamiche, che in un video dice: «Il problema è gravissimo. Sono arrivati i vigili per fare un controllo. Sono entrati dentro senza mandato, senza niente. Non solo: hanno identificato le persone dentro, che facevano il doposcuola per i bambini. Hanno identificato gli insegnanti e anche i bambini, cosa gravissima, prendendo nomi e cognomi anche dei genitori. Dove vuole arrivare adesso la sindaca? Quello che sta succedendo è esagerato. Si è fatto di tutto per chiudere questo posto, ci siamo opposti. Aspettiamo il tribunale. Non cerchiamo altri problemi».

Già, perché la comunità islamica si è rivolta a un legale contro il provvedimento del sindaco di Monfalcone che di fatto vieta il culto nei luoghi di aggregazione. Se ne sta occupando lo studio Lavatelli e Latorraca di Como. Tecnicamente, l’ordinanza della sindaca Cisint vieta il cambio di destinazione d’uso di due centri di aggregazione, il Darus Salam in via Duca d’Aosta e il Baitus Salat di via Don Fanin. «Per il Comune di Monfalcone lì non si può svolgere attività religiosa – spiega il legale Vincenzo Latorraca –. Da statuto questi centri fanno corsi di arabo, si occupano del doposcuola, raccolte fondi per i bisognosi e ci sono anche momenti di preghiera. Per il Comune non si può cambiare destinazione d’uso il culto non è un’attività esclusiva e non sono nemmeno sicuro che si potrebbe proibire se lo fosse. Da qui capiamo l’attività ispettiva dei vigili nel Centro, ma hanno trovato i bimbi impegnati nel doposcuola. Quello però è un luogo privato e per entrare o si ha un mandato dell’autorità giudiziaria o si teme che si stia consumando un reato all’interno». Il Tar si occuperà della questione il 7 febbraio, quando discuterà della richiesta di sospensiva portata avanti delle comunità islamiche.

Dal Comune, il sindaco Cisint fa sapere che «I provvedimenti che hanno riguardato la chiusura dei due centri islamici sono stati assunti a seguito di verificate e palesi violazioni della legalità, per il mancato rispetto delle norme e per i manifesti rischi per l’incolumità e la sicurezza pubblica. Oggi ascoltiamo le ripetute dichiarazioni dei referenti di queste strutture che, non solo hanno violato la legge, ma hanno anche ritenuto corretto organizzare una manifestazione per mantenere le moschee illegali il 23 dicembre, antivigilia di Natale, e queste stesse persone oggi stanno rappresentando circostanze che non corrispondono al vero. Il Comune di Monfalcone respinge quindi, nel modo più deciso, le insinuazioni su presunte azioni che non riportano i fatti reali». E ancora: «Di fronte anche a segnalazioni e informazioni sul verificarsi o meno dell’effettivo rispetto delle normative, è compito dell’ente e dei propri servizi a ciò preposti porre in essere le normali procedure di controllo. Più che un diritto dell’amministrazione, si tratta di un dovere nei confronti dell’intera città, per garantire le esigenze di legalità che sono a fondamento di tutta questa vicenda». Sabato il sindaco Cisint annuncerà le prossime iniziative.

https://www.lastampa.it/cronaca/2024/01/23/news/monfalcone_sindaco_centro_islamico_identificazione-14015792/

 

DOMANDA di Augusta

PRECISARTO CHE Ucoii significa Unione delle Comunità islamiche d’Italia mi chiedo che accadrebbe se una simile iniziativa fosse presa  per le  lezioni di catechismo dipendenti da parrocchie cattoliche

 

24 Gennaio 2024Permalink

18 gennaio 2024_ Paola Cortellesi alla Luiss

IL DISCORSO INTEGRALE DI PAOLA CORTELLESI, GIORNI DI POLEMICHE INUTILI.
Giorni di polemiche inutili, l’Università Luiss diffonde il testo integrale di #PaolaCortellesi che mette fine alle polemiche (anche offensive).
Probabilmente non sarà letto, troppo lungo, ma per chi avrà la pazienza di farlo si accorgerà di quanta cattiva informazione circola nel nostro paese e la facilità con la quale si commenta tutto senza informarsi in maniera adeguata.
In calce il link per verifica
“Grazie professoressa Severino, grazie a tutti voi, buongiorno agli ospiti, buongiorno ai ragazzi. Mi chiamo Paola Cortellesi, sono un’attrice, da una ventina d’anni scrivo per la radio, il teatro e la tv. Da dieci anni scrivo film per il cinema e da poco ho esordito alla regia con C’è ancora domani, uno spericolato film d’epoca, in bianco e nero che, in soldoni, tratta di prevaricazione e violenza di genere. Una mattonata, sulla carta, come diremmo in gergo. Con questi presupposti, nessuno si sarebbe aspettato un ampio gradimento della pellicola, e invece, contro ogni pronostico, questo film ha avuto un successo travolgente, ha battuto molti record e al momento è stato visto nelle sale cinematografiche da più di 5 milioni di persone”, con queste parole ha esordito l’attrice, sceneggiatrice e regista, ospite all’Università Luiss.
“Io ho iniziato il mio lavoro come attrice quasi trent’anni fa, nel mio settore ho avuto molte soddisfazioni, ricevuto importanti riconoscimenti ma, ultimamente, intorno al clamore suscitato dal film, l’interesse nei miei confronti è cresciuto spropositatamente. Questo a volte genera cose anche spiacevoli, come gli adulatori – da cui bisogna sempre guardarsi – e una certa diffusa aggressività di alcuni nel tentativo di trarre vantaggio da questi miei quindici minuti di popolarità. Fenomeni passeggeri e di nessun conto rispetto a esperienze magnifiche e per me eterne come incontrare la commozione sincera delle persone in sala a fine proiezione e la condivisione spontanea di momenti importanti e a volte duri della loro vita”, prosegue Paola Cortellesi davanti alla platea composta dagli studenti dell’università Luiss.
“Tra le cose belle e piacevoli, c’è la telefonata di Luigi Gubitosi (presidente della Luiss, ndr). Quando mi ha chiamata per propormi di essere qui oggi per l’inaugurazione dell’anno accademico di questa prestigiosa università, mi sono sentita fiera, onorata e… inadatta. Io che l’università l’ho lasciata a metà del percorso per andare a studiare teatro – quello l’ho studiato – che poi è diventato il mio lavoro, gli ho risposto che mi sentivo orgogliosa di parlare agli studenti ma che sarebbe forse stato meglio chiamare persone competenti in materia di legge, marketing, economia, perché le mie conoscenze non hanno molto a che vedere con i corsi di studio di questa università e che – le interpreti, le diriga o le scriva – le mie competenze si limitano a raccontare storie. E allora Luigi mi ha risposto: ‘E io questo chiedo, io questo voglio! Racconta il tema del tuo film, fai un racconto nel racconto. Le storie fanno bene, le storie fanno crescere, sono uno stimolo di riflessione’. Ha ragione, quindi eccomi qua”, dice Cortellesi.
“Eccomi qua a cercare di capire insieme a voi perché questa storia di violenza e prevaricazione in bianco e nero ambientata nel passato abbia fatto breccia nel cuore di così tante persone. Perché, perché è successa questa cosa”, si domanda Cortellesi.
“In breve, vi dico la trama, per chi non avesse visto il film, immagino molti di voi (sarebbe davvero presuntuoso pensare che l’avete visto tutti). Delia – che io interpreto, quindi una signora della mia età – è la moglie di Ivano, madre di tre figli. Moglie, madre. Questi sono i ruoli che la definiscono, e questo le basta. Siamo nella seconda metà degli anni Quaranta e la nostra famiglia qualunque vive nella Roma divisa tra la spinta positiva della liberazione e le miserie della guerra da poco alle spalle. Ivano, suo marito, è capo supremo e padrone della famiglia. Lavora per portare i pochi soldi a casa e non manca occasione per sottolinearlo, a volte con toni sprezzanti, altre direttamente con la cinghia. Ha rispetto solo per il suo anziano padre, il Sor Ottorino, un vecchio cattivo e dispotico di cui Delia è a tutti gli effetti la badante. È primavera e la nostra Delia è in agitazione per il fidanzamento dell’amata primogenita, Marcella, con un ragazzo di buona famiglia, Giulio. Un buon matrimonio per la figlia è tutto ciò a cui Delia aspiri. Non chiede nient’altro Delia. Accetta la vita che le è toccata e, se tutto procedesse come stabilito, la nostra storia finirebbe qui. Se non ci fosse l’ostilità dei genitori di Giulio, se non ci fosse tutto quel fermento in città, se non avesse incontrato Nino, il suo primo amore, e se non avesse ricevuto una misteriosa lettera che le toglie il sonno e che le darà il coraggio di provare a pensare a un futuro migliore”, spiega Paola Cortellesi.
“Ora, detta così, sembra una delle trame di tante fiabe per bambine, sempre un po’ sinistre a dire la verità… Voi ne conoscete qualcuna immagino, no? Cappuccetto Rosso, no? Forse queste sono dei tempi miei, ma immagino che Cenerentola, Biancaneve… queste le conoscerete. Comunque, per chi non le conoscesse… Cenerentola e Biancaneve narrano di giovani sprovvedute, dotate di rara bellezza e di un’ingenuità disarmante (ai limiti della patologia), che subiscono angherie di ogni genere da altre donne malvagie. Quindi la matrigna sfrutta Cenerentola, ragazza bravissima nelle faccende domestiche (che solitamente svolge cantando). E la matrigna tiene nascosta l’avvenenza della ragazza al principe. Ma grazie a una magia, a Cenerentola basta presentarsi in tutto il suo splendore per un paio d’ore perché il principe se ne innamori perdutamente. La matrigna la tiene nascosta ma lui, scaltro, la ritrova e la riconosce… perché l’aveva vista? No: perché ha i piedi sproporzionatamente piccoli… Comunque alla fine lui la salva e la sposa. Questa era la prima cattiva, la matrigna”, prosegue l’attrice, sceneggiatrice e regista.
“La regina di Biancaneve è ancora più canaglia perché lei è di fatto la mandante del tentato omicidio di Biancaneve. Perché lo fa? Perché lei vuole essere la più bella del reame. Quindi anche con l’aggravante dei futili motivi… Tentato omicidio perché il cacciatore, uomo coraggioso e di buon cuore, non ce la fa. Anche perché la ragazza è troppo bella. È bella. Fosse stata una cozza, al limite l’avrebbe squartata, ma è così bella… E poi è ingenua, perché proprio è ingenua come un cucciolo di labrador. E lui la lascia andare. Allora Biancaneve incontra i Sette Nani, presso i quali si adopera per un periodo come colf. Poi, nonostante le mille raccomandazioni, anche dei Sette Nani, Biancaneve si fida di una vecchia orrenda, con l’aspetto da strega e che infatti è la strega. Morde la mela avvelenata, muore. Risorge grazie a chi? Al principe. A un bacio del principe, che se ne innamora perdutamente perché? Perché è bella. Quindi il principe la salva e la sposa. Ecco, entrambe le ragazze, bellissime – per carità – ma un po’ stralunate, trovano la loro realizzazione nel matrimonio con il principe. Un estraneo. Un estraneo che sposano subito, senza pensarci, senza nemmeno esserci uscite una volta a cena”, aggiunge Cortellesi.
“Tornando alla trama del mio film, dicevo che la vita della povera Delia è talmente ingiusta da sembrarci la versione deprimente di una favola per bambine, e invece è storia. È storia piuttosto consueta di una famiglia qualunque della seconda metà degli anni Quaranta. Scena 1: uno schiaffone in pieno viso e via, come se niente fosse. Ecco, io avevo questa immagine e il desiderio di mettere in scena – attraverso Delia – le donne che ho immaginato dai racconti delle mie nonne e delle mie bisnonne. Vicende vere, drammatiche, però narrate con disincanto, e addirittura la volontà di sorriderne. Storie di vite dure, condivise con tutte nel cortile. Gioie e miserie, tutto in piazza, sempre. In quei racconti c’erano le donne comuni, quelle che non sono passate alla storia, quelle che hanno accettato una vita di prevaricazioni perché così era stabilito, senza porsi domande. Questo è stato, questo a volte è ancora”, racconta Paola Cortellesi.
“Da allora le donne hanno fatto grandi passi avanti, si sa, ma come sapete la cronaca ci racconta che in Italia si consuma un femminicidio ogni 72 ore, in media. Donne assassinate per la sola ragione per essere donne, il più delle volte da uomini che dicevano di amarle così tanto da considerarle loro proprietà. Nel nostro Paese ci sono uomini, quindi, anche giovanissimi, che non hanno la capacità di gestire un rifiuto, che non tollerano l’emancipazione, l’allontanamento della donna che credono di amare. E questo, nei casi più tragici, si traduce con : ‘o mia o di nessun altro, mai più'”, sottolinea l’interprete e cineasta.
“Quando ho scritto questo film insieme ai miei co-sceneggiatori abbiamo studiato le dinamiche, da lì siamo partiti: le dinamiche sempre uguali che oggi caratterizzano un rapporto tossico. La donna è isolata, allontanata dalla famiglia d’origine e dalle amicizie; è continuamente vessata da un linguaggio denigratorio, subisce percosse e rapporti sessuali non consensuali. Non è indipendente economicamente, non può scappare. La prigioniera perfetta, la preda perfetta. Questa condizione, che oggi ci ripugna, era all’ordine del giorno alcuni decenni fa, e nessuno allora gridava allo scandalo, nemmeno le donne stesse, perché quello era stato prospettato loro fin da bambine: servire, ubbidire, tacere”, fa notare Cortellesi.
“Avevo intenzione di fare un film contemporaneo ambientato in un passato non troppo remoto e seguire la crescita di un germoglio spontaneo di consapevolezza in una donna che non sa nulla, che non conta nulla e che appunto si sente una nullità. Delia, la nostra Delia, non vale niente, così le hanno insegnato, ma una lettera con sopra il suo nome – il suo, non quello del marito – e l’amore per sua figlia le accendono il coraggio di cambiare le cose. Io ho trovato il riscatto di Delia, il finale del mio racconto, leggendo con mia figlia un libro per bambine sulla storia dei diritti delle donne. Ho provato a immaginare cosa abbiano provato quelle donne, quelle reali, nel ricevere una lettera in cui qualcuno, lo Stato in quel caso, qualcuno tanto più importante dei loro aguzzini domestici, certificava il loro diritto di contare”, spiega.
“Con C’è ancora domani ho voluto raccontare le imprese straordinarie delle donne qualunque che hanno costruito ignare il nostro Paese. Delia è le nostre nonne e bisnonne. Chissà se loro hanno mai intravisto un domani. Per Delia un domani c’è: è un lunedì ed è l’ultimo giorno utile per cominciare a costruire una vita migliore. La nostra Delia si salva, e non grazie al coraggio del cacciatore, né tantomeno fuggendo su un cavallo insieme al principe. Si salva esercitando un suo diritto, suo e di milioni di altre donne. Si salva con la consapevolezza e un ritrovato rispetto di se stessa”.
E infine Paola Cortellesi analizza come segue lo strepitoso successo che ha raccolto la sua pellicola: “Credo che – al di là dello stile e della bellezza del film, per chi lo abbia ritenuto tale – alla base di questo successo ci sia l’empatia, l’immedesimazione. Questo film trascende la fruizione cinematografica ed entra nel quotidiano, evidentemente, e questo non grazie alle mie capacità ma a causa, ahimè, di un’urgenza di riscatto. Perché le giovani generazioni dovrebbero immedesimarsi con una storia del passato? È cambiato tutto, io stessa non posso immedesimarmi in una donna del secolo scorso che è stata trattata al pari di una schiava. Ma allora cos’è che ci tocca? Cosa riconosciamo? La violenza in tutte le sue forme. E se quella fisica per fortuna è una violenza che non ci ha mai riguardato, quella violenza ognuno di noi l’ha percepita almeno una volta nelle parole, negli atteggiamenti, nei commenti sgradevoli a scuola, a casa, sul lavoro. Vive e prolifera nelle piccole cose, ci inganna piano piano. È così presente da risultare invisibile, talmente presente che la diamo per scontata e ci convince che così deve essere, come niente fosse. Noi diamo per scontato che per un ragazzo una passeggiata notturna è una passeggiata notturna mentre per una ragazza è un percorso potenzialmente pericoloso da affrontare in fretta e con mille cautele? È ingiusto, è folle, è sotto i nostri occhi ma a volte lo diamo per scontato, non lo riconosciamo perché è negli schemi”, prosegue la cineasta.
“Lo sentiamo da piccoli, quando alle bambine con un’indole vivace viene dato del ‘maschiaccio’. Qualcuno ha stabilito che le femmine debbano essere composte, pacate, remissive, graziose e che la vivacità debba appartenere al maschio, a cui viene attribuita non si sa come un’innata aggressività, che infatti diventa ‘maschi-accio’ Accio, dispregiativo se associato a una bambina. lo sentiamo quando ai bambini che piangono si dice ‘non fare la femminuccia’. Come se i maschi non avessero il diritto di piangere, di essere sensibili e fragili. La fragilità è delle femmine, individui deboli. Ucce, femmin-ucce, diminutivo. Loro hanno facoltà di lamentarsi, ai maschi si impone di reagire e farlo subito, pure a cinque anni, quasi che un fisiologico tempo di delusione e di sconforto li esponga al pericolo di una qualche perdita della virilità”, continua Paola Cortellesi.
“Schemi, condizionamenti tramandati in buona fede se non dalle nostre famiglie dalla nostra società. Modelli in cui finiamo per rinchiuderci pur di piacere, di accontentare, di non deludere le aspettative”, illustra Cortellesi, facendo infine un augurio a se stessa, al suo pubblico e a tutta la società.
“Quello che mi auguro per voi ragazzi è che non abbiate mai paura di uscire dai condizionamenti. Che accettiate il rischio di sembrare strani o pazzi, se questo significherà scegliere. Spero, care ragazze, che non assecondiate l’idea che gli altri hanno di voi. Sono modelli che delimitano la vostra personalità e limitano le vostre prospettive. Spero, cari ragazzi, che siate parte attiva di questa lotta, praticando il rispetto, ammonendo chi non lo fa. Non siate indifferenti, l’indifferenza è una scelta, ed è quella sbagliata. Siate straordinari, concedetevi il dubbio, perché è la vostra libertà”, queste le sue parole.
“Come dicevo, non ho nulla da insegnare, ma a cinquant’anni ho qualcosa da raccontare. Vi parlo con l’unico vantaggio dell’esperienza. Se alla vostra età avessi potuto contare sul vantaggio di chi era più vecchio, non avrei commesso molti errori. Fate tesoro di chi è in vantaggio, traetene beneficio. Gli errori, si sa, aiutano a crescere. Commetteteli allora, ma fatelo nel tentativo, anche maldestro, di liberare la vostra creatività, di costruire la vostra indipendenza. L’errore che invece potete evitare è fare esclusivamente ciò che si aspetta da voi e quello che gli altri decidono per voi. Siate sempre i protagonisti del vostro progetto e mai le comparse del progetto di qualcun altro. Grazie”, così conclude Paola Cortellesi inaugurando l’anno accademico all’Università Luiss.
(BoxOfficeBenful)
18 Gennaio 2024Permalink

16 gennaio 2024 _ La parola di un poeta detta e illustrata oltre ogni celebrazione esclusiva

TESTO  e  ILLUSTRAZIONE di
“Sette fratelli come sette olmi,
alti robusti come una piantata.
I poeti non sanno i loro nomi,
si sono chiusi a doppia mandata :
sul loro cuore si ammucchia la polvere
e ci vanno i pulcini a razzolare.
I libri di scuola si tappano le orecchie.
Quei sette nomi scritti con il fuoco
brucerebbero le paginette
dove dormono imbalsamate
le vecchie favolette
approvate dal ministero.
Ma tu mio popolo, tu che la polvere
ti scuoti di dosso
per camminare leggero,
tu che nel cuore lasci entrare il vento
e non temi che sbattano le imposte,
piantali nel tuo cuore
i loro nomi come sette olmi :
Gelindo,
Antenore,
Aldo,
Ovidio,
Ferdinando,
Agostino,
Ettore
Nessuno avrà un più bel libro di storia,
il tuo sangue sarà il loro poeta
dalle vive parole,
con te crescerà
la loro leggenda
come cresce una vigna d’Emilia
aggrappata ai suoi olmi
con i grappoli colmi
di sole…”
G. Rodari
Marco D'Autilia disegnini e illustrazioni
16 Gennaio 2024Permalink

13 gennaio 2024 | 16.25  Il Papa sulle coppie gay

Benediciamo le persone, non le associazioni”

Città del Vaticano, 13 gen. (Adnkronos) – Più di due ore di dialogo tra il Papa e i preti di Roma. L’atmosfera viene definita ‘friendly’. Stamani, nella Basilica di S. Giovanni in Laterano, erano in ottocento tra sacerdoti diocesani, diaconi permanenti e religiosi presbiteri per l’incontro tanto atteso col Papa. I presenti, come riferiscono all’Adnkronos diversi sacerdoti, presenti all’incontro iniziato poco dopo le 9, si attendevano un discorso dal Pontefice. Che, invece, ha subito osservato: “Sono qui per ascoltarvi”.

Benedizione delle coppie gay

Ci sono state diverse domande sulle benedizioni alle coppie omosessuali, al centro di un acceso dibattito in questi giorni. Il Pontefice ha puntualizzato: “Benediciamo le persone, non le associazioni”. Tra i preti che operano a Roma, c’erano anche sacerdoti africani che hanno fatto domande sull’opposizione dei Vescovi africani alle benedizioni in chiesa alle coppie gay. Il pontefice ha affrontato anche questo aspetto, riferiscono i presenti all’incontro. Il Papa ha detto che bisogna tenere presente che ci sono culture diverse, e allora è importante capirsi. Ha detto che il cardinale Ambongo ha avuto un incontro col dicastero per la Dottrina della fede e ha ricordato che c’è stata una sua dichiarazione. Quindi avrebbe osservato: “Quando si affrontano certi temi ci possono essere reazioni giustificabili, tutto si risolve con il dialogo. Con il confronto”. Osservando in sostanza che, se ci sono problemi, se ci sono ‘incomprensioni’, meglio giocare a carte scoperte, inutile parlare alle spalle. Se uno non capisce, che tiri fuori la questione. Un sacerdote ha parlato della pastorale che porta avanti con le coppie omosessuali, raccontando di come siano coppie a tutti gli effetti e della commovente storia di un uomo rimasto vedovo dopo avere perso il compagno . Qualcuno ha colto, poi, alcune parole pronunciate a mezza voce più o meno di questo tenore: “Benediciamo i politici, benediciamo anche questi fratelli”.

·        Benedizioni ai gay, apertura del Vaticano: “Sì a preghiera fuori dai riti”

Benedizione coppie gay, le parole del Papa (adnkronos.com)

Il problema , posto dal papa in precedenza (ad esempio il 19 dicembre scorso come da link)  ,  si è rivelato occasione del riaccendersi del dibattito  a seguito di fortissime proteste all’interno della chiesa cattolica

https://www.lastampa.it/vatican-insider/it/2023/12/19/news/coppie_gay_la_svolta_del_papa-13942512/

 

 

13 Gennaio 2024Permalink