Documento scioccante!!!!★★★★★Gali Alon, che ieri ha partecipato alla manifestazione, scrive:Ieri sono stato picchiato. Davvero.Ieri sono stato picchiato da persone che dovrebbero proteggermi. E mentre pensavo che se fosse stata la polizia ad attaccarmi, chi mi avrebbe protetto?Vecchio Mashbir, Gerusalemme. A proposito di ieri sera. La manifestazione è stata organizzata a mezzogiorno, ore dopo la ripresa della guerra. La sera ci siamo incontrati lì, circa 200 A. Donne, protesta contro la guerra.Siamo riusciti a percorrere trenta metri, fino all’imbocco della via pedonale, quando i vigili hanno iniziato ad attaccare. Quelli che erano in piedi spinsero e si stesero a terra, così velocemente, ci sedette. Non ho mai provato tanta paura. Accanto a me sedeva un uomo di 60 anni, trascinato da tre poliziotti che gli hanno dato un calcio nello stomaco, mentre lui gridava “gli occhiali! ” I miei occhiali! “.Una giovane ragazza seduta davanti a me si è rifiutata di lasciare andare il cartello che teneva in mano ed è stata presa a pugni in faccia, il sangue ha iniziato a scorrere dal pascolo. I tamburi sono stati presi e distrutti violentemente, così come i megafoni e i cartelli, che sono stati strappati in due. Accanto a me sedeva Michal, è stata colpita gravemente ed è stata costretta ad evacuare in ospedale. La mattina mi ha informato che le avevano rotto il braccio.I poliziotti, quasi tutti, erano senza targhetta con il nome. Si sono rifiutati di essere identificati. Uno di loro è andato in giro con il casco da moto in faccia tutta la sera, picchiando la gente.Tuttavia siamo rimasti seduti, senza megafoni, senza tamburi, senza cartelli. Abbiamo appena urlato basta. Basta guerra, che rifiutiamo, che non accettiamo di rinnovare la lotta, per genocidio. “Continueremo a gridare, non ci arrenderemo, fermate il fuoco! “.Oggi succede questo, pensavo. Stanno per uccidere un manifestante. Ho sentito un attacco d’ansia venire verso di me a passi da gigante. Ho provato ad alzarmi e scappare, ma un poliziotto mi ha visto, mi ha afferrato e mi ha schiaffeggiato sul pavimento. Abbiamo iniziato a camminare in direzione piazza Parigi, tanto per uscire da lì, per allontanarci dalla polizia. Ci hanno inseguito, colpendo chi era rimasto indietro.Sono caduto sul pavimento e un’ondata di persone sopra di me. Un poliziotto ha raccolto uno dei recinti usati per la separazione e l’ha trascinato, pugnalandomi alle spalle lungo la strada. Voglio credere che non dicesse sul serio, ma ora non riesco a dormire sulla schiena.Ma è un’ipotesi, la cosa veramente brutta è vedere gli altri, soprattutto amici e parenti, essere picchiati a morte. Ciò che è veramente difficile è la mancanza di potere di fronte a questa violenza.Qualcosa è cambiato, qualcosa si è rotto. Gerusalemme di ieri, e soprattutto via Gaza, dove vivo, è diventata una distopia, con migliaia di poliziotti e soldati e cellulari e meccatazi. Tutto bloccato, chiuso e cancello.E ho paura.
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9 marzo 2025 – La Conferenza delle chiese europee prega pe la pace in Ucraina
27 febbraio 2025_ Due bambini dai capelli rossi e la loro mamma
Gariwo.net 27 febbraio 2025
Mi ero svegliata come ogni altro giorno dell’anno…di Manuela Dviri
Il 26 febbraio è il giorno del compleanno di quattro dei nostri nipoti. Maya compie 14 anni, Gaia e Lia 17, Yuvi 19. Ed è anche il giorno della morte di nostro figlio Yoni. La possibilità di tre nascite la stessa data è di 1 su 48 milioni. Ho smesso da tempo di cercare di capire.
Maya avrebbe dovuto nascere in realtà il 25, ma il parto non progrediva, è nata a mezzanotte e 18 minuti del 26 febbraio. Il 18 nella numerologia ebraica, che è il valore simbolico dei numeri, vuol dire vita. Yoni evidentemente ci teneva molto a farci capire qualcosa.
E a proposito, il giorno prima, al funerale a Nir Oz di Oded Lifshiz, 84 anni, morto in prigionia a Gaza, suo figlio ci ha ricordando i principi a cui credeva suo padre, simbolo dell’Israele del dialogo, dei padri fondatori, dell’Israele migliore.
E di nuovo, l’Israele migliore l’abbiamo incontrata mentre il triste convoglio con i feretri della famiglia Bibas stava tornando a casa, al kibbutz Nir Oz. In ogni incrocio del paese, anche quelli più lontani, li attendevano centinaia di migliaia di persone con bandiere bianco azzurre, bandiere gialle della protesta per il ritorno degli ostaggi, bandiere arancioni come i capelli dei due bambini trucidati. Il triste corteo è stato seguito da centinaia di moto. La gente piangeva silenziosa. Chiedeva perdono per averli lasciati morire, urlava la parola Sliha (scusa, chiedo perdono)
Non Nethanyau. Non si sono visti rappresentanti del governo al funerale. Certo, non c’era lui. Anzi. Yarden Bibas, il padre, tornato dalla prigionia solo quindici giorni fa, aveva già chiesto per ben due volte al Premier Nethanyau di non “impadronirsi” dei suoi figli e di sua moglie, di non raccontare al mondo intero come sono stati fisicamente uccisi sventolando le loro foto. Di permettere un minimo di privacy. Ma lui ci ha provato di nuovo. A Tel Aviv, nell’udienza del processo a suo carico per corruzione, ha chiesto ai giudici un momento di silenzio in ricordo dei Bibas.
Fortunatamente non gli è stato concesso.
E intanto continuava al sud il viaggio del corteo. Lungo la strada un irreale silenzio, rotto solo dal pianto della folla.
Poi il funerale. Privato.
In queste ore sarebbe molto facile cadere nella deumanizzazione dell’altro, nel passaggio così facile e rapido da vittima a creatore di altre vittime. Ma la folla non chiede vendetta. Netanyahu invece sì, in questo è un esperto. Mai chiederà perdono come quella folla. Il kibbutz Nir Oz è diventato il simbolo della distruzione avvenuta sotto il suo governo, non solo di quella fisica. Con lui è esplosa la distruzione dei valori, dell’umanità. L’abbandono dei cittadini per perseguire gli interessi personali. Nel quotidiano Haaretz, Rogel Halper scrive oggi, 27 febbraio, che quella folla di cittadini con le bandiere bianco azzurre gli ricorda i movimenti popolari nell’Argentina degli anni settanta. Un movimento di cittadini che vogliono la verità per i propri desaparecido. Per i propri morti, gli ostaggi, la distruzione.
Quelle centinaia migliaia di persone in lutto, quella catena umana di 120 chilometri che ha accompagnato i Bibas nel loro ultimo viaggio, da Rishon Lezion fino al cimitero, non abbandonerà mai gli ostaggi ancora in prigionia, vivi o morti. Sta emergendo in Israele un ampio movimento popolare che chiede risposte a Netanyahu a proposito dei propri cari “scomparsi”.
Questa protesta crescerà. Ha un’autorità morale incorporata, sembra che nasca meno dalla rabbia e più dal dolore, e dal silenzio di quando finiscono le parole e non c’è più forza per urlare. Intorno alla famiglia Bibas è in corso una battaglia per la narrazione. Netanyahu sta cercando di usarli come armi per dimostrare la barbarie di Hamas e per giustificare il prolungamento della guerra di vendetta che ha preservato il suo governo, anche a costo della vita degli ostaggi.
Moltissimi altri e con loro i membri del kibbutz Nir Oz, tra i kibbutz più colpiti il sette ottobre, stanno invece trasformando la immagine dei bimbi coi capelli rossi barbaramente uccisi in prigionia in un simbolo della incapacità e delle colpe del governo e nella richiesta di una commissione d’inchiesta statale. Quelle centinaia di migliaia di persone che hanno accompagnato i Bibas, persone chiunque, di destra e di sinistra, sono la forza di questo popolo che piange i suoi morti e chiede risposte, lo stesso popolo che vede ora tornare morti gli ostaggi “anziani” immolati da Netanyahu per la sua sopravvivenza.
Nel pieno della notte tra il 26 e il 27, all’ingresso dell’istituto legale, alcune decine di cittadini attendevano i loro feretri per l’ultimo saluto.
28 gennaio 2025: – Una pagina insolita nel ricordo della Shoah
Dal 1992 vive in Italia Božidar Stanišić, scrittore bosniaco per non trovarsi a combattere su un territorio che allora stava perdendo anche il nome : lo chiamavamo ex Jugoslavia
Ormai cittadino italiano vive con noi la situazione confusa che caratterizza questo indecifrabile occidente .
In occasione della giornata della memoria mi ha inviato qualche pagina (che in parte riporto) dal romanzo dello scrittore Ivan Ivanji,
“La mia bella vita all’inferno”
Riporto telegraficamente alcuni fatti necessari per fornire un’immagine esplicativa dell’andamento della mia bella vita scandita da brevi viaggi all’inferno. La zia Olga, suo marito Endre, mia sorella Ildi, come anche la nonna materna Gizela, sopravvissero al campo di concentramento di Bergen-Belsen e tornarono a Subotica. Lo zio Pišta, sua moglie e i loro due figli morirono soffocati dai gas di scarico, trasportati dal lager di Staro Sajmište per le vie di Belgrado su quel camion speciale delle SS, “dušegupka”, di cui si è già scritto molto, però per me questo è un capitolo concreto della mia storia familiare. Anche mia madre fu uccisa allo stesso modo. Mio padre fu internato nel campo di Topovske šupe, poi lo prelevarono e lo fucilarono come ostaggio. Avevo un altro zio, Saša, l’avevo visto solo una o due volte nella vita, dicono che era ricco e bello. Fu ucciso a Jasenovac insieme alla moglie e ai due figli. Un altro zio, Imre, ingegnere, sposato con una donna serba, Budimka, trascorse gran parte del periodo bellico dalle nostre parti, in un luogo sperduto, dove i suoi muratori lo nascosero. Riassumendo, mia nonna, una volta tornata dal campo di concentramento, non poté che constatare di aver perso tre figli, mentre altri due si salvarono, un bilancio assai positivo per una famiglia ebrea dalle nostre parti. Si può dire così? Beh, io lo posso dire, ma guai a chi si azzarda a utilizzare tali toni per parlare di quell’inferno che fu il prologo alla mia bella vita.
…In ogni epoca – passata o contemporanea – il tempo del Male comprende momenti di impotenza e paura tremenda. Si pensi alle Sabine di fronte ai romani, agli ebrei di fronte alle SS, a Goethe davanti ai soldati sfrenati di Napoleone. Tuttavia, come già detto: l’ex campo di concentramento di Buchenwald lassù – la violenza – e la casa in Piazza Frauenplan a Weimar – Goethe – distano tra loro solo pochi chilometri in linea d’aria. In nessun altro posto al mondo il simbolo del Male assoluto e quello della grandezza umana assoluta sono così vicini l’uno all’altro. Da sedicenne, a Buchenwald, sulla collina di Etersburg, vicino a Weimar, non ne sapevo nulla. Non conoscevo nemmeno la leggenda della quercia di Goethe nello stesso campo. Di tanti fatti non sappiamo nulla, di molte leggende quasi nulla.
Il 16 settembre del 1939 il governo del Regno di Jugoslavia emanò due decreti riguardanti gli ebrei, di cui uno interessava anche me. Il primo decreto vietava agli ebrei qualsiasi commercio di generi alimentari. Allora? I miei genitori erano medici. Il secondo però riguardava proprio me, cioè “le persone di origine ebraica” e la loro istruzione nelle scuole superiori e nelle università. Nessuna scuola poteva accettare una percentuale di [alunni] ebrei superiore alla percentuale di ebrei sul totale della popolazione. Mio padre cercò di spiegarmelo, ritenendo che per via di tutti questi cambiamenti io dovessi essere particolarmente diligente e obbediente, ma io dissi: “Se mi vieteranno di studiare, diventerò il capitano di una nave”.
La notte di Capodanno 1941. L’ultima, ma anche la prima festeggiata in quel modo con papà. Stavo per compiere dodici anni, di certo non potevo sapere che una notte così non si sarebbe mai ripetuta, ma perché mio padre non lo aveva nemmeno intuito? Oppure lo aveva intuito? Non ricordo se nevicava. Sembra che proprio quei tasselli di memoria che dovrebbero rivelarmelo siano andati perduti. Sicuramente nevicava. Oggi mi sembra che prima del Tempo del Male tutto fosse ordinato e prevedibile. Se non a fine novembre, a inizio dicembre sicuramente cominciò a nevicare. Papà decise di trascorrere la notte di Capodanno solo con mia sorella e me. Non so dove fossero la mamma e la governante. Di sicuro cenammo, ma ormai non ricordo cosa. Di nuovo compare solo qualche tessera del mosaico. Tantissimi tasselli sono scomparsi. Papà aveva quarantadue anni. Giocammo a ramino.
… Ne tanto meno pensavamo che circa un anno e dieci mesi più tardi sarebbe stato fucilato Papà
20 gennaio 2025 — Parla una storica israeliana
L’articolo proviene dalla pagina della scrittrice e storica Fania Oz-Salzberger., professoressa emerita di storia presso la Facoltà di diritto della Università di Haifa
27 settembre 2024_ Gad Lerner Il Libano oggi
di F. Q. | 27 Settembre 2024
La posizione dell’Occidente è quella di lasciar fare a Israele il ‘lavoro sporco’, pur nella consapevolezza che non c’è mai stata una carneficina di civili tanto grande, in tutto il secolo scorso, quanto quella di questi 11 mesi. Ma lo sta facendo anche per noi, è il ragionamento. E le operazioni militari, che in pubblico non possiamo approvare, speriamo ci convengano”. Gad Lerner, ospite di Corrado Formigli a PiazzaPulita, su La7, ha analizzato ciò che sta facendo Israele in Medio Oriente e la posizione dei principali Paesi occidentali in relazione sia alla guerra a Gaza sia alle recenti operazioni militari in Libano. “C’è chi addirittura pensa di dare il colpo all’Iran. A me tutto ciò spaventa molto” ha aggiunto Lerner, “gli israeliani rispetto a un anno fa si sentono molto meno sicuri. E l’idea che con la forza militare si risolva la situazione in Libano è un’illusione”.
24 agosto 2024 – Un soldato di Israele obiettore di coscienza dopo la sua esperienza nella striscia di Gaza
Leggo con emozione un articolo della bravissima Francesca Mannocchi e apprezzo molto la cortesia de La Stampa di consentirmene la lettura anche se non sono abbonata
Lo conservo nella mia memoria storica , il mio blog, e ne segnalo la lettura a chi possa e voglia procurarsi il quotidiano.
La Stampa 24 agost0 2024 pag 14-15
Yuval Green, da riservista a obiettore di coscienza: “Mi hanno detto di bruciare le case dei civili palestinesi. Questa guerra è una follia”
Francesca Mannocchi
KADIMA (ISRAELE). «Sono stato cinquanta giorni a Gaza, da soldato, ti guardi a destra, a sinistra e vedi solo distruzione, tutto è in rovina, non ci sono strade, tanti ospedali e università sono stati distrutti. Non ci sono parole per spiegare la quantità di danni e questo non si può giustificare. Credo che il motivo per cui sto rilasciando interviste ora, il motivo per cui sto parlando pubblicamente sia che voglio chiedere alle persone di aiutarmi a spingere a firmare un accordo di cessate il fuoco, per poter porre fine a tutta questa morte intorno a noi».
Un buon soldato
Da ragazzo Yuval Green non aveva dubbi. Sarebbe stato un buon soldato, avrebbe eseguito i suoi doveri perché è così che ogni ragazzo e ogni ragazza israeliano cresce: imparando che una delle parti più importanti della vita sarà far parte dell’esercito. Suo padre era un paracadutista, è stato un ufficiale per molto tempo, e Yuval, come tutti, ha ascoltato i racconti sull’esercito fin da quando era bambino. Per questo, col tempo, non ha solo desiderato di essere un soldato combattente, ma di far parte di una delle unità speciali. Prima è finito in Marina e poi, come suo padre, nei paracadutisti. È poi diventato il paramedico della sua unità.Oa Rafah si scava tra le macerie dopo il raid israeliano
L’obiezione di coscienza
Alla fine di giugno, dopo cinquanta giorni dentro Gaza, Yuval Green ha deciso di lasciare l’esercito. Pochi giorni, insieme ad altri 40 riservisti, ha firmato una lettera aperta per dichiarare che non avrebbe più continuato a prestare servizio nelle operazioni a Rafah, nella parte meridionale della Striscia di Gaza: «I sei mesi in cui abbiamo preso parte allo sforzo bellico ci hanno dimostrato che l’azione militare da sola non riporterà a casa gli ostaggi – si legge nella lettera -. L’invasione di Rafah, oltre a mettere in pericolo le nostre vite e quelle degli innocenti a Rafah, non riporterà indietro vivi gli ostaggi. Pertanto, dopo la decisione di entrare a Rafah piuttosto che concludere un accordo sugli ostaggi, noi, riservisti uomini e donne, dichiariamo che la nostra coscienza non ci consente di dare una mano a perdere la vita degli ostaggi e a boicottare un altro accordo».
La lettera
I firmatari sanno che la loro posizione è un’eccezione nell’esercito. Impopolare prima del 7 ottobre, irricevibile oggi per gran parte della società israeliana.
Lo sa anche Yuval Green che, se chiamato di nuovo, non ha intenzione di presentarsi di nuovo per il servizio di riserva. Yuval, che non si cura delle sanzioni a cui potrebbe andare incontro, perché, dice, non rischia la vita, ma lo status sociale e «come mi sono sacrificato per il servizio militare, così ora mi sacrificherò per la mia coscienza».
Yuval ha incontrato La Stampa nella casa dei suoi genitori a Kadima, una cittadina fondata negli Anni Trenta da coloni emigrati dalla Germania. In casa le sorelle, sua madre e molti libri, a riempire gli scaffali testi sulle tradizioni palestinesi, sulla storia e i costumi della Palestina.
«Sono entrato nell’esercito credendo che fosse la cosa giusta da fare. Solo dopo aver terminato il servizio militare regolare ho cominciato a mettere in discussione tutto, a chiedermi se essere parte dello stato di occupazione fosse davvero giusto». Ha cominciato a pensarci a Hebron, in arabo al-Khalil. È lì che ha cominciato a capire che servire l’esercito fosse per lui completamente sbagliato. È lì che ha guardato l’occupazione negli occhi. «Hebron è una città occupata, è completamente palestinese, a eccezione di alcuni quartieri israeliani che stanno cancellando la vita delle persone intorno. È ancora più chiaro che in altri posti della Cisgiordania perché vedi ogni giorno come la segregazione e i coloni influenzino le vite dei palestinesi. E non puoi ignorarlo». Lui, almeno, non ha potuto. Pensa di essere stato più gentile degli altri, con i palestinesi che incontrava, ma «ero comunque parte del sistema che stava sottraendo la loro terra». I suoi dubbi non facevano che crescere, così alla fine di settembre Yuval Green ha deciso di scrivere una lettera per i suoi amici nell’unità. Voleva inviarla l’8 ottobre, il giorno dopo la fine della festa di Simhat Torah. Poi il 7 ottobre ha cambiato tutto, ha rimesso i suoi dubbi nel cassetto e Yuval si è messo a disposizione dell’esercito. Ha pensato che fosse necessario essere presente, che fosse suo dovere. È stato richiamato, è andato in uno dei magazzini militari, si è equipaggiato e si è unito di nuovo alla sua unità. Si è addestrato per un paio di mesi e poi, alla fine di novembre, è entrato a Gaza.
La linea rossa
Quando è iniziata l’offensiva militare, Yuval Green pensava che l’equazione fosse semplice: vanno liberati gli ostaggi e quindi tutto sarà molto breve. Poi ha capito di aver calcolato male tutto. Tempi e intenzioni del governo. La linea rossa è arrivata durante la sua missione a Khan Younis, quando il suo comandante ha chiesto ai soldati di incendiare una abitazione civile. Green ha chiesto il motivo di quell’ordine ma la risposta non è stata sufficiente: «Tutto ruota attorno a come le cose appaiono dal punto di vista israeliano. Israele cerca sempre di spiegare le proprie azioni dicendo che tutto ciò che fa a Gaza è per uno scopo militare». Green non capiva la ragione operativa, strategica di quell’ordine. Ha chiesto se ci fossero prove che appartenesse ad Hamas, il comandante ha risposto che bisognava essere sicuri che non ci fosse attrezzatura militare, Yuval ha risposto che quello non era un motivo ragionevole per bruciare una casa «fondamentalmente, quello che il comandante mi ha detto era che stavamo bruciando ogni casa o distruggendo ogni casa. Io ho detto “questo è folle”, andiamo in così tante abitazioni, come possiamo distruggere le case di così tante persone?». Ha capito, in quel momento, che per il suo comandante fosse «scontato» dare alle fiamme quell’edificio, «penso che questo sia un esempio di come Israele giustifichi le sue azioni con motivazioni militari. Molte volte queste motivazioni sono corrette, stanno cercando di raggiungere degli obiettivi, ma molte volte non è dato sapere se queste motivazioni sono realmente di carattere militare o se sono animate da vendetta o motivazioni brutalmente ideologiche».
Quando ha parlato col suo comandante, Yuval Green, ha pensato che le motivazioni che gli dava avessero più a che fare con la vendetta che con la strategia militare. A rafforzare la sua scelta anche la condotta dei soldati. Vedeva persone intorno a sé lasciare graffiti, insulti, sulle macerie delle abitazioni dei gazawi, infliggere danni inutili a cose e case, portare via i “souvenir dalle case arabe”. Era per lui tutto inaccettabile, si opponeva continuamente. Nessuno della sua unità, dunque, è rimasto sorpreso quando Yuval andato via. Come lui non è rimasto sorpreso nel vedere cosa stesse accadendo alla società israeliana dopo il 7 ottobre, perché erano sentimenti che covavano da tanto tempo. Tutti i suoi amici reagivano in modo orribile, demonizzando i palestinesi, sostenendo che la modalità dell’offensiva fosse la sola possibile perché non esistono innocenti a Gaza. Che la soluzione fosse, in sintesi, ucciderli tutti. Cose che non aveva mai sentito prima, non così, pubblicamente e senza pudore, opinioni che, un tempo molto estreme, sono diventate improvvisamente comuni, normali. Era sconvolto ma non stupito perché molte persone pensavano anche prima del 7 ottobre che i palestinesi dovessero essere espulsi da Gaza. Solo che ora hanno cominciato a dirlo pubblicamente: «Quando le persone dicono che non ci sono innocenti a Gaza, penso sia corretto dire che non esistono innocenti in tutto il conflitto. Se vai in una casa israeliana e apri un armadio trovi un’uniforme dell’Idf, l’esercito israeliano cerca di proteggere il Paese dagli attacchi ma allo stesso tempo siamo parte del sistema che sta cercando di occupare la Palestina. Siamo tutti coinvolti e non possiamo continuare con la disumanizzazione delle persone di Gaza. Hanno il diritto di vivere esattamente come noi. E chiunque cerchi di minare sotto questo diritto sta facendo male a sé stesso e alle persone che stanno cercando di trovare pace in questo conflitto. È tutto molto chiaro: se non usciamo da Gaza moriranno molte altre persone. E questo crea semplicemente le prossime generazioni che saranno furiose con Israele. Non stiamo facendo bene a noi stessi e non stiamo facendo bene ai palestinesi».
29 giugno 2024_ Ho un Sogno 275 _ Nel nome di SATNAM SINGH
NEL NOME DI SATNAM SINGH
Satnam Singh è il bracciante indiano, lavoratore in nero a Latina, gravemente ferito in seguito a un infortunio sul lavoro e lasciato morire dissanguato.
La sua “irregolarità” ha consentito di inquadrarlo come uno sfruttabile e, nel momento del dramma, è stato trattato come un “guaio”, un oggetto a perdere, non una persona,
cui sono dovute cure.
Il Presidente Mattarella è intervenuto con parole nette e, se ascoltato, potrà aprire uno spiraglio a favore dei tanti Satnam già presenti e in arrivo. Il primo passo
è stato fatto dal questore di Latina, riconoscendo a Sony, la giovane vedova un permesso di soggiorno per motivi di “protezione speciale”, un atto di giustizia, non
di beneficenza, che, vogliamo essere certi, le consentirà anche di farsi parte civile verso i responsabili dell’orrore.
La giustizia riparativa vorrebbe di più: non permettere che accada ancora.
Per questo, accanto alle manifestazioni di sdegno del momento, serve un sussulto di umanità e giustizia del legislatore che porti al cambio delle norme, proprio a partire da quelle che regolano l’ingresso dei lavoratori stranieri e per un’attenzione concreta alle condizioni di lavoro di tutte le persone, a prescindere dalla loro condizione burocratica che oggi è supporto alla loro invisibilità.
Per sollecitare questo cambio, tutti noi abbiamo la possibilità di contribuire. E ,se vogliamo farci un’idea più chiara, non mancano le fonti recenti e documentate.
Ne citiamo alcune, a partire dal Dossier curato dalla campagna “Ero Straniero”, che da anni fornisce informazioni sui flussi migratori sulla base di dati ufficiali e
proprio il 30 maggio ha presentato il suo ultimo dossier I veri numeri del decreto flussi: un sistema che continua a creare irregolarità” (https://erostraniero.it/
rapportoflussi2024).
E vogliamo citare ancora:
– Il Rapporto agromafie e caporalato dell’osservatorio Placido Rizzotto della Flai-CGIL (www.fondazionerizzotto.it), con il quale ogni due anni viene fotografata
la situazione del lavoro sfruttato nel settore agroalimentare e il recentissimo Rapporto del laboratorio L’altro Diritto/Osservatorio Placido Rizzotto sullo
sfruttamento lavorativo e sulla protezione delle sue vittime.
– Made in Immigritaly: terre, colture, culture è un rapporto nazionale, curato dal Centro Studi Confronti (https://confronti.net) e commissionato dalla Fai-Cisl (www.
faicisl.it), che analizza l’apporto del lavoro immigrato nel settore agroalimentare italiano, comparto strategico del
29 giugno 2024_ Ho un Sogno n. 275- Quando mancano le parole per dirlo
QUANDO MANCANO LE PAROLE PER DIRLO
A volte non abbiamo parole per descrivere la realtà e ancor meno per immaginare una via d’uscita. Questo è capitato anche alla piccola redazione di Ho un sogno nel doloroso frangente del conflitto israelo-palestinese. Così ci siamo fatti aiutare dalle parole di David Grossman e Mahmud Darwish, scrittori capaci di elaborare una riflessione “alta”, che non si lascia sopraffare dal dolore che vivono e hanno vissuto .
LA GUERRA CHE NON SI PUÒ VINCERE…
Intitolando così un suo libro pubblicato in Italia nel 2005, David Grossman, ci ricorda che nel conflitto israelo-palestinese – quando in qualche modo si concluderà – non ci saranno né vincitori, né vinti perché nessuna vittoria conquistata in guerra può chiamarsi pace. Alla fine di un conflitto armato tutti sono perdenti
Il prezzo della guerra che non si può vincere mai lo avrebbe pagato lo stesso David Grossman nel 2006 con la morte del figlio Uri, soldato di Israele, ucciso in una attività bellica.
Un “Caduto fuori dal tempo”, che lascia il padre con una domanda: «È morto ad agosto, e quando quel mese finisce io immancabilmente penso: come posso passare a settembre mentre lui rimane in agosto? ».
Lo scrittore decide di non farsi vendicatore, rifiuta di pietrificare la sua vita an che nel tempo infernale, come per altri è diventato il 7 ottobre 2023, quando un gruppo di terroristi di Hamas ha attaccato cittadini inermi, portando morte e sofferenza. Morte e sofferenza che è andata moltiplicandosi per il popolo palestinese nel suo disperato vagare per sfuggire a bombardamenti cinicamente annunciati.
Ora è importante schierarsi da un’unica parte, quella delle vittime, di tutte le vittime.
Come ci ricorda Luigi Manconi, «questo è un imperativo morale, ma anche politico, perché indica una direzione, seppur impervia e sdrucciolevole, capace di disinnescare questa terribile spirale di morte, nella prospettiva di una futura soluzione fondata sulla pari dignità e sulla pari tutela dei due soggetti oggi in armi».
Una scelta di campo per le vittime che oggi che deve porsi come primo obiettivo il cessate il fuoco permanente a Gaza.
…E LE COLOMBE DORMONO IN UN CARRO ARMATO ABBANDONATO
Con questa immagine suggestiva e tragica il poeta palestinese Maḥmūd Darwīsh, ci introduce alla lettura del “non luogo” cui sono ridotti coloro che sempre e nonostante tutto credono nella vitalità della pace. Ma neppure la devastazione dell’umana dignità riesce ad annientare la speranza nella solidarietà.
“Mentre prepari la tua colazione, pensa agli altri,
non dimenticare il cibo delle colombe.
Mentre fai le tue guerre, pensa agli altri,
non dimenticare coloro che chiedono la pace.
Mentre paghi la bolletta dell’acqua, pensa agli altri,
coloro che mungono le nuvole.
Mentre stai per tornare a casa, casa tua, pensa agli altri,
non dimenticare i popoli delle tende.
Mentre dormi contando i pianeti , pensa agli altri,
coloro che non trovano un posto dove dormire.
Mentre liberi te stesso con le metafore, pensa agli altri,
coloro che hanno perso il diritto di esprimersi.
Mentre pensi agli altri, quelli lontani, pensa a te stesso,
e di’: magari fossi una candela in mezzo al buio”.
Mahmoud Darwish era nato nel 1941 nel villaggio di al-Birweh.
I suoi genitori , cacciati dal loro villaggio che fu completamente distrutto, rientrarono illegalmente in Palestina e Mahmud fin da bambino si trovò nello status legale di “alieno”, cittadino che risiede come “ospite illegale” nel suo stesso paese.
LA GUERRA NON SARA’ PER SEMPRE
Un poesia di Giuseppe Ungaretti “Pellegrinaggio”, inserita quest’anno tra i temi della maturità, giunge quanto mai opportuna a ricordarci che quanto l’orrore della guerra sia a noi vicino nel tempo e nello spazio.
Carso, in una trincea fangosa dove il poeta visse la sesta battaglia dell’Isonzo.
In agguato
in queste budella
di macerie
ore e ore
ho strascicato
la mia carcassa
usata dal fango
come una suola
o come un seme
di spinalba
Ungaretti
uomo di pena
ti basta un’illusione
per farti coraggio
Un riflettore
di là
mette un mare
nella nebbia
26 aprile 2024 _ Un linguaggio furbesco può far danni come la violenza
Ucraina, Polonia: favoriremo rimpatrio uomini in età militare
Il ministro Kosiniak: indignati vedendo giovani di Kiev nei bar
Varsavia aiuterà Kiev a riportare in Ucraina i suoi uomini in età militare, in seguito alle nuove modifiche alle leggi sui passaporti e sul servizio consolare per gli uomini ucraini che vivono all’estero: lo ha detto il ministro della Difesa polacco Wladyslaw Kosiniak Kamysz.
“Penso che molti polacchi siano indignati vedendo giovani ucraini negli alberghi e nei caffè, sentendo quanti sforzi dobbiamo fare per aiutare” Kiev, ha detto ieri Kosiniak-Kamysz ai media di polacchi.
Il ministro ha sottolineato anche che Varsavia si era già offerta di aiutare l’Ucraina a identificare i rifugiati che vivono in Polonia e che sono sotto obbligo militare.
La Polonia ospita circa un milione di ucraini fuggiti dalla guerra totale della Russia.
Il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba ha dichiarato che le nuove misure di Kiev intendono “ripristinare atteggiamenti equi nei confronti degli uomini in età di leva in Ucraina e all’estero”.
Ho pubblicato come incipit un messaggio che mi è stato segnalato perché mi consente di dire un mio timore:: la Polonia (membro dell’Unione Europea dal 1 maggio 2004) che aveva accolto ucraini fuggiaschi (evidentemente per non farsi parte attiva obbligata nell’esercito) ora troverà il modo per rinviarli a combattere contro la Russia. Certamente la condizione di ‘disertori’ renderà tragica la loro presenza nel paese d’origine, tutto ciò in sintonia con l’azione USA di rifornimento di armi
Ricordo che la Polonia è nazione amica dell’italiana Presidente del consiglio .
Un contributo a una politica di pace (?!)
Quanti oggi in Europa reagiranno a questa non troppo occulta intenzione polacca?
Per risalire alla fonte:
Ucraina, Polonia: favoriremo rimpatrio uomini in età militare – Ultima ora – Ansa.it
Trovo la notizia che sono stata sollecitata a trasferire parallela alla negazione della documentazione nei registri di stato civile di chi nasce in Italia se figlio/a di migranti irregolari privi di permesso di soggiorno.
Tanto voleva e vuole la legge 94/2009 affidando furbescamente a una circolare (19/2009 Ministero dell’interno) la possibilità di esercizio di un diritto che è soprattutto dovere verso chi nasce.
Con la consueta malvagità della furbizia la circolare è poco nota (Ricordo che gli interessati sono persone che vivono in una situazione di marginalità aggravata spesso da scarse competenze linguistiche).
Quindi abbiamo una norma che con un raggiro si sottrae alla discriminazione diretta , creando “clandestini”, nemici da espellere almeno nelle persone dei genitori .
E’ un contributo a una politica di pace ?
E’ possibili costruire una pace che sia negazione di giustizia e diritti ?