5 luglio 2025 – Un annuncio tardivo:

La notizai è del 27 giugno, la precedente, presente nel mio blog, risale all’1 dicembre 2016

Due bambini sono stati scoperti in un cascinale a Lauriano: «Mai registrati, senza scuola né cure. Vivevano da soli nel fango»© Ansa

Due fratellini di 6 e 9 anni -Rayan e Noha – sono stati scoperti in un cascinale sulle colline di Lauriano, nel torinese, in condizioni di grave isolamento e degrado. Nessuno in  Italia sapeva della loro esistenza: non erano registrati all’anagrafe, non frequentavano la scuola, non avevano documenti.

La fobia dei “virus creati in laboratorio” del padre

Come riporta La Repubblica, i bambini sarebbero nati e registrati in Germania, ma da quando la famiglia si è trasferita in Italia non è mai stato effettuato alcun passaggio burocratico. I minori non avevano alcun contatto con il sistema scolastico né con i servizi sanitari. Dal 2020, in piena pandemia, il padre avrebbe sviluppato una forte ossessione per i virusconvincendosi che il mondo fosse minacciato da agenti creati in laboratorio. Da allora, i figli sono rimasti chiusi in casa, completamente isolati.

I genitori hanno perso la responsabilità genitoriale

servizi sociali del Ciss di Chivasso sono intervenuti subito dopo la segnalazione. Il Tribunale per i Minorenni di Torino ha disposto l’immediato allontanamento dei bambini, che ora si trovano in una comunità protetta. È in corso la procedura di adottabilità e i genitori hanno perso la responsabilità genitoriale.

Analogo caso segnalato nel mio blog il primo dicembre 2016

https://diariealtro.it/?p=4752

 

5 Luglio 2025Permalink

2 luglio 2025 _ scrive Manuela Dviri

min 
buongiorno a tutti. scritto ieri notte.
E adesso vado a riposare.
Stiamo vivendo tempi di cambiamenti repentini. Da un giorno all’altro, da un’ora all’altra. Il giornale ricevuto la mattina per mezzogiorno è già obsoleto. Ciò che sembrava sicuro, diventava un’ora dopo pericoloso. Il vero diventa falso in una mezzora scarsa. Alla sensazione di sfiducia totale nel confronto del governo e delle sue decisioni e di un premier sempre e solo preoccupato della sua personale sopravvivenza (che quando gli fa comodo attacca lo stato di diritto e accusa persino il suo stesso esercito e mai si è detto colpevole di nulla) si è poi unita la paura per l’apparizione di un Trump imprevedibile. E per me personalmente questi 12 terribili giorni della guerra con l’Iran sono stati vissuti in contemporanea con la malattia del mio compagno di vita, la vecchia quercia Avraham. Sfollata nelle case dei miei figli. Una settimana li, una settimana là.
E poi lo sgomento e la paura per i soldati che continuano a morire a Gaza, per gli ostaggi ancora nei tunnel di Gaza. Per quello che stanno vivendo i civili gazawi, ( due giorni fa è morto il fratello di un mio amico di Gaza)
E quel dover tornare a manifestare per loro perché finalmente quella guerra senza senso finisca. Tutti i sabato sera e appena posso anche durante la settimana.
Lunedì, l’ultimo giorno della guerra con l’Iran, mi è capitato di essere fuori di casa. Di trovarmi in un rifugio sconosciuto, chiusa lì per un’un’ora senza linea al cellulare. C’era accanto a me una signora con la testa mezza bionda e mezza no perché la parrucchiera le stava facendo la tinta ed erano scese insieme nel rifugio. Una scena da commedia dell’assurdo. Che non mi ha fatto neanche ridere da tanto sono stanca e mi gira la testa.
La vita in questi lunghi mesi è stata uno scombussolamento continuo, con ogni possibile sensazione che l’essere umano può provare: dalla paura esistenziale, al terrore, all’impotenza, alla speranza, alla delusione, alla rabbia, all’orgoglio, al dolore, alla vergogna, all’accettazione di una realtà senza senso e alla sensazione di non capirci più niente, e poi anche lo sconforto e la disperazione e il sogno di venirne fuori e il tentativo di trovare una prospettiva. La pietà. La compassione. La solidarietà. Tanta. E la paura, tantissima. Tutti, ho scoperto dopo, durante la guerra con l’Iran portavano con sé il passaporto, (malgrado l’aeroporto fosse ermeticamente chiuso) e i gioielli li tenevano addosso o nel mamad perché non si sa mai. Questione di inconscio collettivo evidentemente.
E adesso siamo tutti stanchi. E a molti gira la testa. Non in senso metaforico.
Con la relativa calma e il ritorno alla vita apparentemente normale è arrivata finalmente la stanchezza.
Il bisogno di dormire.
Abbiamo tutti sonno. Non si parla altro che di stanchezza, di quanto si è stanchi e di quanto si vorrebbe andare di nuovo a dormire. Io compresa. Non ho voglia di far niente. Non ho idee di nessun genere. Voglio solo riposarmi e non pensare a nulla. Anche quando dormo sogno di andare a dormire. E questi 600 e più giorni di guerra e morte e distruzione si confondono nella mia testa in un unico enorme evento di cui non riesco nemmeno più a ricordare le date , i confini, e gli eventi precisi, tanto da doverlo chiedere a chat gpt. Sono arrivati prima i missili Houti o quelli Hisballah? quand’è crollato il regime di Assad? E la storia dei cercapersone quand’è stata ?E quello di Nassralah ? E quand’è che gli ebrei in generale hanno cominciato ad essere accusati, a sentirsi in colpa? E di cosa? E anche la intelligenza artificiale mi è sembrata un po’ imbarazzata e confusa nella risposta.
Avrà bisogno di riposare anche lei.
2 Luglio 2025Permalink

29 giugno 2025 –29 giugno 2025 – Ricompare l’obiezione di coscienza, una delle mie passioni giovanili .

Risolvo un mio problema .
Io leggo volentieri le corrispondenze del giornalista  Sergio Fabbrini su  IlSole24 ore

Sergio Fabbrini, direttore della School of Government dell’Università Luiss Guido Carli di Roma, insegna Scienza politica e Relazioni internazionali   presso lo stesso ateneo e Comparative Politics alla University of California di Berkeley. Ha diretto la “Rivista Italiana di Scienza Politica” e ha vinto, tra gli altri, il Premio Capalbio per l’Europa nel 2011.

Ma il cognome Fabbrini mi tormenta perché ricordo bene Fabrizio Fabbrini, obiettore di coscienza,  la cui vicenda si inserì nelle riflessioni dei miei anni giovanili che, per quanto riguarda la scuola superiore,  erano i turpi anni ‘50.
Secondo me potrebbe essere il nonno di Sergio Fabbrini.
Non sono  riuscita a ricostruire esattamente le  parentele  ma afferro l’opportunità  di nome e cronologia che dà forza ai miei ricordi.
Ineliminabile quello del preside che, avendo io scritto il termine obiezione di coscienza in un  tema,  pensò bene di informare mia madre che ero  pazza.
Probabilmente avevo trovato il termine proibito occupandomi della guerra di resistenza algerina contro il colonialismo francese (1954-1962).
Fu  la fine della mia fiducia in coloro che pretendevano essere miei educatori.

24 Gennaio 2019  E’ SCOMPARSO FABRIZIO FABBRINI, PADRE DELL’OBIEZIONE DI COSCIENZA  di Luigi Cobianchi*   –  

Nel pomeriggio di ieri, 23/01/2019, è venuto a mancare il prof. Fabrizio FABBRINI, Docente Universitario, colonna della Democrazia Cristiana, allievo e pupillo di Giorgio LA PIRA, assurto alle cronache nazionali allorquando, da Assistente Ordinario nell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, si fece arrestare e scontò una pena a due anni di carcere militare, per essersi rifiutato di completare il servizio militare, opponendo l’“obiezione di coscienza”.
San Paolo VI, Papa, in mille modi gli espresse, nell’occasione, riconoscenza e vicinanza.

Grazie al prof. FABBRINI, nel pieno della temperie ideologica scaturita dal Concilio Ecumenico Vaticano II, si aprì, concretamente, per la prima volta nel nostro Paese, la strada verso il riconoscimento del Diritto all’Obiezione di Coscienza, rispetto agli Obblighi di Leva.
Scontata la pena comminatagli, “La Sapienza” gli chiuse le porte e, se non fosse stato per LA PIRA che lo prese con sé all’Università di Firenze, la sua carriera universitaria si sarebbe interrotta e il FABBRINI si sarebbe trovato, al di là di ogni altra considerazione, senza lavoro.

29 Giugno 2025Permalink

25 maggio 2025_ Khan Younis, il raid israeliano che fa strage. Gli ostaggi liberati contro Netanyahu di Giusi Fasano

Corriere della sera
Distrutta una famiglia. Polemiche sul nuovo capo dello Shin Bet. Finti vocali con le voci dei rapiti

TEL AVIV – La dottoressa Suheir Al-Najjar, nipote del defunto dottor Hamdi e lei stessa medico, dice all’agenzia di stampa turca Anadolu che l’esercito israeliano ha prima lanciato un missile che non è esploso. Pochi minuti dopo è arrivato il secondo che ha raso al suolo la casa. Senza il preavviso che in genere i militari diffondono prima dei bombardamenti massicci. «Lo sapevano — ha detto Suheir Al-Najjar —. Sapevano che dentro c’erano dieci bambini e due dottori, e lo hanno fatto comunque».

Che sia davvero andata così oppure no a questo punto poco importa. Di fatto della casa di Hamdi al-Najjar non è rimasto nulla e nel raid — siamo a Khan Younis — sono morti nove dei suoi dieci bambini. Ieri, l’agenzia si stampa palestinese Wafa aveva annunciato la morte di Hamdi; oggi l’ospedale di Khan Younis afferma che il dottore è in condizioni molto critiche, ma ancora in vita. L’unico figlio che si è salvato, 11 anni, è in terapia intensiva all’ospedale Nasser dove lavora come pediatra la mamma dei piccoli, Alaa al-Najjar, che aveva appena indossato il camice quando ha visto arrivare i primi resti dei suoi figli. L’Idf, le Forze di difesa israeliane, parlano di operazioni a Khan Younis contro «sospettati», ma non c’è un chiaro riferimento al raid sulla casa del dottor al-Najjar. La notizia dei fratellini morti (il più grande ha 13 anni) è un’onda emotiva che si fa sentire anche nella manifestazione organizzata dai familiari dei rapiti nell’ormai celebre Piazza degli Ostaggi di Tel Aviv. Le famiglie di chi è ancora prigioniero nei tunnel della Striscia (58 persone di cui una ventina ancora in vita) chiedono al governo il cessate il fuoco perché sono convinte che sia il solo modo di riabbracciare i loro cari o di riavere indietro i resti.

Ma il premier Benjamin Netanyahu insiste con la grande offensiva «Carri di Gedeone» per conquistare Gaza e sconfiggere Hamas a forza di bombardamenti. E la nomina di David Zini a nuovo capo dello Shin Bet, i servizi segreti interni, gela ancora di più le aspettative delle famiglie se è vero, come riportano i media israeliani, che (non è chiaro quando) ha detto ai suoi colleghi: «Sono contrario agli accordi con gli ostaggi. Questa è una guerra eterna». I familiari dei rapiti non hanno altra arma che la voce degli ex ostaggi per convincere delle loro ragioni l’intera opinione pubblica israeliana. Così ieri sera dal palco della manifestazione ha parlato fra gli altri Naama Levy, una delle cinque soldatesse rilasciate durante la tregua di gennaio. Ha descritto il terrore dei bombardamenti israeliani, «i boati, il rumore che ti paralizza, la terra che trema…In questo preciso istante ci sono degli ostaggi che sentono quegli stessi fischi e boati, tremando di paura. Non hanno dove scappare, possono solo pregare». In un altro angolo della città, intanto, attivisti israeliani mostravano le foto dei bambini palestinesi uccisi, chiedendo anche loro la fine della guerra.

Hamas sa bene quanto sia importante il nodo degli ostaggi e probabilmente ha usato la voce di vecchi appelli dei suoi prigionieri per creare con l’intelligenza artificiale dei messaggi vocali che alcuni israeliani hanno ricevuto nella notte fra venerdì e sabato: si sentono ostaggi che implorano di essere rilasciati e, in sottofondo, i rumori delle esplosioni. La Direzione nazionale per la sicurezza informatica dice che le chiamate — provenienti da numeri non identificati — erano un evidente tentativo di creare panico tra la popolazione. Come se non fosse già abbastanza il panico che queste famiglie devono sopportare ogni giorno.

 

25 Maggio 2025Permalink

!7 maggio 2025 _ Discorso di Leone XIV agli operatori della comunicazione

DISCORSO DEL SANTO PADRE LEONE XIV
AGLI OPERATORI DELLA COMUNICAZIONE

Aula Paolo VI
Lunedì, 12 maggio 2025

[Multimedia]

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Buongiorno! Good morning, and thank you for this wonderful reception! They say when they clap at the beginning it doesn’t matter much… If you are still awake at the end, and you still want to applaud… Thank you very much!

[traduzione italiana: Buongiorno e grazie per questa bellissima accoglienza! Dicono che quando si applaude all’inizio non vale granché! Se alla fine sarete ancora svegli e vorrete ancora applaudire, grazie mille!]

Fratelli e sorelle!

Do il benvenuto a voi, rappresentanti dei media di tutto il mondo. Vi ringrazio per il lavoro che avete fatto e state facendo in questo tempo, che per la Chiesa è essenzialmente un tempo di Grazia.

Nel “Discorso della montagna” Gesù ha proclamato: «Beati gli operatori di pace» (Mt 5,9). Si tratta di una Beatitudine che ci sfida tutti e che vi riguarda da vicino, chiamando ciascuno all’impegno di portare avanti una comunicazione diversa, che non ricerca il consenso a tutti i costi, non si riveste di parole aggressive, non sposa il modello della competizione, non separa mai la ricerca della verità dall’amore con cui umilmente dobbiamo cercarla. La pace comincia da ognuno di noi: dal modo in cui guardiamo gli altri, ascoltiamo gli altri, parliamo degli altri; e, in questo senso, il modo in cui comunichiamo è di fondamentale importanza: dobbiamo dire “no” alla guerra delle parole e delle immagini, dobbiamo respingere il paradigma della guerra.

Permettetemi allora di ribadire oggi la solidarietà della Chiesa ai giornalisti incarcerati per aver cercato di raccontare la verità, e con queste parole anche chiederne la liberazione di questi giornalisti incarcerati. La Chiesa riconosce in questi testimoni – penso a coloro che raccontano la guerra anche a costo della vita – il coraggio di chi difende la dignità, la giustizia e il diritto dei popoli a essere informati, perché solo i popoli informati possono fare scelte libere. La sofferenza di questi giornalisti imprigionati interpella la coscienza delle Nazioni e della comunità internazionale, richiamando tutti noi a custodire il bene prezioso della libertà di espressione e di stampa.

Grazie, cari amici, per il vostro servizio alla verità. Voi siete stati a Roma in queste settimane per raccontare la Chiesa, la sua varietà e, insieme, la sua unità. Avete accompagnato i riti della Settimana Santa; avete poi raccontato il dolore per la morte di Papa Francesco, avvenuta però nella luce della Pasqua. Quella stessa fede pasquale ci ha introdotti nello spirito del Conclave, che vi ha visti particolarmente impegnati in giornate faticose; e, anche in questa occasione, siete riusciti a narrare la bellezza dell’amore di Cristo che ci unisce tutti e ci fa essere un unico popolo, guidato dal Buon Pastore.

Viviamo tempi difficili da percorrere e da raccontare, che rappresentano una sfida per tutti noi e che non dobbiamo fuggire. Al contrario, essi chiedono a ciascuno, nei nostri diversi ruoli e servizi, di non cedere mai alla mediocrità. La Chiesa deve accettare la sfida del tempo e, allo stesso modo, non possono esistere una comunicazione e un giornalismo fuori dal tempo e dalla storia. Come ci ricorda Sant’Agostino, che diceva: “Viviamo bene e i tempi saranno buoni” (cfr Discorso 311). Noi siamo i tempi».

Grazie, dunque, di quanto avete fatto per uscire dagli stereotipi e dai luoghi comuni, attraverso i quali leggiamo spesso la vita cristiana e la stessa vita della Chiesa. Grazie, perché siete riusciti a cogliere l’essenziale di quel che siamo, e a trasmetterlo con ogni mezzo al mondo intero.

Oggi, una delle sfide più importanti è quella di promuovere una comunicazione capace di farci uscire dalla “torre di Babele” in cui talvolta ci troviamo, dalla confusione di linguaggi senza amore, spesso ideologici o faziosi. Perciò, il vostro servizio, con le parole che usate e lo stile che adottate, è importante. La comunicazione, infatti, non è solo trasmissione di informazioni, ma è creazione di una cultura, di ambienti umani e digitali che diventino spazi di dialogo e di confronto. E guardando all’evoluzione tecnologica, questa missione diventa ancora più necessaria. Penso, in particolare, all’intelligenza artificiale col suo potenziale immenso, che richiede, però, responsabilità e discernimento per orientare gli strumenti al bene di tutti, così che possano produrre benefici per l’umanità. E questa responsabilità riguarda tutti, in proporzione all’età e ai ruoli sociali.

Cari amici, impareremo con il tempo a conoscerci meglio. Abbiamo vissuto – possiamo dire insieme – giorni davvero speciali. Li abbiamo, li avete condivisi con ogni mezzo di comunicazione: la TV, la radio, il web, i social. Vorrei tanto che ognuno di noi potesse dire di essi che ci hanno svelato un pizzico del mistero della nostra umanità, e che ci hanno lasciato un desiderio di amore e di pace. Per questo ripeto a voi oggi l’invito fatto da Papa Francesco nel suo ultimo messaggio per la prossima Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali: disarmiamo la comunicazione da ogni pregiudizio, rancore, fanatismo e odio; purifichiamola dall’aggressività. Non serve una comunicazione fragorosa, muscolare, ma piuttosto una comunicazione capace di ascolto, di raccogliere la voce dei deboli che non hanno voce. Disarmiamo le parole e contribuiremo a disarmare la Terra. Una comunicazione disarmata e disarmante ci permette di condividere uno sguardo diverso sul mondo e di agire in modo coerente con la nostra dignità umana.

Voi siete in prima linea nel narrare i conflitti e le speranze di pace, le situazioni di ingiustizia e di povertà, e il lavoro silenzioso di tanti per un mondo migliore. Per questo vi chiedo di scegliere con consapevolezza e coraggio la strada di una comunicazione di pace.

Grazie a tutti voi. Che Dio vi benedica!

17 Maggio 2025Permalink

16 maggio 2025 _ Discorso Leone XIV al corpo diplomatico

UDIENZA AL CORPO DIPLOMATICO ACCREDITATO PRESSO LA SANTA SEDE

DISCORSO DEL SANTO PADRE LEONE XIV

Sala Clementina
Venerdì, 16 maggio 2025

[Multimedia]

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Eminenza,
Eccellenze,
Signore e Signori,
la pace sia con voi!

Ringrazio S.E. il Sig. George Poulides, Ambasciatore della Repubblica di Cipro e Decano del Corpo Diplomatico, per le cordiali espressioni che mi ha rivolto a nome di tutti voi e per il suo instancabile lavoro, che porta avanti con il vigore, la passione e la simpatia che lo contraddistinguono, doti che gli hanno meritato la stima di tutti i miei Predecessori incontrati in questi anni di missione presso la Santa Sede e, in particolare, del compianto Papa Francesco.

Desidero poi esprimervi gratitudine per i numerosi messaggi augurali seguiti alla mia elezione, come pure per quelli di cordoglio per la scomparsa di Papa Francesco, che li hanno preceduti e che sono pervenuti anche da Paesi con i quali la Santa Sede non intrattiene relazioni diplomatiche. Si tratta di un significativo attestato di stima, che incoraggia l’approfondimento dei rapporti reciproci.

Nel nostro dialogo, vorrei che prevalesse sempre il senso di essere famiglia – la comunità diplomatica rappresenta infatti l’intera famiglia dei popoli –, che condivide le gioie e i dolori della vita e i valori umani e spirituali che la animano. La diplomazia pontificia è, infatti, un’espressione della cattolicità stessa della Chiesa e, nella sua azione diplomatica, la Santa Sede è animata da una urgenza pastorale che la spinge non a cercare privilegi ma ad intensificare la sua missione evangelica a servizio dell’umanità. Essa combatte ogni indifferenza e richiama continuamente le coscienze, come ha fatto instancabilmente il mio venerato Predecessore, sempre attento al grido dei poveri, dei bisognosi e degli emarginati, come pure alle sfide che contraddistinguono il nostro tempo, dalla salvaguardia del creato all’intelligenza artificiale.

Oltre che ad essere il segno concreto dell’attenzione dei vostri Paesi per la Sede Apostolica, la vostra presenza oggi è per me un dono, che consente di rinnovarvi l’aspirazione della Chiesa – e mia personale – di raggiungere e abbracciare ogni popolo e ogni singola persona di questa terra, desiderosa e bisognosa di verità, di giustizia e di pace! In un certo senso, la mia stessa esperienza di vita, sviluppatasi tra Nord America, Sud America ed Europa, è rappresentativa di questa aspirazione a travalicare i confini per incontrare persone e culture diverse.

Tramite il costante e paziente lavoro della Segreteria di Stato, intendo consolidare la conoscenza e il dialogo con voi e con i vostri Paesi, molti dei quali ho avuto già la grazia di visitare nel corso della mia vita, specialmente quando ero Priore Generale degli Agostiniani. Confido che la Divina Provvidenza mi accorderà ulteriori occasioni di incontro con le realtà dalle quali provenite, consentendomi di accogliere le opportunità che si presenteranno per confermare nella fede tanti fratelli e sorelle sparsi per il mondo e di costruire nuovi ponti con tutte le persone di buona volontà.

Nel nostro dialogo vorrei che tenessimo presente tre parole-chiave, che costituiscono i pilastri dell’azione missionaria della Chiesa e del lavoro della diplomazia della Santa Sede.

La prima parola è pace. Troppe volte la consideriamo una parola “negativa”, ossia come mera assenza di guerra e di conflitto, poiché la contrapposizione è parte della natura umana e ci accompagna sempre, spingendoci troppo spesso a vivere in un costante “stato di conflitto”: in casa, al lavoro, nella società. La pace allora sembra una semplice tregua, un momento di riposo tra una contesa e l’altra, poiché, per quanto ci si sforzi, le tensioni sono sempre presenti, un po’ come la brace che cova sotto la cenere, pronta a riaccendersi in ogni momento.

Nella prospettiva cristiana – come anche in quella di altre esperienze religiose – la pace è anzitutto un dono: il primo dono di Cristo: «Vi do la mia pace» (Gv 14,27). Essa è però un dono attivo, coinvolgente, che interessa e impegna ciascuno di noi, indipendentemente dalla provenienza culturale e dall’appartenenza religiosa, e che esige anzitutto un lavoro su sé stessi. La pace si costruisce nel cuore e a partire dal cuore, sradicando l’orgoglio e le rivendicazioni, e misurando il linguaggio, poiché si può ferire e uccidere anche con le parole, non solo con le armi.

In quest’ottica, ritengo fondamentale il contributo che le religioni e il dialogo interreligioso possono svolgere per favorire contesti di pace. Ciò naturalmente esige il pieno rispetto della libertà religiosa in ogni Paese, poiché l’esperienza religiosa è una dimensione fondamentale della persona umana, tralasciando la quale è difficile, se non impossibile, compiere quella purificazione del cuore necessaria per costruire relazioni di pace.

A partire da questo lavoro, che tutti siamo chiamati a fare, si possono sradicare le premesse di ogni conflitto e di ogni distruttiva volontà di conquista. Ciò esige anche una sincera volontà di dialogo, animata dal desiderio di incontrarsi più che di scontrarsi. In questa prospettiva è necessario ridare respiro alla diplomazia multilaterale e a quelle istituzioni internazionali che sono state volute e pensate anzitutto per porre rimedio alle contese che potessero insorgere in seno alla Comunità internazionale. Certo, occorre anche la volontà di smettere di produrre strumenti di distruzione e di morte, poiché, come ricordava Papa Francesco nel suo ultimo Messaggio Urbi et Orbi, «nessuna pace è possibile senza un vero disarmo [e] l’esigenza che ogni popolo ha di provvedere alla propria difesa non può trasformarsi in una corsa generale al riarmo» [1].

La seconda parola è giustizia. Perseguire la pace esige di praticare la giustizia. Come ho già avuto modo di accennare, ho scelto il mio nome pensando anzitutto a Leone XIII, il Papa della prima grande enciclica sociale, la Rerum novarum. Nel cambiamento d’epoca che stiamo vivendo, la Santa Sede non può esimersi dal far sentire la propria voce dinanzi ai numerosi squilibri e alle ingiustizie che conducono, tra l’altro, a condizioni indegne di lavoro e a società sempre più frammentate e conflittuali. Occorre peraltro adoperarsi per porre rimedio alle disparità globali, che vedono opulenza e indigenza tracciare solchi profondi tra continenti, Paesi e anche all’interno di singole società.

È compito di chi ha responsabilità di governo adoperarsi per costruire società civili armoniche e pacificate. Ciò può essere fatto anzitutto investendo sulla famiglia, fondata sull’unione stabile tra uomo e donna, «società piccola ma vera, e anteriore a ogni civile società» [2]. Inoltre, nessuno può esimersi dal favorire contesti in cui sia tutelata la dignità di ogni persona, specialmente di quelle più fragili e indifese, dal nascituro all’anziano, dal malato al disoccupato, sia esso cittadino o immigrato.

La mia stessa storia è quella di un cittadino, discendente di immigrati, a sua volta emigrato. Ciascuno di noi, nel corso della vita, si può ritrovare sano o malato, occupato o disoccupato, in patria o in terra straniera: la sua dignità però rimane sempre la stessa, quella di creatura voluta e amata da Dio.

La terza parola è verità. Non si possono costruire relazioni veramente pacifiche, anche in seno alla Comunità internazionale, senza verità. Laddove le parole assumono connotati ambigui e ambivalenti e il mondo virtuale, con la sua mutata percezione del reale, prende il sopravvento senza controllo, è arduo costruire rapporti autentici, poiché vengono meno le premesse oggettive e reali della comunicazione.

Da parte sua, la Chiesa non può mai esimersi dal dire la verità sull’uomo e sul mondo, ricorrendo quando necessario anche ad un linguaggio schietto, che può suscitare qualche iniziale incomprensione. La verità però non è mai disgiunta dalla carità, che alla radice ha sempre la preoccupazione per la vita e il bene di ogni uomo e donna. D’altronde, nella prospettiva cristiana, la verità non è l’affermazione di principi astratti e disincarnati, ma l’incontro con la persona stessa di Cristo, che vive nella comunità dei credenti. Così la verità non ci allontana, anzi ci consente di affrontare con miglior vigore le sfide del nostro tempo, come le migrazioni, l’uso etico dell’intelligenza artificiale e la salvaguardia della nostra amata Terra. Sono sfide che richiedono l’impegno e la collaborazione di tutti, poiché nessuno può pensare di affrontarle da solo.

Cari Ambasciatori,

il mio ministero inizia nel cuore di un anno giubilare, dedicato in modo particolare alla speranza. È un tempo di conversione e di rinnovamento e soprattutto l’occasione per lasciare alle spalle le contese e cominciare un cammino nuovo, animati dalla speranza di poter costruire, lavorando insieme, ciascuno secondo le proprie sensibilità e responsabilità, un mondo in cui ognuno possa realizzare la propria umanità nella verità, nella giustizia e nella pace. Mi auguro che ciò possa avvenire in tutti i contesti, a partire da quelli più provati come l’Ucraina e la Terra Santa.

Vi ringrazio per tutto il lavoro che fate per costruire ponti fra i vostri Paesi e la Santa Sede, e di tutto cuore benedico voi, le vostre famiglie e i vostri popoli. Grazie!

[Benedizione]

E grazie per tutto il lavoro che fate!

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[1] Messaggio Urbi et Orbi, 20 aprile 2025.

[2] Leone XIII, Lett. enc. Rerum novarum (15 maggio 1891), 9.

17 Maggio 2025Permalink

17 maggio 2025 _ Boccaccini presenta Gabriele Nissim

 

Una lettura importante che condivido nel ricordo delle mie visite a Neve shalom- Wahat as salam

Mi auguro che aiuti ad affrontare con una coraggiosa disponibilità la tragedia di Gaza e i drammi conseguenti la presenza degli insediamenti in Cisgiordania

 

La speranza possibile

di Gabriele Nissim

È tempo di cambiare radicalmente il modo di rapportarsi alla situazione del Medio Oriente. Invece di sostenere in modo unilaterale i guerrieri delle due parti ed elencare gli orrori e le ragioni degli uni e degli altri, bisogna concentrarsi sulle possibili vie di conciliazione tra palestinesi ed israeliani. Se non si lavora per una via di pace, di non violenza e di dialogo, si passerà da una nuova guerra ad un’altra, ad un nuovo odio generalizzato che porterà ancora tanto sangue.

Ecco perché può essere di grande aiuto il libro di Giulia Ceccuti, “Respirare il futuro” (in dialogo), che racconta le esperienze e le storie di alcuni dei protagonisti del villaggio di Neve Shalom Wahat al-Salam, l’unico al mondo dove vivono assieme ed in modo egualitario israeliani e palestinesi. Il testo della Ceccuti non solo ci permette di cogliere tutti gli elementi del percorso educativo che ha reso possibile la convivenza tra i due gruppi, ma anche il modo in cui gli abitanti del villaggio hanno condiviso il dolore della guerra, prima il 7 ottobre e poi successivamente con le stragi dell’esercito israeliano a Gaza.

L’esempio forse più alto di questa condivisione, al di sopra delle rispettive appartenenze, è stata la tenda del lutto comune, per i morti israeliani e palestinesi, una esperienza mai realizzata in nessuna parte del mondo e che, come Fondazione Gariwo, vorremmo che fosse replicata nel Giardino dei Giusti di Milano. Quando in Israele non era possibile per un palestinese parlare pubblicamente del proprio dolore per le vittime di Gaza e nello stesso era considerato un atto di tradimento nei territori occupati ricordare le vittime israeliane del 7 ottobre, gli abitanti del villaggio hanno deciso di raccontare in una tenda per una giornata intera le sofferenze subite dalle loro famiglie. Così quel dolore terribile che avrebbe potuto dividere per sempre la comunità di Neve Shalom, ha fatto ragionare sul destino comune di sofferenza. Raccontarsi senza censure il male subito ha così riavvicinato gli abitanti del villaggio e ancora una volta ha riacceso la speranza per un percorso di pace.

Se quel lutto comune e condiviso venisse un giorno rielaborato politicamente potrebbe riaprire anche un esame di coscienza sulle politiche omicide e assurde di Hamas e della destra israeliana. Non è liberazione e resistenza l’uso del terrore, dei pogrom, degli stupri in un conflitto, come non è autodifesa la distruzione sistematica di Gaza che di massacro in massacro rasenta il genocidio. Discutere insieme del lutto comune significa respingere l’uso della violenza tra i due gruppi e cercare invece delle vie di comunicazione e di dialogo, anche se non si trova una via d’accordo.

Come sostiene Ariela Bairey Ben Ishay, un’insegnante ebrea che lavora nella Scuola per la pace, la violenza insensata e gratuita è probabilmente esplosa perché fuori dal villaggio non c’era nessun luogo politico dove i gruppi dirigenti israeliani e palestinesi potevano incontrarsi e trattare. “È necessario che quando si percorre la strada dei negoziati, ci si impegni a rimanere fino alla fine, fino a quando non si trovino le soluzioni. Non bisogna ogni volta accampare scuse, ricorrere a frasi come: vedete dall’altra parte non c’è nessuno con cui dialogare o ripetere che non possiamo risolvere la questione parlando con Hamas. Bisogna fare come in una buona relazione di coppia: affrontare il problema fino a trovare la soluzione. Troppo facile andare via e abbandonare la discussione”.

L’interruzione di un dialogo politico negli ultimi venti anni ha avuto un effetto devastante perché ha fatto morire la speranza di una possibile soluzione di pace e così ha progressivamente generato l’idea folle secondo cui la liberazione di un gruppo nazionale potesse essere unicamente possibile con la distruzione dell’altro. Invece nel villaggio, come osserva la palestinese Raida Aiashe Khatib, “quando vediamo che c’è un momento di tensione, decidiamo di dialogare. Ci dividiamo in gruppi, perché non bisogna tenere le cose dentro”. Continuare a parlarsi è il modo per tenere a freno l’aggressività e il proprio rancore di fronte alle situazioni più difficili che gli abitanti vedono nel mondo esterno e che purtroppo non possono cambiare.

I social, come Instagram e Facebook, non hanno però aiutato il dialogo, perché poche frasi a effetto, scritte spesso anche da noi, possono generare equivoci e contrapposizioni. Quando si scrive una frase senza rivolgerla a un volto di un interlocutore si creano involontariamente inimicizie, piuttosto che comprensione. Ed è spesso successo che un giudizio in rete potesse poi venire strumentalizzato da altri e in una situazione conflittuale, come quella di Israele e della Palestina, creare insicurezza e fornire un pretesto a delle accuse nei confronti di chi lo aveva pronunciato. Un abitante del villaggio poteva così venire bollato come traditore del proprio popolo, o come terrorista.

L’esperimento della comunità israelo-palestinese è nato dall’intuizione di padre Bruno Hussar, che il grande sociologo francese ebreo Edgar Morin metterebbe nella categoria dei neo-marrani moderni che, a partire dal tragico destino ebraico, sono stati capaci di vivere la ricchezza di molteplici identità. “Lasciate che mi presento: sono un prete cattolico, sono ebreo. Cittadino israeliano, sono nato in Egitto, dove ho vissuto diciotto anni. Porto qua con me quattro identità: sono veramente cristiano e prete, veramente ebreo, veramente israeliano, e mi sento pure, se non proprio egiziano, almeno assai vicino agli arabi, che conosco e che amo”.

Hussar aveva intuito che un ebreo che diventa sionista per andare a vivere in Israele non può rimanere solo ebreo in un mondo arabo e palestinese, ma deve essere capace di sviluppare una nuova dimensione che racchiuda diverse identità. E la stessa cosa deve valere per il palestinese che, sulla stessa terra, entra in rapporto con un ebreo. Qualche cosa di comune deve nascere dalla relazione. Non c’è solo l’interesse personale e nazionale, ma l’inter-essere che ci lega agli altri e ci porta a curarci di loro, come scrive Vito Mancuso a proposito della condizione umana.

È questo il grande miracolo dell’esperienza del villaggio nato nel 1969. Esso, infatti, non solo ha costruito una esperienza plurale e comunitaria tra i due gruppi nazionali che hanno conosciuto e condiviso la cultura e la storia dell’altro, ma ha anche creato i presupposti per una nuova identità comune che superasse le rispettive appartenenze. Il villaggio, partendo dal grande valore della pluralità e dell’uguaglianza, ha spinto i suoi abitanti a sentirsi costruttori di un futuro comune. “Pensavo che dovessimo avere due sindaci a capo del villaggio, sostiene la palestinese Raida, ma poi ho capito che non contava più l’appartenenza nazionale di chi dirigeva l’amministrazione, ma solo la sua capacità e il modo di rappresentare tutti”.

Per creare un senso profondo di appartenenza, che andasse oltre a quella etnico nazionale, Bruno Hussar ha voluto che nel villaggio ci fosse un centro spirituale pluralista che permettesse a tutti di avvertire la medesima condizione umana. È la casa del silenzio, Dumia Sakina, che all’inizio doveva essere triangolare per rappresentare l’incontro tra le tre religioni (cristiana, ebraica e musulmana), ma poi di fronte all’obiezione di un ragazzo ateo, fu invece per volontà di Hussar realizzata con una struttura circolare, dove ognuno poteva scegliere il suo punto di riferimento oltre le stesse religioni. Ciò che però contava, come osserva Bob Mark, uno dei membri più anziani del villaggio, era che tutti in quella cupola erano comunque stimolati alla ricerca di una direzione comune. “Personalmente, intendo l’aggettivo “spirituale” nel senso più ampio del temine: non l’essere una persona di Dio, né una persona religiosa, ma l’essere una persona”.

Il villaggio non ha un gruppo etnico di maggioranza e di minoranza, come accade in Israele, non solo dal punto di vista numerico e di potere, ma riproduce nel suo piccolo la parità dei due popoli che vivono invece “intrappolati dal fiume al mare”, come osserva la palestinese Samah Salaime, con una espressione di grande intelligenza che libera questa descrizione geografica dall’uso fanatico delle due parti. Così gli abitanti del villaggio devono essere sempre in numero uguale tra ebrei israeliani e palestinesi.

L’istituzione più importante, che negli anni è diventata il più grande vanto del villaggio, è la scuola primaria bilingue e binazionale, dove fin da piccoli i ragazzi sono indirizzati non solo allo studio dell’ebraico e dell’arabo, ma anche a condividere le differenze feste religiose e nazionali. Come spiega Neama Abu Delo, la scuola, aperta anche a dei ragazzi che abitano fuori dal villaggio, supplisce a una delle contraddizioni più evidenti della società israeliana e palestinese. La non conoscenza delle due lingue e delle rispettive culture e religioni, senza cui diventa impossibile creare dei ponti culturali di comunicazione tra i due popoli. L’insegnamento della lingua araba è un problema difficile in Israele, perché i ragazzi ebrei non sono interessati. Nella scuola invece non solo si insegnano le due lingue, ma si stimolano i genitori a usare le due lingue anche in casa. I ragazzi poi festeggiano assieme tutte le feste religiose, come Hanukkah, Natale, Ramadan e Pesach.

Più complicato è invece ricordare le feste nazionali. Mentre la scuola ricorda assieme Yom Hashoah, il giorno delle vittime dell’Olocausto, il giorno dell’indipendenza nazionale di Israele crea invece una divisione, perché i festeggiamenti per la nascita dello Stato sono vissuti dai palestinesi come il ricordo della Nakba, che portò all’esodo più o meno forzato di 600 mila arabi. Così la scuola discute i due avvenimenti, in un tempo difficile come quello di oggi dove il governo israeliano considera sovversiva la memoria della Nakba e la vorrebbe reprimere.

Creare quindi un orizzonte comune nella didattica è per gli insegnanti del villaggio una grande sfida. Ciò che però la guerra senza fine ha cambiato nella percezione dei suoi abitanti è che è maturata la consapevolezza che il villaggio non può soltanto essere un’isola felice, ma deve diventare un veicolo culturale per la trasformazione del paese, prima che sia troppo tardi.

Per questo sono fondamentali le due istituzioni educative che possono aprire nuovi orizzonti nella popolazione. Da un lato il Giardino dei Giusti universali (Garden of Rescuers) che per la per la prima volta nella storia di Israele, per merito del prof Yair Auron, ha rotto il dogma secondo cui i Giusti sono soltanto coloro che hanno aiutato gli ebrei nell’Olocausto. Così accanto ai Giusti per gli armeni, per le vittime del Mediterraneo, si ricordano gli ebrei che hanno aiutato i palestinesi, come l’ortodossa Bella Freund che salvò dal linciaggio il giovane palestinese Adnan al-Afandi (un giovane che aveva accoltellato due adolescenti ebrei durante degli scontri a Gerusalemme) e le famiglie palestinesi che hanno salvato numerosi ebrei durante il massacro di Hebron nell’agosto del 1929.

“Dall’agosto del 2023 stiamo raccogliendo storie di Giusti ebrei e palestinesi collegate agli attacchi del 7 ottobre. Ne abbiamo già selezionate più di 40″ racconta Samah Salaime, che dirige tutti i percorsi educativi. Sono storie meravigliose di persone molto semplici: un autista di pullman, un ragazzo che lavorava in un distributore di benzina e ha nascosto dei bambini ebrei nel bagno, una cameriera ebrea che ha salvato un lavoratore palestinese”. E ora c’è da trovare quegli israeliani che si sono rifiutati di combattere o che hanno denunciato i massacri di Gaza e si sono ostinati sfidando le autorità a ricercare il dialogo. E poi c’è l’importante Scuola per la pace che non solo serve al villaggio per discutere con dei facilitatori le questioni aperte della condivisione, ma ha compito di formare attivisti che possono stimolare nella società il dialogo tra israeliani e palestinesi.

“Purtroppo, la legge ci impedisce di creare nuovi villaggi di condivisione come il nostro, perché una legge dello Stato del 2018, praticamente dice che una terra può essere solo di proprietà degli ebrei. Per questo il nostro compito è quello di lavorare per il dialogo nelle sette città miste sparse nel paese. In tutti questi contesti, arabi ed ebrei già abitano e lavorano assieme, ma non sanno parlarsi, non vogliono realmente stabilire relazioni con i loro colleghi. Non dobbiamo allora costruire altre “Oasi della Pace”, ma insegnare alle persone a vivere in modo pacifico. Siamo chiamati a formare dei nuovi leader israeliani e palestinesi capaci di tenere assieme il punto di vista dell’altro”.

Capita a chi come me segue da anni il conflitto israelo-palestinese di venir sovente viene preso dallo sconforto, perché sembra che tutti gli orrori siano sempre destinati a ripetersi e ci tocca nuovamente assistere alle stesse polemiche e contrapposizioni con i fanatici delle due parti che ripropongono sempre con gli stessi assurdi argomenti. Qualche volta non vorrei assistervi più pensando all’inutilità di ogni sforzo. Invece Raida Aiashe Kathib racconta nel libro la favola bellissima delle quattro candele.

La prima a parlare fu la candela della pace. “La mia luce, disse alle altre tre, non ha più senso, devo spegnerla e andarmene.” Lo stesso discorso lo fece la candela della fede: “Nessuno crede più in me, né mi rispetta. È tutto inutile”. E anche la candela dell’amore decise di spegnere la sua luce. “Nessuno si ama più. Nessuno mi vuole più. Che senso ha la mia vita e la mia luce)? Mi sto consumando inutilmente. Devo andarmene il più velocemente possibile. Così le tre candele si spensero. All’improvviso entrò un bambino nella stanza e cominciò a piangere, dicendo: “Perché vi siete spente? Per favore rimanete accese. Che cosa farò senza la vostra luce”. Allora parlò la quarta candela, quella della speranza. “Non devi piangere bambino, non devi perdere la fede. Finché ci sono io ad illuminare, c’è la speranza: dalla mia luce prendi luce e accendi le altre tre candele e così manterrai la pace, la fede e l’amore. Non perdermi”.

Cosa è allora la speranza? È il concetto della natalità di cui parla Hannah Arendt. Le nuove generazioni possono cambiare il corso degli avvenimenti indipendentemente dagli errori di quelle precedenti. Chi nasce oggi ha la possibilità di farlo. Ma anche le nuove azioni degli uomini possono dare vita a qualcosa di imprevisto. C’è un punto di cui non parla mai nessuno. Otto milioni di israeliani e sette milioni di palestinesi non hanno altro luogo in cui vivere: sono per forza costretti a condividere la stessa terra. Per questo ci sarà qualcuno che finalmente sceglierà la strada più realistica e giusta.

 

it.gariwo.net

Respirare il futuro. La speranza possibile del villaggio di Neve Shalom Wahat-al Salam

È tempo di cambiare radicalmente il modo di rapportarsi alla situazione del Medio Oriente. Invece di sostenere in modo unilaterale i guerrieri delle due parti ed elencare gli orrori e le ragioni degli uni e degli altri, bisogna concentrarsi sulle possibili vie di conciliazione tra palestinesi ed is…

 

 

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17 Maggio 2025Permalink

9 aprile 2025 – Anniversario della morte di Dietrich Bonhoeffer

Dietrich Bonhoeffer

Roma (NEV), 7 aprile 2025 – Riportiamo il testo della rubrica “Essere chiesa insieme”, curata da Paolo Nasonella puntata del “Culto evangelico”, programma di RAI Radio1, andata in onda domenica 6 aprile 2025.

Dal minuto 15:31 Culto Evangelico | Culto Evangelico del 06/04/2025 | Rai Radio 1 | RaiPlay Sound


Ottant’anni fa, all’alba del 9 aprile del 1945, nel campo di concentramento di Flossenbürg, fu eseguita la condanna a morte del teologo protestante Dietrich Bonhoeffer. Il progetto hitleriano del Terzo Reich era ormai crollato e mancavano solo poche settimane al crollo definitivo del nazismo e al suicidio del führer eppure fu proprio lui, con un ultimo e brutale colpo di coda, ad ordinare l’esecuzione di Bonhoeffer.

Figlio della buona borghesia, questo teologo protestante aveva scelto con convinzione la strada del pastorato anche se, in breve, questa si espresse soprattutto nella forma della ricerca e della riflessione teologica.

In una Germania che virava verso il nazismo, ben presto Bonhoeffer aveva manifestato la sua avversione al führer denunciando, già nel 1933, l’immoralità delle leggi antiebraiche e il pericolo costituito dall’ascesa di un leader capace di sedurre le masse con il linguaggio facile del populismo. Con il passare degli anni, la sua opposizione al nazismo si fece militante e lo avvicinò ai circoli della resistenza per la quale svolse missioni di intelligence. È ben nota la frase attribuitagli da un compagno di prigionia a cui Bonhoeffer spiegava perché, di fronte alla tragedia e al pericolo, il cristiano non potesse restare fermo e inoperoso: “Quando un pazzo lancia la sua auto sul marciapiede, io non posso, come pastore, contentarmi di sotterrare i morti e consolare le famiglie. Io devo, se mi trovo in quel posto, saltare e afferrare il conducente al suo volante”.

Finito nel mirino delle autorità, Bonhoeffer avrebbe potuto riparare negli Stati Uniti e svolgere una brillante carriera in una rassicurante facoltà teologica protestante. Invece, nel 1939 scelse di tornare nella sua Germania. Era lì che la coerenza cristiana era messa a più dura prova: sinodi e vertici della chiesa luterana si erano sostanzialmente accodati al regime e soltanto il piccolo gruppo della chiesa confessante ispirato dal teologo Karl Barth aveva difeso l’indipendenza della chiesa dal regime e aveva affermato che il cristiano doveva proclamare la sua unica e assoluta fedeltà a Dio soltanto e non alle autorità terrene.

Morto prima di compiere i 40 anni, Bonhoeffer lascia una consistente mole di scritti alcuni dei quali sono ormai dei classici della teologia cristiana. Il testo più noto, anche a un pubblico non specialistico, è probabilmente Resistenza e resa, una raccolta di testi datati tra il 1943 e il 1945. Nonostante si tratti di scritti dal carcere, resta deluso il lettore che in quelle pagine cerchi le parole di un manifesto o un proclama politico. La critica teologica al nazismo e alla sua ideologia risuona in quei testi, ma la sostanza è una riflessione sul cristianesimo e la sua crisi. In tempi così cambiati e così difficili, la fede cristiana non può ridursi a una religione convenzionale e consumistica, all’idea di un Dio tappabuchi che risponde alle domande umane che non trovano risposta. Dio non va cercato solo di fronte alla morte, ai limiti della nostra vita, ma al suo centro, di fronte alle questioni che più ci interrogano e più ci sfidano. In quelle pagine Bonhoeffer polemizza con l’idea di una grazia divina “a buon mercato”, grazia senza sequela, grazia senza croce, grazia senza Gesù Cristo vivo, incarnato. La grazia di Dio impegna il cristiano, lo invita ad abbandonare le reti con le quali sta pescando per porsi nel cammino della sequela cristiana.

Sono le parole di un credente che sente il peso della storia che sta attraversando e, proprio perché crede nell’azione di Dio, sa di dover fare la sua parte e di doversi assumere le sue responsabilità di credente “adulto”. Una fede che non è un rifugio rassicurante, ma che al contrario ci espone alle sfide del mondo. In tempi drammatici come i primi anni ’40 del secolo scorso, questo appello alla responsabilità della propria coscienza di fronte al male condusse Bonhoeffer fino al patibolo. E non ci deve stupire che la sua lezione morale e teologica abbia ispirato il pensiero e l’azione di personaggi come Martin Luther King o Desmond Tutu e abbia riscosso tanto interesse anche in ambito cattolico. Molto ricca resta anche la pubblicistica su questo gigante della teologia cristiana del secolo scorso e, tra i tanti titoli, segnaliamo Bonhoeffer. Un profilo, a firma del teologo protestante Fulvio Ferrario, arrivato in libreria per i tipi della Claudiana. Qualcuno però va oltre e arriva a beatificare questo credente luterano, restato fino in fondo coerente con la sua fede e la sua tradizione. È un paradosso inaccettabile. Il protestante Bonhoeffer non va santificato e posto sugli altari dell’ecumenismo, ma invece capito e studiato. Egli rimane un pensatore complesso, segnato dal maggiore dei drammi del Novecento, che non può iscriversi nelle liste dei teorici del pacifismo o della resistenza armata, ma che continua a interrogare ogni credente che si ponga di fronte alle scelte drammatiche della storia.

Nonostante l’epilogo e il contesto così drammatico della sua morte, Bonhoeffer ci rivolge anche un messaggio di speranza. Nel 1933, in un’Europa delle dittature che scivolava verso la guerra, egli lanciò un appello che oggi risuona quanto mai attuale. Propose, infatti, un “grande concilio ecumenico della santa chiesa di Cristo” che, di fronte alle guerre passate e a quelle che incombevano, pronunciasse una parola di pace e, nel nome di Cristo, promuovesse il disarmo”. Allora le chiese non raccolsero quell’appello. Possono – devono – farlo oggi, di fronte alle guerre in atto e alle altre che, con intollerabile leggerezza, vengono ipotizzate e minacciate ogni giorno.

9 Aprile 2025Permalink

20 marzo 2025 _ Equinozio di primavera

23 h 
Documento scioccante!!!!
★★★★★
Gali Alon, che ieri ha partecipato alla manifestazione, scrive:
Ieri sono stato picchiato. Davvero.
Ieri sono stato picchiato da persone che dovrebbero proteggermi. E mentre pensavo che se fosse stata la polizia ad attaccarmi, chi mi avrebbe protetto?
Vecchio Mashbir, Gerusalemme. A proposito di ieri sera. La manifestazione è stata organizzata a mezzogiorno, ore dopo la ripresa della guerra. La sera ci siamo incontrati lì, circa 200 A. Donne, protesta contro la guerra.
Siamo riusciti a percorrere trenta metri, fino all’imbocco della via pedonale, quando i vigili hanno iniziato ad attaccare. Quelli che erano in piedi spinsero e si stesero a terra, così velocemente, ci sedette. Non ho mai provato tanta paura. Accanto a me sedeva un uomo di 60 anni, trascinato da tre poliziotti che gli hanno dato un calcio nello stomaco, mentre lui gridava “gli occhiali! ” I miei occhiali! “.
Una giovane ragazza seduta davanti a me si è rifiutata di lasciare andare il cartello che teneva in mano ed è stata presa a pugni in faccia, il sangue ha iniziato a scorrere dal pascolo. I tamburi sono stati presi e distrutti violentemente, così come i megafoni e i cartelli, che sono stati strappati in due. Accanto a me sedeva Michal, è stata colpita gravemente ed è stata costretta ad evacuare in ospedale. La mattina mi ha informato che le avevano rotto il braccio.
I poliziotti, quasi tutti, erano senza targhetta con il nome. Si sono rifiutati di essere identificati. Uno di loro è andato in giro con il casco da moto in faccia tutta la sera, picchiando la gente.
Tuttavia siamo rimasti seduti, senza megafoni, senza tamburi, senza cartelli. Abbiamo appena urlato basta. Basta guerra, che rifiutiamo, che non accettiamo di rinnovare la lotta, per genocidio. “Continueremo a gridare, non ci arrenderemo, fermate il fuoco! “.
Oggi succede questo, pensavo. Stanno per uccidere un manifestante. Ho sentito un attacco d’ansia venire verso di me a passi da gigante. Ho provato ad alzarmi e scappare, ma un poliziotto mi ha visto, mi ha afferrato e mi ha schiaffeggiato sul pavimento. Abbiamo iniziato a camminare in direzione piazza Parigi, tanto per uscire da lì, per allontanarci dalla polizia. Ci hanno inseguito, colpendo chi era rimasto indietro.
Sono caduto sul pavimento e un’ondata di persone sopra di me. Un poliziotto ha raccolto uno dei recinti usati per la separazione e l’ha trascinato, pugnalandomi alle spalle lungo la strada. Voglio credere che non dicesse sul serio, ma ora non riesco a dormire sulla schiena.
Ma è un’ipotesi, la cosa veramente brutta è vedere gli altri, soprattutto amici e parenti, essere picchiati a morte. Ciò che è veramente difficile è la mancanza di potere di fronte a questa violenza.
Qualcosa è cambiato, qualcosa si è rotto. Gerusalemme di ieri, e soprattutto via Gaza, dove vivo, è diventata una distopia, con migliaia di poliziotti e soldati e cellulari e meccatazi. Tutto bloccato, chiuso e cancello.
E ho paura.
📌*WAR ROOM* • Aggiornamenti regolari su WhatsApp https://bit.ly/3XRLmPo > https://bit.ly/3XRLmPo
20 Marzo 2025Permalink