Documento scioccante!!!!★★★★★Gali Alon, che ieri ha partecipato alla manifestazione, scrive:Ieri sono stato picchiato. Davvero.Ieri sono stato picchiato da persone che dovrebbero proteggermi. E mentre pensavo che se fosse stata la polizia ad attaccarmi, chi mi avrebbe protetto?Vecchio Mashbir, Gerusalemme. A proposito di ieri sera. La manifestazione è stata organizzata a mezzogiorno, ore dopo la ripresa della guerra. La sera ci siamo incontrati lì, circa 200 A. Donne, protesta contro la guerra.Siamo riusciti a percorrere trenta metri, fino all’imbocco della via pedonale, quando i vigili hanno iniziato ad attaccare. Quelli che erano in piedi spinsero e si stesero a terra, così velocemente, ci sedette. Non ho mai provato tanta paura. Accanto a me sedeva un uomo di 60 anni, trascinato da tre poliziotti che gli hanno dato un calcio nello stomaco, mentre lui gridava “gli occhiali! ” I miei occhiali! “.Una giovane ragazza seduta davanti a me si è rifiutata di lasciare andare il cartello che teneva in mano ed è stata presa a pugni in faccia, il sangue ha iniziato a scorrere dal pascolo. I tamburi sono stati presi e distrutti violentemente, così come i megafoni e i cartelli, che sono stati strappati in due. Accanto a me sedeva Michal, è stata colpita gravemente ed è stata costretta ad evacuare in ospedale. La mattina mi ha informato che le avevano rotto il braccio.I poliziotti, quasi tutti, erano senza targhetta con il nome. Si sono rifiutati di essere identificati. Uno di loro è andato in giro con il casco da moto in faccia tutta la sera, picchiando la gente.Tuttavia siamo rimasti seduti, senza megafoni, senza tamburi, senza cartelli. Abbiamo appena urlato basta. Basta guerra, che rifiutiamo, che non accettiamo di rinnovare la lotta, per genocidio. “Continueremo a gridare, non ci arrenderemo, fermate il fuoco! “.Oggi succede questo, pensavo. Stanno per uccidere un manifestante. Ho sentito un attacco d’ansia venire verso di me a passi da gigante. Ho provato ad alzarmi e scappare, ma un poliziotto mi ha visto, mi ha afferrato e mi ha schiaffeggiato sul pavimento. Abbiamo iniziato a camminare in direzione piazza Parigi, tanto per uscire da lì, per allontanarci dalla polizia. Ci hanno inseguito, colpendo chi era rimasto indietro.Sono caduto sul pavimento e un’ondata di persone sopra di me. Un poliziotto ha raccolto uno dei recinti usati per la separazione e l’ha trascinato, pugnalandomi alle spalle lungo la strada. Voglio credere che non dicesse sul serio, ma ora non riesco a dormire sulla schiena.Ma è un’ipotesi, la cosa veramente brutta è vedere gli altri, soprattutto amici e parenti, essere picchiati a morte. Ciò che è veramente difficile è la mancanza di potere di fronte a questa violenza.Qualcosa è cambiato, qualcosa si è rotto. Gerusalemme di ieri, e soprattutto via Gaza, dove vivo, è diventata una distopia, con migliaia di poliziotti e soldati e cellulari e meccatazi. Tutto bloccato, chiuso e cancello.E ho paura.
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4 marzo 2025 _ Informazioni aggiunte a quelle di ieri – da conservare
Scrivevo ieri 3 marzo _ un testo che conservo nel mio blog (la mia imperdibile , personale memoria storica ) che ho intitolato:
“Scorrettamente ricopio e conservo con ammirazione”
Si può leggere con il link che trascrivo di seguito.
Dopo il link troverete l’articolo pubblicato su Il fatto quotidiano di oggi e ripreso da Manuela Dwiri che lo offre alla lettura nel nel suo sito
3 marzo 2025 — Scorrettamente copio e conservo con ammirazione
4 marzo Da Il fatto quotidiano di oggi
Per chi non è riuscito a leggere l’articolo del fatto, eccolo qui
Ieri, domenica, ho iniziato a recarmi alla dimostrazione per la fine della guerra e il ritorno degli ostaggi anche durante la settimana e non solo il sabato sera. è l’unico modo che ho trovato per dare a me stessa un po’ di pace nello sfondo del fragilissimo cessate il fuoco, il blocco degli aiuti umanitari e ritorno degli ostaggi, vivi o morti, che è iniziato questa settimana.
In questi giorni l’esercito, esattamente come aveva promesso, ha iniziato a studiare gli errori compiuti il sette ottobre che hanno portato alla tragedia del sabato nero.
Difficile ascoltare. La verità fa male.
Ti viene voglia di tapparti le orecchie e spegnere la televisione, non vedere non ascoltare.
Per le famiglie che hanno perso i loro cari, per le famiglie che hanno i loro figli ancora nella prigionia dei tunnel di Gaza, è una tortura senza fine.
E perciò non deve stupire se oggi un buon numero di queste famiglie si è presentata alla Knesset, il parlamento israeliano, con la richiesta di una commissione d’inchiesta statale, e sebbene fossimo ormai abituati al trattamento a dir poco inappropriato da parte dei politici al governo , questa volta sono stati superati tutti i limiti. Non è stato loro permesso di entrare nella tribuna dei visitatori e sono stati fermati con la forza dalle guardie della knesset fino ad arrivare alla violenza fisica. Due dei padri si sono sentiti male. Solo dopo un’ora sono riusciti ad entrare sotto stretta sorveglianza di dozzine di agenti di sicurezza Il parlamentare Hili Tropper ha infine letto una lettera scritta da Yarden Bibas, il padre dei bambini coi capelli rossi e marito di Shir. Nella lettera ha invitato il premier a tornare con lui a casa, al kibbutz Nir Oz, il kibbutz che Netanyahu si è sempre rifiutato di visitare e dove oggi c’è stato il funerale di uno degli ostaggi. “tanti semplici cittadini – ha scritto Yarden-hanno chiesto perdono e così pochi politici. dopo che saranno tornati gli ostaggi, sarò il primo a sostenere qualsiasi azione volta a distruggere Hamas. Ma non ora” Ha poi richiesto l’istituzione di una commissione d’inchiesta statale “perché altrimenti non potremo riuscire a riabilitarci e a rinascere “
Quando alla fine Netanyahu ha parlato, furibondo, ha promesso che nessuna commissione d’inchiesta verrà creata se non creata da lui stesso.
I parenti dei caduti in guerra e degli ostaggi gli hanno voltato le spalle. Altri hanno letto la preghiera per i morti, il Kaddish
Sanno bene che la tregua è fragilissima e il ritorno alla guerra potrebbe essere la morte dei loro cari.
Un altro gruppo è partito per Washington, per cercare di incontrare Trump e implorare il suo aiuto.
Come possiamo essere arrivati a questo punto?
Domani sarò di nuovo a protestare.
Gli articoli di Manuela Dwiri si possono leggere nel sito(italiano in italiano) Gariwo, di cui metto una breve nota qui di seguito
- Gariwo è l’acronimo di Gardens of the Righteous Worldwide.
Siamo una ONLUS con sede a Milano e collaborazioni internazionali.
Dal 1999 lavoriamo per far conoscere i Giusti: pensiamo che la memoria del Bene sia un potente strumento educativo e serva a prevenire genocidi e crimini contro l’Umanità.
Per questo creiamo Giardini dei Giusti in tutto il mondo e usiamo i mezzi di comunicazione, i social network e le iniziative pubbliche per diffondere il messaggio della responsabilità. Dal Parlamento europeo abbiamo ottenuto la Giornata dei Giusti, che ogni anno celebriamo il 6 marzo.
27 febbraio 2025_ Due bambini dai capelli rossi e la loro mamma
Gariwo.net 27 febbraio 2025
Mi ero svegliata come ogni altro giorno dell’anno…di Manuela Dviri
Il 26 febbraio è il giorno del compleanno di quattro dei nostri nipoti. Maya compie 14 anni, Gaia e Lia 17, Yuvi 19. Ed è anche il giorno della morte di nostro figlio Yoni. La possibilità di tre nascite la stessa data è di 1 su 48 milioni. Ho smesso da tempo di cercare di capire.
Maya avrebbe dovuto nascere in realtà il 25, ma il parto non progrediva, è nata a mezzanotte e 18 minuti del 26 febbraio. Il 18 nella numerologia ebraica, che è il valore simbolico dei numeri, vuol dire vita. Yoni evidentemente ci teneva molto a farci capire qualcosa.
E a proposito, il giorno prima, al funerale a Nir Oz di Oded Lifshiz, 84 anni, morto in prigionia a Gaza, suo figlio ci ha ricordando i principi a cui credeva suo padre, simbolo dell’Israele del dialogo, dei padri fondatori, dell’Israele migliore.
E di nuovo, l’Israele migliore l’abbiamo incontrata mentre il triste convoglio con i feretri della famiglia Bibas stava tornando a casa, al kibbutz Nir Oz. In ogni incrocio del paese, anche quelli più lontani, li attendevano centinaia di migliaia di persone con bandiere bianco azzurre, bandiere gialle della protesta per il ritorno degli ostaggi, bandiere arancioni come i capelli dei due bambini trucidati. Il triste corteo è stato seguito da centinaia di moto. La gente piangeva silenziosa. Chiedeva perdono per averli lasciati morire, urlava la parola Sliha (scusa, chiedo perdono)
Non Nethanyau. Non si sono visti rappresentanti del governo al funerale. Certo, non c’era lui. Anzi. Yarden Bibas, il padre, tornato dalla prigionia solo quindici giorni fa, aveva già chiesto per ben due volte al Premier Nethanyau di non “impadronirsi” dei suoi figli e di sua moglie, di non raccontare al mondo intero come sono stati fisicamente uccisi sventolando le loro foto. Di permettere un minimo di privacy. Ma lui ci ha provato di nuovo. A Tel Aviv, nell’udienza del processo a suo carico per corruzione, ha chiesto ai giudici un momento di silenzio in ricordo dei Bibas.
Fortunatamente non gli è stato concesso.
E intanto continuava al sud il viaggio del corteo. Lungo la strada un irreale silenzio, rotto solo dal pianto della folla.
Poi il funerale. Privato.
In queste ore sarebbe molto facile cadere nella deumanizzazione dell’altro, nel passaggio così facile e rapido da vittima a creatore di altre vittime. Ma la folla non chiede vendetta. Netanyahu invece sì, in questo è un esperto. Mai chiederà perdono come quella folla. Il kibbutz Nir Oz è diventato il simbolo della distruzione avvenuta sotto il suo governo, non solo di quella fisica. Con lui è esplosa la distruzione dei valori, dell’umanità. L’abbandono dei cittadini per perseguire gli interessi personali. Nel quotidiano Haaretz, Rogel Halper scrive oggi, 27 febbraio, che quella folla di cittadini con le bandiere bianco azzurre gli ricorda i movimenti popolari nell’Argentina degli anni settanta. Un movimento di cittadini che vogliono la verità per i propri desaparecido. Per i propri morti, gli ostaggi, la distruzione.
Quelle centinaia migliaia di persone in lutto, quella catena umana di 120 chilometri che ha accompagnato i Bibas nel loro ultimo viaggio, da Rishon Lezion fino al cimitero, non abbandonerà mai gli ostaggi ancora in prigionia, vivi o morti. Sta emergendo in Israele un ampio movimento popolare che chiede risposte a Netanyahu a proposito dei propri cari “scomparsi”.
Questa protesta crescerà. Ha un’autorità morale incorporata, sembra che nasca meno dalla rabbia e più dal dolore, e dal silenzio di quando finiscono le parole e non c’è più forza per urlare. Intorno alla famiglia Bibas è in corso una battaglia per la narrazione. Netanyahu sta cercando di usarli come armi per dimostrare la barbarie di Hamas e per giustificare il prolungamento della guerra di vendetta che ha preservato il suo governo, anche a costo della vita degli ostaggi.
Moltissimi altri e con loro i membri del kibbutz Nir Oz, tra i kibbutz più colpiti il sette ottobre, stanno invece trasformando la immagine dei bimbi coi capelli rossi barbaramente uccisi in prigionia in un simbolo della incapacità e delle colpe del governo e nella richiesta di una commissione d’inchiesta statale. Quelle centinaia di migliaia di persone che hanno accompagnato i Bibas, persone chiunque, di destra e di sinistra, sono la forza di questo popolo che piange i suoi morti e chiede risposte, lo stesso popolo che vede ora tornare morti gli ostaggi “anziani” immolati da Netanyahu per la sua sopravvivenza.
Nel pieno della notte tra il 26 e il 27, all’ingresso dell’istituto legale, alcune decine di cittadini attendevano i loro feretri per l’ultimo saluto.
20 febbraio 2025 _ Pace che non si trova e un pensiero a tutte le vittime, oggi ai piccoli dai capelli rossi
Di fronte alle immagini macabre e disgustose di odio e di propaganda inscenate a Gaza sulla bare di povere vittime innocenti non e’ possibile rimanere silenti. Per tutta la vita ho sostenuto, fin dagli anni Settanta, la causa palestinese e la causa della pace (e continuo cocciutamente ad essere fedele a questi ideali). Ma senza mai perdere il senso critico, la percezione dei diritti di entrambi i popoli alla pace e alla sicurezza, l’opposizione a politiche estremiste (sia di parte israeliana che palestinese). Devo dire che dopo l’inizio della guerra mi aspettavo che in Europa o negli Stati Uniti ci sarebbero state manifestazioni pro-Palestina, speravo però che ci sarebbero state anche forti manifestazioni “per la pace” (a sostegno di soluzioni di compromesso), che invece non ci sono state. (La bandiera della Palestina non è la bandiera della pace ma di una delle due parti in conflitto) Quello che ingenuamente non mi aspettavo proprio e’ che le manifestazioni pro-Palestina prendessero una piega così estremista a sostegno non solo della “causa palestinese” ma della leadership estremista palestinese. Non mi aspettavo che partiti e movimenti politici, sindacati, organizzazioni umanitarie, giovani studenti e anche chiese e leader religiosi si appiattissero in modo così acritico su posizioni estreme, al punto da perdere la voce anche di fronte a scene come queste e non si accendesse in loro quanto meno una scintilla auto-critica o il bisogno anche di un timido distinguo o di una parola di umanità, dovuta alle vittime innocenti di entrambe le parti. Un popolo la propria libertà e il rispetto del mondo se li deve conquistare anche sul piano morale. Siamo figli e nipoti di partigiani che ne hanno passate tante ma sarebbero inorriditi a vedere i comportamenti e i metodi di lotta di questi che si spacciano per “resistenti” ma sono solo dei fanatici assassini.
27 gennaio 2025 _ Alcuni link sul tema
Provo a inserire una serie di link nella speranza che siano tali da potersi aprire e leggere. Se così non fosse possono venir copiai e aperti tramite google .
Poiché non penso che sia possibile chiedere a chi mi leggerà, informato dà un messaggio di posta, di leggerli tutti , cerco di illustrarli per facilitare una scelta:
Il primo: giornata della memoria , si presenta già con il titolo
Approfitto per ricordare che la senatrice Segre …è presidente della Commissione
“contro le parole d’odio”, da lei voluta.
Il secondo porta a un testo del mio blog, nella cui ultima parte conservo la memoria di una visita al lager di Majdanek , preceduto da lunghe considerazioni su un episodio avvenuto nel 1918 a Codroipo
Chi volesse risparmiarsi le considerazioni su un episodio di mala formazione potrà iniziare da Giocattoli vintage a Majdanek
Il terzo riguarda l’importanza di dare un nome alle vittime credo rivesta una particolare attualità
Il quarto riporta alcune considerazioni sempre della storica Anna Foa sulla giornata della memoria , scritte lo scorso anno
Il quinto è la testimonianza di chi fu deportato bambino
Il sesto consente di raggiungere il testo di Anna Fo che ho pubblicato poco fa.
14 dicembre 2018 – Integrazione precoce a Codroipo, provincia di Udine
27 gennaio 2023 – Un nome è un nome e nulla lo può sostituire
Sami Modiano, la storia del bambino che tornò da Auschwitz | Studenti.it
27 gennaio 2025 _ Una intervista ad Anna Foa, storica
da L’Unità 2 settembre 2024
Intervista ad Anna Foa: “Israele? I crimini di guerra a Gaza sono provati, Papa Francesco colpevole di dire la verità”
Storia di Umberto De Giovannangeli 2 settembre 2024
Definirla una intellettuale coraggiosa è peccare in difetto. Perché non è da tutti, soprattutto in questi tristi tempi dove a “regnare” è una sorta di pensiero unico e una informazione mainstream, andare controcorrente è una virtù che va coltivata, difesa, valorizzata. Virtù che Anna Foa sfodera nel suo ultimo libro Il suicidio di Israele (Editori Laterza), giunto alla seconda edizione, con vendite sorprendenti per un saggio. La professoressa Foa ha insegnato Storia moderna all’Università di Roma La Sapienza. Si è occupata di storia della cultura nella prima età moderna, di storia della mentalità, di storia degli ebrei. Tra le sue numerose pubblicazioni, ricordiamo: Le vie degli ebrei; Gli ebrei in Italia. I primi 2000 anni; Ebrei in Europa. Dalla Peste Nera all’emancipazione XIV-XIX secolo; Diaspora. Storia degli ebrei nel Novecento; Portico d’Ottavia 13. Una casa del ghetto nel lungo inverno del ’43; La famiglia F.; Donne e Shoah.
Papa Francesco nel suo discorso al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, ha definito la condizione in cui versa la popolazione di Gaza, ignobile. Di nuovo, una presa di posizione forte di Bergoglio.
Io credo che Bergoglio abbia del tutto ragione utilizzando questo aggettivo così forte e angosciante. Lui ha ripreso le dichiarazioni che sono state fatte da più parti, dalle organizzazioni internazionali e dalle stesse organizzazioni che in Israele si occupano dei diritti umani. D’altro canto, le immagini che noi abbiamo – gli israeliani ne hanno di meno – di Gaza, sono immagini terrificanti. Si dice, a ragione, che lì si stia consumando qualcosa di terribile, che non ha eguali dalla fine della Seconda guerra mondiale in poi. Che Bergoglio lo dica mi sembra positivo. Almeno c’è qualcuno che continua a dirlo. Non capisco di cosa possa essere accusato quando queste cose sono dette da tutti, sono dette e documentate dall’Onu, da agenzie umanitarie come l’Unicef, dalle organizzazioni di soccorso. Cose che sono state dette e raccontate da giornalisti coraggiosi, quali sono i giornalisti di Haaretz. Ieri, ad esempio, ho letto un bellissimo pezzo di Gideon Levy sullo scempio di vite umane che si sta perpetrando a Gaza e sulla deriva morale, non solo politica, che sta corrodendo Israele. Quanto a Bergoglio sta facendo il suo mestiere: il Papa. E lo sta facendo molto bene.
Professoressa Foa, non crede che l’appiattirsi sempre e comunque nella difesa d’Israele, finisca poi per far male a Israele stesso?
Lo credo assolutamente. Io credo che l’unico modo in cui la diaspora poteva aiutare Israele, era quello di sostenere l’opposizione, di impedire che scivolasse in questi crimini. Non vogliamo usare la parola genocidio, non usiamola, ma quella di crimini di guerra e contro l’umanità è del tutto confacente a ciò che da quindici mesi sta avvenendo a Gaza. Aiutare a far crescere l’opposizione che si è afflosciata dopo il 7 ottobre, che in qualche modo era anche quello che Hamas voleva.
Lei prima faceva riferimento ad Haaretz, uno degli ultimi bastioni di una stampa davvero indipendente in Israele. Sul quotidiano progressista di Tel Aviv, si è riaperto un vivace dibattito su una soluzione della questione palestinese fondata su uno Stato binazionale.
Lo Stato binazionale era la soluzione dei primi sionisti. Era una soluzione che in qualche modo è andata avanti anche nelle forme sioniste più istituzionali, fino alla grande rivolta del 1936. Ed è la soluzione migliore, in teoria, anche se oggi la vedo moltissimo come utopistica. Può essere che anche quella dei due Stati lo sia, però da un punto di vista realistico credo che bisognerebbe fare quello che è possibile, sapendo bene che non sarà il meglio. Se la soluzione a due Stati è più forte e in qualche modo consente di essere realizzata, anche se ha tutta una serie di problematiche e di possibilità di crearsi, forse si dovrebbe puntare a questo, sempre tenendo presente che lo Stato binazionale era l’idea dei primi sionisti, di quelli che hanno gettato le basi ideali e politiche nella prima metà del ‘900, di quello che poi s’inverò nello Stato d’Israele. L’idea, per l’appunto, di uno Stato binazionale, l’idea di mettere alla prova il sionismo sui rapporti con gli arabi. Il sionismo si sarebbe messo alla prova su questo, non su altre cose, non sull’identità israeliana, nemmeno sui kibbutzim o sul socialismo. Il sionismo si sarebbe messo alla prova sui rapporti con gli arabi. Purtroppo, la prova è fallita.
Nel sionismo, non era presente anche una componente messianica che oggi innerva le politiche della destra che governa oggi Israele?
Una piccola componente c’era, però anche i sionisti religiosi non erano in maggioranza messianici. Il messianismo nasce dopo il ’67, dopo la Guerra dei Sei giorni. Se Ben Gurion poteva dire, nel ’48, “non farò una battaglia sulla religione e sull’osservanza religiosa ebraica perché non vale la pena di scannarsi su questo quando fra due generazioni non ci saranno più religiosi”, era perché non era ancora affiorata quell’ala messianica che ci ricorda molto, lo dicevano gli israeliani prima del 7 ottobre, gli zeloti che hanno poi portato alla rovina il Regno di Giuda nella guerra con i Romani. Volete di nuovo distruggerci, gli zeloti sono di nuovo riapparsi, questo si diceva nelle discussioni e nelle piazze israeliane. Questi nascono con i coloni, nascono con una forte influenza degli ebrei americani ortodossi. Li abbiamo letti nei libri di Amos Oz, tantissimi anni fa, questi coloni con la kippah all’uncinetto che parlano, esaltati, della Grande Israele. Sono cresciuti anche perché hanno fatto dieci figli per due o tre generazioni, e questo ha aumentato il loro numero e di conseguenza anche il loro impatto sulla vita, sociale e politica, d’Israele. Sono questi esaltati che assaltano e danno fuoco ai villaggi palestinesi in West Bank e che vogliono colonizzare tutta Eretz Israel, la Terra d’Israele, e forse anche un pezzo in più.
Il 20 gennaio si reinsedia alla Casa Bianca Donald Trump. Nella vulcanica conferenza stampa di Mar-a-Lago, il presidente eletto ha sostenuto, tra le altre cose, che se Hamas non libera subito gli ostaggi che ancora ha in mano, quando diventerà a tutti gli effetti commander in chief degli Stati Uniti, scatenerà l’inferno a Gaza.
L’inferno c’è già a Gaza, dobbiamo non stancarci nel dirlo. Ogni inferno può essere peggiorato, certamente, puoi mettere tutti i palestinesi al muro e sterminarli uno dopo l’altro. In quella vulcanica conferenza stampa, ha detto anche altre cose, come volersi prendere la Groenlandia o Panama col suo canale, o fare del Canada il 51° stato americano. Siamo ormai ad un livello che forse un bravo psichiatra giudicherebbe pericoloso per la salute mentale del soggetto in questione. Si parlava molto del fatto che in fondo l’interesse di Trump per un rapporto con l’Arabia Saudita, lo avrebbe portato a mollare le punte più estreme di Netanyahu. Non mi sembra che stia succedendo questo, ma vedremo quello che accadrà dopo il 20 gennaio.
Allargando l’orizzonte a livello globale, non crede, professoressa Foa, che vi sia stata una regressione etica e culturale, per cui non esiste più l’avversario ma solo il nemico da distruggere con qualunque mezzo e a qualunque costo?
Sì. E io non perdonerò mai al 7 ottobre, e a coloro che l’hanno provocato, oltre alle tante vittime innocenti uccise brutalmente, di aver accelerato il processo di disgregazione dell’etica della sinistra, degli oppositori, attraverso la paura, a tutti quegli elementi negativi che sappiamo bene a cosa portano. La paura di un attacco fisico porta ad allinearsi alle posizioni di chiunque pur di evitare che qualcuno venga a tagliarti la gola dentro casa tua. Questo lo vediamo ovunque, ma lì in particolare dove era successo. Io credo che se non ci fosse stato il 7 ottobre, Netanyahu probabilmente sarebbe caduto nello spazio di un mese o due, perché era veramente sul bordo del precipizio, e invece il 7 ottobre, con questo mare di sangue, ha scatenato chiamiamola una depressione, chiamiamola una perdita di consapevolezza politica anche in tanti che l’avevano avuta e manifestata nel corso di quel lungo, straordinario 2023, in cui in centinaia di migliaia era scesi in piazza, con una determinazione e continuità eccezionali, contro la repressione interna e la spinta antidemocratica del governo Netanyahu. Tutto questo in parte è venuto meno. Ci sono però ancora tanti gruppi, tanti movimenti che si battono e dovremmo riconoscerli e aiutarli.
L’ultima domanda, ci rimanda ad un altro suo libro molto bello, Portico d’Ottavia 13. Una casa del ghetto nel lungo inverno del ’43. Nel suo discorso di fine anno, il Presidente Mattarella, ha ricordato che nel 2025 si celebreranno gli 80 anni dalla Liberazione dell’Italia dal nazifascismo. Professoressa Foa, cosa un millenial dovrebbe ricordare di quella storia?
Dovrebbe cercare di collegare quella storia ai suoi interessi di oggi, interessi intesi come le cose che lo interessano, le cose che ancora suscitano emozioni in lui o lei, ammesso che si possa parlare di questo. Vede, io cerco di dire sempre di sì agli inviti che mi vengono dalle scuole, ma nelle presentazioni, tante, del mio ultimo libro, le teste che ho davanti a me son tutte bianche. E questo è qualcosa di molto triste. Un giovane forse dovrebbe capire, per esempio, cosa sia stata la Liberazione. È difficile spiegare a qualcuno cosa abbia voluto dire per uno che è stato nascosto, uscire all’aria aperta e poter dire il suo vero nome e non un nome falso. Io che sono nata con un nome falso, ma non ero abbastanza grande per pronunciare il mio nome vero perché avevo cinque-sei mesi quando c’è stata la liberazione, capisco questa cosa, proprio perché sono stata costretta a vivere con un nome falso e anche a essere nascosta. Bisognerebbe spiegare loro la vita quotidiana di allora. Io ho tentato di farlo in quel libro che lei ha citato e che tra tutti quelli che ho scritto è quello che preferisco. In Portico d’Ottavia, ho cercato di far vedere come vivevano, come si nascondevano, che emozioni avevano coloro che abitavano lì, molti dei quali non sono più tornati indietro dai campi di sterminio. Un approccio di questo tipo potrebbe risultare utile, chissà. Cerco di trovare delle aperture nelle loro menti, e spesso la trovo. E non sono puramente quelle di pancia. Sono quelle in cui in qualche modo riesci ad identificarti con la vita e con la storia di un altro , che è altra cosa del piangersi addosso e avere solo emozioni e non ragioni.
20 gennaio 2025 — Parla una storica israeliana
L’articolo proviene dalla pagina della scrittrice e storica Fania Oz-Salzberger., professoressa emerita di storia presso la Facoltà di diritto della Università di Haifa
17 gennaio 2025 – Israele e Hamas firmano l’accordo, il gabinetto di sicurezza israeliano lo approva
I primi ostaggi verrebbero liberati domenica. Netanyahu: “Se la fase due fallisce la guerra riprende”. Antonio Guterres (Onu): Unifil ha trovato cento depositi di armi di Hezbollah
16:30 17 Gennaio
Israele: domenica alle 16 liberi 95 detenuti palestinesi
Dopo la riunione del gabinetto, il ministero della Giustizia israeliano ha pubblicato l’elenco dei detenuti palestinesi il cui rilascio è previsto nel primo round dell’accordo, soggetto all’approvazione del governo. L’elenco comprende 95 detenuti e, secondo il piano, la loro liberazione non sarà effettuata prima delle 16,00 (ora locale) di domenica. La maggior parte dei detenuti palestinesi nell’elenco sono donne e solo uno, con meno di 18 anni, condannato per omicidio.
16:27 17 Gennaio
Hamas: l’accordo è stato reso possibile da Trump
L’accordo di cessate il fuoco con Israele non sarebbe stato possibile senza il presidente eletto degli Stati Uniti Donald Trump e il suo inviato Steve Witkoff. Lo ha detto il responsabile delle relazioni politiche e internazionali di Hamas, Basem Naim, in un’intervista al network saudita Al Arabiya. Secondo Naim l’intesa non sarebbe stata raggiunta “senza la pressione dell’amministrazione entrante guidata dal presidente Trump, perché il suo inviato nella regione, Witkoff, è stato qui negli ultimi giorni” e “prendeva nota di tutti i dettagli e di tutti gli ostacoli ed esercitava pressione, soprattutto sul governo israeliano”. L’esponente di Hamas ha quindi attribuito il ritardo di mesi nel raggiungere l’accordo “alla riluttanza, forse complice, dell’amministrazione Biden, e al sostegno illimitato e incrollabile al governo di Israele, alla guerra contro i palestinesi, al continuo investimento in questa guerra militarmente, diplomaticamente e politicamente”.
16:25 17 Gennaio
Ben Gvir: sono inorridito, gli ergastolani liberi torneranno a uccidere
“Se fino a ieri ero inorridito da questo accordo, oggi quando viene rivelato che terroristi con l’ergastolo vengono rilasciati a Gerusalemme, in Cisgiordania, quando tutti sanno che cercheranno di fare di nuovo del male e a uccidere di nuovo, mi prende l’ansia”, ha scritto su X il ministro di ultradestra israeliano Itamar Ben Gvir, che ha votato contro l’accordo nella riunione di gabinetto e ieri ha annunciato che si dimetterà. “Mi rivolgo agli amici del Likud e del sionismo religioso, non è troppo tardi, questo accordo può essere fermato”, ha aggiunto.
27 settembre 2024_ Gad Lerner Il Libano oggi
di F. Q. | 27 Settembre 2024
La posizione dell’Occidente è quella di lasciar fare a Israele il ‘lavoro sporco’, pur nella consapevolezza che non c’è mai stata una carneficina di civili tanto grande, in tutto il secolo scorso, quanto quella di questi 11 mesi. Ma lo sta facendo anche per noi, è il ragionamento. E le operazioni militari, che in pubblico non possiamo approvare, speriamo ci convengano”. Gad Lerner, ospite di Corrado Formigli a PiazzaPulita, su La7, ha analizzato ciò che sta facendo Israele in Medio Oriente e la posizione dei principali Paesi occidentali in relazione sia alla guerra a Gaza sia alle recenti operazioni militari in Libano. “C’è chi addirittura pensa di dare il colpo all’Iran. A me tutto ciò spaventa molto” ha aggiunto Lerner, “gli israeliani rispetto a un anno fa si sentono molto meno sicuri. E l’idea che con la forza militare si risolva la situazione in Libano è un’illusione”.
24 agosto 2024 – Un soldato di Israele obiettore di coscienza dopo la sua esperienza nella striscia di Gaza
Leggo con emozione un articolo della bravissima Francesca Mannocchi e apprezzo molto la cortesia de La Stampa di consentirmene la lettura anche se non sono abbonata
Lo conservo nella mia memoria storica , il mio blog, e ne segnalo la lettura a chi possa e voglia procurarsi il quotidiano.
La Stampa 24 agost0 2024 pag 14-15
Yuval Green, da riservista a obiettore di coscienza: “Mi hanno detto di bruciare le case dei civili palestinesi. Questa guerra è una follia”
Francesca Mannocchi
KADIMA (ISRAELE). «Sono stato cinquanta giorni a Gaza, da soldato, ti guardi a destra, a sinistra e vedi solo distruzione, tutto è in rovina, non ci sono strade, tanti ospedali e università sono stati distrutti. Non ci sono parole per spiegare la quantità di danni e questo non si può giustificare. Credo che il motivo per cui sto rilasciando interviste ora, il motivo per cui sto parlando pubblicamente sia che voglio chiedere alle persone di aiutarmi a spingere a firmare un accordo di cessate il fuoco, per poter porre fine a tutta questa morte intorno a noi».
Un buon soldato
Da ragazzo Yuval Green non aveva dubbi. Sarebbe stato un buon soldato, avrebbe eseguito i suoi doveri perché è così che ogni ragazzo e ogni ragazza israeliano cresce: imparando che una delle parti più importanti della vita sarà far parte dell’esercito. Suo padre era un paracadutista, è stato un ufficiale per molto tempo, e Yuval, come tutti, ha ascoltato i racconti sull’esercito fin da quando era bambino. Per questo, col tempo, non ha solo desiderato di essere un soldato combattente, ma di far parte di una delle unità speciali. Prima è finito in Marina e poi, come suo padre, nei paracadutisti. È poi diventato il paramedico della sua unità.Oa Rafah si scava tra le macerie dopo il raid israeliano
L’obiezione di coscienza
Alla fine di giugno, dopo cinquanta giorni dentro Gaza, Yuval Green ha deciso di lasciare l’esercito. Pochi giorni, insieme ad altri 40 riservisti, ha firmato una lettera aperta per dichiarare che non avrebbe più continuato a prestare servizio nelle operazioni a Rafah, nella parte meridionale della Striscia di Gaza: «I sei mesi in cui abbiamo preso parte allo sforzo bellico ci hanno dimostrato che l’azione militare da sola non riporterà a casa gli ostaggi – si legge nella lettera -. L’invasione di Rafah, oltre a mettere in pericolo le nostre vite e quelle degli innocenti a Rafah, non riporterà indietro vivi gli ostaggi. Pertanto, dopo la decisione di entrare a Rafah piuttosto che concludere un accordo sugli ostaggi, noi, riservisti uomini e donne, dichiariamo che la nostra coscienza non ci consente di dare una mano a perdere la vita degli ostaggi e a boicottare un altro accordo».
La lettera
I firmatari sanno che la loro posizione è un’eccezione nell’esercito. Impopolare prima del 7 ottobre, irricevibile oggi per gran parte della società israeliana.
Lo sa anche Yuval Green che, se chiamato di nuovo, non ha intenzione di presentarsi di nuovo per il servizio di riserva. Yuval, che non si cura delle sanzioni a cui potrebbe andare incontro, perché, dice, non rischia la vita, ma lo status sociale e «come mi sono sacrificato per il servizio militare, così ora mi sacrificherò per la mia coscienza».
Yuval ha incontrato La Stampa nella casa dei suoi genitori a Kadima, una cittadina fondata negli Anni Trenta da coloni emigrati dalla Germania. In casa le sorelle, sua madre e molti libri, a riempire gli scaffali testi sulle tradizioni palestinesi, sulla storia e i costumi della Palestina.
«Sono entrato nell’esercito credendo che fosse la cosa giusta da fare. Solo dopo aver terminato il servizio militare regolare ho cominciato a mettere in discussione tutto, a chiedermi se essere parte dello stato di occupazione fosse davvero giusto». Ha cominciato a pensarci a Hebron, in arabo al-Khalil. È lì che ha cominciato a capire che servire l’esercito fosse per lui completamente sbagliato. È lì che ha guardato l’occupazione negli occhi. «Hebron è una città occupata, è completamente palestinese, a eccezione di alcuni quartieri israeliani che stanno cancellando la vita delle persone intorno. È ancora più chiaro che in altri posti della Cisgiordania perché vedi ogni giorno come la segregazione e i coloni influenzino le vite dei palestinesi. E non puoi ignorarlo». Lui, almeno, non ha potuto. Pensa di essere stato più gentile degli altri, con i palestinesi che incontrava, ma «ero comunque parte del sistema che stava sottraendo la loro terra». I suoi dubbi non facevano che crescere, così alla fine di settembre Yuval Green ha deciso di scrivere una lettera per i suoi amici nell’unità. Voleva inviarla l’8 ottobre, il giorno dopo la fine della festa di Simhat Torah. Poi il 7 ottobre ha cambiato tutto, ha rimesso i suoi dubbi nel cassetto e Yuval si è messo a disposizione dell’esercito. Ha pensato che fosse necessario essere presente, che fosse suo dovere. È stato richiamato, è andato in uno dei magazzini militari, si è equipaggiato e si è unito di nuovo alla sua unità. Si è addestrato per un paio di mesi e poi, alla fine di novembre, è entrato a Gaza.
La linea rossa
Quando è iniziata l’offensiva militare, Yuval Green pensava che l’equazione fosse semplice: vanno liberati gli ostaggi e quindi tutto sarà molto breve. Poi ha capito di aver calcolato male tutto. Tempi e intenzioni del governo. La linea rossa è arrivata durante la sua missione a Khan Younis, quando il suo comandante ha chiesto ai soldati di incendiare una abitazione civile. Green ha chiesto il motivo di quell’ordine ma la risposta non è stata sufficiente: «Tutto ruota attorno a come le cose appaiono dal punto di vista israeliano. Israele cerca sempre di spiegare le proprie azioni dicendo che tutto ciò che fa a Gaza è per uno scopo militare». Green non capiva la ragione operativa, strategica di quell’ordine. Ha chiesto se ci fossero prove che appartenesse ad Hamas, il comandante ha risposto che bisognava essere sicuri che non ci fosse attrezzatura militare, Yuval ha risposto che quello non era un motivo ragionevole per bruciare una casa «fondamentalmente, quello che il comandante mi ha detto era che stavamo bruciando ogni casa o distruggendo ogni casa. Io ho detto “questo è folle”, andiamo in così tante abitazioni, come possiamo distruggere le case di così tante persone?». Ha capito, in quel momento, che per il suo comandante fosse «scontato» dare alle fiamme quell’edificio, «penso che questo sia un esempio di come Israele giustifichi le sue azioni con motivazioni militari. Molte volte queste motivazioni sono corrette, stanno cercando di raggiungere degli obiettivi, ma molte volte non è dato sapere se queste motivazioni sono realmente di carattere militare o se sono animate da vendetta o motivazioni brutalmente ideologiche».
Quando ha parlato col suo comandante, Yuval Green, ha pensato che le motivazioni che gli dava avessero più a che fare con la vendetta che con la strategia militare. A rafforzare la sua scelta anche la condotta dei soldati. Vedeva persone intorno a sé lasciare graffiti, insulti, sulle macerie delle abitazioni dei gazawi, infliggere danni inutili a cose e case, portare via i “souvenir dalle case arabe”. Era per lui tutto inaccettabile, si opponeva continuamente. Nessuno della sua unità, dunque, è rimasto sorpreso quando Yuval andato via. Come lui non è rimasto sorpreso nel vedere cosa stesse accadendo alla società israeliana dopo il 7 ottobre, perché erano sentimenti che covavano da tanto tempo. Tutti i suoi amici reagivano in modo orribile, demonizzando i palestinesi, sostenendo che la modalità dell’offensiva fosse la sola possibile perché non esistono innocenti a Gaza. Che la soluzione fosse, in sintesi, ucciderli tutti. Cose che non aveva mai sentito prima, non così, pubblicamente e senza pudore, opinioni che, un tempo molto estreme, sono diventate improvvisamente comuni, normali. Era sconvolto ma non stupito perché molte persone pensavano anche prima del 7 ottobre che i palestinesi dovessero essere espulsi da Gaza. Solo che ora hanno cominciato a dirlo pubblicamente: «Quando le persone dicono che non ci sono innocenti a Gaza, penso sia corretto dire che non esistono innocenti in tutto il conflitto. Se vai in una casa israeliana e apri un armadio trovi un’uniforme dell’Idf, l’esercito israeliano cerca di proteggere il Paese dagli attacchi ma allo stesso tempo siamo parte del sistema che sta cercando di occupare la Palestina. Siamo tutti coinvolti e non possiamo continuare con la disumanizzazione delle persone di Gaza. Hanno il diritto di vivere esattamente come noi. E chiunque cerchi di minare sotto questo diritto sta facendo male a sé stesso e alle persone che stanno cercando di trovare pace in questo conflitto. È tutto molto chiaro: se non usciamo da Gaza moriranno molte altre persone. E questo crea semplicemente le prossime generazioni che saranno furiose con Israele. Non stiamo facendo bene a noi stessi e non stiamo facendo bene ai palestinesi».