31 gennaio 2024 – Israele-Palestina: discutere la guerra

Nella posta arrivata oggi ho trovato questa comunicazione degli editori Laterza
L’ho copiata senza riuscire a salvare il link
Funziona solo quello  che porta all’intervento di Anna Foa

Israele-Palestina: discutere la guerra

Sono passati quasi quattro mesi dal massacro di civili israeliani da parte di Hamas e dall’inizio dell’operazione militare lanciata da Israele a Gaza.

Della guerra, che ha provocato decine di migliaia di morti, non si intravede la conclusione.

Rigettando tutti gli appelli per il cessate il fuoco, a partire da quelli delle Nazioni Unite, il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu ha dichiarato più volte che il conflitto durerà a lungo, tutto il tempo necessario ad eliminare completamente Hamas.

Ha inoltre escluso che quando la guerra sarà finita si possa comunque creare uno Stato palestinese, perché “la sicurezza di Israele richiede il controllo militare di tutto il territorio dal Giordano al mare”. Per parte sua Hamas, pur essendo in corso una trattativa per un temporaneo cessate il fuoco per favorire il rilascio degli ostaggi israeliani, non recede dal suo obiettivo di cancellare lo stato di Israele.

L’amministrazione Biden dal canto suo continua a oscillare tra il rifiuto della richiesta di cessate il fuoco (con la motivazione che ciò favorirebbe Hamas) e l’invito a Israele a tener maggiormente conto delle regole internazionali sul rispetto dei diritti umani.

Regole evocate anche dalla Corte internazionale di giustizia dell’Aja che (su iniziativa del Sudafrica) verificherà l’esistenza di un genocidio dei palestinesi a Gaza.

L’aspetto di tragica incomponibilità del conflitto nella striscia di Gaza sembra anche questo: che gli attuali protagonisti dello scontro non hanno interesse alla sua cessazione. Hamas – non l’intera comunità palestinese di Gaza – ha scientemente provocato la reazione israeliana con il selvaggio attacco del 7 ottobre. Il governo Netanyahu – non l’intera comunità israeliana – ha scientemente scatenato una risposta militare a tutto campo che tratta i morti civili come ‘danni collaterali’.

Ma non tutti gli israeliani la pensano così: nelle ultime settimane le voci critiche, anche in Israele si sono moltiplicate.

Su Haaretz l’ex primo ministro Olmert ha scritto che tutta l’efficienza dell’esercito israeliano non basterà a sconfiggere Hamas.

E comunque, la guerra in corso ha alimentato l’odio verso Israele, anche nelle nuove generazioni di palestinesi (i sondaggi dicono che il consenso verso Hamas è aumentato anche nella West Bank). Possiamo aspettare – come sostenuto dal leader del partito della Nuova Destra Naftali Bennett in una intervista alla BBC – che i bambini palestinesi siano educati su nuovi libri di testo e, potremmo aggiungere, che si dimentichino dei loro genitori, dei fratelli, delle sorelle, e degli amici uccisi dai soldati israeliani? Ma il tempo lungo della guerra non sembra essere un problema per Netanyahu, forse anche perché la sua carriera politica sembra ormai appesa al conflitto militare.

E certo alcuni esponenti del suo governo contano proprio su una guerra lunga per ridurre drasticamente la popolazione palestinese residente in Palestina, fino al punto da farla diventare una minoranza trascurabile. ‘Dobbiamo incoraggiare l’emigrazione dalla striscia di Gaza’ ha dichiarato alla radio militare israeliana il ministro delle finanze Bezalel Smotrich in una intervista ripresa dal New York Times. ‘Se a Gaza ci fossero 100 o 200.000 arabi anziché 2.000.000 la questione si porrebbe in modo molto diverso’. Dello stesso tenore le dichiarazioni del ministro della sicurezza nazionale, Itamar Ben Gvir.

Idee che certamente condividono molti tra i coloni che, ogni giorno, sostengono in armi il progetto di conquista di ogni parte della Palestina. E con loro gli israeliani che hanno votato per i partiti di destra oggi al governo, impauriti ed esasperati dalla sequenza di atti terroristici compiuti negli anni da Hamas e da altre organizzazioni militari e terroristiche palestinesi, convinti che la stragrande maggioranza dei palestinesi non accetterà mai l’esistenza dello Stato d’Israele.

Ma altri israeliani non la pensano così: non quelli che leggono Haaretz, su cui Amira Hass ha scritto che occorre dire basta alla guerra e Gideon Levy ha denunciato la disumanizzazione dei palestinesi da parte dei media del suo paese. Nelle settimane scorse l’opinione di questi israeliani ha cominciato ad esprimersi di nuovo attraverso manifestazioni di piazza – come era avvenuto prima del 7 ottobre – che chiedono a gran voce tanto la liberazione degli ostaggi quanto le dimissioni di Netanyahu.

Ma i sondaggi continuano a indicare che la maggioranza degli israeliani è a favore della continuazione della guerra. E quale sarà l’atteggiamento degli ebrei della diaspora, la cui opinione influisce in maniera significativa sui governi dei paesi occidentali? Come ha dichiarato uno dei maggiori studiosi palestinesi del conflitto, Rashid Khalidi, le guerre si concludono non solo in base ai risultati militari ma anche alle reazioni dell’opinione pubblica.

Se è vero che questa non è una guerra locale, perché potrebbe allargarsi e coinvolgere molti altri paesi, come reagirà l’opinione pubblica occidentale? Saremo in grado di discutere in maniera lucida e fondata un tema così complesso e divisivo?

 

Abbiamo rivolto queste domande ad alcuni autori della casa editrice e studiosi competenti delle diverse questioni implicate nel conflitto in corso.

Nell’intenzione di offrire un contributo di analisi alla discussione di una vicenda così difficile da comprendere in tutte le sue componenti.

Il primo intervento è di Anna Foa, la maggiore studiosa italiana della storia degli ebrei, di cui la casa editrice ha pubblicato tra l’altro: Gli ebrei in ItaliaEbrei in Europa. Dalla Peste Nera all’emancipazione XIV-XIX secoloDiaspora. Storia degli ebrei nel NovecentoPortico d’Ottavia 13. Una casa del ghetto nel lungo inverno del ’43La famiglia F.

> Qui l’intervento di Anna Foa

Molti sono gli interrogativi suscitati da questo testo, in un momento in cui, a quasi quattro mesi di distanza dall’inizio della guerra, quel sabato nero del 7 ottobre, essa non sembra voler cessare, il numero dei morti palestinesi a Gaza aumenta ogni giorno di più, e il governo di Netanyahu prospetta soluzioni sempre più estreme, come quella, per fortuna irrealistica, di gettare un’atomica su Gaza o quella di trasferire i palestinesi di Gaza su un’isola artificiale o di deportarne oltre un milione.

Chi crede di agire in nome di Dio non pone limiti alle sue azioni. E i ministri estremisti dell’ultimo governo di Netanyahu, i Ben Gvir e gli Smotrich, eredi di formazioni come il Kach, che fino all’avvento di questa destra erano addirittura impedite di far politica in Israele, sono esattamente questo: agitano un messianismo estremo, che li ha fatti paragonare in Israele a quegli zeloti del I secolo che sono stati causa della guerra con i romani e la distruzione del Tempio, dando inizio alla grande diaspora; e vogliono sbarazzarsi dei palestinesi e in realtà di tutti i non ebrei, ma forse anche di quegli ebrei che non condividono la loro strategia politico-religiosa, sono dichiaratamente razzisti e fautori della pulizia etnica, lavorano per creare una grande Israele guidata dalla Torah, come l’Iran con il Corano. A renderli pericolosi, e non un semplice fenomeno folkloristico, sia pur con le mani sporche di sangue, sta il fatto che sono ministri di un governo in carica, hanno quindi il potere di mettere in pratica quanto dicono. Molte delle loro affermazioni sono confluite nella richiesta del Sudafrica di mettere sotto accusa Israele come prove dell’intenzione di Israele di commettere genocidio. E a loro si riferisce la decisione della Corte dell’Aja, nella sua dichiarazione del 26 gennaio, di “prevenire e punire il diretto e pubblico incitamento a commettere genocidio”, comma votato anche dal giudice israeliano Aharon Barak.

E veniamo alla grande novità di questi giorni, la sentenza, provvisoria perché non decide se Israele stia effettivamente commettendo genocidio, e urgente, perché volta a fermare prima possibile l’intervento di Israele a Gaza, pur senza chiedere un vero e proprio cessate il fuoco. Ma la richiesta di obbedire nella conduzione della guerra alle norme del diritto internazionale implica di per sé un arresto, se non formale sostanziale, della guerra o almeno un suo deciso ridimensionamento. Inoltre, Israele ha un mese di tempo per dimostrare di avere obbedito alle raccomandazioni della Corte. Siamo nell’ambito di precise disposizioni volte a prevenire la possibilità di un genocidio, non a condannarlo dopo la sua realizzazione.

La decisione della Corte dell’Aja si rivela così una sorta di compromesso, ma più dal punto di vista formale che sostanziale. Se verrà rispettata, le possibilità di uscire da questa terribile guerra cresceranno di molto. Inoltre, la sentenza chiede il rilascio immediato dei prigionieri di Hamas. Se il processo andrà avanti, come sembra, ad essere posti sotto accusa saranno, oltre ad Israele, Hamas.

Queste le prospettive che la sentenza dell’Aja apre. Essa rende più facile a Biden votare a favore della mozione dell’ONU per il cessate il fuoco, già bloccata dal veto degli USA nel dicembre. Rende più facile alla società israeliana chiedere, come una sua parte sta facendo nonostante la guerra, le dimissioni del governo Netanyahu perché ne accusa direttamente i ministri di voler realizzare un genocidio, divenendo così responsabili dell’accusa del Sudafrica. Inoltre gli israeliani hanno dalla sentenza un forte appoggio nella richiesta di rilascio incondizionato degli ostaggi.

Più facile non vuol dire realizzabile. Chi pensa che dal momento che nient’altro riusciva a fermare Netanyahu ben venga la Corte dell’Aja, è ben consapevole dei rischi di questa operazione. Non tanto in sé, perché la sentenza dell’Aja si è dimostrata di un raro equilibrio e ha mostrato di aver ben presenti tutti i termini della questione e le sue conseguenze. E nemmeno per gli abitanti di Gaza, a cui difficilmente potrebbe succedere qualcosa di peggio di quello che sta già succedendo. Ma certo per gli ebrei del mondo, che vedono crescere intorno a loro l’antisemitismo. Già ora molta parte dell’opinione pubblica recepisce semplicemente che la sentenza abbia avallato l’accusa di genocidio.

Penso che possiamo e dobbiamo affrontare questo clima, queste accuse. Spiegare, parlare, discutere. Sarebbe molto peggio affrontarlo se i Ben Gvir vincessero ed attuassero il loro folle progetto. Allora davvero, se non avremo fatto nulla per contrastarli, saremo assai meno credibili nel combattere l’antisemitismo.

 

 

31 Gennaio 2024Permalink

28 Gennaio 2024 Viaggio nell’inferno di Khan Yunis: “Hamas ci spara dalle scuole, sbucano e fuggono. Li uccideremo tutti”

 

A caccia dei tunnel con i soldati israeliani nella città del Sud della Striscia. Della gente di Gaza neanche l’ombra, quartieri residenziali rasi al suolo                                            FABIANA MAGRÌ

Khan Yunis (striscia di Gaza). Spazzati come le nuvole dalle raffiche di vento, la polvere e i rumori dei combattimenti in corso nei vicoli stretti dei campi profughi di Khan Yunis arrivano fino al cortile della scuola, alla periferia orientale della città dove ci troviamo. Alle sventagliate delle mitragliatrici segue il boato del missile lanciato dal “chopper”. A Ovest, prima della linea dell’orizzonte sul mare, si alzano colonne di fumo nero. In un attimo, a un chilometro e mezzo di distanza, l’aria si fa nebbia sabbiosa e solleva residui di materiale bruciato, mentre l’elicottero israeliano è già rientrato alla base. Gli edifici della scuola elementare «sono stati usati dai terroristi per spararci addosso e attaccarci», dice a La Stampa il tenente colonnello Anshi dell’unità di riserva paracadutisti della 55esima brigata, nella 98esima Divisione “Ha-Esh” (“Formazione di Fuoco”). Dalle aule dell’istituto le brigate Al Qassam hanno ingaggiato una battaglia ravvicinata con i soldati israeliani. C’era anche Anshi. Un proiettile nemico gli ha perforato il braccio sinistro, da parte a parte. Oggi la scuola è un punto di appoggio logistico per Tsahal. Il pallone di cuoio al centro del cortile – usato evidentemente come campo da calcio oltre che come parcheggio per i tank – lascia intendere che il battaglione di paracadutisti sente di avere la situazione totalmente sotto controllo.

La porta di accesso per le truppe israeliane che operano a Khan Yunis è la breccia stessa creata da Hamas il 7 ottobre del 2023 nella barriera high tech eretta da Israele per separare e proteggere il territorio dello Stato ebraico da quello palestinese. Una sorta di contrappasso, come tendono a sottolineare i militari che venerdì ci hanno accompagnato nella Striscia – dove non si può entrare se non scortati – insieme con altre quattro testate di stampa internazionale.

A poche centinaia di metri da quel confine, ancora oggi, emergono nuovi sbocchi di tunnel. Quello su cui ci affacciamo è stato individuato appena due settimane e mezzo fa dalle forze di sorveglianza. In un campo dove non dovrebbe esserci nulla, hanno notato «una pattuglia di combattimento con 15 soldati» e hanno iniziato a indagare. All’interno del pozzo c’era una scala che scendeva in profondità. Era sporca di fango. «Evidentemente qualcuno l’aveva usata dopo le recenti piogge, quando eravamo già qui. È un’ottima posizione per sbucare fuori da sottoterra con un lanciarazzi, sparare sui carri armati e i veicoli che passano a soli 100 metri, quindi tornare indietro e fuggire verso Gaza». Il genio militare l’ha neutralizzato tra giovedì e venerdì, cioè la sera prima di mostrarlo ai giornalisti. Sul terreno c’erano ancora abbondanti tracce, in forma di schiuma solidificata, dell’esplosivo liquido utilizzato. Sembra incredibile ma dopo oltre tre mesi di operazioni militari israeliane nella Striscia, partite da Nord e scese fino a Gaza City, poi proseguite nella regione di Khan Yunis dopo la tregua di fine novembre, la portata della rete dei tunnel di Hamas, con le sue 5 mila gallerie individuate finora – dicono – è ancora capace di stupirli. Centinaia di chilometri di cemento. Un’altra Gaza, tutta sotterranea, costruita a suon di miliardi.

Generose sovvenzioni del Qatar ad Hamas, che qui comanda dal 2007, su cui il premier israeliano Benjamin Netanyahu non ha interferito.

Tsahal continua a studiare ogni tunnel. Li bonifica per spianare la strada ai suoi professionisti affinché possano raccogliere tutte le informazioni utili, applicando robotica e diverse tecnologie (su cui non possono scendere nei dettagli), sfruttando l’intelligence, le valutazioni basate sulle immagini e i dati che emergono dagli interrogatori dei militanti di Hamas catturati durante l’avanzata. Al termine delle indagini li distruggono, in modo che non possano essere più utilizzati.

A fare la scoperta di questa galleria sono stati due riservisti, un avvocato e un imprenditore immobiliare, di 55 e 66 anni. Un’età in cui la maggior parte dei soldati si accontenta di essere considerato veterano di guerra. Loro dicono: «Non potevamo restare a casa. Siamo qui per i nostri figli e le nostre famiglie». Cercare gli ostaggi israeliani non è la loro missione. E non saprebbero dire se il tunnel appena rinvenuto possa essere stato usato per trasportarne qualcuno nelle profondità di Gaza. «Ma – dicono – siamo certi che sia stato utilizzato il 7 ottobre dalle migliaia di terroristi per avvicinarsi il più possibile alla barriera e sferrare l’assalto massiccio ai kibbutzim».

Khan Younis è il più grande governatorato della Striscia. La sua superficie copre 108 dei 365 chilometri quadrati dell’enclave costiera. Solo qui risiedevano 430 mila persone, di cui i 90 mila nel campo profughi già conducevano una vita ben sotto la soglia di povertà. La loro evacuazione verso Rafah è un evento dalla portata drammatica, che esercita pressioni le cui ricadute diventeranno chiare nei giorni a venire.

Spostandosi tra la barriera e la scuola, il convoglio delle jeep militari attraversa al-Qarara, dove di civili palestinesi non ce nemmeno l’ombra. All’inizio di dicembre, lungo queste strade e tra gli edifici, si sono consumati violenti scontri a fuoco tra le forze dell’esercito israeliano e gli uomini di Hamas. «È una guerra porta a porta. Ovunque incontriamo il nemico faccia a faccia, vinciamo noi», sostiene il colonnello Anshi. Ma ammette che «quando  i terroristi si avvicinano in abiti civili, usano le case, le scuole, le moschee e gli ospedali per attaccare, è lì che riescono a coglierci di sorpresa».

Le forze israeliane avrebbero neutralizzato tra il 48 e il 60 per cento delle brigate al-Qassam. Il Jerusalem Post ha stimato che le percentuali corrispondono a 9mila miliziani su un bacino di 30-40 mila uomini di Hamas. I morti palestinesi dall’inizio dell’offensiva di terra israeliana – stime del gruppo islamico che non distingue tra civili e miliziani – sono oltre 26 mila.

Dell’elegante quartiere residenziale che doveva essere, resta ben poco. L’esercito, spiega Anshi strada facendo, rade al suolo ogni edificio in cui rilevi presenza di attività terroristiche o collegamento con esse. Che siano depositi di armi, lanciatori di razzi, imbocchi di tunnel o documenti. Le villette di al-Qarara lasciate in piedi sono poche isole tra le macerie. È il risultato dell’«approccio sistematico» utilizzato da Tsahal. «Area per area, zona per zona. Ovunque arriviamo – spiega il colonnello Anshi – smantelliamo le capacità dei terroristi, uccidiamo i militanti, facciamo saltare in aria le loro infrastrutture. Quando abbiamo finito, passiamo alla zona successiva». Quanto tempo pensi che ci vorrà ancora, gli chiediamo. «Tutto quello necessario», risponde. Poi aggiunge: «Questo è un hub del terrore che è stato costruito in oltre un decennio. Ci vorrà molto tempo per smantellarlo». Il riservista ha 55 anni. Ha partecipato a operazioni militari precedenti. «Ma questa – dice – non è paragonabile a niente che sia stato fatto prima».

In due mesi, cioè dalla ripresa del conflitto dopo la breve tregua di fine novembre tra Hamas e Israele, la città simbolo del potere dei jihadisti, è stata completamente accerchiata. A Khan Younis è nato Yahya Sinwar, il capo dei capi di Hamas. «Gli stiamo addosso”» dice il colonnello. Ma la caccia all’uomo non ha ancora raggiunto il suo obiettivo più importante.

Al termine della spedizione, si torna indietro sulle jeep che battono strade senza più nome, rese carrabili ai soli fini militari. Si passa di nuovo attraverso la breccia nella barriera e dopo appena cinque chilometri, attraverso campi e serre di banani, si arriva a Ein Hashlosha, il kibbutz così chiamato in memoria dei tre membri fondatori uccisi durante la guerra arabo-israeliana del 1948. Nel massacro dello shabbat di inizio ottobre, le vittime nelle comunità agricole intorno alla Striscia sono state 1200. E 240 i rapiti. Meno della metà sono stati rilasciati. 136 restano ancora in mano ad Hamas. Una ventina di loro sono già cadaveri. Il soldato di scorta a bordo del veicolo, sulla strada del ritorno, è malinconico. Canta tra sé e sé «Ulai» («Forse») del cantautore Aviv Geffen: «E se vedi una ragazza con gli occhi da cerbiatta, dille che la sto ancora cercando».

https://www.lastampa.it/esteri/2024/01/28/news/gaza_hamas_khan_yunis_tunnel_reportage-14026551/?ref=LSHA-BH-P2-S2-T1

28 Gennaio 2024Permalink

7 gennaio 2024 _ Un giornalista non accetta di essere parte attiva in una informazione mutilata_

N:B: La firma è il Link in calce _ “Quanto accaduto il 7 ottobre è la vergogna di Hamas, quanto avviene dall’8 ottobre è la vergogna di noi tutti. Questo massacro ha una scorta mediatica che lo rende possibile. Questa scorta siamo noi.”
Condivido ogni parola scritta dal giornalista Raffaele Oriani nell’ interrompere la collaborazione con La Repubblica.
“Care colleghe e cari colleghi, ci tengo a farvi sapere che a malincuore interrompo la mia collaborazione con il Venerdi. Collaboro con il newsmagazine di Repubblica ormai da dodici anni, ed è sempre un grande onore vedere i propri articoli pubblicati su questo splendido settimanale. Eppure chiudo qua, perché la strage in corso a Gaza è accompagnata dall’incredibile reticenza di gran parte della stampa europea, compresa Repubblica (oggi due famiglie massacrate in ultima riga a pagina 15).
Sono 90 giorni che non capisco. Muoiono e vengono mutilate migliaia di persone, travolte da una piena di violenza che ci vuole pigrizia a chiamare guerra. Penso che raramente si sia vista una cosa del genere, così, sotto gli occhi di tutti. E penso che tutto questo non abbia nulla a che fare né con Israele, né con la Palestina, né con la geopolitica, ma solo con i limiti della nostra tenuta etica. Magari fra decenni, ma in tanti si domanderanno dove eravamo, cosa facevamo, cosa pensavamo mentre decine di migliaia di persone finivano sotto le macerie.
Quanto accaduto il 7 ottobre è la vergogna di Hamas, quanto avviene dall’8 ottobre è la vergogna di noi tutti. Questo massacro ha una scorta mediatica che lo rende possibile. Questa scorta siamo noi. Non avendo alcuna possibilità di cambiare le cose, con colpevole ritardo mi chiamo fuori”.
9 gennaio
Aggiungo il link che permette di raggiungere il  testo della risposta del comitato i redazione
https://www.repubblica.it/cronaca/2024/01/07/news/il_comunicato_del_cdr__a_fianco_dei_colleghi_che_seguono_la_guerra_no_alle_strumentalizzazioni-421824644/
7 Gennaio 2024Permalink

7 gennaio 2024 _ Francesca Mannocchi_ I palestinesi condannati all’esilio

Francesca MANNOCCHI
GAZA e i PALESTINESI condannati all’ESILIO
(LA STAMPA, 5 gennaio 2024)
Una Striscia senza palestinesi per il governo Netanyahu è «imperativo morale». Secondo il ministro Smotrich, il 90 per cento dei gazawi deve andarsene: «Paesi africani e dell’America Latina sono disposti ad assorbire i rifugiati»
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Mentre il bilancio delle vittime della guerra supera le 22 mila persone, gli esponenti politici israeliani diventano sempre più espliciti nell’obiettivo di trasferire il maggior numero di abitanti di Gaza al di là dei confini della Striscia. Le dichiarazioni, sempre più numerose e sempre più trasparenti, stanno suscitando gli allarmi delle organizzazioni umanitarie e degli alleati di Tel Aviv, soprattutto gli Stati Uniti. Allarmi che però, continuano a cadere nel vuoto.
Domenica scorsa, il ministro delle finanze Bezalel Smotrich, al vertice del partito ultranazionalista Sionismo religioso, riferendosi a Gaza, ha parlato di un ghetto in cui è necessario incoraggiare l’emigrazione. «Per evitare che Gaza resti un focolaio in cui due milioni di persone crescano nell’odio aspirando a distruggere Israele» Smotrich suggerisce che almeno il 90% della popolazione debba andarsene.
«Se a Gaza ci saranno 100 o 200 mila arabi, e non più due milioni – ha detto – parlare del “giorno dopo” sarà diverso».
È questo il tema della discussione oggi: parlare del giorno dopo. La strategia sul presente della guerra è la strategia sul futuro della Striscia. Cosa sarà domani delle persone che oggi sono di fatto intrappolate in una prigione a cielo aperto e sul cui destino molti esponenti della leadership israeliana, sembrano avere le idee chiare: ristabilire l’insediamento ebraico nel territorio e incoraggiare i palestinesi ad andarsene. Scenario che per i gazawi rappresenta la messa in atto dell’incubo di una seconda catastrofe, la Nakba, lo sfollamento forzato seguito alla guerra del 47-49, e che per gli osservatori della politica israeliana, rappresenta le ambizioni delle frange più estremiste del governo Netanyahu, a cui il Primo Ministro deve la formazione dell’ultimo governo, il sostegno politico e quindi la speranza che la sua leadership non termini con la fine della guerra.
«Incoraggiare i trasferimenti»
Il progetto di trasferire o incoraggiare lo spostamento “volontario” dei palestinesi da Gaza era, un tempo, una posizione marginale all’interno della società israeliana, per lo più sostenuta dai Kahenisti. Questa idea è andata via via normalizzandosi dopo la formazione dell’ultimo governo Netanyahu, lo scorso anno ed estremizzata dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre. Per gli esponenti politici e gli aperti sostenitori delle tesi Kaheniste, la strage di ottobre e la guerra che ne è seguita sono diventate «un’opportunità per concentrarsi sull’incoraggiamento dei residenti di Gaza a migrare», queste le parole del ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben Gvir per cui il trasferimento dei gazawi è una «scelta corretta, giusta, morale ed umana».
A novembre, i deputati Danny Danon del Likud, ex ambasciatore presso le Nazioni Unite, e Ram Ben Barak del partito di opposizione Yesh Atid, ex vicedirettore del Mossad, hanno scritto sul WSJ un editoriale dal titolo: «Il mondo dovrebbe accogliere i rifugiati di Gaza, anche se i Paesi accogliessero solo 10.000 persone ciascuno, ciò aiuterebbe ad alleviare la crisi», terminando l’appello con queste parole: «La comunità internazionale ha l’imperativo morale – e l’opportunità – di dimostrare compassione, aiutare il popolo di Gaza a muoversi verso un futuro più prospero e lavorare insieme per raggiungere maggiore pace e stabilità in Medio Oriente» .
A dicembre il ministro dell’Intelligence Gila Gamliel ha pubblicato un editoriale sul Jerusalem Post usando parole analoghe, invitando i paesi occidentali ad accogliere i residenti della Striscia di Gaza, in un atto di «reinsediamento volontario». In risposta alla richiesta di Gamliel di istituire una task force sul tema, Netanyahu la settimana scorsa ha ammesso che il governo sta lavorando per facilitare il movimento dei gazawi fuori confine. «Il problema – ha detto – è trovare Paesi disposti ad assorbirli, stiamo lavorando su questo».
La settimana scorsa sempre Danny Danon ha rincarato la tesi del gesto umanitario: «Israele deve rendere più facile per gli abitanti di Gaza partire verso altri Paesi. Un’immigrazione volontaria dei palestinesi che vogliono andarsene», ha detto, aggiungendo di essere già stato contattato da «Paesi africani e dell’America Latina disposti ad assorbire i rifugiati dalla Striscia di Gaza».
Secondo fonti anonime del gabinetto di sicurezza citate dalla testata Zman Israel il Congo sarebbe stato disposto ad accogliergli. Tra gli intermediari sul reinsediamento dei palestinesi in altri Paesi, secondo il canale israeliano Channel 12, anche l’ex primo ministro britannico Tony Blair (ma il Tony Blair Institute for Global Change, un’organizzazione no-profit da lui fondata nel 2016) ha smentito gli incontri con Gantz e Netanyahu su questo tema: «Tony Blair non sosterrebbe una simile discussione, l’idea è sbagliata di principio. Gli abitanti di Gaza dovrebbero poter restare e vivere a Gaza», scrivono nel comunicato. Le indiscrezioni di Channel 12, arrivavano dopo che due ministri del governo di estrema destra hanno ipotizzato che i coloni potranno tornare nella Striscia di Gaza a guerra finita.
Sono molti i politici israeliani che hanno cominciato esplicitamente a chiedere il ripristino degli insediamenti israeliani a Gaza (i coloni israeliani si sono ritirati dalla Striscia nel 2005), e in un recente articolo del Jerusalem Post, un geografo israeliano, ha definito la penisola egiziana del Sinai «un luogo ideale per sviluppare un ampio reinsediamento per la popolazione di Gaza».
Nelle ultime settimane sono state diffuse molte immagini di soldati israeliani che si sono ritratti nel territorio della Striscia, con cartelli che riportavano le scritte «Siamo tornati!» e «Siamo qui per restare!».
Ovviamente queste immagini hanno allarmato la comunità internazionale e confermato l’idea che il piano di Israele sia quello di sfollare forzatamente e in maniera permanente i palestinesi.
La fame di Gaza
La guerra a Gaza ha già costretto allo sfollamento la stragrande maggioranza della popolazione. Dall’inizio dell’offensiva Israele ha ripetutamente esortato i civili a spostarsi verso sud, in aree presentate come «più sicure», nei fatti però i bombardamenti hanno seguito il flusso di persone e oggi anche i grandi centri meridionali sono sotto bombardamenti continui, le infrastrutture e le abitazioni sono devastate e un milione e mezzo di persone devono far fronte a necessità mediche enormi e a una carestia incombente.
A dicembre le Nazioni Unite hanno definito la situazione a Gaza catastrofica, avvertendo che oltre il novanta per cento della popolazione si trova ad affrontare «una grave insicurezza alimentare» e dove «praticamente tutte le famiglie saltano i pasti ogni giorno».
Il rapporto rilevava che i livelli di fame rappresentano «la percentuale più alta di persone che affrontano livelli elevati di insicurezza alimentare acuta» mai registrata «per una determinata area o Paese».
Secondo Arif Husain, capo economista del Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite, intervistato il 3 gennaio dal New Yorker, a Gaza in questo momento praticamente l’intera popolazione di 2,2 milioni di persone si trova in una crisi di sicurezza alimentare. «Faccio questo lavoro da vent’anni e sono stato testimone di ogni tipo di conflitto e di ogni tipo di crisi – ha detto –. E, per me, questa situazione non ha precedenti, non ho mai visto nulla di simile in termini di gravità, di scala e quindi di velocità. A Gaza c’è una doccia ogni 450 persone, c’è un bagno ogni 220 persone. Più di 1 milione e mezzo di persone vive in luoghi molto congestionati. Un quarto della popolazione versa già in livelli catastrofici di fame. Se ciò che sta accadendo continua o peggiora, molto presto, entro i prossimi sei mesi, avremo una vera e propria carestia».
L’espulsione dei gazawi come «atto morale»
In una lunga e dettagliata ricostruzione sulla diffusione delle tesi kahaniste nella società israeliana, a novembre il quotidiano Hareetz, ha pubblicato un lungo articolo dal titolo: La destra israeliana sta cercando di riformulare il trasferimento della popolazione di Gaza come un «atto morale». L’idea di espellere gli arabi verso altri Paesi un tempo, dice Haaretz, era legata a Meir Kahane e ad altri radicali di estrema destra, e quindi considerata un anatema dalla maggior parte degli israeliani.
Oggi la situazione è cambiata e l’idea sta guadagnando terreno come soluzione «morale» alla guerra. Rimettendo in fila i passaggi che hanno reso esplicito, accettabile nella società israeliana questo scenario, Hareetz ne ricostruisce alcuni passaggi di comunicazione nei tre mesi di guerra: a un mese dall’inizio dell’offensiva, il conduttore televisivo Guy Lerer scrisse sui suoi social: «Perché milioni di rifugiati siriani sono andati in Turchia e milioni di ucraini sono andati in tutte le parti d’Europa? – perché in ogni guerra esistono i rifugiati ad eccezione della guerra nella Striscia di Gaza?». Lo stesso giorno su Channel 12, il canale informativo più seguito del paese, il parlamentare Ram Ben Barak disse: «Se consideriamo tutta Gaza composta da rifugiati, disperdiamoli in giro per il mondo. Ci sono 2,5 milioni di persone lì. Ogni Paese potrebbe accogliere 20.000 persone – 100 Paesi. È umano, è logico, meglio essere un rifugiato in Canada che un rifugiato a Gaza. Se il mondo vuole davvero risolvere questo problema, può farlo». Sia Lerer che Ben Barak sono seguaci delle idee del rabbino ultranazionalista Meir Kahane, ma quello che è interessante e inquietante allo stesso tempo è che le loro tesi, che un tempo sarebbero state appannaggio dell’estrema destra, oggi stanno diventando sentire comune nella società israeliana.
Dieci giorni dopo la strage del 7 ottonre, era stato pubblicato un documento che cercava di dare legittimità all’idea del trasferimento della popolazione. Il dottor Raphael BenLevi, dell’organizzazione di destra Tikvah Fund e ricercatore presso l’Istituto Misgav per la sicurezza nazionale e la strategia sionista, sempre citato da Haaretz, ha scritto che l’unico modo per stabilizzare il confine sud di Israele «è agire per spingere la popolazione nella penisola del Sinai e creare un’iniziativa internazionale per assorbire gli sfollati del Sinai in paesi stranieri. Nonostante l’opposizione prevista, Israele deve agire per creare una situazione intollerabile a Gaza, che obbligherà altri Paesi ad aiutare la partenza della popolazione – e gli Stati Uniti a esercitare forti pressioni a tal fine».
Come a dire: quanto più la situazione a Gaza sarà intollerabile, tanto più i civili spingeranno per lasciare la Striscia. E, di conseguenza, sarà inevitabile che gli sforzi diplomatici cominceranno a muoversi per convincere i paesi arabi ad accogliere i rifugiati e i paesi Occidentali a fare la loro parte.
A cercare di piegare l’espulsione dei gazawi secondo queste tesi è anche un articolo uscito su Hashiloach, ad ottobre, dal titolo: «Necessario, morale e possibile: non tornare a Gaza». L’autore, Yoav Sorek, presenta delle argomentazioni «etiche» alla sua tesi, passaggio che Haaretz definisce un «sofisticato upgrade per i Kahanisti».
Sorek sa che il rischio del trasferimento forzato, che è un crimine di guerra, rischia di provocare l’isolamento di Israele dai suoi alleati internazionali, perciò delinea una tesi secondo cui l’unico modo per abbandonare l’invito alla vendetta e l’uccisione dei civili, è trasferire la popolazione. «Il trasferimento di una popolazione o l’attuazione di uno scambio di popolazione sono pratiche pervasive nella risoluzione dei conflitti e sono completamente indipendenti al crimine noto come “pulizia etnica”».
Trasferire per non uccidere dunque. Questo lo scambio esplicitamente proposto dalle frange estremiste della politica e, dunque, della società israeliana, questo il dilemma morale di cui l’Occidente e i Paesi arabi stanno prendendo coscienza.
In tale contesto la migrazione presentata come “volontaria” equivale sempre di più a uno sfollamento forzato illegale.
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7 Gennaio 2024Permalink

10 dicembre 2023 _ La voce della poesia non può morire

Sto pensando a lui, Refat Al-Areer poeta, scrittore, docente di letteratura, ucciso a Gaza ieri in un bombardamento, con la sua famiglia. Tra i fondatori di NON SIAMO NUMERI. Le sue parole:
Se dovessi morire
tu devi vivere
per raccontare la mia storia,
per vendere le mie cose,
per comprare un pezzo di stoffa
e qualche stringa.
(rendilo bianco con una lunga coda)
cosicché un bambino, da qualche parte a Gaza
guardando il cielo negli occhi
in attesa di suo padre che se ne andò in una fiamma –
e non diede l’addio a nessuno
nemmeno alla sua stessa carne
nemmeno a se stesso –
veda l’aquilone, il mio aquilone che tu hai fatto,
volare là sopra
e pensi per un momento
che un angelo sia lì
a riportare indietro amore.”
“Se dovessi morire
fa’ che porti speranza,
fa’ che sia un racconto.”
10 Dicembre 2023Permalink

9 dicembre 2023 _ Un caso di detenzione amministrativa (?) in Israele che sembra chiudersi positivamente

Il ricercatore italo-palestinese, arrestato ad agosto delle autorità israeliane e scarcerato un mese fa, ha superato il confine con la Giordania. La felicità della moglie, originaria del Molise

Il servizio di Dario Tescarollo, montaggio di Piero Manocchio

Presto Khaled El Qaisi potrà finalmente tornare in Italia: dopo mesi di preoccupazione per il suo destino, sembra arrivare il lieto fine per il ricercatore italo-palestinese dell’Università La Sapienza di Roma.

Era stato arrestato dalle autorità israeliane il 31 agosto scorso al valico di Allenby tra Cisgiordania e Giordania. Un mese dopo, a inizio ottobre, il tribunale israeliano di Rishon Le Tzion si pronunciò per la sua scarcerazione con la condizione del divieto di espatrio per una settimana. Khaled ha così potuto soggiornare liberamente nella casa di famiglia di Betlemme, poi però, l’8 ottobre, è scoppiato il conflitto in Israele e da quel momento alla lontananza si è sommata la preoccupazione delle bombe.

Oggi la situazione si è sbloccata; fonti diplomatiche confermano che il 28enne italo-palestinese si trova in territorio giordano e che presto farà ritorno in Italia per riabbracciare la propria famiglia. “Khaled ha attraversato il confine con la Giordania. Finalmente potremo riabbracciarlo”, le parole che la moglie Francesca Antinucci, di Campobasso, ha scritto sul proprio profilo Facebook.

https://www.rainews.it/tgr/molise/articoli/2023/12/khaled-el-qaisi-ha-lasciato-la-palestina-presto-il-ritorno-in-italia-e7e2c5fa-b28d-46cb-b6f2-358b039d6655.html

Ne avevo scritto nl mio blog diariealtro  il 7 settembre

7 settembre 2023_ Una notizia dalla Palestina

9 Dicembre 2023Permalink

2 dicembre 2023 _ Qualche traccia di storia per non dimenticare_ Ben Gurion

 

David Ben Gurion, che fece Israele

David Ben Gurion, che morì 50 anni fa, il 1° dicembre del 1973, è ancora oggi la più importante figura politica della storia di Israele, e il più importante leader del popolo ebraico della storia moderna. Fu il più grande organizzatore del movimento sionista novecentesco, il primo firmatario della dichiarazione di indipendenza di Israele, il primo ministro del paese e il primo ministro della Difesa. Per tutta la parte iniziale della storia di Israele l’influenza politica e anche sociale di Ben Gurion fu senza pari, anche se oggi il suo ideale di uno stato di Israele laico e secolare si è sempre più andato affievolendo.

La figura di Ben Gurion, benché quasi universalmente amata in Israele e ammirata in gran parte del mondo, è ancora piuttosto controversa tra gli storici. Per realizzare il sogno di creare uno stato per il popolo ebraico, Ben Gurion dimostrò una certa spregiudicatezza, ed ebbe posizioni altalenanti e a volte ciniche su numerose questioni di rilievo, come il rapporto tra israeliani e arabi, la possibilità di una pace duratura e l’uso della violenza e della guerra come strumenti di istituzione dello stato di Israele.

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David Ben Gurion nacque nel 1886 nella cittadina di Płońsk, che  attualmente si trova in Polonia ma al tempo faceva parte dell’Impero russo. Il suo vero nome era David Yosef Gruen, cambiato in età adulta in Ben Gurion, che in ebraico significa “figlio di un leone”. Gli anni della sua infanzia coincisero con la nascita del movimento sionista, che aspirava a creare per il popolo ebraico uno stato indipendente lontano dalle discriminazioni e dalle persecuzioni che gli ebrei subivano in Europa. Nel 1896 Theodor Herzl, il padre del sionismo moderno, pubblicò Der Judenstaat, cioè Lo Stato ebraico, un libro fondamentale per il movimento di creazione di uno stato ebraico, e in quello stesso anno il padre di Ben Gurion fondò un’associazione sionista a Płońsk.

Ben Gurion cominciò la sua carriera di attivista politico mentre ancora si trovava in Europa, dividendosi tra la causa sionista e quella socialista: tra le altre cose fu un sindacalista e dopo l’inizio della Rivoluzione russa del 1918 divenne un aperto ammiratore di Lenin. Per gran parte della sua vita rimase ateo e sospettoso nei confronti degli ebrei ortodossi: lavorava di sabato e mangiava carne di maiale, e si era vantato di aver messo piede in una sinagoga soltanto dopo la fondazione di Israele.

Nonostante questo, Ben Gurion era un conoscitore della Bibbia, che citava spesso nei suoi discorsi, e in vecchiaia disse di aver cominciato a credere in Dio.

Nel 1906, a vent’anni, Ben Gurion si trasferì in Palestina, che al tempo era sotto il controllo dell’Impero ottomano. Ben Gurion fece parte dei primi movimenti dell’“aliyah”, parola che in ebraico significa “ascesa” e che viene usata per descrivere il ritorno degli ebrei della diaspora in Palestina. Con alcune centinaia di compagni si integrò nelle comunità agricole gestite da ebrei che si stavano formando in quegli anni e che sarebbero state il precursore dei kibbutz. Le condizioni di vita erano estremamente difficili, tanto che a un certo punto Ben Gurion si ammalò di malaria.

Anche in Palestina divenne ben presto uno dei leader dei movimenti sionisti e socialisti che operavano al tempo.

Quando iniziò la Prima guerra mondiale (1914–1918), Ben Gurion e parte del movimento sionista tentarono prima di allearsi con l’Impero ottomano e poi, quando questo rifiutò (tra le altre cose Ben Gurion fu espulso dalla Palestina), con l’Impero britannico, che combatteva in Palestina proprio contro gli ottomani. Migliaia di ebrei da tutta Europa, compreso Ben Gurion e moltissimi di quelli che sarebbero in seguito diventati i leader politici di Israele, si arruolarono nell’esercito britannico dentro alla cosiddetta “Legione ebraica”, che ebbe un ruolo limitato nella guerra mondiale ma una certa importanza nella militarizzazione del movimento sionista.

Dopo la fine della Prima guerra mondiale, il Regno Unito assunse il “mandato” (cioè di fatto il controllo) della Palestina e di altri territori del Medio Oriente. In quegli anni, Ben Gurion divenne gradualmente il leader principale del movimento sionista: nel 1935 fu eletto presidente dell’Esecutivo sionista, il principale organo del sionismo mondiale, e dell’Agenzia ebraica, cioè il braccio operativo del movimento in Palestina. Di fatto, Ben Gurion divenne il capo del movimento sionista mondiale e il leader degli ebrei in Palestina. Continuò a dominare la politica ebraica per i successivi trent’anni.

Il suo rapporto con i dominatori britannici fu altalenante e in alcuni casi ambiguo. Ben Gurion partecipò alle operazioni clandestine per far arrivare in Palestina quanti più ebrei possibile (anche se i britannici volevano imporre dei limiti all’immigrazione ebraica) e per fare in modo che gli ebrei comprassero quanta più terra possibile nella regione. Nel 1936 la popolazione araba della Palestina si rivoltò sia contro i dominatori britannici sia contro le oppressioni e i soprusi degli immigrati ebrei, che tendenzialmente erano più ricchi e avevano a lungo goduto del sostegno dei britannici. Seguirono tre anni di quella che di fatto fu una guerra civile, e che secondo molti fu il punto d’inizio del conflitto israelo-palestinese.

Nel 1939, all’inizio della Seconda guerra mondiale, Ben Gurion esortò gli ebrei a sostenere lo sforzo bellico del Regno Unito e ad arruolarsi nell’esercito britannico. Ma a guerra finita, nel 1945, le cose cambiarono: nei decenni precedenti si erano formate in Palestina varie milizie e gruppi paramilitari ebraici che, dopo la fine della guerra, dichiararono guerra ai britannici, commettendo attacchi di guerriglia e atti di terrorismo. Formalmente, Ben Gurion si dissociò dagli attacchi delle milizie, ma in realtà sostenne almeno alcuni di questi gruppi.

Nel 1947, sfiancato dall’insurrezione ebraica, dalle pressioni dei leader arabi e dal costo di tenere sul campo 100 mila soldati, il Regno Unito lasciò il Mandato sulla Palestina alle Nazioni Unite, che in quello stesso anno proposero un piano di partizione della Palestina tra ebrei e palestinesi.

Nel novembre del 1947 l’Assemblea generale dell’ONU approvò la risoluzione 181, che prevedeva che il 56 per cento del territorio fosse dato agli ebrei, e il resto ai palestinesi. Gerusalemme sarebbe stata governata direttamente dall’ONU e sarebbe rimasta territorio neutrale. Ben Gurion e i leader ebrei accettarono immediatamente, e il 14 maggio 1948 Ben Gurion dichiarò la fondazione dello stato di Israele. Fu il primo firmatario della dichiarazione di indipendenza del nuovo stato e in breve ne divenne primo ministro e ministro della Difesa. Entrambe le grandi potenze del tempo, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, riconobbero il nuovo stato.

I palestinesi però non accettarono il piano dell’ONU. Ampie frange della società non accettavano l’idea che quello che fino a pochi decenni prima era stato territorio quasi interamente abitato da popolazioni arabe dovesse accogliere lo stato di Israele.

Nei giorni successivi alla dichiarazione di indipendenza israeliana, una coalizione di stati arabi solidali con la causa palestinese — l’Egitto, l’Iraq, la Giordania (che allora si chiamava Transgiordania) e la Siria — attaccarono lo stato di Israele appena nato da tutti i fronti, e cominciò la prima guerra arabo-israeliana.

Negli anni precedenti alla creazione dello stato di Israele, pubblicamente Ben Gurion si era detto fiducioso che i paesi arabi non avrebbero attaccato un eventuale stato ebraico, ma in realtà si stava preparando, e fu tra i principali artefici dell’unione di tutte le milizie ebraiche in quello che poi sarebbe diventato l’esercito israeliano. Contro le aspettative di molti, il nascente esercito israeliano si dimostrò più preparato del previsto e riuscì a contrattaccare conquistando enormi porzioni di territorio che l’ONU aveva attribuito ai palestinesi. Alla fine della guerra, nel luglio del 1949, Israele controllava il 72 per cento del territorio della Palestina contro il 56 previsto dall’ONU.

La guerra provocò anche la cosiddetta nakba, parola araba che significa catastrofe e che viene usata dai palestinesi per indicare il trasferimento forzato di oltre 700 mila persone palestinesi che furono costrette dall’esercito israeliano a lasciare le proprie case, abbandonare i territori palestinesi in cui abitavano e a trasferirsi in campi profughi. La nakba non fu un processo pacifico: in alcuni casi i soldati israeliani scacciarono i palestinesi con le buone, ma molto spesso ci furono violenze e massacri.

Alcuni storici e quasi tutti i palestinesi ritengono che Ben Gurion, in quanto principale leader politico di Israele e responsabile delle forze armate (anche se privo di un ruolo operativo) sia stato il principale artefice della nakba, e che fin dall’inizio l’obiettivo suo e dei suoi alleati fosse quello di creare uno stato israeliano cacciando gli abitanti palestinesi.

Su questo aspetto della vita di Ben Gurion (e più in generale sulle sue idee a proposito della convivenza tra israeliani e palestinesi) ci sono enormi dibattiti tra gli storici, in parte perché le posizioni dello stesso Ben Gurion sono state molto varie. Soprattutto all’inizio della sua carriera si era espresso pubblicamente sulla possibilità di una pacifica convivenza tra i due popoli, mentre più avanti, e sempre di più dopo la fondazione dello stato di Israele, fece dichiarazioni in cui parlava non soltanto di una divisione tra ebrei e palestinesi, ma anche di uno spostamento dei palestinesi fuori dalla Palestina come migliore soluzione per garantire la permanenza dello stato di Israele.

Più in generale, pur essendo al tempo ateo, Ben Gurion vedeva lo stato di Israele in un’ottica messianica: era convinto che gli ebrei avessero un diritto morale e storico alla Palestina, e che la fondazione dello stato di Israele fosse la ripresa di una storia millenaria che era stata temporaneamente interrotta con la diaspora.

Lo stato di Israele che Ben Gurion e gli altri leader sionisti crearono fu uno stato laico e secolare, tendenzialmente basato sui princìpi del socialismo, in cui gli ebrei ortodossi avevano un ruolo estremamente limitato e che divenne in poco tempo democratico e prospero. Ben Gurion presiedette alla creazione delle istituzioni dello stato e a vari progetti di sviluppo sociale ed economico.

Continuarono anche le operazioni militari: siccome miliziani palestinesi continuavano a fare operazioni in territorio israeliano, nel 1953 Ben Gurion diede ordine al generale Ariel Sharon di creare un’unità speciale che potesse muoversi agilmente per rispondere alle infiltrazioni dei miliziani palestinesi. Quest’unità lanciò numerosi attacchi contro le comunità e gli insediamenti palestinesi, facendo moltissimi morti civili e rendendosi tra le altre cose responsabile del massacro di Qibya, in cui furono uccisi 69 civili, quasi tutti donne e bambini.

Ben Gurion si dimise brevemente da primo ministro tra il 1954 e il 1955 per ragioni personali, ma poi tornò in carica anche grazie all’enorme sostegno popolare di cui godeva. Nel 1956 Israele attaccò l’Egitto assieme a Regno Unito e Francia, in quella che è nota come la “crisi di Suez”, cominciata dopo la decisione del presidente egiziano Gamal Abdel Nasser di nazionalizzare il canale di Suez. L’operazione però fu un insuccesso, soprattutto a causa delle pressioni internazionali di Stati Uniti e Unione Sovietica.

Nel 1963, ormai piuttosto anziano, Ben Gurion si dimise definitivamente, anche questa volta per ragioni personali. Rimase però una figura eccezionalmente influente nella politica israeliana ancora per quasi un decennio. Nel 1967, dopo la Guerra dei sei giorni, in cui tra le altre cose Israele conquistò tutta la Cisgiordania, Gerusalemme e la Striscia di Gaza, Ben Gurion sostenne che Israele dovesse restituire tutti i territori conquistati, con l’eccezione di Gerusalemme (non fu ascoltato).

Ben Gurion si ritirò infine dalla politica nel 1970 e trascorse i suoi ultimi anni in una modesta abitazione in un kibbutz nel deserto del Negev. Morì nel 1973, a 87 anni. Il suo corpo è stato seppellito a Sde Boker, in un parco nazionale, vicino a quello di sua moglie Paula Munweis.

 

David Ben Gurion, che fece Is

2 Dicembre 2023Permalink

28 novembre 2023 _ Fra un mese il Natale 2023 sarà già passato

Dibattito tra gli storici. Gesù è nato a Betlemme. O a Nazareth?      Roberto Beretta mercoledì 22 novembre 2023

Alcuni studiosi stanno mettendo in dubbio i Vangeli, che hanno sempre accreditato la Giudea (oggi in Cisgiordania) e non la Galilea (in territorio israeliano), come patria natale del Messia

Betlemme o Nazareth? Palestina o Israele? La spaccatura creata dalla guerra non può che riflettersi anche sul Natale che viene, e non solo per le primarie, dolorose considerazioni sul tragico destino che investe la terra di Gesù.

Tra gli specialisti della materia si rafforza anche un dilemma prettamente storico relativo alla nascita di Cristo e va ad aggiungersi ai molti altri – ormai decisamente più acquisiti – che turbano le tranquille certezze delle tradizioni natalizie: il Messia non è nato nell’anno 1 (tanto meno nell’inesistente anno 0), non vide la luce in una grotta, ovviamente non era il 25 dicembre e non è detto che nacque di notte, così via elencando le precisazioni fino ad arrivare all’Epifania (la stella non era una cometa, i magi non erano tre e non erano nemmeno re…).

Si fa sempre più strada tra gli esegeti, infatti, l’ipotesi che persino il luogo della nascita del Nazareno sia da rivedere, in quanto non sarebbe il notissimo villaggio di Betlemme di Giudea – oggi in Cisgiordania, ovvero in territorio sottoposto all’Autorità palestinese – bensì la galilea Nazareth, che si trova in pieno suolo israeliano. La teoria non è certa nuova, data da oltre un secolo, tuttavia da un trentennio miete crescenti consensi e almeno in ambito anglosassone ormai si gioca alla pari la plausibilità con la versione tradizionale.

Ma è davvero possibile mettere in dubbio i Vangeli, Matteo e Luca, che per due millenni hanno accreditato Betlemme come patria del Messia?

Beh, le ragioni non mancano. La prima è senza dubbio l’appellativo di Gesù, unanimemente detto Nazareno ovvero (anche se non mancano ipotesi diverse) originario di Nazareth. Il Vangelo di Giovanni sembra darlo per pacifico allorché il saggio Natanaele, all’entusiasta neo-apostolo Filippo che l’invita a incontrare «il figlio di Giuseppe di Nazaret», replica: «Da Nazaret può mai venire qualcosa di buono?» (Gv 1,46). Scetticismo ribadito da alcuni farisei al capitolo 7, quando notano che «dalla Galilea non sorge profeta» e che secondo le Scritture il Cristo doveva piuttosto venire «da Betlemme, il villaggio di Davide». Gli stessi sinottici, del resto, alludono alla medesima conclusione quando narrano la visita di Gesù alla sinagoga di Nazareth, «sua patria», «dove era stato allevato».

Di solito all’obiezione si risponde grazie al racconto del medesimo Matteo, secondo cui la Sacra Famiglia «andò ad abitare in una città chiamata Nazareth» ma solo dopo la fuga in Egitto (Mt. 2,23). Per Luca invece quello stesso villaggio sarebbe stato il vero luogo d’origine di Giuseppe e Maria, la vergine che abitava appunto «in una città della Galilea, chiamata Nazareth» (Lc 1,26); da cui però la necessità per l’evangelista di spiegare l’occasione affinché il Messia nascesse invece a Betlemme, luogo d’origine della casata di Davide, così come aveva annunciato il profeta Michea.

Ed ecco la seconda forte perplessità degli studiosi, divisa in due corni. Anzitutto: come poteva una donna in avanzato stato di gravidanza affrontare un viaggio di circa 140 chilometri e più giornate tra Nazareth e Betlemme a dorso d’asino? E poi per quale motivo, visto che sarebbe potuta rimanere a casa assistita nel parto da amiche e vicine mentre il marito si recava nella città originaria ad adempiere i supposti doveri del censimento (che per i romani erano essenzialmente fiscali, non certo demografici)? Formalità decretata da Cesare Augusto, della cui storicità del resto non esiste prova; o meglio: un censimento venne sì effettuato in Palestina, però intorno al 6 dopo Cristo, in epoca cioè che costringerebbe a rivedere drasticamente tutta la cronologia accreditata sulla nascita di Gesù, abitualmente fissata tra il 6 e il 4 avanti Cristo.

Insomma, obiezioni e controdeduzioni si affastellano e non le evita nemmeno Joseph Ratzinger nel suo libro su «L’infanzia di Gesù» (2012). Benedetto XVI ammette appunto che secondo «autorevoli rappresentanti dell’esegesi moderna» l’indicazione di Betlemme «sarebbe un’affermazione teologica, non storica», dovuta cioè al desiderio degli evangelisti di accreditare il Nazareno come colui che compiva letteralmente le promesse delle Scritture. Tuttavia il giudizio finale del papa emerito non si discostava dalla tradizione: «Io non vedo come si possano addurre vere fonti a sostegno di tale teoria… Se ci atteniamo alle fonti, rimane chiaro che Gesù è nato a Betlemme ed è cresciuto a Nazareth».

L’autorevole posizione non è tuttavia condivisa da gran parte degli studiosi, e ciò proprio in quanto le fonti stesse danno indicazioni contrapposte: se per Luca è Nazareth la città di residenza della Sacra Famiglia (e dunque si presuppone il viaggio a Betlemme in occasione del parto), secondo Matteo i due sposi abitavano invece a Betlemme e si trasferirono in Galilea soltanto in seguito (ma allora non si capisce la collocazione dell’annunciazione a Nazareth)…

Raymond Brown, sacerdote cattolico ed esegeta ritenuto fra i maggiori esperti dei Vangeli dell’infanzia, nel suo ponderoso saggio su «La nascita del Messia» (1993) torna più volte sulla questione, soppesando tutti i dati contrastanti; ma neppure lui sembra in grado di dirimerla con certezza, limitandosi a un giudizio finale solo comparativo ancorché eloquente: «Le prove a favore della nascita a Betlemme sono molto più deboli che le prove a favore della discendenza davidica o perfino di quelle a favore del concepimento verginale». Il dibattito continua, anche se la tradizione non sembra essersene accorta.

https://www.avvenire.it/chiesa/pagine/betlemme-o-nazareth?fbclid

Matteo 1,1-16

Genealogia di Gesù Cristo
1 Genealogia di Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abraamo.
2 Abraamo generò Isacco; Isacco generò Giacobbe; Giacobbe generò Giuda e i suoi fratelli; 3 Giuda generò Fares e Zara da Tamar; Fares generò Esrom; Esrom generò Aram; 4 Aram generò Aminadab; Aminadab generò Naasson; Naasson generò Salmon; 5 Salmon generò Boos da Raab; Boos generò Obed da Rut; Obed generò Iesse, 6 e Iesse generò Davide, il re.
Davide generò Salomone da quella che era stata moglie di Uria; 7 Salomone generò Roboamo; Roboamo generò Abia; Abia generò Asa; 8 Asa generò Giosafat; Giosafat generò Ioram; Ioram generò Uzzia; 9 Uzzia generò Ioatam; Ioatam generò Acaz; Acaz generò Ezechia; 10 Ezechia generò Manasse; Manasse generò Amon; Amon generò Giosia; 11 Giosia generò Ieconia e i suoi fratelli al tempo della deportazione in Babilonia.
12 Dopo la deportazione in Babilonia, Ieconia generò Salatiel; Salatiel generò Zorobabele; 13 Zorobabele generò Abiud; Abiud generò Eliachim; Eliachim generò Azor; 14 Azor generò Sadoc; Sadoc generò Achim; Achim generò Eliud; 15 Eliud generò Eleàzaro; Eleàzaro generò Mattan; Mattan generò Giacobbe; 16 Giacobbe generò Giuseppe, il marito di Maria, dalla quale nacque Gesù, che è chiamato Cristo.

LUCA 3, 23–38

Gesù, quando cominciò il suo ministero, aveva circa trent’anni ed era figlio, come si riteneva, di Giuseppe, figlio di Eli, 24figlio di Mattat, figlio di Levi, figlio di Melchi, figlio di Innai, figlio di Giuseppe, 25figlio di Mattatia, figlio di Amos, figlio di Naum, figlio di Esli, figlio di Naggai, 26figlio di Maat, figlio di Mattatia, figlio di Semein, figlio di Iosec, figlio di Ioda, 27figlio di Ioanàn, figlio di Resa, figlio di Zorobabele, figlio di Salatièl, figlio di Neri, 28figlio di Melchi, figlio di Addi, figlio di Cosam, figlio di Elmadàm, figlio di Er, 29figlio di Gesù, figlio di Elièzer, figlio di Iorim, figlio di Mattat, figlio di Levi, 30figlio di Simeone, figlio di Giuda, figlio di Giuseppe, figlio di Ionam, figlio di Eliachìm, 31figlio di Melea, figlio di Menna, figlio di Mattatà, figlio di Natam, figlio di Davide, 32figlio di Iesse, figlio di Obed, figlio di Booz, figlio di Sala, figlio di Naassòn, 33figlio di Aminadàb, figlio di Admin, figlio di Arni, figlio di Esrom, figlio di Fares, figlio di Giuda, 34figlio di Giacobbe, figlio di Isacco, figlio di Abramo, figlio di Tare, figlio di Nacor, 35figlio di Seruc, figlio di Ragàu, figlio di Falek, figlio di Eber, figlio di Sala, 36figlio di Cainam, figlio di Arfacsàd, figlio di Sem, figlio di Noè, figlio di Lamec, 37figlio di Matusalemme, figlio di Enoc, figlio di Iaret, figlio di Maleleèl, figlio di Cainam, 38figlio di Enos, figlio di Set, figlio di Adamo, figlio di Dio.

29 Novembre 2023Permalink

17 novembre 2023 _ Storia di un olocausto strisciante: i bambini vittime in pace e in guerra_ 1

 

Prima di trascrivere l’importante articolo di Gideon  Levy voglio ricordare che questa situazione corrisponde esattamente ai miei ricordi di ciò che ho direttamente conosciuto nella mia presenza in Palestina . Lo testimonio con uno dei miei ricordi con un link in calce.

Trascrivo da ciò che ho  copiato  da
https://www.assopacepalestina.org/2023/11/16/la-prossima-sorpresa-per-israele-viene-dalla-cisgiordania/

La prossima sorpresa per Israele viene dalla Cisgiordania

Nov 16, 2023 | Notizie  di Gideon Levy,
Haaretz, 16 novembre 2023.

Palestinesi che bruciano pneumatici durante un raid dell’IDF a Tubas, in Cisgiordania, martedì. Raneen Sawafta/Reuters

La prossima sorpresa non sarà una sorpresa. Forse sarà meno letale di quella precedente, del 7 ottobre, ma il suo prezzo sarà salato. Quando ci cadrà sulla testa, lasciandoci storditi dalla brutalità del nemico, nessuno potrà dire che non sapeva che sarebbe arrivata.

L’esercito non potrà fare questa affermazione, perché ci ha costantemente messo in guardia, ma non ha mosso un dito per evitarlo. Quindi la responsabilità dell’esercito israeliano sarà grande come per il massacro del sud, e non meno significativa di quella dei coloni e dei politici che presumibilmente gli impediscono di agire.

La prossima pentola a pressione che sta per esploderci in faccia sta bollendo in Cisgiordania. L’IDF lo sa; i suoi comandanti non smettono di avvertirci. Si tratta di avvertimenti ipocriti e bigotti, destinati a coprire le spalle all’esercito. Gli avvertimenti sono spudorati, poiché l’IDF, con le proprie mani e i propri soldati, sta alimentando l’incendio non meno dei coloni.

Fingere che potremmo trovarci a combattere su un altro fronte solo a causa dei coloni è falso e ipocrita. Se l’IDF avesse voluto, avrebbe potuto agire subito per calmare le tensioni. Se avesse voluto, avrebbe agito contro i coloni, come un normale esercito è tenuto a fare con le milizie locali e i gruppi armati.

Tra i nemici di Israele in Cisgiordania ci sono i coloni, e l’IDF non sta facendo nulla per fermarli. I suoi soldati partecipano attivamente ai pogrom, maltrattando vergognosamente i residenti, fotografandoli e umiliandoli, uccidendoli e arrestandoli, distruggendo monumenti commemorativi, come quello di Yasser Arafat a Tulkarm, e strappando migliaia di persone dai loro letti. Tutto ciò aggiunge benzina al fuoco e inasprisce le tensioni.

Soldati vendicativi, invidiosi dei loro compatrioti a Gaza, si scatenano nei territori occupati, con un dito facile ed entusiasta sul grilletto. Dall’inizio della guerra hanno ucciso quasi 200 palestinesi e nessuno li ferma. Nessun comandante regionale, di divisione o di campo ferma la furia. Devono volerlo anche loro; è difficile credere che anche loro siano paralizzati dalla paura dei coloni. Sono considerati coraggiosi, dopo tutto.

I coloni sono estasiati. L’odore di sangue e distruzione che viene da Gaza li spinge a scatenarsi come mai prima d’ora. Non c’è più bisogno di favole su lupi solitari o su mele marce. L’impresa degli insediamenti, con la sua schiera di funzionari politici e di finanziamenti, non sta combattendo contro i pogrom che ne derivano. La guerra è la loro ricompensa, la loro grande occasione. Con la copertura della guerra e della brutalità di Hamas, hanno colto l’opportunità di cacciare il maggior numero possibile di palestinesi dai loro villaggi – soprattutto quelli più poveri e piccoli – in vista della grande espulsione che avverrà dopo la prossima guerra, o quella successiva.

Questa settimana ho visitato la terra di nessuno nelle colline meridionali di Hebron. Le cose non sono mai state così prima d’ora. Ogni colono è ora membro di una “squadra di sicurezza”. Ogni “squadra di sicurezza” è una milizia armata e selvaggia, autorizzata a maltrattare allevatori e agricoltori e a cacciarli via.

Sedici villaggi in Cisgiordania sono già stati abbandonati e l’espulsione continua a pieno ritmo. L’IDF sostanzialmente non esiste. Israele, che non si è mai interessato a ciò che accade in Cisgiordania, sicuramente non ne sentirà parlare ora. I media internazionali sono invece interessati: hanno capito dove si va a parare.

Dietro a tutto questo c’è la stessa arroganza israeliana che ha permesso la sorpresa del 7 ottobre. La vita dei palestinesi è vista come spazzatura. Occuparsi del loro destino e dell’occupazione è visto come un fastidio ossessivo. L’idea prevalente è che se lo ignoriamo, le cose si aggiusteranno in qualche modo.

Ciò che sta accadendo in Cisgiordania riflette uno stato di cose incredibile. Anche dopo il 7 ottobre, Israele non ha imparato nulla. Se l’attuale disastro nel sud è avvenuto dopo anni di assedio, negazione e indifferenza, il prossimo avverrà perché, dopo il precedente, Israele non ha preso sul serio gli avvertimenti, le minacce e la gravità della situazione.

La Cisgiordania geme di dolore e nessuno in Israele ascolta il suo grido di aiuto. I coloni si stanno scatenando e nessuno in Israele cerca di fermarli. Quanto possono ancora sopportare i palestinesi? Israele dovrà pagare il conto di tutto quello che succederà. Sarà un conto più o meno salato, ma in ogni caso molto sanguinoso.

https://www.haaretz.com/opinion/2023-11-16/ty-article-opinion/.premium/israels-next-surprise-is-coming-from-the-west-bank/0000018b-d4d9-df9a-ab8b-ded9c6030000
Traduzione a cura di AssoPacePalestina

3 settembre 2010 – Colloqui (forse) di pace e una segnalazione. (diariealtro.it)

17 Novembre 2023Permalink

13 novembre 2023 – La pace può costare cara_ Le voci che la ricordano devono fasi memoria collettiva

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Dalla pagina fb di Maurizio Acerbo
UN POST DA LEGGERE E CONDIVIDERE:
Ho tradotto questo articolo da The Nation Magazine e vi invito a leggerlo:
Mio fratello è stato massacrato il 7 ottobre. So che avrebbe chiesto il cessate il fuoco.
di Noy Katsman
Se l’unica giustificazione per la guerra di Israele contro Gaza fosse quella di vendicare morti come la sua, per lui sarebbe impossibile digerire la macchia morale.
Mio fratello, Hayim Katsman, è stato uno dei 31 massacrati americani in Israele il 7 ottobre. Avendo la doppia cittadinanza, Hayim si è trasferito a Holit dopo aver conseguito il dottorato a Seattle, continuando la sua ricerca sul sionismo religioso mentre serviva il kibbutz in difficoltà che amava. Il giorno degli attacchi, mio fratello ha usato il suo corpo per proteggere il suo vicino, Avital, dai proiettili in arrivo. Le ha salvato la vita.
Si potrebbe dire che Hayim è morto nello stesso modo in cui ha vissuto: sacrificando se stesso per proteggere gli altri. Insegnante, sostenitore e amico fidato delle comunità agricole palestinesi delle colline a sud di Hebron, mio ​​fratello spesso interveniva per disinnescare le tensioni con i coloni ebrei prima che degenerassero in violenza. Hayim ha prestato servizio volontario nei giardini di Rahat, una città beduina, e presso l’Academia for Equality, un’organizzazione che sostiene gli accademici palestinesi in Israele. Era anche un DJ di musica araba, sempre alla ricerca di connessioni interculturali. Mio fratello ha trascorso i suoi 32 anni radicato nella convinzione che tutta la vita – israeliana e palestinese, araba ed ebraica – è ugualmente preziosa. E non ha mai rinunciato alla speranza che un futuro più luminoso e pacifico fosse possibile per tutti.
Ho pensato molto a cosa direbbe Hayim in questo momento. Con il bilancio delle vittime a Gaza che ora supera le 10.000, so cosa si chiederebbe: tutte queste vite preziose perdute, a quale scopo? Perché se l’unica giustificazione fosse quella di vendicare morti come la sua, la macchia morale sarebbe impossibile da sopportare per mio fratello. Vorrebbe che i suoi due governi, Stati Uniti e Israele, negoziassero e attuassero un cessate il fuoco umanitario immediato – e perseguissero un percorso verso la libertà e la sicurezza per tutti – prima che sia troppo tardi.
Si suppone che il governo israeliano abbia a cuore la restituzione dei nostri circa 240 ostaggi, cosa che solo un cessate il fuoco renderebbe possibile. Ma ha smesso di ascoltare le famiglie delle vittime, come la mia. Il 28 ottobre, le famiglie dei rapiti hanno chiesto al primo ministro Benjamin Netanyahu di mediare uno scambio totale dei palestinesi incarcerati in Israele con i loro cari: “Tutti per tutti”, hanno implorato . Ma a quanto pare, il gabinetto di Netanyahu considera gli ostaggi poco più che un danno collaterale, pezzi degli scacchi nei “ giochi psicologici ” di Hamas, come ha detto il ministro della Difesa Yoav Gallant. Negoziare oltre la barriera Gaza-Israele semplicemente non è la loro priorità, anche se sono in gioco vite israeliane innocenti.
Per quanto riguarda le vite innocenti dei palestinesi, il disprezzo è ancora più sfacciato. Tra i decessi registrati finora, oltre 4.000 sono bambini di Gaza, un numero di vittime infantile in quattro settimane superiore a quello registrato in tutte le zone di conflitto del mondo in qualsiasi degli ultimi quattro anni. Gallant ha definito senza mezzi termini i suoi obiettivi militari a Gaza: “Stiamo combattendo gli animali umani… Elimineremo tutto”. A giudicare dagli sviluppi sul campo da allora – dai ripetuti attacchi aerei sui rifugiati nel campo di Jabalia a Gaza, all’uso indiscriminato e illegale del fosforo bianco nelle città densamente popolate di Gaza – la comunità internazionale deve prenderlo in parola.
L’obiettivo ufficiale di tutto ciò è distruggere Hamas con ogni mezzo necessario, per rendere Israele di nuovo sicuro. Ma questo ci rende davvero più sicuri? Per i milioni di palestinesi, circa 240 ostaggi israeliani e innumerevoli altri americani e cittadini stranieri ancora intrappolati da qualche parte tra i valichi di Erez e Rafah – circondati su tutti i lati da fuoco, macerie e cadaveri insanguinati – l’incubo è continuo ed inimmaginabile. Con ogni nuovo giorno di guerra, migliaia di vite di soldati israeliani – e, sempre più, la sicurezza dell’intera regione – sono in pericolo. Eppure, il governo israeliano deve ancora darci un’idea chiara di quale obiettivo politico spera di raggiungere.
Per la morte di Hayim e quella di altre 1.400 persone, ha detto il presidente israeliano Isaac Herzog , non è solo Hamas ma “un’intera nazione là fuori ad essere responsabile”. Mio fratello troverebbe spregevole questa logica morale. Hayim non vorrebbe mai che i palestinesi di Gaza pagassero con la propria vita per la sua vita. Sarebbe nauseato al pensiero che gli ostaggi israeliani subissero la stessa sorte che è toccata a lui. La cosa più urgente è che mio fratello avrebbe il cuore spezzato nel sapere che la sua morte ha ispirato la stessa violenza vendicativa a cui si è opposto per tutta la vita.
Hayim chiederebbe il cessate il fuoco, per riportare indietro gli ostaggi, per salvare quante più vite possibili e per avviare un nuovo processo diplomatico, con una nuova leadership da entrambe le parti, in modo che tutti, palestinesi e israeliani, possano godere di pace, sicurezza e libertà.
Che la sua memoria sia una benedizione e uno standard morale per noi da vivere e seguire.

 

13 Novembre 2023Permalink