Ho commentato anch’io
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9 ottobre 2023 _ Per vedere l’effetto che fa l’obiezione di coscienza
17 ottobre 2023 _ Armare lo sguardo_ B’Tselem
16 OTTOBRE 2023ANTICHI SAMUEL, LESSICO DELLA CONTEMPORANEITÀ di SAMUEL ANTICHI
Raccontare il conflitto israelo-palestinese, il caso di B’Tselem.
Con l’attacco da parte di Hamas contro Israele il 7 ottobre scorso, l’Occidente rivolge nuovamente l’attenzione a un conflitto che imperversa in realtà da settantacinque anni e il cui acuirsi era già riconducibile alla ri-elezione di Benjamin Netanyahu nel novembre 2022. L’occupazione israeliana, oltre a livello territoriale, si è contraddistinta per un processo di armamento dello sguardo che prevede l’appropriazione del campo di percezione e della rappresentabilità, limitando lo spettro visivo con schermi difensivi, alzando muri e torri di controllo. Inoltre, come sottolinea l’architetto Eyal Weizman, gli insediamenti israeliani sono costruiti molto spesso su zone collinari in modo da poter adottare una separazione verticale, dall’alto verso il basso, tra loro e i villaggi palestinesi a valle, impiegando una one-way hierarchy of vision.
Analogamente, le strade sono direzionate e le finestre delle abitazioni orientate verso i villaggi palestinesi. Questo permette anche ai coloni israeliani di indirizzare lo sguardo costantemente verso il nemico in una forma di controllo e sorveglianza. Il processo di armamento dello sguardo viene incrementato a partire dal 2011 quando l’esercito di difesa israeliano (IDF) inizia a fornire videocamere ai soldati che operano nei territori occupati attraverso un’iniziativa denominata Documenting Warrior Project. In aggiunta, l’anno successivo, viene formata un’unità speciale di “Camera-combattenti” (Lochamim-Tzalmim) addestrati in campo militare e cinematografico. A partire dall’operazione “Margine di protezione”, campagna militare delle forze armate israeliane nella striscia di Gaza, nell’estate del 2014, i video-operatori seguono costantemente l’esercito di difesa producendo quelle che potremmo definire, parafrasando il pensiero di Judith Butler, compliant images, immagini che aderiscono alla prospettiva visuale dello stato colonizzatore, dove «lo sguardo rimane limitato ai parametri stabiliti di una determinata azione» (Butler 2005, p. 822).
Più recentemente, l’IDF ha incoraggiato i militari ad utilizzare anche i propri smartphone per raccogliere materiale video da pubblicare, andando ad arricchire ulteriormente i canali ufficiali dell’esercito. Oltre ai soldati muniti di videocamera e operatori embedded, troviamo anche un corpo speciale composto da sole donne denominato Tazpitaniot (osservatrici) che controllano da remoto i filmati di più di 1700 camere di sicurezza posizionate in punti strategici a Gaza e in Cisgiordania. Le strutture di video sorveglianza si estendono con l’utilizzo di droni e della fotografia aerea per la mappatura e controllo del territorio.
Dall’altra parte invece, per controbilanciare il regime scopico egemonico imposto dall’occupazione israeliana, l’organizzazione non governativa B’Tselem, – Centro di Informazione per i diritti umanitari nei territori occupati, ad esempio, ha lanciato nel 2007 Camera Distribution Project, tre anni prima delle Primavere Arabe, che hanno reso evidente il ruolo dei digital e social media nel trasmettere e restituire i conflitti politici così come denunciare la violazione dei diritti umanitari. Il progetto, che inizialmente si chiamava Shooting Back, ha l’intento di “armare” i cittadini palestinesi fornendo loro una handycam in modo da poter contrattaccare, filmando, le violenze subite e perpetrate dall’esercito israeliano. Camera Project, esponendo le ingiustizie, le violenze e gli abusi subiti dai cittadini palestinesi nel regime di occupazione, mettendo in discussione la legittimità dei comportamenti dei coloni israeliani a livello internazionale, decostruisce lo stesso apparato di potere che queste azioni regolarizza.
Ridotti a corpi da osservare, controllare e ispezionare, soggetti ad un regime scopico di occupazione, la pratica documentaria come forma di attivismo rende visibile l’invisibilità a cui è confinata la popolazione palestinese. Le videocamere nelle mani dei volontari tentano di rovesciare la dominazione visuale imposta dai colonizzatori rivendicando il proprio right to look, «un’autonomia basata su uno dei suoi principi primi: il diritto all’esistenza» (Mirzoeff 2011, p. 477). Questo aspetto richiama inoltre il carattere di precarietà delle vite perse in guerra espresso da Judith Butler che sottolinea come, all’interno delle dinamiche di potere, dominio e prevaricazione esercitate da un regime oppressivo, alcune vite non vengano considerate da compiangere, in quanto «non si possono percepire vite specifiche come ferite o perse se prima non sono percepite come viventi» (Butler 2009, p. 50). Dal momento della sua fondazione, B’Tselem ha svolto un lavoro di documentazione e di ricerca pubblicando statistiche, informazioni così come testimonianze e filmati sulle violazioni dei diritti umani perpetrate da Israele nei confronti della popolazione palestinese. L’archivio video di B’Tselem contiene più di 5000 ore di materiale video, di cui una buona parte è accessibile online.
L’amateurized media universe che ha preso vita a partire dai filmati realizzati dai volontari di B’Tselem per certi versi si discosta da quello di altre forme di video-attivismo, per esempio la narrazione della guerra civile siriana, caratterizzato come sottolinea Papadopoulos da ipermobilità, opacità, non narratività e raw audio. L’intenzione più che fornire allo spettatore un’esperienza soggettiva e incarnata, immergerlo all’interno della natura del conflitto, è quella di carattere sia testimoniale che informativo. Piuttosto che focalizzare l’attenzione esclusivamente sulla rappresentazione grafica della violenza perpetrata dall’esercito israeliano attraverso immagini sensazionalistiche, l’obiettivo è quello di mostrare le pratiche di controllo dei coloni esponendo azioni ormai iscrivibili alla routine quotidiana. Molti dei video realizzati dai volontari cercano di mostrare il meccanismo strutturale dell’occupazione che consiste prima di tutto nell’invasione e nell’appropriazione dello spazio privato, perquisizioni nelle case durante la notte, abbattimento di abitazioni, espropriazione di terreni, blocco dell’accesso alle cisterne dell’acqua, azioni legali e permesse che diventano parte di un vero e proprio piano regolatore.
I volontari di B’Tselem nello specifico, una volta che iniziano a collaborare al progetto, prendono parte ad una serie di workshop in cui i field researchers e i membri dell’organizzazione insegnano loro alcune tecniche di ripresa da utilizzare in determinati contesti. Oltre a istruzioni di base, come mi è stato detto nelle interviste che ho condotto nel mio periodo di ricerca a Gerusalemme presso l’organizzazione, un punto su cui ci si sofferma nel workshop è l’importanza di tenere la videocamera stabile, perché troppi movimenti rischiano di rendere il tutto troppo confuso e di infastidire e confondere lo spettatore.
Per stabilizzare l’inquadratura, viene insegnata ai volontari la cosiddetta posizione del T Rex in cui i gomiti sono attaccati e la videocamera posizionata all’altezza del petto. Per evitare di doversi accostare troppo all’azione e mettere magari a rischio la propria vita, uno strumento per avvicinare lo sguardo della camera impiegato spesso nei video di B’Tselem, che non viene invece pressoché mai usato nei filmati amatoriali della guerra civile siriana, è lo zoom. Il consiglio rimane comunque quello di fare uno zoom ad allargare il campo e quindi inserire il contesto piuttosto che uno zoom in dove l’inquadratura rischia di diventare meno stabile. Con l’intento di raccogliere materiale per mostrare il meccanismo strutturale e sistemico dell’occupazione e della violazione dei diritti umanitari, B’Tselem pone l’attenzione su quella che Žižek ha definito objective violence, una violenza molto spesso invisibile perché insita all’interno di determinate dinamiche di potere coloniale.
Contrariamente, la violenza soggettiva mostra «una perturbazione dello stato normale e pacifico delle cose», per questo motivo è visibile ed esercitata da un soggetto chiaramente identificabile (una persona armata) contro una vittima chiaramente identificabile (persona ferita dal colpo dell’arma) (Žižek 2008, p. 2). Se da una parte, la violenza soggettiva richiama particolare attenzione perché squarcia il velo di normalità, un “non-violent zero level”, la violenza oggettiva mostra «la violenza inerente a questo normale stato delle cose», le dinamiche di violenza e soprusi che reggono sistematicamente i meccanismi di un regime oppressivo (ibidem).
Piuttosto che collezionare esclusivamente immagini di violenza grafica che potrebbero avere un apporto prevalentemente sensazionalistico, andando a costituire singoli frammenti di violenza soggettiva, B’Tselem nel suo raccogliere materiale in un archivio digitale dove vengono mostrati i meccanismi che regolano le dinamiche di occupazione, e come queste perdurino nel tempo, cerca di rendere visibile la violenza oggettiva, provando a raggiungere un impatto maggiore. Usando la macchina da presa come arma di comunicazione di massa, tentano di rovesciare la dominazione visuale imposta dai colonizzatori mettendo in mostra le dinamiche di potere che regolarizzano la violazione perpetua dei diritti umanitari nei territori occupati.
Riferimenti bibliografici
- Berdugo, The Weaponized Camera in the Middle East Videography, Aesthetics, and Politics in Israel and Palestine, Bloomsbury, London, 2021.
- Butler, Photography, War, Outrage, in “PMLA”, v. 120, n. 3, 2005.
Id., Frames of War: When Is Life Grievable?, Verso, London, 2009.
- Mirzoeff, The Right to Look, in “Critical Inquiry”, v. 37, n. 3, 2011.
- Papadopoulos, Citizen camera-witnessing: Embodied political dissent in the age of mediated mass self-communication, in “New media & society”, v. 16, v. 5, 2013.
- Weizman, Hollow Land: Israel’s Architecture of Occupation, Verso, London, 2007.
- Žižek, Violence: Six sideways reflections, Picador, New York, 2008.
NOTA
B’Tselem (ebraico: בצלם, “a immagine di”, come in Genesi 1:27) è una organizzazione israeliana non governativa (ONG). Il B’Tselem si riferisce a sé stesso come “Il Centro di informazione israeliano per i diritti umani nei territori occupati”. Il gruppo è stato fondato il 3 febbraio 1989 da un gruppo di personalità pubbliche israeliane, tra cui avvocati, accademici, giornalisti e membri della Knesset. Il suo direttore esecutivo è Jessica Montel.
Gli obbiettivi dichiarati di B’Tselem sono “documentare ed educare il pubblico ed i politici israeliani sulle violazioni dei diritti umani compiuti dallo stato di Israele nei territori occupati, impegnarsi nella lotta contro il fenomeno della negazione tra i cittadini israeliani e contribuire a creare una cultura dei diritti umani in Israele”.
Nel dicembre 1989 l’organizzazione ha ricevuto il Carter-Menil Human Rights Prize. B’Tselem è finanziata dal ministero degli esteri del Regno Unito e della Norvegia, come pure le fondazioni con sede in Europa e Nord America.
15 ottobre 2023 – Spinoza e molto altro
Vito Mancuso: Ecco che cosa significa nascere in una “Striscia”
Il numero uno di Hamas (che al momento risiede in Qatar da dove ha diffuso un video che lo ritrae mentre prega il suo Dio ringraziandolo per l’avvenuto massacro di israeliani da parte dei suoi) si chiama Ismail Haniyeh ed è nato nel 1962, il mio stesso anno di nascita.
Il numero due di Hamas (che al momento è nella Striscia di Gaza e che per gli israeliani è un uomo già morto) si chiama Yahya Sinwar ed è nato anch’egli nel 1962. Avrei potuto essere loro compagno di classe, seduto nello stesso banco, giocare insieme al pallone. Solo sulla carta, ovviamente, perché in realtà, mentre io sono nato in un operoso paese della Brianza parte di uno Stato nazionale relativamente prospero, essi sono nati entrambi in un campo profughi della Striscia di Gaza privi di uno stato che rappresenti la loro nazione (non a caso ho dovuto scrivere “Striscia”, non Stato). Cosa significa nascere in una Striscia? Cosa significa nascere e crescere in un campo profughi di persone cacciate dalle loro case ed espulse dalla loro terra, e senza nessuna credibile prospettiva di poter superare quella condizione avendo finalmente uno Stato nazionale e riavendo una casa? Significa crescere a pane e odio. A volte può persino mancare il pane, l’odio però mai; anzi, di sicuro esso viene accresciuto dalla mancanza del pane.
Sarà per il medesimo anno di nascita, ma io non posso fare a meno di chiedermi che cosa avrebbe rappresentato per me crescere in quelle condizioni. Che cosa sarei diventato io, venuto al mondo nello stesso anno del numero 1 e del numero 2 di Hamas, se fossi nato lì, da genitori cacciati dalle loro case e dalla loro terra, e vedendo che le speranze di ristabilire un minimo di decenza delle mie condizioni vitali invece di crescere diminuiscono giorno per giorno fino a risultare inesistenti?
Non pensi il lettore che questo mio discorso sia teso a giustificare o anche solo a giudicare con minore severità il massacro del 7 ottobre perpetrato dai militanti, o meglio terroristi, di Hamas. No, nessuna giustificazione di nessun tipo. Sono convinto però che non si debba deporre l’intelligenza che ricerca le cause perché solo così si va alla vera radice dei problemi. Ha scritto uno dei più grandi pensatori ebrei di tutti i tempi, Baruch Spinoza, che citerò molto in questo articolo: «Mi sono impegnato a fondo non a deridere, né a compiangere, né tanto meno a detestare le azioni degli uomini, ma a comprenderle» (Trattato politico, I, 4). Comprendere: di questo si tratta, e quindi la domanda è: il massacro di Hamas è riconducibile alle condizioni in cui i palestinesi versano dal 1948 a oggi, diventate via via sempre più intollerabili? “Il più grande carcere a cielo aperto”, come è stata giustamente definita la Striscia di Gaza, e il continuo furto di terreno da parte dei coloni israeliani nella Cisgiordania, possono rappresentare la spiegazione sufficiente dell’odio assassino di Hamas? A tale questione io rispondo di no.
Non dico che la situazione sociale e politica del popolo palestinese non sia in gioco nella genesi di quell’odio; dico che essa non basta a spiegare la ripetuta decapitazione di bambini ebrei, assunta quale simbolo più tragico dell’enorme massacro. Se le inique condizioni di Gaza fossero la ragione sufficiente, dovremmo logicamente concludere che gli oltre due milioni di palestinesi della Striscia sarebbero disposti a compiere il medesimo gesto: tutti pronti a sgozzare bambine e bambini indifesi. Naturalmente io non posso sapere con sicurezza che non sia davvero così, ma la mia ragione si rifiuta di procedere con queste generalizzazioni grossolane perché il suo compito è strutturalmente un altro: la distinzione. Distinguere è il lavoro per eccellenza del ragionamento debitamente condotto, e come dall’aggressività e dal disprezzo della proprietà altrui da parte dei coloni israeliani non è lecito inferire che tutti gli israeliani siano pronti a calpestare il diritto internazionale, così allo stesso modo dal massacro di Hamas non è lecito inferire che tutti gli abitanti della Striscia di Gaza siano pronti a compiere i crimini inqualificabili di qualche giorno fa.
Ma se non bastano le condizioni sociopolitiche a comprendere il massacro di Hamas, quali altri fattori occorre convocare? La risposta non è difficile: l’odio. Non l’odio come vampata di ira più incandescente del solito che in qualche momento può incendiare l’animo, no; ben più radicalmente, l’odio quale persistente e sistematica ideologia che, a freddo e totalmente in possesso delle sue facoltà, non pensa ad altro che al nemico e alla sua eliminazione. L’odio quale carburante della vita di un essere umano. Perché questo è il punto: che si può fare dell’odio la propria fonte di energia, la propria sorgente vitale, la ragione del proprio esistere. L’odio può conferire una sorta di macabra vitalità e lucidità alla mente.
Ha affermato Sami Modiano, sopravvissuto ad Auschwitz: «Non è vero che l’odio è cieco, ha la vista molto acuta, quella di un cecchino, e se si addormenta il suo sonno non è mai eterno, ritorna». E che l’odio abbia la vista molto acuta lo dimostra l’accuratezza con cui Hamas ha preparato e condotto il massacro.
Torniamo ai suoi capi. Si può nascere nello stesso anno, nella stessa città o nello stesso campo profughi, persino nella stessa famiglia, e avere vite diverse, addirittura opposte. Per fortuna o sfortuna che sia, noi siamo esseri indeterminati. Per fortuna o sfortuna che sia, la libertà esiste davvero. Ha scritto un altro sopravvissuto ad Auschwitz, lo psicologo ebreo viennese Victor Frankl, riflettendo sulle condizioni nel campo di sterminio: «Tutto ciò che accade all’anima dell’uomo è il frutto di una decisione interna. In linea di principio ogni uomo, anche se condizionato da gravissime circostanze esterne, può in qualche modo decidere cosa sarà di sé». Si può leggere il Corano e trarne insegnamenti di odio e di violenza; lo si può leggere e trarne insegnamenti di amore e di pace. Lo stesso vale per la Bibbia, dove pure vi sono passi di odio infuocato e altri di amore luminoso. Perché alcuni leggono il loro libro sacro nel primo modo e altri nel secondo? Lo stesso vale per ogni altra lettura, a cominciare da quella più importante di tutte, la nostra vita: perché alcuni la interpretano come odio e altri, a parità di condizioni, come volontà di pace?
Dopo aver osservato con il più rigoroso distacco le azioni umane nella loro genesi e nel loro sviluppo, Spinoza giunge alla conclusione che «l’odio non può mai essere buono» (Etica IV, 45). Sono del tutto d’accordo con lui. Mai vuol dire “mai”, anche quando si tratta di rispondere all’odio ricevuto. Soprattutto quando ad agire è lo Stato, come Spinoza specifica: «Tutto ciò che appetiamo perché siamo affetti dall’odio è turpe e ingiusto nello Stato». La caratteristica peculiare di un vero politico è la capacità di affrontare il nemico con determinazione ma senza odio, perché, come ha scritto sempre Spinoza, «ognuno che è guidato dalla ragione desidera anche per gli altri il bene che appetisce per sé» (Etica, IV, 73). Desideri la terra? Dai la terra anche al tuo nemico. Desideri l’acqua? Dai l’acqua al tuo nemico. E così per ogni altro bene vitale. Dietro queste parole del più grande filosofo ebreo, io rivedo il nobile volto di Yitzhak Rabin.
Vito Mancuso, La Stampa 15 ottobre 2023
https://www.alzogliocchiversoilcielo.com/2023/10/vito-mancuso-ecco-che-cosa-significa.html
15 ottobre 2023 _ Allarme in Europa_ Antisemitismo
Pagine Ebraiche 24 / L’Unione informa 15 ottobre 2023 – 30 Tishrì 5784
Allarme in Europa. Dopo il massacro l’odio
Germania, Francia e Gran Bretagna sono tra i paesi dove le aggressioni antisemite sono molto aumentate dopo il 7 ottobre data del massacro di oltre 1.300 civili israeliani per mano dei terroristi di Hamas. Violenze fisiche, insulti e minacce ad adulti e bambini, sinagoghe sfregiate con scritte anti-israeliane, manifestazioni inneggianti le azioni terroristiche solo alcuni degli atti registrati. Ci sarà “tolleranza zero contro l’antisemitismo”, ha promesso il cancelliere tedesco Olaf Scholz. Sostenuto anche dai governi francese e britannico, Scholz ha vietato tutte le attività inneggianti i crimini di Hamas in Israele, compreso l’uso dei loro simboli, in Germania. “Chiunque lo farà sarà perseguito”, ha dichiarato. Negli ultimi giorni in Francia 24 persone sono state arrestate in seguito a una serie di incidenti antisemiti: il ministero dell’Interno ha vietato le manifestazioni pro-palestinesi nel paese, ritenendole una minaccia all’ordine pubblico. Dal 7 ottobre in Regno Unito sono più che quadruplicati gli episodi di antisemitismo rispetto all’anno precedente. A registrarlo, un report del Community Security Trust, ente che si occupa di sicurezza delle comunità ebraiche. Il governo di Londra, sulla base di questa indagine, si è impegnato a stanziare nuovi fondi per proteggere scuole e sinagoghe.
In Italia la minaccia antisemita è soprattutto circoscritta alla rete e non c’è stata una crescita del fenomeno, spiegano i ricercatori del Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea (Cdec) di Milano. La situazione continua ad essere però monitorata attentamente e il governo ha garantito massima tutela alle istituzioni ebraiche. Venerdì Hamas ha istigato i musulmani a manifestare a favore dei palestinesi nel giorno di preghiera: sulla base di questo incitamento, le tre scuole ebraiche di Amsterdam hanno deciso di rimanere chiuse. Anche nel nord di Londra alcune scuole ebraiche non hanno aperto i cancelli venerdì. Sabato alcune centinaia di manifestanti ha invaso Trafalgar Square sventolando vessilli anti-israeliani. In Spagna, la comunità ebraica di Barcellona ha cancellato settimane di eventi a causa delle preoccupazioni per la sicurezza.
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11 ottobre 2023. Due articoli che non diffonderò. Il pregiudizio si trova ovunque
9 Ottobre 2023 Sulle “colpe” di Israele
Perché tra l’editoriale di Haaretz, che attribuisce a Netanyahu una grande responsabilità, e la dichiarazione degli studenti di Harvard, che accusano il regime israeliano, c’è un’enorme differenza.
di Anna Momigliano
Ci sono i fatti, in questo caso fatti atroci, che cambieranno la storia, in peggio, nei decenni a venire, e poi ci sono le reazioni ai fatti, che a volte fanno schifo pure quelle ma di cui ci dimenticheremo nel giro di una settimana. Proprio perché delle seconde presto non ci ricorderemo più, vale la pena di cristallizzarle per un secondo. Mentre dei terroristi attaccavano cittadine, kibbutz, persino un festival, nel Sud di Israele, ammazzando civili, uomini, donne e bambini, stanandoli casa per casa, mentre i terroristi – chiamateli anche “gruppo radicale” come ha fatto il Post, non sono quelle due parole che fanno la differenza – postavano festanti immagini di cadaveri dissacrati, in un raccapricciante cross-over tra Bucha e il Bataclan, capitava che un giornale israeliano pubblicasse un editoriale che accusava il primo ministro: «Il disastro che si è abbattuto su Israele porta la responsabilità chiara di una persona: Benjamin Netanyahu». Quell’editoriale, nella sua versione in inglese, è girato moltissimo sui social occidentali.
Sui social occidentali però è girata moltissimo anche un’altra accusa, lo screenshot di una dichiarazione, firmata da svariate dozzine di associazioni studentesche di Harvard, che decretavano: «Riteniamo il regime israeliano interamente responsabile dei fatti violenti». Il ragionamento era questo: l’attacco terroristico non si è svolto in un vuoto storico, sono decenni che gli israeliani hanno fatto di Gaza una prigione a cielo aperto, sono 75 anni che gli israeliani ammazzano i palestinesi, la priorità adesso è evitare la “rappresaglia coloniale”. Il fatto che le due accuse, quella di Haaretz e quella degli studenti di Harvard, girassero nella stessa bolla, mi spinge a pensare che la gente non ha capito un cazzo.
A questo punto si potrebbe fare un bel discorsetto sul moral high ground, sul fatto che i giornalisti di Haaretz (glasnost: persone che conosco, giornale con cui collaboro) scrivevano sotto i razzi, mentre perdevano amici e parenti, mentre aspettavano notizie di un redattore asserragliato coi figli piccoli in un kibbutz, e invece le Karen di Harvard sputavano sentenze dal New England. Si potrebbe buttarla sul moral high ground, che su internet tira parecchio, ma la verità è che sono due accuse completamente diverse, perché dicono cose completamente diverse.
Cosa intende Haaretz quando dà la colpa a Netanyahu?
Che è un incompetente e un pazzoide nazionalista, dove le due cose vanno a braccetto. Da quando è al potere, Netanyahu ha concentrato tutti gli sforzi a consolidare la presenza dei coloni e dell’esercito in Cisgiordania, ma ha di fatto indebolito l’apparato securitario in tutto il resto del Paese. Quando i terroristi sono entrati nei kibbutz e nelle cittadine vicine a Gaza non c’era neanche mezzo soldato, e sì che quelle parti un tempo erano considerate pericolose. Accecato dalla sete espansionistica, ma anche dall’illusione che i terroristi palestinesi non fossero veramente pericolosi (sorpresa: lo sono), Netanyahu ha trasformato l’esercito israeliano in una forza di protezione per il coloni, e abbiamo visto i risultati, per tutti.
Le Karen di Harvard invece dicono altro. Dicono: l’occupazione è disumana, è da mo’ che i palestinesi vengono ammazzati a Gaza, che cosa vi aspettavate? Dicono: la priorità non è evitare che di ripeta il cross-over tra Bucha e il Bataclan, ma evitare che Israele si vendichi. Spero non ci sia bisogno di spiegare perché è moralmente ripugnante, ma forse si può ricordare perché è, fattualmente, suicida, che, se facciamo nostra la prospettiva del “che cosa vi aspettavate?”, si va verso una escalation senza fine. Ora, l’indignazione per la conclusione (ve la traduco: Israele se l’è andata a cercare) non deve evitare di riconoscere che alcuni dei punti da cui partono sono validi. L’occupazione è moralmente sbagliata, è una violazione dei diritti umani e civili dei Palestinesi, e deve finire. Certo, l’occupazione è una delle cause per cui il conflitto continua ad andare avanti, e non si vedono vie d’uscita senza che essa finisca. Ma pensare che sia quella l’origine di tutto, e che basti eliminare quella per porre fine alle violenze significa non avere capito nulla, foss’anche che la guerra tra arabi e israeliani è cominciata da ben prima del 1967. Alle Karen di Harvard non penserà più nessuno tra qualche giorno. Forse non penseranno più neppure loro a quella dichiarazione, visto che a ottobre ci sono gli esami di metà semestre. Per gli altri, quelli per cui la guerra è un incubo, non un’occasione di virtue signalling, il peggio deve ancora venire.
https://www.rivistastudio.com/israele- Per aprire il link aggiungere attacco-hamas
10 Ott. 2023 Moni Ovadia: “Israele ha coltivato l’odio, ora a pagare sono gli innocenti” di Lara Tomasetta
alle 13:42 – Aggiornato il 11 Ott. 2023 alle 16:48
Israele dichiara lo stato di guerra. Una colonna di tank si dirige verso Gaza. Diluvio di bombe sulla striscia. Scontri con Hamas al confine. Il nuovo bilancio dei morti israeliani e palestinesi è in continuo aumento. Moni Ovadia, intellettuale, attore, scrittore e musicista di origini ebraiche parla di “pentola a pressione che doveva esplodere”. E punta il dito anche contro la comunità internazionale, colpevole di non essere intervenuta per cercare una soluzione di pace concreta, lasciando Isreale “libera di colonizzare i territori palestinesi”.
L’ambasciatore d’Israele a Roma, Alon Bar, ha dichiarato a TPI: “noi, finora, avevamo imparato a vivere con questa costante minaccia del terrorismo palestinese, in qualche modo adeguandoci. Pensavamo potesse durare. Ma avevamo torto. Oggi abbiamo imparato che questo non è più possibile”. Come commenta questa affermazione?
«Più che convivere con la minaccia del terrorismo palestinese, gli israeliani hanno sigillato Gaza in una scatola di sardine. Cioè sottoponendo gli abitanti di Gaza a una vita infernale. L’Onu ha dichiarato Gaza territorio inabitabile 2 anni fa, mi sembra improprio il discorso. Convivere col terrorismo palestinese sì, in qualche modo l’affermazione è vera ma dimentica la cosa fondamentale, che la vita del palestinese a Gaza non è una vita da esseri umani. In quelle condizioni l’odio e l’esasperazione montano, ora dopo ora, minuto dopo minuto, e il risultato è stato questo».
Cos’è Gaza oggi? Una prigione? Un campo di concentramento?
«Peggio. È una scatola di sardine esagitata. Tutto è sotto il controllo di Israele, i confini terrestri, quelli marittimi e lo spazio aereo. Decidono loro, l’energia, l’elettricità e l’acqua. Ed è una delle zone più popolate del mondo. Poi ci sono state diverse operazioni israeliane che hanno reso la vita ancora più infernale. Gli israeliani hanno deciso: teniamoci il pericolo del terrorismo. Hanno fatto tutto fuorché cercare una soluzione. A Gaza non si può entrare, non si può uscire».
Stiamo vedendo le immagini di un film di cui ci è stato mostrato solo il finale. Ma cosa è successo prima?
«Sono 75 anni che Gaza è sigillata, prima c’erano anche i coloni israeliani ma non solo. Il popolo palestinese è diviso tra Gaza e Cisgiordania. In Cirsgiordania gli israeliani si sono appropriati di terre, hanno tenuto in prigione anche quella parte di palestinesi. La situazione è veramente spaventosa e allora questa violenza che è scoppiata doveva venir fuori prima o poi. Non è un modo di vivere quello».
Tutto questo ovviamente non giustifica l’orrore di questo giorni.
«È ovvio. Come sempre pagano gli innocenti. Anche questi israeliani che sono stati uccisi in modo atroce. Quelli che sono stati presi come ostaggi, non posso immaginare l’angoscia loro e quella dei loro parenti. Ma tutto questo perché nessuno si è curato dei palestinesi, schiavi e non padroni del loro destino».
Il ruolo di Hamas qual è?
«È la forza che governa quel territorio. Una forza che ha la parte armata. Ma le condizioni di vita a Gaza sono un inferno, è normale che la gente covi odio e disperazione, quando si viene rinchiusi e blindati. Nessuno riuscirebbe a vivere in una condizione del genere senza cercare di ribellarsi. Naturalmente ognuno si ribella con i mezzi che ha. I palestinesi in pratica hanno il terrorismo perché non hanno un esercito. Non hanno le armi, né l’esercito strutturato che ha Israele. Quindi esprimono la loro ribellione con gli strumenti che hanno. E anche se questo ha prodotto un orrore spaventoso che ci ferisce e ci lascia sgomenti, si è lasciata marcire questa situazione senza intervenire».
Lei ha parlato anche di una comunità internazionale “complice”.
«Certo, la comunità internazionale non ha fatto niente per imporre una soluzione politica basata sulla legalità nazionale. I governi israeliani hanno occupato, colonizzato e sottoposto a un regime vessatorio di prigionia 2 milioni di palestinesi a Gaza e altri 3 milioni in Cisgiordania. Forse di più. Non è un modo per evitare che poi scoppi la pentola a pressione. Si coltiva l’odio. Quattro bambini su cinque a Gaza sono depressi. Alcuni meditano il suicidio. Sono come dei topi che non posso uscire. Tutti hanno detto che Israele ha diritto di difendersi, i diritti dei palestinesi? Ci fosse stato qualcuno che avesse detto questo concetto. Ci vuole anche il rispetto dei palestinesi. Invece no. Loro devono star lì e morire in quella situazione. Adesso ci saranno migliaia di morti, però questa esplosione di ribellione selvaggia e violenza è motivata dalle condizioni di vita. Ci sono bambini che non hanno mai vissuto se non in prigionia. Ragazzini che poi hanno reazioni pensando a quando potranno farlo anche loro. Questa situazione è un disastro. E la comunità internazionale avrebbe dovuto imporre a Israele di risolvere questa situazione sulla base di negoziati veri, non di chiacchiere senza costrutto».
Amiram Levin, ex generale israeliano, a inizio 2023 ha rilasciato un’intervista alla radio Kan in Israele in cui ha fatto riferimento al “totale apartheid” nella Cisgiordania occupata: “Da 56 anni non vi è democrazia. Vige un totale apartheid. L’IDF (esercito israeliano), che è costretto a gestire il potere in quei luoghi, è in disfacimento dall’interno. Osserva dal di fuori, sta a guardare i coloni teppisti e sta iniziando a diventare complice dei crimini di guerra”.
È così?
«Prima di sentire Lei, ascoltavo l’opinione di uno studioso dell’ISPI che diceva non è una democrazia, è una democrazia etnica. Israele è una democrazia per gli ebrei, non per i palestinesi. I palestinesi non vivono in democrazia ma in apartheid. In discriminazione».
Il leader più longevo di Israele, che si vantava di non aver mai cominciato una guerra, ora deve condurre un conflitto che si annuncia lungo e difficile. Sapendo che questo sarà probabilmente il suo passo di addio. Cosa pensa di Netanyahu?
«Netanyahu è il peggio del peggio per me. È un uomo che sta cercando di sfuggire alla galera e si appoggia al peggio della società israeliana e della classe dirigente. A dei fanatici che sostengono il partito dei coloni e che sono totalmente incompetenti. E questa è anche la ragione per la quale il tanto celebrato servizio segreto israeliano non ha potuto fronteggiare i missili che arrivavano. Evidentemente si occupavano di altro. Di dare spazio ai coloni per derubare i palestinesi delle loro terre».
L’attacco contro Israele si crede fosse preparato da mesi e si nutrono sospetti sul ruolo dell’Iran. Lei come giudica?
«Ognuno fa la sua politica in quei territori. La cosiddetta realpolitik impone di cercarsi i propri amici, quelli che possono servire. L’Iran vuole avere un ruolo e questo evidentemente provoca delle politiche di potere.È possibile che l’Iran abbia fornito dei missili, non escludo che quel Paese fondato su un fondamentalismo fanatico abbia svolto una funzione, ma questo avviene in un contesto che favorisce il peggio del peggio. Che cos’hanno da perdere i palestinesi di Gaza e quelli della Cisgiordania? L’Iran si appoggia ad Hamas, ad Hezobollah. Questo le garantisce di poter giocare un ruolo».
Cosa pensa dell’atteggiamento del governo italiano?
«Non è solo il governo italiano. I governi europei si limitano a fare dichiarazioni di circostanza. “Siamo vicini a Israele”. Che razza di posizione è questa? È per dire noi siamo quelli bravi che stanno con quelli bravi. Invece di partecipare a un movimento di paesi che avrebbero dovuto sollecitare una risoluzione di pace. Quante volte si è sentito dire “due popoli, due stati”. Sono chiacchiere, vaniloqui perché la possibilità di renderlo realtà è stata compromessa dall’attività di colonizzazione israeliana. Non correre rischi. Altrimenti gli israeliani mi dicono che sono antisemita. Perché questa è la storia. Questo non è far politica, mettere la testa sotto la sabbia. In particolare gli europei che non sanno muovere un passo se non arriva la Nato a dirgli cosa fare».
29 aprile 2017 – Parole da salvare, pietre per costruire
Il 24 febbraio scorso ho ricopiato la notizia della condanna che il tribunale di Milano ha inferto alla Lega Nord per aver usato l’espressione “clandestini” cui riconosce un «carattere discriminatorio e denigratorio». Le parole infatti sono pietre che possono essere gettate per distruggere gli esseri umani inserendoli in categorie che li umiliano, imprigionandoli in una definizione che diventa senso comune fino a una condanna socialmente accettata.
Diceva Nelson Mandela “Disumanizzare l’altro significa inevitabilmente disumanizzare se stessi”
Farsi cura invece dell’altro umanizza anche noi stessi e ci rende capaci di pronunciare parole che danno senso alle relazioni fra umani troppo spesso negate dal prevalere di una discriminazione aggressiva e arrogante. E le parole sono il mezzo potente che abbiamo per comunicare, confrontare, far crescere pensieri che possano essere base di una responsabilità condivisa nel costruire una realtà diversa da quella che ci angoscia. Tante volte ho cercato di testimoniare nel mio blog vicende che dessero il senso di questa umanità consapevolmente viva, solidale e rispettosa. Non è facile perché fanno parte della quotidianità che non fa notizia e purtroppo lo diventa quando si manifesta nella tragedia quando vi siano catapultate persone normali, più indifese di chi – per svolgere un ruolo di potere – può giovarsi di qualche significativa forma di protezione.
A Parigi: non avrete il mio odio
Il 13 novembre 2015 l’attentato terroristico al Bataclan uccideva, tra gli altri, una giovane donna, madre di un bambino di due anni. Il vedovo esprimeva il suo dolore rivolgendosi agli assassini con una espressione straordinaria “non avrete il mio odio”. Originariamente inserita in una lettera, quella frase, diventata il titolo di un libro, è entrata in una specie di vocabolario dell’umanità che non si adegua alla barbarie, fino a dare un senso pieno a un linguaggio completamente alternativo rispetto a quello che sembra dominante dell’odio, della paura, dell’indifferenza. Quella espressione è stata ripresa, sempre a Parigi, da Etienne Cardile per ricordare Xavier Jugelé, il compagno poliziotto ucciso il 20 aprile sugli Champs Elysées: «Soffro ma senza odio. Perché quest’odio non ti somiglia». E infine è riuscito a salutarlo con un «ti amo», evocazione del loro spazio privato, immune dalla malvagità.
In Italia: “Portare pesi impossibili con le spalle dritte”
Lo ha detto il padre di Valeria Solesin, la ragazza italiana uccisa al Bataclan, cui la città di Venezia ha riservato il funerale in piazza San Marco, accogliendo una osservazione del papà di Valeria «Se la mia famiglia ha dato un segno di civiltà vuol dire che non è morta invano». E ancora il richiamo alla negazione dell’odio: «Non sono una persona capace di odiare. Io e Luciana (la moglie e mamma di Valeria n.d.r.) crediamo nel valori che non dividono le persone».
Insieme a loro voglio ricordare anche i genitori di Giulio Regeni che rivendicano il loro diritto a quella giustizia che impone di far conoscere la verità sulla morte del figlio. Chiedono giustizia non vendetta.
In Algeria, più di vent’anni fa
Mi torna alla mente il testamento di padre Christian de Chergé scritto a Tibihrine, il primo gennaio 1994, due anni prima del rapimento suo e dei suoi monaci, di cui furono trovate solo le teste. La conoscenza della violenza del passato coloniale dell’Algeria (non dimentichiamo che le vicende di Tibihrine precedono di più di vent’anni quello appena ricordate dei giorni nostri) fonda le sua capacità di previsione: « Se mi capitasse un giorno – e potrebbe essere oggi – di essere vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, vorrei che la mia comunità, la mia Chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era donata a Dio e a questo paese. …Che sapessero associare questa morte a tante altre ugualmente violente, lasciate nell’indifferenza dell’anonimato .. Venuto il momento, vorrei avere quell’attimo di lucidità che mi permettesse … di perdonare con tutto il cuore chi mi avesse colpito».
A Gaza: Restate umani
Lo aveva detto Vittorio Arrigoni, attivista sostenitore della causa palestinese, la sera del 14 aprile 2011 venne rapito da un gruppo terrorista dichiaratosi afferente all’area jihādista salafita, all’uscita dalla palestra di Gaza nella quale era solito recarsi. In un video immediatamente pubblicato su YouTube, Arrigoni venne mostrato bendato e legato, mentre i rapitori accusavano l’Italia di essere uno “stato infedele” e l’attivista di essere entrato a Gaza “per diffondere la corruzione”. Il 15 aprile fu assassinato.
Gabriele Del Grande: la violenza istituzionale
Il giornalista arrestato in Turchia e fortunatamente rientrato in Italia che, ritrovandosi nella sua terra ci ha dato gioia e ci ha regalato una parola, o almeno l’ha regalata a me che ormai la considero una pietra di costruzione: violenza istituzionale. Ha precisato con consapevolezza e dignità di non aver subito violenze fisiche, di essere stato trattato con rispetto ma, dato che il suo non era un rapimento ma un arresto, di aver subito una violenza istituzionale.
Il parlamento italiano e i suoi complici nel perpetrare violenza istituzionale
Dopo che l’intervento della Corte Costituzionale aveva consentito alle coppie ‘ miste’ di chiedere la registrazione delle pubblicazioni di matrimonio senza cadere nella trappola tesa dal pacchetto sicurezza, restavano solo i nuovi nati in Italia da genitori non comunitari privi di permesso di soggiorno, a soddisfare il cannibalismo cartaceo organizzato durante il quarto governo Berlusconi dall’allora Ministro Maroni. Per sanare la situazione furono presentate due proposte di legge ma vennero abbandonate al disinteresse parlamentare (forte dell’indifferenza dell’opinione pubblica) finché l’articolo potenzialmente risolutivo venne inserito nella proposta di legge sulla cittadinanza che, approvata alla Camera, gode non solo del disinteresse ma, a quanto pare, della determinazione della commissione Affari Costituzionali del Senato ad affossarla giocando sulla lentezza. Basterà infatti una mancata approvazione prima delle elezioni per annullare tutto il lavoro svolto. Di recente un gruppo di associazioni, singoli cittadini e alcuni assessori e consiglieri comunali udinesi ha chiesto l’approvazione rapida della norma con un appello che, proposto agli strumenti di informazione, non ha ottenuto nemmeno un riscontro.
Un filo rosso fra le parole
Per fortuna le parole di giustizia, rispetto del diritto e della legalità restano. Chissà se qualcuno vorrà trovare il filo che le colleghi offrendoci la possibilità di costruire il linguaggio della dignità che si diffonda opponendosi alla barbarie che ci insozza?
NOTA
Nel file la cui pubblicazione nel mio blog precede questo testo ho elencato le fonti con i link che permettono di raggiungerle. L’ho fatto per non appesantirne la lettura dove sarà possibile proporla.
https://diariealtro.it/?p=4976
21 ottobre 2011 – Rileggendo diariealtro
La morte di Gheddafi
Le immagini atroci dell’uomo rifugiato in un scarico fognario, preso e, vivo o morto che fosse, calpestato e trascinato a terra assumono, per me, un forte valore simbolico.
Per quanti amici di Gheddafi, che ora probabilmente si sentiranno rassicurati dalla scomparsa del colonello che forse conosceva anche loro non confessabili segreti, quel buco fetido sarebbe, almeno simbolicamente, un adatto rifugio?
Un ex ambasciatore – ora rispettato editorialista- oggi ha scritto su Il Corriere della sera un articolo con un passaggio molto interessante. Quando il colonnello prese il potere: “l’identità nazionale libica era molto più labile delle identità nazionali dell’Egitto, del Marocco, dell’Algeria e della Tunisia. <…>La Libia era una creazione artificiale del colonialismo italiano, uno Stato composto da due territori (la Tripolitania e la Cirenaica) che avevano avuto storie diverse, popolato da tribù che avevano interessi contrastanti, abitato da circa due milioni di persone (tanti erano i libici quando Gheddafi conquistò il potere), sparse su un enorme territorio prevalentemente desertico”.
Una identità artificiale, nata dalla decadenza dell’impero ottomano, costruita contro qualcuno … a me viene in mente la Padania con tutti i nefasti ‘contro’ via via esibiti: meridionali, zingari, stranieri …
Costruire contro è facile. Aiuta a non guardare se stessi, a imprecare o piatire, secondo i gusti, a non costruire nulla e, quando ciò torna utile, a distruggere.
E non si distruggono solo cose ma anche i riferimenti di civiltà faticosamente definiti.
Comunque chi volesse, al di là delle mie elucubrazioni, leggere l’intero articolo di Sergio Romano, può farlo anche da qui.
Il ritorno di Shalit–
Quando ho saputo del rientro a seguito di trattativa del soldato Shalit, prigioniero da cinque anni di Hamas a Gaza, mi sono detta che – al di là della gioia per quel ragazzo e per i più di mille palestinesi che tornano a casa- Netanyahu aveva trovato il mezzo – opportunistico e cinico, al di là dell’umanitaria copertura – per umiliare al Fatah e renderlo poco credibile davanti all’occidente e agli stessi palestinesi, dopo che Abu Mazen era riuscito a portare, sia pur per ora senza successo, la questione palestinese alle Nazioni Unite.
Quando ho letto su Repubblica del 19 ottobre un articolo di Lucio Caracciolo intitolato “Lo sconfitto è Abu Mazen” mi sono sentita molto confortata nella mia opinione.
L’articolo è molto circostanziato, merita di essere letto e potete farlo anche da qui.
Però ho poi trovato su Il Manifesto del 20 0ttobre, un articolo di Zwi Schuldiner, un anziano professore universitario e giornalista israeliano che stimo molto.
Scrive problematicamente Schuldiner: “Netanyahu si è aggiudicato una vittoria di cui aveva un gran bisogno dentro il paese, in quanto essa farà dimenticare – almeno per un po’ – le proteste sociali e la paralisi dei negoziati con i palestinesi. I pessimisti temono che l’improvvisa popolarità del premier gli consentirà di sferrare un attacco militare all’Iran e questo – un progetto demenziale che metterebbe a rischio il futuro stesso di Israele – sarebbe possibile con il via libera Usa.
Però è possibile anche una versione più ottimista. In Israele si sta levando qualche voce a sostegno della logica dell’accordo che ha portato alla liberazione di Shalit: volente o nolente Netanyahu ha negoziato, sia pure in forma indiretta, con Hamas ed è arrivato il tempo di capire che il movimento islamico può essere un partner per negoziati più generali”.
Lascio anche il testo dell’articolo di Schuldiner alla lettura di chi fosse interessato.
08 febbraio 2009 – Dopo l’inferno di Gaza, quale futuro?
Il dramma di Gaza, con annessi e connessi, ha scosso e scuote le nostre coscienze, di tutte e tutti noi «occidentali». Infatti, se quegli eventi hanno ovviamente colpito il mondo intero, anche nel Sud del pianeta, essi hanno pesato, e pesano, soprattutto sul Nord del mondo – sull’Occidente, in sostanza. E questo perché la vicenda storica del popolo ebraico l’antisemitismo e l’antigiudaismo cristiano, l’illuminismo, la modernità, il colonialismo, il comunismo, il nazismo, la Shoah, il rapporto con l’islam, la necessità «nostra» del petrolio del Medio Oriente in mano a regimi a vario titolo ed intensità proclamantisi musulmani… formano un amalgama intricatissimo e incombente che penetra fino alle fibre più profonde del nostro essere, personale e collettivo, e sprigiona passioni fortissime. Di fronte alla tragedia di Gaza, in controluce – almeno a noi sembra – sta tutto questo intricato ed ineliminabile background.
Negli ultimi anni, per fermarci a questi, sono avvenute nel mondo vicende che hanno provocato infinitamente più vittime (in Conga e in Ruanda quattro milioni!), uccise in modo crudelissimo, che non quante sarebbero morte secondo fonte palestinese – tra le 1300 e le 1400 – a Gaza e ai suoi confini in Israele, dal 27 dicembre al 18 gennaio. Ci siamo commossi anche per le tragedie africane, ed altre, del pianeta; ma senza esagerare e senza inquietarci troppo. Quali masse hanno infatti percorso le strade delle nostre città per gridare contro gli eccidi nel cuore del continente nero? Invece, ora, si sono moltiplicate, qui da noi, le manifestazioni pro o contro Israele per il dramma di Gaza. Perché – questa la nostra ipotesi – in quest’ultima vicenda noi sentiamo, oscuramente forse, che siamo in gioco in prima persona, come Occidente.
Proprio perché siamo così coinvolti, inevitabile che sulla vicenda di Gaza siamo uniti da eguale passione, ma anche, spesso, divergenti sull’analisi dei fatti, nel loro contesto storico immediato o lontano, e sulle prospettive per uscire dalla crisi. Specchio di tali divergenze sono le dichiarazioni dei leader europei, o di personalità occidentali che – semplificando – hanno individuato la causa del dramma in Hamas che lancia razzi sulla popolazione civile d’Israele o in questo che bombarda indiscriminatamente la Striscia e che da oltre quarant’anni occupa i Territori.
In quanto Confronti, come rivista siamo – volenti o nolenti – inseriti in questo quadro, ed a maggior ragione perché, nel nostro piccolo (infinitamente piccolo di fronte alla vastità immensa dei problemi), cerchiamo di favorire il dialogo tra ebrei, cristiani, musulmani e «laici», e portare la nostra minuscola tessera per creare il grande mosaico della pace in Medio Oriente, che preveda la pace nella giustizia (non la pace di Brenno del «Guai ai vinti!») e, cioè, due Stati per due popoli: Israele (ma Stato per gli ebrei, o Stato per tutti i cittadini che lo abitano?), che c’è, e deve esserci, ed una Palestina che non c’è, e che va creata come realtà vivibile e non semplice fantoccio o «bantustan» – l’ipotesi poi, o il sogno, che i due Stati decidano di unirsi in confederazione sarà, forse, un tema obbligato del lontano futuro. Consapevoli dell’estrema complessità della situazione, tentiamo dunque di riflettere su tali problemi senza la pretesa di avere la verità in tasca e, anzi, desiderosi che voci variegate ci aiutino, su queste pagine, a vedere le molteplici sfaccettature della tragedia, e i numerosi fili della matassa.
Perché – proviamo ad addentrarci nella cronaca – il governo di Ehud Olmert, leader del partito Kadima, il 27 dicembre ha avviato la micidiale operazione «Piombo fuso» contro Gaza? Ci sembra che in quel momento, e in quella proporzione, il premier abbia così scelto per tre motivi. Intanto, per la consapevolezza che la popolazione israeliana era stremata, con crisi economica e città in via di sviluppo mai sviluppatesi. Poi per rafforzare le fortune del suo partito alle elezioni politiche anticipate del 10 febbraio. Va infatti ricordato che, quello in carica, è un governo degli affari correnti, perché Olmert, accusato di corruzione, è stato costretto a dimettersi in settembre. Il suo ministro degli Esteri, la signora Tzipi Livni, aveva tentato in ottobre di formare un nuovo governo ma, non essendoci riuscita, il presidente di Israele, Shimon Peres, ha indetto le elezioni anticipate per la Knesset (il parlamento). Olmert e Livni, insieme al ministro della Difesa, ed ex premier laburista, Ehud Barak, decidendo «Piombo fuso» hanno probabilmente pensato – si vedrà con quale risultato – di rovesciare i pronostici elettorali che, fino al 27 dicembre, davano per vincitore il leader del Likud, Benyamin Netanyahu, colui che da sempre propugna il pugno di ferro contro i palestinesi.
Ma il motivo forse più pressante per attuare a fine anno l’attacco contro Gaza è stato l’interregno del partner decisivo e dello sponsor fondamentale di Israele, il presidente degli Stati Uniti d’America. Barack Obama, infatti, eletto il 4 novembre ma in carica solo dal 20 gennaio, non poteva intervenire, essendo ancora al comando George W. Bush. Era scontato l’o.k. di questi alla decisione di Olmert, e il segretario di Stato Condoleezza Rice si era affrettata a dire che quella di Israele era una legittima scelta di autodifesa da un’aggressione; ma anche se, per ipotesi, la Casa Bianca fosse stata contraria, è ben possibile che Olmert avrebbe proceduto lo stesso, essendo ormai Bush un’«anatra zoppa». In ogni caso Obama non era in carica e, da presidente, adesso si ritrova con un’inattesa patata bollente in mano. Quello che egli farà concretamente, lo vedremo, e per giudicare occorre attendere.
Il governo d’Israele afferma che Hamas ha violato la tregua di sei mesi stipulata in giugno e che scadeva il 19 dicembre. Ma, appunto, la tregua era scaduta, e quindi non è stata violata. Essa poteva comunque almeno essere rinegoziata, senza ignorare i pericoli che avrebbe corso la popolazione civile di Gaza, i bambini primi fra tutti, a fronte di una reazione israeliana. Altro e differente problema è valutare la decisione di Hamas. Molti ritengono che, riprendendo in grande stile il lancio di razzi contro le città israeliane prossime alla Striscia, esso abbia offerto su di un piatto d’argento il pretesto ad Olmert per far partire «Piombo fuso» (altro problema ancora è quanto sull’operazione abbia pesato il governo e quanto, seppure non formalmente, il vertice delle Idf – Tsahal –, le forze di difesa israeliane). Hamas sottolinea che, durante la cosiddetta tregua, in realtà Israele ha continuato le esecuzioni mirate e, soprattutto, ha continuato a chiudere, a sua inappellabile discrezione, i passaggi tra Israele (o dal Mediterraneo) e Gaza. È vero infatti che nel 2005 il premier Ariel Sharon aveva costretto gli ottomila coloni ebrei ad abbandonare i 21 insediamenti della Striscia, ma aveva mantenuto le chiavi di essa, rendendola una grande prigione a cielo aperto, dove i beni essenziali, dai viveri alle medicine all’energia, entrano solo se Israele lo consente, e si arrestano quando sbarra le porte. L’obiettivo, sicuramente fallito, di tali chiusure, era bloccare l’entrata di armi nella Striscia, ma esse sono arrivate in abbondanza (soprattutto attraverso i tunnel «artigianali» scavati sotto il confine tra la Striscia e l’Egitto).
Bisogna anche ricordare che lo sgombero israeliano della Striscia era stato deciso da Sharon senza alcuna concertazione con il presidente palestinese ed esponente di al-Fatah Abu Mazen (il 9 gennaio 2005 eletto dal popolo come successore di Yasser Arafat, morto due mesi prima). Il premier sosteneva di non avere un partner con cui trattare ma, escludendolo come inesistente, ha umiliato Abu Mazen, reso ridicolo agli occhi di molti palestinesi, e favorendo così proprio Hamas. Che, infatti, alle elezioni legislative del 25 gennaio 2006 ha ottenuto la maggioranza assoluta nel parlamento. Una vittoria assicurata, naturalmente, da diversi fattori, tra i quali una diffusa corruzione nell’Autorità palestinese controllata da al-Fatah, resasi così insopportabile agli occhi della popolazione. Il tentativo, poi, di condominio tra al-Fatah ed Hamas nel governo con un premier, Ismail Haniyeh, indicato dal Movimento di resistenza islamico, è fallito. E nel giugno 2007 con un colpo di mano (compiuto, afferma, per prevenirne uno analogo di Abu Mazen per debellarlo), e lasciando per le strade morti del confronto fratricida, Hamas ha preso da sola il potere a Gaza. Per cui da allora vige un potere bicefalo intra-palestinese: Hamas a Gaza, al-Fahah in Cisgiordania.
Il mandato di Abu Mazen scadeva il 9 gennaio 2009 ma, sostenuto da al-Fatah, ha deciso di prolungarlo; decisione considerata anticostituzionale da Hamas. Così che ora sono in carica un presidente la cui legittimità è dubbia, e un premier di Hamas, rifiutato da Israele e dall’Occidente, seppur frutto di elezioni democratiche.
Perché Hamas ha deciso di provocare Israele lanciando razzi contro la popolazione civile? Che il numero di morti israeliani sia stato limitatissimo – tredici persone, in maggioranza militari caduti durante l’operazione «Piombo fuso», e alcuni di essi uccisi da «fuoco amico» – non cancella il furore che questi lanci hanno provocato nell’opinione pubblica del paese? Intanto, vanno segnalate le tensioni alla testa del Movimento, tra l’ala politica e l’ala militare e, soprattutto, tra chi opera a Gaza e chi, come il leader Khaled Meshaal, è riparato a Damasco: gli uni al fronte, gli altri al sicuro in Siria. Infine, comunque, una decisione fu presa, e forse Hamas ha agito per conto dell’Iran, ritenendo, a Gaza o a Teheran, che mille o duemila morti palestinesi, e un disastro materiale immane provocati dai prevedibili bombardamenti israeliani, servissero alla «causa». E diversi regimi arabi – dalla Giordania, all’Arabia Saudita, all’Egitto anch’esso con in mano una delle chiavi di accesso alla Striscia – pur verbalmente condannando la scelta d’Israele, hanno visto con sollievo il lavoro sporco fatto dalle Idf per decapitare Hamas, ritenuto la longa manus dell’Iran per esportare idee e scelte tali da far traballare i loro regimi. Pur essendo sciita, l’Iran aiuta strumentalmente il sunnita Hamas. Ma la vera posta in gioco è la leadership del mondo musulmano e il contrasto tra le potenze musulmane per ottenerla.
Perché Israele ha risposto ad Hamas con tale potenza di fuoco – usando, pare, anche bombe Dime e al fosforo bianco – da provocare, a quanto sappiamo il 21 gennaio, mentre scriviamo, tra i 1300 e i 1400 morti, di cui quasi un terzo bambini – e cioè più di cento palestinesi morti per ogni israeliano ucciso dai razzi o durante l’attacco a Gaza – senza contare i più di cinquemila feriti, e le tremende distruzioni di case e infrastrutture, ospedali compresi? Sembra che Olmert abbia voluto applicare a Gaza la «dottrina Dahiya» che il generale Gadi Eisenkot, comandante del Comando settentrionale di Israele, aveva così espresso in ottobre in un’intervista al quotidiano Yedioth Ahronoth: «Useremo una forza sproporzionata contro ogni villaggio da cui saranno sparati colpi contro Israele e provocheremo immensi danni e distruzioni». Il riferimento era a Dahiya, un sobborgo di Beirut raso al suolo dagli aerei israeliani durante la guerra dell’estate 2006 per stroncare i guerriglieri filo-sciiti Hezbollah. Il governo Olmert avrebbe dunque applicato all’intera Striscia controllata da Hamas la punizione inferta al villaggio libanese che ospitava i miliziani. Senza tenere in alcun conto i terribili «effetti collaterali», l’uccisione di centinaia di donne e bambini e, perfino, la distruzione di edifici dell’Unrwa (il Servizio dell’Onu per i rifugiati palestinesi), duramente criticata dal segretario dell’Onu, Ban Ki-moon.
La tragedia di Gaza ha mostrato, una volta di più, la pochezza delle Nazioni Unite e dell’Unione europea. Ma, pensando al futuro, come ipotizzare una pace, dopo tanto sangue, e partendo dalla tregua (fragilissima) proclamata unilateralmente da Israele e da Hamas il 18 gennaio? Il programma politico-ideologico del Movimento di resistenza islamico fa paura, perché in sostanza prevede uno Stato rigidamente teocratico dove viga la sharia (legge islamica interpretata nel modo più rigido), e dove la «laicità» che innervava larga parte dell’Olp viene cancellata. Esso è dunque non solo contro l’Occidente, ma anche contro quello che pensano molti palestinesi. E però è stato massicciamente da questi votato, perché delusissimi dall’appoggio acritico degli Usa e dell’Unione europea alla politica israeliana. E adesso?
Adesso Israele avrebbe tutto l’interesse a favorire al più presto, senza furbe dilazioni, la nascita di uno Stato palestinese, trattando con tutte le parti interessate – tutte, nessuna esclusa. Una giusta soluzione comporta la fine dell’occupazione militare e coloniale dei Territori che dura intollerabilmente da oltre quarant’anni, la condivisione di Gerusalemme come capitale di due Stati (la Palestina formata da Striscia e Cisgiordania non amputata), un accordo onesto su possibili scambi territoriali tenendo però come base i confini israeliani del 1967, una soluzione concordata del problema dei profughi. Ora che Hamas sembra indebolito (ma, dopo un periodo di «convalescenza», forse diventerà ancora più forte, perché bisognerà vedere come si orienteranno, crescendo, quelle migliaia e migliaia di bambini che hanno visto gli orrori di «Piombo fuso»), che farà l’attuale e il futuro governo israeliano? I palestinesi dovranno ancora mendicare giustizia? Le risoluzioni dell’Onu saranno finalmente applicate, o sempre svuotate? Obama sarà un mediatore efficace ed autorevole, o semplice portavoce del governo israeliano e di chi lo sostiene, anche negli States? Nel suo discorso del 20 gennaio, parlando del Medio Oriente il neo-presidente ha nominato esplicitamente l’Iraq («responsabilmente lasceremo il paese alla sua gente») ma non ha citato né Israele né Gaza: un silenzio singolare! Tuttavia ha precisato: «Al mondo musulmano dico che cerchiamo una nuova via di uscita basata sugli interessi reciproci e sul reciproco rispetto… A quanti [nel mondo] rimangono attaccati al potere con la corruzione, la menzogna e soffocando il dissenso, dico che stanno dalla parte sbagliata della storia, ma che tenderemo loro la mano se si dimostreranno disposti ad un segno di pace».
Lo slogan riassuntivo per sciogliere veramente ed onestamente il nodo gordiano israelo-palestinese non può essere (come abbiamo sentito in Italia): «Salviamo Israele per salvare la pace»; ma: «Salviamo Israele e Palestina per salvare la pace». Perché salvare solo uno è impossibile, se si vuole una pace degna di questo nome.
la redazione di Confronti