Una storia fastidiosa per molti
Il 30 aprile scorso pubblicavo una petizione destinata alla presidente Boldrini con cui le chiedevo di adoperarsi per promuovere il dibattito sulla proposta di legge 740 che si giace in parlamento da più di un anno, affidata alla Commissione Affari Costituzionali dallo scorso mese di giugno (pure silente). Ne ho trascritto l’iter lo scorso 21 dicembre.
Quella petizione – a riprova del successo della cultura ampiamente diffusa oltre i propri limiti dalla Lega Nord – ha meritato meno di 400 firme e perciò ho inserito nello spazio concesso da change un aggiornamento, di nuovo riferendomi alla presidente Boldrini.
Eccone il testo:
Gentile Presidente Boldrini
se la mia conoscenza del funzionamento del sito change.org è corretta dovrebbe esserle arrivato il testo di una petizione, pubblicata in quel sito nel mese di novembre 2013 (e di cui le allego la trascrizione, mentre le invierò per posta l’elenco delle firme raccolte dal 19 novembre 2013 e il 30 aprile 2014).
Con quella petizione Le viene chiesto di fare quanto nelle sue possibilità personali e competenze istituzionali per promuovere il dibattito in merito alla proposta di legge 740 (presentata il 13 aprile 2013 e assegnata alla I Commissione Affari Costituzionali in sede Referente il 21 giugno 2013), finalizzata alla modifica dell’articolo 6 del Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, per il punto che impone la presentazione del permesso di soggiorno per registrare gli atti di nascita, come stabilito dall’art 1, comma 22, lettera g della legge 94/2009.
Sebbene a pochi giorni dall’approvazione della legge 94 sia stata emanata la circolare 19 che afferma essere possibile la registrazione delle nascite dei propri figli anche per i migranti irregolari (e perciò privi di documento di soggiorno) il gruppo Convention on the Rights of the Child, che ha il compito di monitorare la Convenzione di New York sui diritti del minore (ratificata con legge 176/1991), ci informa, nella sua relazione 2012, che “Il timore di essere identificati come irregolari può spingere i nuclei familiari ove siano presenti donne in gravidanza sprovviste di permesso di soggiorno a non rivolgersi a strutture pubbliche per il parto, con la conseguente mancata iscrizione al registro anagrafico comunale del neonato, in violazione del diritto all’identità (art. 7 CRC), nonché dell’art. 9 CRC contro gli allontanamenti arbitrari dei figli dai propri genitori”.
A conoscenza del fatto che le norme sulla tutela della maternità consentono alle partorienti una protezione di sei mesi che si estende anche al loro bambino, sembrava che negare a un padre – o alla madre eventualmente sola – il diritto di dichiarare in comune la nascita del proprio figlio fosse l’aspetto dirimente della vicenda che poteva essere sanata con una corretta informazione fino alla approvazione della proposta di legge 740 che tutti i firmatari della petizione auspicano.
Ora sappiamo che non è così.
Il 23 aprile, nel corso della trasmissione RAI ‘Tutta la città ne parla’ (ore 10, Radio3, trasmissione ascoltabile in podcast), un avvocato che ha declinato le proprie generalità e si è dichiarato membro dell’Associazione Studi Giuridici Immigrazione (associazione che gode di ottima fama) ha affermato, tra l’altro, quanto letteralmente trascrivo:
“C’è un problema relativo a una questione molto più grave (ndr: della registrazione anagrafica). Cioè la possibilità da parte di due persone che senza permesso di soggiorno, ma anche senza un documento di identità (la donna che è priva di un passaporto) di poter riconoscere il proprio figlio. Nel senso che sicuramente la normativa nazionale e internazionale le riconosce questo diritto. Però questo diritto è stato posto in discussione più volte. […] Per cui non è raro – purtroppo non è raro – il fatto che al momento del parto venga negata alla donna che ha partorito in ospedale, la possibilità di riconoscere il figlio senza documento di identità, per cui una serie di strutture mediche trovano escamotage tipo per esempio la richiesta di testimoni che possano testimoniare che quella donna ha partorito quel figlio o anche altri stratagemmi assolutamente stravaganti”.
Apprendiamo così che ci sono in Italia ospedali del sistema sanitario pubblico dove una donna non può riconoscere come suo (con un atto che precede la registrazione anagrafica che si fa in comune) il suo bambino e sarebbe quindi costretta a ridurlo in uno stato di abbandono che può renderlo adottabile o, peggio, vittima dei mercati più turpi che sappiamo esistere ed essere operanti.
“La verità è che la normativa non è chiarissima”, ha aggiunto l’avvocato intervistato, sottolineando conseguentemente la necessità di approvare una norma che faccia chiarezza – e di cui sia data adeguata informazione – quale è la proposta 740 citata sopra.
Come cittadina europea, italiana e come donna e madre conto sul contributo che Le sarà possibile assicurare per modificare una situazione che giudico sconvolgente e umiliante per tutti noi nel momento in cui esclude alcuni neonati dalla possibilità di un’esistenza giuridicamente riconosciuta, e nega loro il certificato di nascita che assicurerebbe la tutela dei genitori, rischiando di arrecare contemporaneamente anche un grave danno alla salute della madre.
Ringrazio per l’attenzione e porgo distinti saluti.
Augusta De Piero
Inviato questo testo alla Presidente il primo maggio ricevevo il 5 la risposta che trascrivo.
La Presidenza della Camera dei deputati ha ricevuto la sua e-mail.
Al riguardo, desideriamo comunicarle che è stato disposto che anche copia della sua nuova nota sia trasmessa alla Commissione parlamentare competente, affinché i deputati che ne fanno parte possano prenderne visione.
Cordiali saluti.
La Segreteria della Presidente della Camera dei deputati
Chi ha paura dei neonati?
Sono andata subito nel sito dell’Asgi (Associazione Studi Giuridici immigrazione) ritenendo di poter trovare qualche cosa sulla terribile rivelazione fatta da un avvocato loro associato sulla impossibilità per madri prive di documento di identità di riconoscere il proprio nato (ho riportato il passaggio dell’intervista in questione nella lettera di aggiornamento inviata alla presidente Boldrini e pubblicata su change – si veda passaggio in grassetto) e nulla ho trovato in proposito.
Un pezzo, datato 5 maggio che riporto per intero, dimostra l’attenzione civile e professionale dell’associazione in questione all’attualità.
E’ chiaro che con legalitaria diligenza l’Asgi si occupa di minori che esistono, la cui esistenza è comprovata da un certificato di nascita, concesso da una pietosa circolare non garantito dalla legge, ma non possono realizzare il loro desiderio di prendere a calci un pallone all’interno delle organizzazioni a quegli specifici calci deputate perché, pur se sono nati e risiedono in Italia, sono stati caricati del peccato dei loro genitori di essere privi del permesso si soggiorno..
05.05.2014 – Calcio negato ai minori stranieri se i genitori non hanno il permesso
Sono ragazzini e vorrebbero giocare a calcio. Vorrebbero partecipare ai tornei ufficiali in cui gareggiano molti loro coetanei. Ma devono rinunciare perché la legge del calcio lo vieta. Sono i tantissimi adolescenti tagliati fuori dalle competizioni della Figc (Federazione italiana gioco calcio) perché i loro genitori non hanno il permesso di soggiorno. Centinaia in tutta Italia, alcuni nati nel nostro Paese. Su questo punto le regole della Federcalcio sono chiare: i calciatori stranieri minorenni che richiedono il tesseramento per una società della Lega Nazionale Dilettanti, devono presentare “il certificato di residenza anagrafica attestante la residenza in Italia e il permesso di soggiorno che dovrà avere scadenza non anteriore al 31 gennaio dell’anno in cui termina la stagione sportiva per la quale il calciatore richiede il tesseramento”. Il permesso di soggiorno a cui si fa riferimento è quello dei genitori, visto che la regolarità in suolo italiano del minore straniero dipende dalla posizione giuridica della madre e del padre.
Una norma che ricalca il regolamento internazionale della Fifa e che intende essere fedele alle leggi statali sull’immigrazione irregolare, ma che spesso finisce per condannare i bambini, tutti quei bambini che avrebbero diritto allo sport ma che non possono giocare a causa della situazione legale dei genitori. Una norma che è finita al centro del mirino di numerose società calcistiche, spesso costrette a rifiutare tesseramenti di adolescenti stranieri ma perfettamente integrati in Italia, e di varie associazioni tra cui l’Asgi (Associazione studi giuridici sull’immigrazione), la quale parla esplicitamente di “discriminazione”.
Secondo Alberto Guariso dell’Asgi, “la Figc nega il diritto allo sport dei minori, violando la Convenzione internazionale sui diritti del fanciullo, secondo la quale nessun minore può essere trattato diversamente in relazione allo status giuridico dei genitori”. Secondo Guariso “la Figc dovrebbe adeguarsi agli altri settori della società italiana come la scuola e la sanità, dove qualsiasi minore ha diritto allo studio e alle cure mediche, indipendentemente dalla regolarità dei genitori in territorio italiano”. Tanto più che, aggiunge Guariso, “i minorenni non possono essere espulsi dall’Italia in base all’articolo 19 del Testo Unico. Un paradosso – precisa l’avvocato – visto che il minore può restare in Italia ma contestualmente non può praticare sport”.
Un principio su cui sostanzialmente si è espressa anche la magistratura. Nello specifico il tribunale di Lodi, che nel 2010 aveva accolto il ricorso presentato da un calciatore togolese richiedente asilo in Italia. In questo caso la magistratura ha dichiarato discriminatorie le norme della Figc che impongono ai cittadini stranieri che richiedono il tesseramento il possesso di un permesso di soggiorno valido fino al termine della stagione sportiva corrente. Il tribunale di Lodi aveva tra l’altro affermato come il diritto alla pratica sportiva costituisca un diritto fondamentale perché attraverso di essa trova espressione la personalità dell’individuo e l’attività sportiva costituisce certamente uno strumento di integrazione sociale così come una possibilità di fonte di reddito e di accesso al lavoro.
E proprio in base a questi principi, risulterebbero esclusi dai tornei ufficiali anche i minori non accompagnati, quelli cioè presenti in Italia senza genitori e non ancora adottati. Anche in questo caso, esiste una sentenza del tribunale di Pescara datata giugno 2011 che giudica discriminatorio il rifiuto del tesseramento a una società calcistica del minore straniero non accompagnato affidato in Italia. In questo caso si trattava di un minore senegalese in affido ad una coppia di italiani in attesa di regolarizzarsi. (js)
Fonte : Redattore Sociale
1 continua
NOTA: Oggi 6 maggio la trasmissione Tutta la città ne parla del 23 aprile (di cui ho scaricato la registrazione) è sempre presente nel podcast
Il sito dell’Asgi riporta nella colonna di sinistra il testo che ho trascritto e, a destra nella colonna notizie, si ferma al 29 aprile
Rinvio i miei commenti alla prossima puntata