25 agosto 2024 Predicazione di apertura del Sinodo della pastora Sophie Langeneck

Quando fu vicino alla città, alla discesa del monte degli Ulivi, tutta la folla dei discepoli, con gioia, cominciò a lodare Dio a gran voce per tutte le opere potenti che avevano viste, dicendo: «Benedetto il Re che viene nel nome del Signore; pace in cielo e gloria nei luoghi altissimi!»

Alcuni farisei, tra la folla, gli dissero: «Maestro, sgrida i tuoi discepoli!» Ma egli rispose: «Vi dico che se costoro tacciono, le pietre grideranno».

(Luca 19: 37-40)

Care sorelle e cari fratelli,

quante volte ci è stato detto di stare zitti, che fosse meglio tacere, che non c’erano parole adeguate, anzi…ogni parola era inopportuna, fastidiosa, stucchevole, di troppo, perché la nostra parola può essere scomoda, creare dissenso, seminare dubbio ed essere divisiva.

Ecco, questo deve essere ciò che hanno pensato i farisei, quando hanno chiesto a Gesù di sgridare e far tacere i suoi discepoli.

Ma Gesù risponde loro con una frase che è la pietra miliare di ogni confessione di fede, e può diventare un motore per la nostra testimonianza: “se anche questi tacciono, le pietre grideranno!”. Quando anche i discepoli non potessero parlare di Gesù, non testimoniassero del Regno dei cieli, lo farebbero le pietre del selciato dell’ingresso di Gerusalemme.

Per i farisei sentire acclamare Gesù come re, assistere alla folla che lo loda con canti di festa, lui che è re di un regno senza confini, fa proprio rabbia.

Alla rabbia dei farisei Gesù risponde con una frase quasi incendiaria, con una provocazione: “se anche questi tacciono, le pietre grideranno!”.

Questa frase però è anche una dimostrazione del potere nuovo e diverso di Gesù rispetto all’autorità che zittisce e condanna al silenzio. Gesù invita a prendere la parola, non per piacere agli altri o per mettersi in mostra ma per dare un messaggio rivoluzionario, pericoloso, scandaloso in ogni tempo: Gesù è il re di un regno inimmaginabile, un regno dove non c’è sopraffazione, dove non c’è chi controlla e chi è controllato, chi abusa e chi è abusato, chi combatte e chi si difende, chi si vendica e chi è vendicato.

La provocazione resta tale anche per i lettori del Vangelo di ogni tempo, è un balsamo per tutti coloro che si sentono dei credenti imperfetti e impacciati: a prescindere dall’efficacia della loro testimonianza i fatti diranno che Gesù è il re della storia.

È una sfida per ogni credente, quella di cogliere i segni della salvezza ed esprimere anche il giudizio di Dio sulla storia umana con la propria voce che è più udibile di quella di una pietra. Ma spesso rimaniamo assordati nel silenzio dei nostri pensieri e diventiamo complici del “non voler disturbare”, ci nascondiamo dietro il tanto altro che abbiamo da fare.

Eppure dobbiamo ripartire dalla vocazione che abbiamo ricevuto, non solo chi tra noi è pastore, teologo, predicatrice, ma tutti e tutte noi credenti siamo chiamati ad annunciare l’Evangelo, anche quando questo compito si fa irriverente, scomodo!

Le pietre del selciato di Gerusalemme, vicino al monte degli ulivi, avrebbero gridato tutta la regalità di Gesù di Nazareth, il figlio di Dio venuto dalla Galilea, avrebbero acclamato il messia della periferia.

Il fatto che Gesù sia re di un regno senza confini e senza corona rivela tutta la fragilità e la disumanità dei regni di cui è stata costellata la storia, regni che spesso hanno usato proprio Gesù e Dio per legittimare il loro potere. Gesù è re dei giudei ma non in alternativa all’impero romano; è re del Regno di Dio, suo Padre, un regno i cui sudditi sono chiamati ad annunciare, a collaborare e costruire, in cui non c’è un potere oppressivo e un confine territoriale, neppure temporale, ma si vive l’utopia dell’amore di Dio per ognuno e ciascuna.

Se Gesù è re, allora nessun regno di questo mondo è veramente legittimo, vorrei dire: nessun potere di questo mondo ha autorità.

La teologia luterana ortodossa certo non sarebbe d’accordo con questa mia affermazione, ma ritengo vero per noi oggi che nessun potere può sentirsi tutelato dal Deus vult, Dio lo vuole.

Nessun potere al mondo può credersi assoluto ma deve permettere alla “voce che disturba”, al dissenso, di elevarsi.

La voce che afferma che Gesù è il Re esprime la relatività di ogni potere umano esistente. Questa parola diventa scomoda e urticante per ogni potere e per ogni autorità: la regalità di Gesù si esercita nella potenza che si dimostra nella debolezza (2 Cor 12). La regalità di Gesù rimane così “spina nella carne” di ogni potere umano.

Possiamo dire che Dio è re per regnare in un regno che sfida e surclassa ogni potere umano perché è un regno di pace, di giustizia e di amore, un regno il cui re non ha scettro né corona, non ha cioè il potere esercitato con controllo e oppressione.

Un regno che non ha tempo perché è in ogni tempo, in ogni pagina della storia.

Nel Medioevo il teologo hussita Nicola da Dresda usa l’immagine forte delle pietre che gridano la testimonianza che mancava in quel tempo della storia, per difendere la parola pubblica e la predicazione delle donne in un tempo in cui, a qualche centinaio di chilometri, le donne che osavano un ruolo pubblico nella società erano accusate di stregoneria e qualche volta condannate al rogo.

Una pagina della storia del cristianesimo e del movimento valdese su cui spesso sorvoliamo; eppure il nesso tra le donne e le pietre è un nesso che nella storia valdese della testimonianza ritorna prepotente così come nel dibattito sinodale sul ministero pastorale e l’accesso alla Facoltà delle donne negli anni ’50: se l’Evangelo può essere annunciato da elementi inerti, tanto più lo possono fare le donne, se preparate.

Altri credenti hanno sentito le pietre gridare ancora novanta anni fa mentre i cristiano-tedeschi si piegavano al culto della persona del Führer; poco dopo anche in Casa valdese si discuteva la posizione della chiesa durante il fascismo. È stato necessario ritornare a Gesù Cristo, per la chiesa confessante, per la teologia della chiesa valdese.

E oggi che cosa grideranno le pietre?

Potremmo dire banalmente che gridano contro ogni guerra e ogni sopraffazione.

Eppure credo che ancora oggi grideranno di Gesù Cristo, il fondamento della nostra esistenza come chiesa e come comunità di credenti: se guardassimo a Gesù Cristo non ci pronunceremmo solo contro la guerra ma ci impegneremmo per costruire pace a partire dal nostro contesto prossimo, di relazioni personali e comunitarie.

Le pietre grideranno l’ingiustizia ma noi discepoli e discepole potremmo certamente metterci all’opera per una società che impari nuovamente a confrontarsi e discutere in un pluralismo di idee e opinioni, per una chiesa che non tema la secolarizzazione o l’estinzione.

A noi, care sorelle e cari fratelli,

questa promessa di un’evangelizzazione dal basso del selciato giunga come un antidoto allo scoraggiamento dei nostri piccoli numeri, della stabile decrescita.

Sia piuttosto un incoraggiamento a continuare a tessere rete e costruire legami per moltiplicare l’amore di Dio.

L’Evangelo di Gesù Cristo viene proclamato ogni volta che una squadra di Breakfast Time, un gruppo di volontari di ogni comunità distribuiscele colazioni ai senza tetto, ogni volta che come comunità locali cerchiamo di superare l’ingiusto svantaggio economico di chi è sempre più povero; ogni volta che ci impegniamo per la legalità non solo a parole; ogni volta che apriamo attività nuove per dire chi è il Dio di Gesù Cristo a persone che forse in chiesa e ad uno studio biblico non verrebbero mai.

E se persino le pietre, che sono gli esseri più immobili e inerti che possiamo immaginare, potranno testimoniare di Gesù, allora noi che potremmo mai dire di più?

Certamente potremo confessare il nostro peccato: l’ingiustizia, il conflitto, l’odio che abbiamo visto e taciuto, che abbiamo persino disseminato nel mondo, che non siamo riusciti ad arginare e allora sì che avremo parlato del regno di Dio, che Gesù Cristo ci ha annunciato.

La buona notizia che questa parola di Gesù ci offre è ancora una volta tutta la sua radicalità, e tutta la sua scomodità; eppure senza questa fatica, vana è la nostra fede.

Perché abbiamo avuto tutti e tutte almeno una volta la tentazione di ergerci noi personalmente a sovrani e governanti del nostro mondo anche solo per un minuto e invece è venuto il tempo di riconoscere il nostro peccato e annunciare al mondo una cosa che questi 850 anni di storia della chiesa valdese ci hanno mostrato in maniera chiara: la parola pubblica della chiesa si distingue dal brusio delle epoche storiche perché annuncia Gesù Cristo, un re senza corona con un potere diverso da quello del mondo.

Questa verità non diventerà mai relativa, e non verrà mai meno.

Amen.

26 Agosto 2024Permalink

12 giugno 2024 – Ho trovato e copiato.

Da la rivista Il Regno
BLOG

In memoria di Jürgen Moltmann: io mi domando…

La teologia, ormai, o è ecumenica o non è. Questa consapevolezza è l’eredità che molti teologi e teologhe riconoscono di aver ricevuto da Jürgen Moltmann, che ci ha lasciato il 3 giugno. Il suo lavoro è stato tutto a favore di un’unità nella pluralità: lo stesso desiderio che muove anche il pensiero delle donne. Perciò anche le teologhe fanno memoria grata della vita di questo studioso cristiano.

Per chi, come me, ha studiato teologia negli anni ’70 del secolo scorso, la morte di Jürgen Moltmann rappresenta un vero e proprio lutto. Perché Jürgen Moltmann è entrato a far parte della mia vita. Certo, non la concreta vita di tutti i giorni, ma la vita del pensiero, e del pensiero teologico. La sua teologia della croce, la sua teologia della speranza ci hanno insegnato a ragionare, cioè a mettere in questione e al contempo a cercare soluzioni, per rispondere alle domande teologiche che qualsiasi generazione si porta dentro. A partire dal confronto con le generazioni dei Padri, ma pensando anche alla generazione dei Figli e delle Figlie.
Un lascito testamentario

Un pensiero di Moltmann gira in rete in questi giorni, forse perché sentiamo che rappresenta una sorta di lascito testamentario. Soprattutto per noi teologi europei, cattolici protestanti ortodossi:

“Il protestantesimo è solo la mia provenienza, l’ecumenismo è il mio futuro. Per questo non mi interessa se uno è cattolico, ortodosso o metodista: voglio formulare una teologia cristiana, perciò traggo volentieri spunto anche dal mondo cattolico e ortodosso”.

Perché lo considero un lascito testamentario di Moltmann alla mia generazione, a noi che siamo stati i suoi discepoli virtuali, a quelli che hanno recepito tutto il suo sforzo di ripensare i nodi fondamentali della teologia protestante? In questo momento noi – la generazione dell’ecumenismo, quella che ci ha creduto, quella che è stata educata a riconoscere che la teologia ormai era diventata ecumenica e non poteva che essere così – noi viviamo con grande dolore lo stallo dell’ecumenismo che dura ormai da molti anni. In Europa le chiese, tutte, non hanno più la capacità di trovare i punti di incontro, di far risaltare, come diceva Papa Giovanni e come il Concilio ha provato ad assumere nella filigrana delle proprie decisioni, quello che le unisce più che quello che le divide. Per noi, scoprire quello che ci unisce aveva rappresentato poter contare su una pista di lancio; insistere, soprattutto nei gesti e nelle pratiche, su quello che ci divide rappresenta invece la palude dello status quo. Le parole di Moltmann diventano allora un giudizio. E, anche, una provocazione.

Mi domando per esempio – ed è un pensiero che non mi lascia dal giorno in cui noi cattolici abbiamo celebrato la festa del Corpus Domini – quando finalmente la festa del Corpo di Cristo non sarà legata soltanto alla tradizione cattolica, con tutto il retaggio che secoli e secoli di devozione si portano dietro; quando non sarà una festa solo cattolico-romana, ma sarà finalmente il riconoscimento condiviso di tutto ciò che l’espressione “corpo di Cristo” comporta. E sarà quindi la festa dell’ospitalità eucaristica, almeno lì dove la compresenza di comunità di diverse tradizioni cristiane dovrebbe ormai imporre di ospitarsi reciprocamente alla mensa eucaristica. Perché si può ma, soprattutto, si deve.

Aprirsi a un futuro comune

E, vedendo qual è la situazione in cui versano le nostre chiese storiche in Europa, nell’Europa cosiddetta unita, mi domando ancora se la separazione tra le diverse tradizioni cristiane non contribuisce, oltre che al loro declino e alla loro difficoltà per riuscire a presentarsi ancora come un punto di riferimento soprattutto per le generazioni più giovani, anche a ostacolare la crescita di un’Europa finalmente  viva, finalmente forte, forte della sua storia, del suo pensiero, dei suoi errori, del faticoso cammino di purificazione a cui l’hanno costretta i suoi stessi errori. Mi domando se anche l’ecumenismo, cioè la capacità delle chiese di mettersi in discussione e di aprirsi a un futuro comune, non possa rappresentare un elemento in grado di contribuire a far crescere la consapevolezza delle proprie possibilità e delle proprie responsabilità. Ben sapendo che molto ancora c’è da lavorare per fare veramente dell’Europa la realizzazione del sogno che l’ha fatta nascere.

Jürgen Moltmann ha ragione: la nostra generazione non può dirsi né protestante, né cattolica né ortodossa. Può dirsi soltanto cristiana e, proprio per questo, ecumenica. Perché lui, Hans Küng, Karl Rahner, Edward Schillebeeckx, Luigi Sartori, Germano Pattaro e tanti altri ce lo hanno insegnato. Il loro sforzo di uscire dai recinti confessionali e di accettare il confronto è stato per noi il lievito che ha fatto fermentare la nostra riflessione teologica. Ha reso anche più salda la nostra opzione di fede e la nostra appartenenza ecclesiale.

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12 Giugno 2024Permalink

15 maggio 2024 – Il testo integrale del discorso della Senatrice Liliana Segre 14 maggio 2024 e anche altro

 

“Signor Presidente, Care Colleghe, Cari Colleghi,

continuo a ritenere che riformare la Costituzione non sia una vera necessità del nostro Paese. E le drastiche bocciature che gli elettori espressero nei referendum costituzionali del 2006 e del 2016 lasciano supporre che il mio convincimento non sia poi così singolare.

Continuo anche a ritenere che occorrerebbe impegnarsi per attuare la Costituzione esistente. E innanzitutto per rispettarla.

Confesso, ad esempio, che mi stupisce che gli eletti dal popolo – di ogni colore – non reagiscano al sistematico e inveterato abuso della potestà legislativa da parte dei Governi, in casi che non hanno nulla di straordinariamente necessario e urgente.

Ed a maggior ragione mi colpisce il fatto che oggi, di fronte alla palese mortificazione del potere legislativo, si proponga invece di riformare la Carta per rafforzare il già debordante potere esecutivo.

In ogni caso, se proprio si vuole riformare, occorre farlo con estrema attenzione. Il legislatore che si fa costituente è chiamato a cimentarsi in un’impresa ardua: elevarsi, librarsi al di sopra di tutto ciò che – per usare le parole del Leopardi – “dall’ultimo orizzonte il guardo esclude”. Sollevarsi dunque idealmente tanto in alto da perdere di vista l’equilibrio politico dell’oggi, le convenienze, le discipline di partito, tutto ciò che sta nella realtà contingente, per tentare di scrutare quell’ “Infinito” nel quale devono collocarsi le Costituzioni. Solo da quest’altezza si potrà vedere come meglio garantire una convivenza libera e sicura ai cittadini di domani, anche in scenari ignoti e imprevedibili.

Dunque occorrono, non prove di forza o sperimentazioni temerarie, ma generosità, lungimiranza, grande cultura costituzionale e rispetto scrupoloso del principio di precauzione.

Non dubito delle buone intenzioni dell’amica Elisabetta Casellati, alla quale posso solo esprimere gratitudine per la vicinanza che mi ha sempre dimostrato. Poiché però, a mio giudizio, il disegno di riforma costituzionale proposto dal governo presenta vari aspetti allarmanti, non posso e non voglio tacere.

Il tentativo di forzare un sistema di democrazia parlamentare introducendo l’elezione diretta del capo del governo, che è tipica dei sistemi presidenziali, comporta, a mio avviso, due rischi opposti.

Il primo è quello di produrre una stabilità fittizia, nella quale un presidente del consiglio cementato dall’elezione diretta deve convivere con un parlamento riottoso, in un clima di conflittualità istituzionale senza uscita. Il secondo è il rischio di produrre un’abnorme lesione della rappresentatività del parlamento, ove si pretenda di creare a qualunque costo una maggioranza al servizio del Presidente eletto, attraverso artifici maggioritari tali da stravolgere al di là di ogni ragionevolezza le libere scelte del corpo elettorale.

La proposta governativa è tale da non scongiurare il primo rischio (penso a coalizioni eterogenee messe insieme pur di prevalere) e da esporci con altissima probabilità al secondo. Infatti, l’inedito inserimento in Costituzione della prescrizione di una legge elettorale che deve tassativamente garantire, sempre, mediante un premio, una maggioranza dei seggi a sostegno del capo del governo, fa sì che nessuna legge ordinaria potrà mai prevedere una soglia minima al di sotto della quale il premio non venga assegnato.

Paradossalmente, con una simile previsione la legge Acerbo del 1923 sarebbe risultata incostituzionale perché troppo democratica, visto che l’attribuzione del premio non scattava qualora nessuno avesse raggiunto la soglia del 25%.

Trattando questa materia è inevitabile ricordare l’Avvocato Felice Besostri, scomparso all’inizio di quest’anno, che fece della difesa del diritto degli elettori di poter votare secondo Costituzione la battaglia della vita. Per ben due volte la Corte Costituzionale gli ha dato ragione, cassando prima il Porcellum e poi l’Italicum perché lesivi del principio dell’uguaglianza del voto, scolpito nell’art. 48 della Costituzione. E dunque, mi chiedo, come è possibile perseverare nell’errore, creando per la terza volta una legge elettorale destina compressione della rappresentatività dell’assemblea parlamentare” ?

Ulteriore motivo di allarme è provocato dal drastico declassamento che la riforma produce a danno del Presidente della Repubblica. Il Capo dello Stato infatti non solo viene privato di alcune fondamentali prerogative, ma sarebbe fatalmente costretto a guardare dal basso in alto un Presidente del Consiglio forte di una diretta investitura popolare.

E la preoccupazione aumenta per il fatto che anche la carica di Presidente della Repubblica può rientrare nel bottino che il partito o la coalizione che vince le elezioni politiche ottiene, in un colpo solo, grazie al premio di maggioranza.

Anzi, è addirittura verosimile che, in caso di scadenza del settennato posteriore alla competizione elettorale, le coalizioni possano essere indotte a presentare un ticket, con il n° 1 candidato a fare il capo del governo ed il n° 2 candidato a insediarsi al Quirinale, avendo la certezza matematica che – sia pure dopo il sesto scrutinio (stando all’emendamento del Sen. Borghi) – la maggioranza avrà i numeri per conquistare successivamente anche il Colle più alto.

Ciò significa che il partito o la coalizione vincente – che come si è visto potrebbe essere espressione di una porzione anche assai ridotta dell’elettorato (nel caso in cui competessero tre o quattro coalizioni, come è già avvenuto in un recente passato grado di conquistare in un unico appuntamento elettorale il Presidente del Consiglio e il governo, la maggioranza assoluta dei senatori e dei deputati, il Presidente della Repubblica e, di conseguenza, anche il controllo della Corte Costituzionale e degli altri organismi di garanzia. Il tutto sotto il dominio assoluto di un capo del governo dotato di fatto di un potere di vita e di morte sul Parlamento.

Nessun sistema presidenziale o semi-presidenziale consentirebbe una siffatta concentrazione del potere; anzi, l’autonomia del Parlamento in quei modelli è tutelata al massimo grado. Non è dunque possibile ravvisare nella deviazione dal programma elettorale della coalizione di governo – che proponeva il presidenzialismo – un gesto di buona volontà verso una più ampia condivisione. Al contrario, siamo di fronte ad uno stravolgimento ancora più profondo e che ci espone a pericoli ancora maggiori.

Aggiungo che il motivo ispiratore di questa scelta avventurosa non è facilmente comprensibile, perché sia l’obiettivo di aumentare la stabilità dei governi sia quello di far eleggere direttamente l’esecutivo si potevano perseguire adottando strumenti e modelli ampiamente sperimentati nelle democrazie occidentali, che non ci esporrebbero a regressioni e squilibri paragonabili a quelli connessi al cosiddetto “premierato”.

Non tutto può essere sacrificato in nome dello slogan “scegliete voi il capo del governo!” Anche le tribù della preistoria costituzionali hanno separazione dei poteri, controlli e bilanciamenti, cioè gli argini per evitare di ricadere in quelle autocrazie contro le quali tutte le Costituzioni sono nate.”

E neppure Elena Cattaneo tace

Riforme, il giorno delle senatrici a vita. “Non posso tacere” (agi.it)

Ma io  voglio ricordare  le due senatrici  anche per un gesto nobile di rispetto della professionalità di una professoressa palermitana, Rosa Maria Dell’Aria  e del  lavoro, dei suoi studenti svillaneggiato  con una denuncia  proveniente da persona presente nelle istituzioni .
Se ne tacessi il mio blog non mi perdonerebbe
Le senatrici i allora dichiararono: “l 31 maggio del 2019, quando il «caso» dei ragazzi di Palermo e della loro professoressa conquistò i titoli dei giornali, trascinato nel dibattito politico, abbiamo voluto accoglierli in Senato, per offrire loro un’occasione di riconciliazione con le istituzioni e di riflessione sui valori fondanti della nostra Costituzione”.  Ne scrissi molto nel mio blog e più volte.  Il link che trascrivo  contiene anche qualche riferimento ad altre   pagine
28 dicembre 2020 — Una storia finita come deve essere. Diari e altro non dimentica

15 Maggio 2024Permalink

17 aprile 2024 – Ho scritto su Facebook (escluso il riferimento all’Ordinariato militare e conseguenti cappellani).

  1. Spero che il testo di Canfora sia letto e meditato nell’oggi pigro , asservito spesso al ‘male ‘ , non percepito della sua violenza armata di parole che ne hanno fatto banalità

15 aprile 2024   ·

“Mi capita di ripetere sempre che lo studio del mondo classico in cui la schiavitù era la base dell’economia e della ricchezza è al massimo attuale, perché la schiavitù riappare sempre in altre forme, dall’estremo Oriente alla Daunia. Non è mai finita purtroppo e quindi studiare le rivolte degli schiavi di Sicilia non è un giuoco, ma è parlare di noi stessi. È il problema della libertà, che è una parola che tutti usano senza chiedersi cos’è, quali sono le sue potenzialità e i suoi limiti. Se uno dovesse raccogliere tutto il pensiero filosofico in un’unica parola si ricondurrebbe tutto alla libertà: Dante dice che va cercando libertà all’inizio del Purgatorio, perché è la summa dei nostri desideri e pensieri della vita morale.”

Luciano Canfora, intervista 7 luglio 2023, Quotidiano di Puglia

  1. Non è solo il doveroso ricordo di Margherita Hack grande donna ma il riconoscimento di una voce che è quella di molte è molti di noi e a cui voglio (vogliamo ? ) dar suono.

23 gennaio 2024

“Dio mi sta bene, e anche la patria e la famiglia; ma il trilogismo Dio-Patria-Famiglia non mi sta più bene.

Dico no a quel dio usato come cemento nazionale, a quella patria spesso usata per distruggere altre patrie, a quella famiglia chiusa nel proprio egoismo di sangue.

Non mi riconosco tra quei cittadini ligi e osservanti che vanno in chiesa senza fede, che esaltano la famiglia senza amore, che osannano alla patria senza senso civico”.

 

Su quanto segue sto ragionando da tempo. Metto i link che forse servono ad altri che vogliano seguire un analogo percorso:  aug

L’Ordinariato militare per l’Italia venne eretto il 06/03/1925 con Decreto della Sacra Congregazione Concistoriale e approvato dallo Stato Italiano con L. 417/1926 che istituiva un contingente permanente di cappellani in tempo di pace.

Vedi

https://it.cathopedia.org/wiki/Ordinariato_militare

Il Cappellano Militare – Ordinariato Militare per l’Italia

 

 

17 Aprile 2024Permalink

14 dicembre 2023 _ Parla il nuovo Presidente Corte Costituzionale, Augusto Barbera

Sono riuscita ad inserire nel mio blog questo  video con le dichiarazioni del nuovo Presidente della Corte Costituzionale  (resterà in carica, a quanto ho capito, fino al mese di dicembre  2024).
Mi è  molto piaciuto anche un  precedente video in cui stigmatizzava pesantemente il  voto di fiducia, “segno di debolezza”
Dal 2009  quel segno di debolezza è diventato forza nello stimolare l’indifferenza e plumbei silenzi  tombali.
Qui  in un discorso evidentemente improvvisato (lo ha proposto 2 giorni dopo la sua elezione) lascia trasparire tutta la sua sapiente professionalità,  ripercorrendo strade del passato che, conosciute, potrebbero  aprire a nuovi obiettivi da raggiungere nel futuro.  .
Lo invierò ad alcun i amici e, se  avrò risposte , le  trascriverò.
Mi ha molto emozionato leggere in tanti momento di quel percorso che il Presidente Barbera delinea  la mia partecipazione a movimenti della società civile attivi ed efficaci almeno nel promuovere conoscenza , movimenti che oggi sembrano spenti in un atteggiamento di annoiata indifferenza per molti, di pigra  rassegnazione per altri
Penso ai piccoli nati in Italia destinati per legge ad  essere senza nome, senza identità , senza famiglia .
Non posso immaginare un  soprassalto di decenza  in un parlamento neghittoso  capace di schiamazzi. ma non di risoluzioni attente al problema dei diritti come proclamati nei primi articoli della Costituzione
Se ne parlasse almeno nella società civile ….

14 Dicembre 2023Permalink

19 novembre 2023. Ieri era l’anniversario della morte di Adriana Zarri

In memoria di Adriana ZARRI, morta a 91 anni alle Crotte di Strambino, nella campagna piemontese, il 18 novembre 2010. Aveva vissuto gli ultimi trent’anni della sua esistenza in cascine solitarie, in cui conduceva, per scelta, una vita eremitica. Ma era, ed era sempre stata, impegnatissima sul fronte pubblico, come teologa progressista, scrittrice, giornalista (teneva una rubrica settimanale sul “Manifesto), militante delle cause civili (a favore della legge 194 sull’aborto) e politiche (nel 2004, alle elezioni europee, era stata candidata nelle liste di Rifondazione Comunista).
Scrisse la sua epigrafe in forma di poesia:
«Non mi vestite di nero:/è triste e funebre./Non mi vestite di bianco:/è superbo e retorico./Vestitemi/a fiori gialli e rossi/e con ali di uccelli./E tu, Signore, guarda le mie mani./Forse c’è una corona./Forse/ci hanno messo una croce./Hanno sbagliato./In mano ho foglie verdi/e sulla croce,/la tua resurrezione./E, sulla tomba,/non mi mettete marmo freddo/con sopra le solite bugie/che consolano i vivi./Lasciate solo la terra/che scriva, a primavera,/un’epigrafe d’erba./E dirà/che ho vissuto,/che attendo./E scriverà il mio nome e il tuo,/uniti come due bocche di papaveri».
Altre sue citazioni, per capire il modo in cui viveva la sua fede cristiana:
«Un amico auspicava il momento (quanto lontano non si sa ma temo – ahimé – lontanissimo) in cui, alla loggia di San Pietro, si sarebbe affacciato un papa con consorte al seguito annunciando: “questa è mia moglie”. Ma io vado più avanti: quando si affaccerà un papa donna col principe consorte al seguito, annunciando: “questo è mio marito”?».
«Non credo nell’inferno perché mi sembra un insulto alla bontà di Dio. Anche la nostra cultura laica non ammette più la giustizia puramente punitiva. E la concepisce solo come capacità di riscatto, di reinserimento. In una pena che dura per sempre come quella dell’inferno questo riscatto non c’è. Penso sia difficile ritenere che gli uomini sono più buoni di Dio. Quindi all’inferno non credo”.
Ho copiato questo testo, che condivido totalmente  dal post nella pagine facebook di Alberto Panaro
19 Novembre 2023Permalink

17 novembre 2023 _ Storia di un olocausto strisciante: i bambini vittime in pace e in guerra_ 2

16 novembre 2023      Nuovo pacchetto sicurezza: tutte le novità del decreto

La premier ha incontrato a Palazzo Chigi le organizzazioni sindacali e le rappresentanze del personale di Forze Armate, Forze di Polizia e Vigili del Fuoco.

Dai punti chiave elencati e visibili a chi legge il testo linkato accessibile anche audio
 copio il passaggio che segue e associo  alla norma , più volte descritta in questo mio blog, che  dal 2009 nega con un raggiro la registrazione anagrafica ai figli dei sans papier

Esecuzione della pena in caso di detenute madri

Previsto un regime più articolato per l’esecuzione della pena per le donne condannate quando sono in stato di gravidanza o sono madri di figli fino a tre anni. Non è più obbligatorio il rinvio dell’esecuzione della pena, ma è mantenuta tale facoltà in presenza dei requisiti di legge. Tra gli elementi che possono influire nella valutazione del giudice ci sarà, per esempio, la recidiva. È stata poi prevista la possibilità che la pena sia scontata presso gli istituti a custodia attenuata per detenute madri, fermo restando il divieto del carcere per le donne incinte e le madri dei bambini più piccoli (fino a un anno di età).

Una nota personale che sembra chiudere il cerchio della mia vita politica:
da consigliera comunale ignara ma non prostrata all’innocenza fasulla del consueto “non lo sapevo, non avevo capito ” il primo caso di cui mi occupai  (era il 1976 o 1977) fu quello delle madri in  carcere con i minori a Udine.  Ne ricevetti una robusta sberla da personaggi tanto istituzionali quanto vili per cui capii l’importanza che avevano  per  ‘lor signori’  i minori sgraditi  a causa della loro origine e fu il primo incoraggiamento a proseguire come ho fatto in varie circostanze. Perciò continuai  fino ad approdare  al beffato e negletto provvedimento che ostacola  con un raggiro la registrazione anagrafica ai figli dei sans papier , un  provvedimento che piace a politici, società civile e persino ai vescovi  italiani che nel loro sinodo sulla famiglia (CEI 2015) hanno consapevolmente scelto il silenzio sulla criticità della negata registrazione anagrafica ai nati in Italia , figli di migranti non  comunitari irregolari.
I primi senza nome per legge,  un’abile beffa all’articolo 3 della Costituzione

Nuovo pacchetto sicurezza: tutte le novità del decreto – Il Sole 24 ORE

17 Novembre 2023Permalink

15 ottobre 2023 – La conoscenza fa paura, ovunque

14 OTTOBRE 2023              Sospeso il premio per la palestinese  Adania Shibli alla Fiera del Libro di Francoforte.
                                             Scrittori e case editrici arabe lasciano l’evento di Shady Hamadi |

La Fiera del Libro di Francoforte annuncia la cancellazione della cerimonia di premiazione di Adenia Shibli, autrice palestinese del libro “Un dettaglio minore”. La motivazione, diffusa in una nota da Litprom, agenzia letteraria che organizza il premio, è “la guerra in Israele”. In compenso, “spazio addizionale sarà concesso alle voci israeliane”, ha fatto sapere, quasi in contemporanea, Juergen Boos, direttore della fiera tedesca.

Il libro della Shibli si trascina dietro polemiche fin da questa estate, cioè da quando Ulrich Noller, giornalista e membro della giuria del premio, si era dimesso contro la decisione di premiare la scrittrice palestinese. A riaccendere la discussione c’è stato poi un articolo di giornale, uscito questa settimana, in cui il libro, che racconta la vera storia di una beduina stuprata e uccisa dai soldati israeliani nel 1949, è stato accusato di “descrivere Israele come una macchina assassina”. Il volume, tradotto e pubblicato in tedesco nel 2022, si è aggiudicato il prestigioso premio LiBeraturpreis, dato ad autori provenienti dall’Asia, Africa e Mondo arabo. Annualmente, il riconoscimento viene consegnato durante una cerimonia solenne alla Fiera del Libro di Francoforte che è uno dei più grandi e autorevoli ritrovi dell’editoria mondiale.

Le dichiarazioni di Boos e la cancellazione della cerimonia di premiazione della Shibli hanno sollevato la protesta delle case editrici arabe e di molti autori. Dall’Autorità del libro di Sharja, fino all’Associazione degli editori arabi degli Emirati, passando per molte case editrici indipendenti arabe e scrittori, è arrivato l’annuncio del ritiro della loro partecipazione dall’evento a Francoforte. “Sosteniamo il ruolo della cultura e dei libri – scrive in un comunicato l’associazione degli editori arabi degli Emirati –, per incoraggiare il dialogo e la comprensione fra le persone”. E concludono: “Crediamo che questo ruolo sia importante ora più che mai”.

Said Khatibi, celebre scrittore algerino, ha anche lui annunciato la cancellazione della sua partecipazione perché, scrive su Facebook, “speravamo che la letteratura giocasse un ruolo importante per costruire un dialogo fra le parti”. Ma, continua Khatibi che aveva in programma due incontri, “la fiera ha preso una posizione politica di una sola parte contro l’altra”, i palestinesi. Nei giorni passati, il direttore Boos aveva dichiarato che “la fiera condannava fermamente il barbaro terrore di Hamas” e che “il loro pensiero era per le vittime, i loro parenti e le persone che stanno soffrendo per questa guerra”, non menzionando le vittime a palestinesi. A tentare di spegnere le polemiche è la Litprom che, dopo il polverone, ha comunicato di voler riorganizzare la cerimonia. Ma soltanto dopo la fine della fiera.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2023/10/14/sospeso-il-premio-per-la-palestinese-adania-shibli-alla-fiera-del-libro-di-francoforte-scrittori-e-case-editrici-arabe-lasciano-levento/7323358/

 

Un precedente italiano documentato il 4 marzo 2022
https://diariealtro.it/?p=7858

15 Ottobre 2023Permalink

12 agosto 2023 – Marinella Perroni ricorda Michela Murgia

11 agosto 1023 L’Osservatore  romano

Un ricordo di Michela Murgia  La vita, la teologia e le polpette
di Marinella  Perroni

Il 10 agosto è morta, a 51 anni, la scrittrice Michela Murgia. Ne pubblichiamo un ricordo personale della teologa Marinella Perroni.

L’ultimo suo post su Instagram è stata una piccola ode alle polpette. Ho scaricato Instagram negli ultimi mesi solo per seguire lei, perché mi aveva detto che era quello il modo che aveva scelto per restare in contatto con tutti coloro che le volevano bene, le erano cari, la seguivano. E io mi sono sempre sentita soltanto una dei tanti, innumerevoli, suoi amici. Per me, però, averla conosciuta è stata anche una sorta di “grazia di stato”. Sì, dato che la passione per la riflessione teologica è sempre stato uno dei fili portanti delle nostre, purtroppo rare, ma lunghissime conversazioni. Perché per Michela fede e teologia non potevano che convergere, l’una a sostegno e garanzia dell’altra, ma anche l’una in grado di far deflagrare l’altra.

Lei lo ha raccontato diverse volte nei suoi libri. Ci siamo conosciute quando ancora intorno a lei non si era andato raccogliendo il mondo intero, scrittori e stilisti, scienziati e politici, intellettuali e giornalisti. E, con loro, un numero incalcolabile di “amici” che hanno goduto della sua capacità davvero unica di esprimere in parole acute e taglienti, scevre da qualsiasi preziosismo, la sua intelligenza delle cose, del mondo e delle persone. Una intelligenza limpida, che andava alla velocità della luce, che mai si piegava al male della banalità, che sempre intravvedeva la ricaduta politica di ciò che siamo e facciamo.

Era la sera dell’8 marzo 2010 e da un paese della provincia di Nuoro di qualche centinaio di abitanti mi avevano invitato a tenere una tavola rotonda su “donne e chiesa”, uno dei tormentoni che va avanti ormai da decenni. Mi avevano contattato dicendomi che, accanto a due teologhe che venivano dal continente (insieme a me c’era Cristina Simonelli), ci sarebbe stata una giovane scrittrice sarda.

Michela aveva 38 anni e per 13 anni — tanti per quanto è stata capace di darmi, troppo pochi per quanto mi avrebbe potuto ancora regalare — mi ha fatto sentire sempre la sua presenza, anche se riuscivamo a vederci troppo poco. Era questa la sua forza: esserci con tutta la potenza della sua vitalità, sapendo che nessuna lontananza può mai dividere ciò che Dio ha unito. Perché per lei le relazioni erano espressione di Dio: non avrebbe certo potuto scrivere in God Save the Queer quelle pagine davvero magiche di teologia trinitaria se non avesse fatto questa esperienza di Dio e degli umani. Una Trinità che si espande a dismisura in tutto ciò che uomini e donne fanno per rendere il mondo degno di loro, ma anche di Dio.

Poi è venuta Accabadora, la sorpresa di Ave Mary in risposta a una mia richiesta che pensavo ormai archiviata dato il suo prorompente e incalzante successo. Mai però in lei il successo ha avuto il sopravvento sulle relazioni. Poi sono venuti tutti gli altri libri di cui, a volte, mi leggeva lei stessa capitoli interi. Ultimamente, anche passando ore sedute al tavolino del ristorante Il cambio, a Trastevere, dove si sentiva tra amici fraterni, protetta almeno un po’ dalla cattiveria che le si rovesciava contro giorno dopo giorno in modo direttamente proporzionale a ogni sua parola pubblica.

Era diventata instancabile: la “causa” per la quale investiva tutte le sue energie, cioè non rinunciare mai alla qualità politica di ciò che siamo, pensiamo, diciamo e facciamo, era per lei fuoco che brucia senza consumarsi perché la vita genera sempre altra vita. Questo era il “credo politico” di Michela e lei sapeva, per di più, che il tempo si era fatto breve. Paradossalmente — ma non per lei — la malattia non l’aveva vinta ma le aveva piuttosto fatto accelerare il ritmo. E ha voluto mangiare tutti i frutti che la vita le ha messo tra le mani, li ha saputi gustare perché avevano il sapore della complessità della vita.

Le polpette, sì. «Metafora del queer», così le chiama in quell’ultimo saluto con cui si è congedata dalla vita. Perché tra le tante cose che Michela ha insegnato ai suoi figli c’è anche l’arte del cucinare. Michela cara, anche per me sarà sempre metafora quel piatto di spaghetti con mazzancolle e zucchine che hai imbandito per me il sabato di Pasqua di quest’anno e che ci siamo gustate, sedute nella mia cucina a parlare di morte e risurrezione. Metafora della vita, della fede, dell’amicizia. Ma anche del dolore e del mistero.

di MARINELLA PERRONI

https://www.osservatoreromano.va/it/news/2023-08/quo-185/la-vita-la-teologia-e-le-polpette.html

 

11 Agosto 2023Permalink

31 luglio 2023 – Una pagina del Blog di Giancarla Codrignani, datatato 31 luglio. Una storia che è un po’ anche la mia.

Non voglio finire questo pesante mese di luglio con la squallida notizia che precede, stritolata fra Del Rio e Pillon.

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Vorrei solo capire   Opinioni di Giancarla Codrignani

APPROFONDIMENTO
EFFETTO NOTTE dal 16 marzo al 19 maggio 1978
Marco Bellocchio ha girato un film, come sempre secondando la sua immaginazione, giustamente personale. Effetto notte invita, infatti, a rileggere personalmente le vecchie storie che hanno cambiato quel futuro che oggi è il presente. La memoria del cittadino anche per fatti politici determinanti il suo presente è terribilmente labile. Poi, dipende dove si era quando le cose accadevano e non se ne capiva né la realtà né il senso.
Il mio “effetto notte” è evocativo del percorso di una politica cattolica, oppositrice tenace della Dc, di cui respingeva anche il nome, “eretico” per essere una democrazia “cristiana” e non “popolare” come correttamente voleva don Sturzo. Gli interessi politici non hanno mai aiutato la Chiesa a obbedire al suo mandato, nemmeno quando era papa Giulio II. Quando poi alla presidenza della Cei arrivò il card. Camillo Ruini, la Chiesa pretese di interferire nello Stato invitando i cattolici ad astenersi dal voto.
La politica è infatti costitutivamente laica. La libertà religiosa è prevista in Costituzione – e uno dei torti democristiani è non averle mai voluto una legge di definizione al riguardo – e fa parte delle libertà democratiche: la Chiesa, sia come Chiesa Cattolica, sia come Stato Città del Vaticano, è libera, ha diritto alla critica non all’interferenza.
Per questo non ho indulgenza neppure postuma per il partito cattolico che, nonostante le persone perbene che la abitavano e che ho avuto amiche e nonostante quella Sinistra Dc che può essere simbolicamente rappresentata da Carlo Donat Cattin il cui figlio Marco fu causa delle dimissioni del padre ministro perché esponente di “Prima Linea”, organizzazione clandestina del terrorismo rosso. Io stessa, pur conservando l’indipendenza, avevo fatto il primo passo realmente politico partecipando al Consiglio di quartiere della mia circoscrizione su indicazione di un circolo della Dc bolognese che frequentavo. Quell’esperienza mi insegnò subito che in politica è fondamentale stare alla concretezza anche nelle scelte di coscienza: il capogruppo Dc era persona che, se un comunista diceva che oggi è giovedì – ed era giovedì – prendeva la parola per dimostrare che era domenica. Poiché i problemi di un quartiere non possono essere oggetto di grande divisione partitica, dopo aver votato più volte su problemi sociali di piccolo conto – come possono essere in una circoscrizione senza degrado – con il gruppo Due Torri, che nel 1970 a Bologna comprendeva ancora socialisti e comunisti uniti, abbandonai definitivamente la Dc, che aveva avuto a Bologna il precedente costruttivo – e consapevolmente sacrificale – di Giuseppe Dossetti, autore di un famoso “libro bianco” critico del sistema “comunista” bolognese, che era stato indotto nel 1956 dal card. Lercaro a presentarsi candidato sindaco con la certezza della sconfitta. Giuseppe Dossetti – poi don Giuseppe – rappresentava la coscienza civile di una fede religiosa, “politica” perché incarnata – e questo spiega la successiva scelta di vita religiosa – impegnata nel sociale (l’invenzione del decentramento urbano fu sua), ma estranea ai metodi clientelari di una Dc destinata a scomparire nel 1994. Per chi avesse perplessità sulla storia della Dc basta vederne le conseguenze nella deriva del consenso popolare, che finì per riversare i grandi numeri elettorali su Forza Italia. Non a caso Dossetti, quando Berlusconi tentò l’assalto alla Costituzione, tornò leader politico e alzò la voce guidando l’opposizione alla difesa democratica, uscendo dal riserbo e istituendo i “comitati” che presero il suo nome e che contribuirono a vincere il referendum sul presidenzialismo.
Un filo legava le esperienze del primo Dossetti a quelle degli anni Settanta – sessantotto compreso – che spostarono l’asse politico sul piano della laicità e accusavano la Chiesa di connivenza poco evangelica con un “partito dei cattolici”, ancora memore della scomunica contro l’ideologia comunista non più sentita necessaria in una società che reclamava i propri diritti, uguali per tutti.
Il Concilio dava i suoi frutti e la politica sociale contraddiceva la carica assistenzialistica e clientelare della DC: la “lotta di classe” era diventata parametro comune dell’agire politico. In campo ecclesiale i credenti a cui era vietato leggere la Bibbia, avevano scoperto l’ecumenismo e chiamavano “compagni” gli amici delle Acli rinnovate. Con i protestanti si pubblicò “COM” (diventato subito Com/Nuovi Tempi”), una parola interrotta per una “comunità” che sentiva un’eco positiva tra “comunione” e “comunismo”. Nacquero perfino i Cristiani per il Socialismo che in qualche modo cadevano nell’errore dei demo-cristiani. Erano gli anni propizi al cambiamento reale di cui anche Il Sessantotto studentesco dimostrava la necessità: troppe cose erano logore, bisognose di passi avanti per non restare bloccate nella conservazione. Anche l’opposizione di sinistra risentiva del freno di un passato che impediva le riforme e che reagiva con la divisione interna.
Sono passati gli anni e tra poco registreremo mezzo secolo dal 1976, quando le elezioni politiche videro avanzare il Pci italiano in un paese che non aveva mai sperimentato l’alternanza di governo – e in questo si configura il vizio d’origine della storia italiana -, se è vero che la Dc nel 1963 aveva incorporato nel sistema l’alleato Psi, che, con la segreteria Craxi, avrebbe superato le spregiudicatezza dei maestri. Io non ero comunista (il mio babbo socialista aveva contestato la nascita del Partito comunista d’Italia nel 1921, danno per Turati e beneficio per il già violento fascismo) mi ero impegnata a sostenere le libertà in anni in cui c’era un bisogno sentito di “più democrazia” a cui si contrapponeva l’insidia di disegni reazionari che tramavano contro lo Stato, pronti agli attentati non potendo tollerare la crescita di una sinistra progressista e istituzionale, nominalmente “comunista”. C’era stato un papa, Giovanni XXIII singolarmente coraggioso, la cui encicliche furono rivoluzionarie, c’era stato il Concilio Vaticano II e nella dinamica della storia i credenti sembravano aver perduto la patina di sospetto e timore che li teneva estranei alla vita politica e, in fondo, ignari della stessa Parola di Dio, che li teneva ancora lontani dalla lettura della Bibbia. A Parma i giovani “occuparono” il Duomo. A Brescia le donne “celebrarono”. La scuola passava attraverso i progetti di riforma restando asfittica, mentre i ragazzi avevano bisogno di respiro più libero. C’era stato il Vietnam. C’era stato il Cile e Berlinguer aveva scritto due articoli per avvertire le possibilità di ulteriori crisi (anche economiche) e reazioni da non sottovalutare. All’Abbazia Fiesolana p. Balducci pensava cose strane e personalità cattoliche di grande levatura si disposero a una scelta in sintonia con il progetto del segretario del partito comunista italiano – poco “sovietico” nella sua linea istituzionale – che auspicava un’unità delle culture comunista, socialista e cattolica.
Un “compromesso storico”, in una società civile plurale (non pluralista) in movimento, sembrava nelle cose. Nel 1976 divenne programma di quel partito di lotta e di governo, finalmente consapevole delle dinamiche storiche in cui avanzava diritti una società civile matura, progressista, perfino femminista ma anche “cattolica”, per la prima volta non intimidita dalla sua appartenenza di fede. Intelligentemente il partito diede vita a un gruppo parlamentare autonomo, la Sinistra indipendente, di cui si è perduta la memoria, ma che dava voce a una laicità libera dai lacci dell’obbedienza alle ideologie politiche, sia di partito, sia di una Chiesa tradizionalmente legata al partito cattolico. Tra gli indipendenti finii anch’io, richiesta dalle donne (che volevano un’indipendente) mentre il partito conosceva gli interventi sui problemi internazionali e pacifisti fatti con Pax Christi.
Contemporaneamente il malcontento della sinistra radicale giovanile con grandi responsabilità della parte – università di Trento – cattolica contro il malgoverno, alzava il tiro di rivendicazioni ritenute incompatibili con la lenta strategia delle riforme che accompagnava l’evoluzione del paese in cui all’on. Moro sarebbero arrivati i voti anche del Pci. Da tempo si era grandemente preoccupati: nessuno degli indipendenti, tanto meno i cattolici, pensava che quella stagione potesse essere rivoluzionaria. Anzi, la nostra presenza era già un inedito: simbolicamente apriva un percorso sperimentale. A Montecitorio la politica istituzionale era pane quotidiano, ma l’esterno introduceva ansie e premonizioni. Ero inquieta, una sera vidi il film di Bergman L’uovo del serpente e le scene devastanti delle prime azioni naziste mi inquietarono, rimasi agitata e insonne. Il 16 marzo 1978 avevo dormito fuori Roma e rientravo per andare a eleggere il. “nuovo” governo: il tassista mi disse del rapimento. Fu la fine delle inquietudini che non mi appartengono, il recupero della razionalità: all’ingresso di Montecitorio c’era Susanna Agnelli che, anche lei fredda e composta, mi disse “La Malfa è impazzito: chiede la pena di morte”. Poi in lacrime Tina Anselmi che ripeteva “Bisogna resistere, bisogna resistere…”. Lo sconvolgimento era di tutti, i democristiani amici non nascondevano il timore di essere coinvolti. Era l’effetto notte. Splendeva il sole ma era transitata l’ombra della storia, agita da forze che puoi mentalmente elencare, senza capire la follia degli esecutori. Che non potevi negare di aver in qualche modo conosciuto perché l’estremismo sta sempre nel contesto. Quando però arriva a colpire le istituzioni democratiche devi ristabilire i confini del potere, anche perché resta l’interrogativo del cui prodest, dei depistaggi percepiti, dell’interrogativo senza risposta di chi era il vero autore. Solo che il governo non poté andare all’on.Moro e la “sinistra estrema” (come era chiamato il Pci nei verbali d’aula) mantenne il primato/condanna all’opposizione. D’altra parte si sapeva che il “sogno” di Berliguer passava per un accesso al consenso popolare che non usciva dal processo elettorale: l’Italia del socialismo strozzata nel ’21 e non mantenuta autonoma da Nenni fu la più colpita. Tornò la “normalità”. Nel 1980 ci fu l’attentato alla stazione di Bologna: davvero Moro non era morto come conclude Bellocchio e faceva ancora paura. Nell’ ’84 moriva Berlinguer che Moro non poté votarlo ma vide la parabola discendente non nella sconfitta dei fatti, ma nella divisione del partito che lo lasciava osannare nelle piazze ma forse non lo avrebbe rieletto segretario: l’intervista a Scalfari è la confessione di uno sconfitto non dalle conseguenze in Parlamento, ma dall’opportunismo consociativo di quei compagni che avevano già inteso il compromesso storico con la Dc come approccio consociativo al potere sulla cosa pubblica che aveva già causato l’adozione di metodi e tecniche spartitorie nelle amministrazioni locali. Berlinguer le aveva bollate in aula come pericolo di partitocrazia e inutilmente si era richiamato alla “questione morale”. Il contagio. Anch’io chiudo il mio film con un “effetto notte”: perché il paese in quegli anni sarebbe stato già pronto per un partito democratico, ma il Pci aveva scelto il consociativismo dimentico del confronto con la sua piazza. Il Pci elesse alla presidenza della Repubblica Kossiga (1985) senza nemmeno aspettare l’abbassamento del quorum, fece decadere l’esperienza della Sinistra Indipendente, lasciò andare allo sbaraglio Stefano Rodotà, non salvò Prodi e aspettò l’89: per chiudere un capitolo scomodo della cui fine sapeva tutto ma al cui crollo non aveva preparato la sua gente. Non per dirsi che anche da opposizione in Parlamento doveva riprendere a giocare la carta del potere della minoranza che, corrispondente al governo, presenta le sue carte con competenza e coraggio per il bene del paese (come in fondo faceva il Pci) per dare fiducia alle aspettative allora non banali della gente, senza finalizzare il voto alle percentuali di possibili alleati vincenti. Prodi fece risorgere la speranza che, essendo la più difficile delle teologali, venne silurata non una volta sola per scarsa intelligenza politica.
Bellocchio proietta nel futuro un Moro che non è morto. D’accordo: ma allora rifacciamo i conti con la storia, apriamo le case e le piazze alla conoscenza e agli impegni di una politica matura, che riordini le idee e rifaccia coscienza sul proprio voto, sulle istituzioni, compresi i partiti, soprattutto compresa l’Europa. Fiducia o sfiducia significano capacità o incapacità di lettura della realtà. Senza illusioni, ma con la determinazione di chi fa della politica la questione morale della democrazia. Che è la condizione per avere rispetto di sé e dei propri interessi. Prendendo per mano i partiti che non sanno più a quale effetto notte stanno andando.
https://diariealtro.it/?p=8500

 

31 Luglio 2023Permalink