30 maggio 2012 – Da cingali a medam

Riprendo un articolo da Ho un sogno di maggio, come faccio ogni mese.
Da più di un anno Ho un sogno si occupa di storie di immigrati per scoprire le analogie che legano queste vicende a quelle degli emigranti. Lo scorso mese ce ne ha parlato lo scrittore Max Mauro, ora una voce di donna ci ricorda quanto la discriminazione sia crudele e mutevole.

SENZA COLPE, NE’ MERITI. Da cincali a medam.

Emigrata in Svizzera giovanissima ho scoperto di essere una “cincali”.
Così venivano chiamati gli emigranti italiani, una strana parola che, secondo alcuni sarebbe derivata dal suono “cinq”, ripetuto nel gioco della morra, secondo altri da “zingari”.
Comunque era un termine spregiativo, la sintesi di tutti gli stereotipi presenti nell’immaginario che ha accompagnato le nostre storie di emigrazione.
”Cincali” significava strimpellatori di mandolino, divoratori di pane e pomodoro, individui ignoranti che non amavano acqua e sapone e molto altro ancora. Persone di pelo e pelle scuri, pertanto di dubbia origine e natura. Ai “cincali” venivano riservati i lavori rifiutati dagli svizzeri, l’unica ragione che rendeva tollerabile la loro presenza. Bastava quella parola a creare una netta distinzione fra “noi” e “loro”. Era un ostacolo insuperabile al desiderio di vivere in armonia. In quanto a me, il solo fatto di essere italiana non mi consentiva vie di scampo, né io, del resto, avrei voluto rinunciare alla mia “italianità” per compiacere una falsa opinione. Mi rammaricavo, questo sì, di non poter frequentare giovani. Fra i miei coetanei svizzeri non c’era posto per noi “cincali”; anche i sogni erano diversi! E costretta in un mondo di soli adulti ho perso una piccola parte della mia giovinezza.
In breve tempo la vita mi ha portato all’altro capo del mondo, precipitandomi in una situazione completamente diversa. A Città del Capo, una città bellissima situata nella punta estrema dell’Africa e affacciata sullo stesso oceano che allora imprigionava Mandela, vigeva il regime di ”apartheid”.
La società era divisa in rigide classi sociali identificabili esclusivamente per il colore della pelle: nell’ordine: bianchi, gialli, meticci, colorati del Capo e nativi.
Una comunità minoritaria di individui dalla pelle bianca costringeva connazionali e immigrati di colore ad abbandonare la loro identità dotandosi di un nome facilmente pronunciabile dai bianchi e non permetteva loro di rivolgersi a me, giovane donna bianca, chiamandomi per nome.
Io per loro ero “medam” oppure “madame”.
Di nuovo una parola diventava strumento per impormi un’identità non mia, introducendomi nello schema del distacco, dell’ubbidienza dovutami da altri costretti ad accettare una condizione di sudditanza..
Avevo lasciato la Svizzera da pochi mesi ed ero precipitata di nuovo nella gabbia del ‘noi’ e del ‘loro’, nella crudeltà di una distanza costruita fra me e le persone di colore per renderci nemici.
Vittima anch’io dello schema della differenza, sono rimasta me stessa convinta che, se le geometrie della vita segnano i nostri limiti, la stupidità di chi vuole imporre il pregiudizio che umilia non può che essere causa di immenso dolore.              
Mary Silva Remonato

 

30 Maggio 2012Permalink