7 dicembre 2013 – Commissione per la Verità e la Riconciliazione

Frugando fra i miei vecchi appunti

 La Commissione per la Verità e la Riconciliazione (TRC, Truth and Reconciliation Commission) voluta da Mandela e diretta dal vescovo anglicano  Desmond Tutu rappresenta il passaggio fondamentale nella creazione del nuovo Sudafrica. Venne divisa in 3 sottocommissioni, il Comitato per la violazione dei diritti umani, il Comitato dell’amnistia e il Comitato per il risarcimento e la riabilitazione a cui si aggiungeva una sezione investigativa. La Commissione era composta da 17 membri di cui 5 donne, 3 uomini di chiesa, 2 avvocati e 3 giuristi. 2 erano “meticci”, 2 indiani, 2 afrikaner, 4 inglesi, 7 neri di cui 1 zulu. 

L’11 febbraio del 1990 Nelson Mandela fu liberato dopo 27 anni di dura prigionia, nella carceri della Repubblica del Sud Africa nata dal disfacimento del dominion del Commenwealth, e governata per molti anni attraverso gli strumenti più feroci della repressione razzista.
Dal carcere Mandela contribuì a dare consapevolezza di dignità politica a un popolo devastato dall’apartheid e frantumato nei bantustan.
Ma questa società che nasceva doveva far i conti con il proprio passato.
Secondo il Nelson Mandela la giustizia penale nella storia del secondo dopoguerra si era dimostrata essenzialmente una “giustizia dei vincitori” con la sua inevitabile selettività e opportunismo politico, lasciando le vittime in una posizione di profonda frustrazione e trasformando i pochi colpevoli puniti in capri espiatori della sofferenza collettiva. Inoltre la scelta giudiziaria rendeva protagonisti prevalentemente i criminali e i giudici, relegando ancora una volta al margine proprio chi più ha bisogno di raccontare e di essere ascoltato: la vittima
Fu così creata la Commissione per la verità e la Riconciliazione (CVT o  TRC, Truth and Reconciliation Commission) diretta dal vescovo anglicano Desmond Tutu.
Compito della Commissione era quello di portare alla luce i crimini commessi facendo in modo che i responsabili si presentassero al fine di confessare di fronte alle vittime riconoscendo i loro delitti. Ciò permetteva una presa di coscienza collettiva dei fatti e un lavoro di rielaborazione e di analisi collettiva lasciando spazio al dolore e alla rielaborazione e in alcuni casi anche al pentimento.
Successivamente la TRC avrebbe deciso se concedere o meno l’amnistia. Le udienze raccolsero tutte le testimonianze e le prove di cui c’era bisogno, avvolgendo la società in una tensione morale e politica di forte intensità capace di far emergere il dramma vissuto. L’amnistia non era però automatica, infatti non sempre fu concessa.
Aver scelto di lavorare sulla verità piuttosto che sulla giustizia come elemento centrale dell’analisi del passato ha voluto dire imporre un lavoro di ripensamento collettivo che ha visto entrambe le parti in lotta ammettere abusi e violenze (senza mai mettere sullo stesso piano i gli oppressori e gli oppressi) stimolando la riconciliazione e la ricostruzione su basi il più autentiche possibili la collettività ferita.

Nel 2002 (a lavori conclusi: la commissione operò dal 1995 al 1998)
Desmond Tutu dichiarò tra l’altro:

La Commissione per la Verità e la Riconciliazione fu istituita per superare uno stallo politico, a partire dalla constatazione che, se non si fosse approntato un meccanismo per gestire le ingiustizie del passato, quelle stesse ingiustizie avrebbero continuato ad affliggere il nuovo governo e a minacciare le fragili strutture della giovane democrazia. Non c’era nessuna richiesta nell’Atto costitutivo che le persone perdonassero o fossero perdonate. Le occasioni in cui i persecutori hanno chiesto il perdono alle proprie vittime sono state il frutto di un’esigenza umana individuale. La Commissione per la Verità e la Riconciliazione è stata un forum sensibile nel quale sia le vittime che i carnefici hanno avuto la possibilità di confrontarsi come esseri umani. Alcuni hanno avuto il merito di riconoscere la nostra comune vulnerabilità come creature umane, e in quel contesto di dare e ricevere perdono.
I passi da compiere per il perdono e per la ricomposizione di un rapporto spezzato sono chiari. In primo piano stanno il riconoscimento di un comportamento sbagliato, l’ammissione e le scuse a coloro che sono stati colpiti da questo comportamento sbagliato. Le scuse potranno essere accettate, si potrà essere perdonati, ma la genuinità del pentimento deve essere dimostrata dalla forma della riparazione. Se io ho rubato la tua penna e me ne scuso e tu mi dici che mi perdoni per la mia mancanza, le mie scuse non avranno valore finché non ti rendo la penna o non attuo qualche altra forma di riparazione.
La Commissione per la Verità e la Riconciliazione non ha operato per punire gli errori del passato perché questo sarebbe stato un obiettivo impossibile. Ha operato per creare un clima che incoraggiasse la riconciliazione e in questo senso credo che sia stata ampiamente efficace. La Commissione ha dato voce e riconoscimento a chi era ferito ed è stato ferito per anni. Per esempio, una delle vittime, che ha perso la vista dopo essere stato ferito dalla polizia, ha ringraziato la giuria dei commissari per avergli concesso l’opportunità di raccontare la sua storia e ha concluso: “Oggi mi avete restituito i miei occhi”.
Dopo la Commissione, nessun sudafricano potrà dire “Io non lo sapevo”. Una grande quantità di nuove informazioni è venuta alla luce. Abbiamo conosciuto la verità su molti incidenti di cui prima non si sapeva nulla. Persone che erano “scomparse” sono state dissepolte dalle fosse comuni e i loro cari hanno potuto celebrare i funerali e seppellire di nuovo i loro morti dignitosamente. Sono convinto che l’operato della Commissione abbia fortemente contenuto il pericolo del ripetersi della spirale di violenza.

http://www.centraldocinema.it/Recensioni/Mar04/country_of_my_skull.htm

L’arcivescovo presiede la prima udienza

Il primo giorno,
dopo poche ore di testimonianze,
l’arcivescovo ha pianto.
Ha appoggiato il capo grigio
sul lungo tavolo
di carte e protocolli
e ha pianto.

Cameramen nazionali
e internazionali
hanno ripreso il suo pianto,
le lenti appannate,
le spalle singhiozzanti,
la richiesta di aggiornamento.

Non importa quello che pensavate
-prima o dopo- dell’arcivescovo,
dell’accordo, della commissione,
o quello che gli antropologi accorsi
da crimini e dolori meno studiati,
hanno detto del suo discorso,
ne quante tesi di dottorato,
libri, e istallazioni ne siano derivate
e neppure se pensate che questa poesia
semplifichi, celebri
romanticizzi, mistifichi.

C’era il lungo tavolo, abiti porpora inamidati
e dopo poche ore di testimonianze
l’arcivescovo, presidente della commissione,
ha appoggiato il capo sul tavolo e ha pianto.

È così che è cominciato.

http://www.centraldocinema.it/Recensioni/Mar04/country_of_my_skull.htm

La pace siamo noi a cura di Laura Barbieri
Il Nuovo Rinascimento n.317 1 dicembre 2004

. Mi riferisco all’opera della Commissione per la verità e la riconciliazione sudafricana, che ha cercato di sanare le ferite di una nazione nella quale oppressori e oppressi dovevano imparare a convivere pacificamente dopo decenni di violenza inaudita. Il principio-cardine del lavoro della Commissione, evidentemente largamente condiviso dalla popolazione, è quello dell’/ubuntu/. Desmond Tutu, che ha presieduto quella Commissione, cerca di spiegarlo con queste parole: «/Ubuntu/ è molto difficile da rendere in lingua occidentale. È una parola che riguarda l’intima essenza dell’uomo. È come dire: “La mia umanità è inestricabilmente collegata, esiste di pari passo con la tua”. Facciamo parte dello stesso fascio di vita» (Desmond Tutu, /Non c’è futuro senza perdono/, Milano, Feltrinelli, 2001, pag. 32). Allora intervenire in maniera non rispettosa, violenta, nei confronti dell’altro significa provocare una lacerazione in questo tessuto che è la vita, e dunque provocare una ferita, un trauma che colpisce noi e l’altro con la stessa intensità. /Ubuntu/, in termini buddisti, significa che la compassione nasce da /engi/, cioè dalla consapevolezza di essere forme diverse di una stessa vita comune. Sono come le due facce di una medaglia: più mi stanno a cuore le vicende degli altri, più percepisco il legame che unisce ogni esistenza in un’unica vita; e viceversa, più mi sento parte di tutto ciò che vive, più sono coinvolto dalla vita altrui. Il continuo approfondimento di questo processo conduce a comportamenti sempre più rispettosi dell’altro e genera azioni di pace. Per questo i costruttori di pace come Ikeda e Tutu dichiarano in ogni occasione che la realizzazione della pace dipende dall’impegno in questa direzione da parte di ognuno di noi. Entrambi nutrono una fiducia ferma e profonda nelle potenzialità costruttive di ogni essere umano. Tanto che Ikeda indirizza la sua proposta di pace alle persone comuni, alla ricerca di un terreno concreto d’azione, nella convinzione che reagendo al sentimento di estraneità e di impotenza e attivando invece la partecipazione si possa invertire la rotta attuale verso il conflitto, la disarmonia e l’ostilità fra esseri umani. Per dirlo con parole sue: «Qualunque tentativo di affrontare i problemi globali senza prendere pienamente in considerazione la nostra realtà immediata non costituirà mai una soluzione definitiva. In quest’ottica, credo fortemente nel valore delle azioni intraprese da ognuno di noi per fare il primo passo dal punto in cui ci troviamo proprio ora» (/Buddismo e Società/, n. 103, pag. 18).
http://www.sgi-italia.org/riviste/nr/InternaTesto.php?A=824&R=0

7 Dicembre 2013Permalink