2 luglio 2018 – Ho un sogno n.252

E’ uscito il Bollettino mensile HUS.
Ne riporto l’ editoriale e due articoli con la mia firma.

PER UNA CONVIVENZA SOCIALMENTE DESIDERABILE

Quando nel 1991 abbiamo iniziato a pubblicare Ho un sogno coltivavamo la speranza di giungere in pochi decenni a una società pacifica, solidale e aperta. Sembrava un’e¬voluzione scontata, frutto della sempre più ampia evidenza scientifica e della crescita culturale, che avrebbero portato a dare attenzione ai veri problemi del nostro pianeta: l’evoluzione climatica, la perdita di biodiversità, l’accesso equo alle risorse e ai benefici in un’economia sempre più concentrata nelle mani di piccole élite. Così non è stato.
L’Unione europea che costituiva uno dei nuclei più elevati di apertura a un futuro sostenibile e di relazioni eque con il resto del mondo, si è chiusa in una fortezza, attenta agli egoismi nazionali e alla “pancia” dei propri elettori. Le migrazioni e l’accoglienza dei rifugiati sono passati da aspetti importanti da governare a temi utili per riaffermare visioni nazionalistiche e per costruire il consenso all’interno dei singoli Paesi.
La scarsa attenzione al rispetto del diritto internazionale e al compimento degli accordi tra gli Stati membri, basi morali e giuridiche del progetto europeo, unite all’irrespon¬sabilità dei politici populisti hanno alimentato il senso di insicurezza personale e di marginalità e generato sentimenti di rivalsa e di rabbia. La voglia di cambiamento, in particolare tra i giovani, si è rivolta verso i movimenti xenofobi e posizioni “sovraniste”, che privilegiano le parole d’odio e lo scontro al dialogo e alla collaborazione.
Che fare? È senz’altro importante, anzi necessario, costruire una forte opposizione a qualsiasi politica che alimenti esclusione e odio, in particolare quando si prendono di mira gli ultimi e su questo numero di Ho un sogno, segnaliamo alcune azioni concrete in questa direzione. Ciò che non è opportuno fare è approfondire il solco tra le persone e i gruppi che hanno visioni diverse, tra un noi, spiriti liberi e solidali e un loro, cinici e razzisti. Al contrario, è utile aprire ambiti di dialogo, di ascolto attivo di posizioni e interessi diversi, di riflessione più profonda di quella veicolata attraverso i social media. Perché il nostro cammino di civiltà è sicuramente meno lineare di quanto atteso, ma non può che essere inclusivo e popolare. Come ricordava Alex Langer, il grande costruttore di ponti tra comunità, che ci ha lasciato proprio ai primi di luglio del 1995, un futuro per affermarsi deve essere non solo giusto, ma socialmente desiderabile.
(Alex Langer morì il 3 luglio 1995 – data segnalata nel mio post di ieri)

Per lui non è finita la pacchia è finita la vita – 1 giugno 2018.
Soumaila Sacko è morto colpito da un proiettile in testa mentre stava recuperando alcune lamiere in un vecchio stabilimento ab¬bandonato in località “ex Fornace” di San Calogero. Era un mi¬grante regolare del Mali, bracciante sfruttato nei campi agricoli di Reggio Calabria, padre di una figlia di 5 anni. Soumaila era impegnato nella lotta allo sfruttamento e lavorava per un salario di tre euro l’ora al giorno. Era un sindacalista che aiutava i suoi compagni ad avere più diritti. 
Dopo aver ricevuto nel nostro Paese il saluto degli sfruttati come lui, Soumaila Sacko è tornato nel suo paese, il Mali, accolto dall’affetto e dal dolore straziante dei suoi familiari. Ma, come ha dichiarato Livia Turco, Soumaila Sacko deve continuare a vi¬vere in mezzo a noi. Abbiamo bisogno di vedere il suo volto per ri¬trovare noi stessi, la nostra dignità di popolo, la nostra etica pub¬blica di paese solidale, la nostra radice di popolo di emigranti. Il
volto di Sacko per ricordarci quello dei nostri connazionali morti a Marcinelle, quelli morti sui barconi che salpavano gli oceani per andare nelle Americhe. Abbiamo bisogno del volto di Sacko in mezzo a noi per rimetterci in viaggio, per ritrovare l’orgoglio dei nostri valori e delle tante battaglie compiute in passato. Per sollecitare ciascuno di noi a costruire un legame umano e sociale con le persone che ci vivono accanto. Anche quando sono immi¬grati. Insieme si possono costruire quartieri più vivibili. Può tor¬nare in gioco l’umanità di ciascuno, si può affrontare finalmente il grande assente dalle politiche pubbliche e dal dibattito pub¬blico che è la costruzione della convivenza, compito non facile perché significa superare le distanze, avere e praticare obiettivi comuni per la comunità. Come sanno bene tanti italiani che que¬sta fatica e bellezza della convivenza l’hanno scoperta e la prati¬cano da tanto tempo. Non esiste solo il risentimento e la paura.
Ho il sogno che un giorno tutti gli uomini si alzeranno in piedi e si renderanno conto che sono stati creati per vivere insieme come fratelli. Questa mattina ho ancora il sogno che un giorno ogni nero della nostra patria, ogni uomo di colore di tutto il mondo, sarà giudicato sulla base del suo carattere piuttosto che su quella del colore della sua pelle, e ogni uomo rispetterà la dignità e il valore della personalità umana. Ho ancora il sogno che un giorno la giustizia scorrerà come acqua e la ret-titudine come una corrente poderosa. Ho ancora il sogno che un giorno la guerra cesserà, che gli uomini muteranno le loro spade in aratri e che le nazioni non insorgeranno più contro le nazioni, e la guerra non sarà neppure oggetto di studio.
Martin Luther King (a 50 anni dal suo assassinio – 4 aprile 1968).

E non basta. Così nel numero di marzo (HUS 251)
Il 5 marzo muore a Firenze Idy Diene, un senegalese di 54 anni, freddato a colpi di pistola sul ponte Vespucci dove vendeva ombrelli.
Anche il suo assassino ha un nome: è un ex tipografo in pensione Roberto Pirrone che, dopo essere stato arrestato, ha dichiarato di aver sparato a caso contro il primo che passava perché, uscito di casa per suicidarsi, non aveva avuto il coraggio di farlo. Dai frammenti di notizie che si colgono la prigione gli sembrava una garanzia di sopravvivenza fuori della sua abitazione dove si affollavano difficoltà di ogni genere e dove la polizia ha trovato numerose armi, legalmente in suo possesso.
La storia, che si muove fra odio, violenza e dolore, ha un’altra protagonista, una donna senegalese, Rokhaya Mbengue. Viveva nel suo paese quando le era giunta la notizia della morte del primo marito, Samb Modou, assassinato il 13 dicembre 2011 in piazza Dalmazia a Firenze dall’estremista di destra Gianluca Casseri. Con lui era stato ucciso il suo connazionale Diop Mor.
Rokhaya allora era emigrata in Italia per continuare l’impegno a far studiare in Senegal la figlia Fatou. Qui era stata aiutata da Idy Diene, cugino del marito, che nel 2011 si era fatto carico del rientro nella sua terra della salma di Samb. Infine lo aveva sposato e così lo descrive “La mia vita insieme a Idy è stata bellissima: Idy era una brava persona, era gentile, il suo cuore era puro come quello di un diamante”.
Con la salma di Idy che deve tornare in Senegal se ne vuole andare anche Rokhaya per ricongiungersi alla figlia. Per garantirle gli studi subiva il pregiudizio e tollerava il disprezzo.-“A volte salgo sull’autobus e mi siedo. E subito quello che è accanto a me si alza perché io sono nera”. Ora ha paura. E’ cittadina italiana ma il colore della sua pelle si è fatto per lei condanna irrimediabile nel paese che pretende di essere suo.
Gli insulti che Rokhaya subiva hanno un fattore di crescita anche nella pratica del bullismo che crea spesso azioni collettive contro persone deboli che possono essere perseguitate senza che ne ricada un danno sui persecutori. Era una pratica che ai tempi del servizio militare obbligatorio assumeva nelle caserme le caratteristiche di un feroce rito iniziatico, un rito che si ripeteva grossolano e anche spietato nelle università per le matricole. Si è poi sviluppato come bullismo contro i gay, i disabili, gli stranieri.
Proprio in quei primi giorni di marzo, quando veniva assassinato Idy Diene, si consumava l’agonia di Mariam Moustafa, italiana di origine egiziana, una ragazza di 18 anni nata e vissuta in Italia.
Da qualche tempo la famiglia si era trasferita in Inghilterra sperando di trovarvi migliori opportunità di vita. Mariam era iscritta al Nottingham College dove studiava ingegneria.
Picchiata ferocemente il 20 febbraio da un gruppo di ‘bulle’, sembra non avesse neppure ricevuto cure appropriate nell’ospedale dove era stata ricoverata e il 14 marzo cessava di vivere.
Raccontando questa vicenda il linguaggio giornalistico testimonia l’uso di un femminile che è difficile trovare nei dizionari. Di fatto però al bullo si unisce la bulla non solo in Inghilterra.

Informazione: Chi volesse prendere visione di HUS può rivolgersi alla libreria CLUF di via Gemona 22 o, per riceverlo,  scrivere a asspp -at – iol.it

2 Luglio 2018Permalink