6 giugno 2023 _ Ancora il caso Mortara

Pagine Ebraiche 24 / L’Unione Informa 6 Giugno 2023 –       17 Sivan 5783

 

IL CONFRONTO SUL FILM “RAPITO” DEL REGISTA MARCO BELLOCCHIO

                            Il caso Mortara e i riflessi nel presente

Pubblicato in Attualità il 06/06/2023 – 17 סיון 5783  

Quella che era una vicenda conosciuta dagli storici e da un pubblico relativamente ristretto, è ora nota a un largo pubblico. Per il quale il nome di Edgardo Mortara è uscito finalmente dall’ombra, diventando argomento di confronto e dibattito. È uno dei frutti più concreti di “Rapito”, l’ultimo film di Marco Bellocchio. Da giorni se ne parla sui giornali, ma anche durante tavole rotonde e incontri volti a sviscerarne i contenuti. L’ultimo dei quali si è tenuto a Roma, presso la Fondazione Ernesta Besso. Un’occasione per discutere di “battesimi forzati in margine al film di Bellocchio”, con la partecipazione del regista stesso, del rabbino capo rav Riccardo Di Segni e degli storici Marina Caffiero e Alberto Melloni. In apertura un saluto di Caterina De Mata, presidente della Fondazione.

“Uno dei tanti meriti di questo film sta non solo nella sua oggettiva bellezza, molto intensa e piena di tensione. Ma anche nell’aver riproposto all’attenzione di un pubblico vasto una questione delicatissima. Che non dovrebbe più suscitare controversie ma che invece, come abbiamo visto, le ha suscitate. Anche di questo è importante discutere” la riflessione introduttiva della professoressa Caffiero, autrice di un documentato saggio sui Battesimi forzati, nel fare riferimento ad alcune reazioni da parte del mondo cattolico che hanno suscitato allarme.

Argomento cui si è riallacciato tra gli altri il rav Di Segni, segnalando come il tema delle conversioni costituisca, ancora oggi, uno degli impedimenti più vistosi nel procedere del dialogo ebraico-cristiano. Proprio per l’approccio manifestato da chi il dialogo sceglie di praticarlo per attrarre a sé l’altro, nel segno di “una visione distorta” di come la relazione debba svolgersi. Un tema riemerso in questi giorni con forza nel dibattito pubblico, “con una tendenza a giustificare quel che è successo” che preoccupa.

Grande interesse, naturalmente, per le parole del regista. “Questo film l’ho fatto per l’entusiasmo di farlo”, ha tra l’altro affermato. Ad avvicinarlo alla storia del piccolo Edgardo “la forzatura interna all’educazione cattolica” di cui fu vittima, che l’ha portato anche a ripensare alla sua di educazione. Altri registi avevano pensato di fare il film prima di lui, a partire da Steven Spielberg. Una sfida quindi importante. Per prepararsi alla quale, ha detto Bellocchio, “ho parlato con vari esponenti della comunità ebraica e letto molti libri”.

Stimolanti anche le riflessioni di Melloni, storico della Chiesa e direttore della Fondazione per le Scienze Religiose di Bologna, su come funzionava “il meccanismo di potere del cattolicesimo romano” di quel tempo” e su come era impostata in particolare la sua relazione con l’ebraismo. Non cittadino ma suddito di un regime la cui teologia era intrisa di un antisemitismo di matrice religiosa dalle molte e nefaste conseguenze. Spazio anche alle parole del pubblico, con un intervento tra gli altri della professoressa Elèna Mortara, grande esperta del caso e pronipote di Edgardo.

Proprio Mortara sarà tra i relatori del prossimo evento dedicato al caso Mortara: la presentazione – giovedì 8 giugno alle 18.30, presso il Museo ebraico di Roma – del romanzo di Daniele Scalise “Un posto sotto questo cielo”. Interverranno anche l’autore, il rav Di Segni, il professor Melloni e Gianni Yoav Dattilo, con la moderazione di Maria Antonietta Calabrò.

 

 

6 Giugno 2023Permalink

3 giugno 2023 – RAPITO. Una recensione di Giorgio Placereani

sabato 3 giugno 2023  Rapito

Marco Bellocchio

 

Rapito è il miglior film di Marco Bellocchio fin dai tempi di Sangue del mio sangue – a parte il magnifico non-fiction Marx può aspettare – superando d’un balzo alcune opere interessanti ma meno convincenti (compreso, a minoritario parere di chi scrive, Esterno notte, decisamente inferiore rispetto al capolavoro sullo stesso caso Moro Buongiorno, notte del 2003). Più che gli ultimi film, Rapito appare come una summa convincente dei temi bellocchiani. E’ un film in costume su una storia vera che si svolge nell’arco di un quarto di secolo, dal 1858, cominciando nello Stato della Chiesa e finendo nella Roma italiana. Il cinema di Bellocchio è cinema di pulsioni e di rottura narrativa inserite nella bellezza assoluta della forma; come per esempio ne La balia, qui l’aderenza storica contribuisce a dare una griglia a questa dialettica. Com’è noto, il film è la storia del “rapimento di Stato” del bambino ebreo Edgardo Mortara. Una domestica cattolica lo aveva battezzato segretamente quand’era in culla; alcuni anni dopo, allontanata dalla famiglia Mortara per dei piccoli furti, ha rivelato il segreto (per soldi) al Santo Uffizio; e questo, dichiarando che il bambino ora è cristiano, lo strappa alla famiglia per allevarlo nella fede cattolica.
Appare già nei dettagli del rapimento del piccolo Edgardo (Enea Sala) – la corsa in carrozza nella notte, il viaggio in barca nella nebbia – quell’elemento gotico che è così presente in Bellocchio (ne è un manifesto, per fare un titolo, Il regista di matrimoni). Ma dal punto visivo – nella bellissima fotografia di Francesco Di Giacomo – bisogna segnalare innanzitutto l’uso ritornante di strutture architettoniche in esterni (facciate di chiese) o interni in inquadrature frontali, centrate, opprimenti, che riempiono lo schermo e schiacciano la vista. Queste inquadrature ossessive ben rappresentano il peso delle costruzioni psicologiche che pesano sulla vita dei personaggi. Anche dopo la morte del papa: vedi il “peso” visivo di Castel Sant’Angelo sullo sfondo, qui però in campo lungo, alla fine della scena della “bestemmia” e della fuga di Edgardo adulto (Leonardo Maltese) durante il funerale di Pio IX, sulla quale ritorneremo. Ovviamente lo stesso vale per il muro di Porta Pia, che però (con simbolismo un po’ ovvio ma forse inevitabile) crolla sotto le cannonate italiane del 20 settembre 1870.

Il rapimento del piccolo Edgardo diventa una lotta impari tra gli ebrei e la Chiesa, nonché un caso internazionale, con il papa Pio IX (Paolo Pierobon) che si contrappone al mondo, anche a parte di quello cattolico, in una specie di solipsismo sacro. Dall’altra parte stanno i coniugi Mortara (Fausto Russo Alesi e Barbara Ronchi). Si crea perfino un elemento di tensione fra il padre e la madre, che ci fa temere (“temere” perché è impossibile non sentire un’adesione simpatetica) la rottura della famiglia. Non perché il padre abbia un atteggiamento compromissorio: ma riconosce con dolore un principio di realtà che le donne di Bellocchio non accettano mai.
Marco Bellocchio è in toto un figlio del Sessantotto, non per tematiche specifiche o perché ne riprenda l’ingenuità politica, ma per un principio mai mutato nel suo cinema: l’opposizione irriducibile alla “legge del Padre” e all’istituzione – a onta dei consigli “riformisti”, dallo psichiatra di Vincere al portavoce degli ebrei romani nel presente film. In tutto il suo cinema la donna, l’elemento femminile, è il grande portatore di questa irriducibilità. Qui la rappresenta Marianna Mortara, che nell’incontro con Edgardo gli strappa la catenella con la croce cristiana e la getta a terra (come già in un passaggio di Sangue del mio sangue).

Rapito è un film disperato: non perché è la cronaca di una prepotenza di Stato ma perché è il grido di una scissione, il lutto di un’anima, con la stessa forza, o quasi, di Vincere (dove essa si fondeva con la nevrosi di una nazione). Ci pone di fronte a un mistero: la trasformazione di Edgardo da rapito a credente – a iniziare dal rapporto col crocifisso, il primo segno della religione cristiana che lo ha colpito da piccolo. Va detto che un tema sotteso del film è la riflessione sulla potenza della parola, terribilmente importante in Bellocchio. Non è, quello di Edgardo, un lungo lavaggio del cervello, non è una sindrome di Stoccolma: è una fascinazione che inizia subito (le soggettive delle statue in chiesa non sono solo uno sguardo di scoperta).
Questa scissione dell’anima appare già nella strana duplicità del bambino, con la sua freddezza negli incontri coi genitori, che si rompe solo, a sorpresa, alla fine dell’incontro con la madre. Questo ci fa capire come il grande tema del cinema di Bellocchio, il riconoscimento impossibile, possa essere contenuto in realtà nel tema dell’identità.
Ritorna in Rapito l’elemento visionario che caratterizza il cinema di Bellocchio. Accennato nelle vignette satiriche che si animano, esplode nell’incubo di papa Pio IX su un gruppo di ebrei con addosso i taled, gli scialli rituali, che circondano il suo letto e lo circoncidono; nell’apparizione onirica dei genitori accanto al letto di Edgardo adulto, presagio di morte (“Edgardo, noi ce ne andiamo”, dice il padre nel sogno); soprattutto, nella vivificazione allucinatoria quando Edgardo bambino va di notte in chiesa, si arrampica fino alla grande statua del crocefisso, strappa i chiodi dalle mani e dai piedi, e dopo un intenso campo/controcampo il Cristo si anima, si alza, scende dalla croce, si toglie la corona di spine. Nel nome del padre conteneva un’allucinazione simile con la statua della Madonna. Solo che qui il Cristo volta le spalle e si allontana.

Il cinema di Bellocchio si situa in modo bruciante entro due poli: la Legge del Padre e la ribellione. Il personaggio di Edgardo è ancora più complesso perché si dibatte fra due Leggi e due figure di padri. Perché al centro del film stanno (ricordiamo che il cinema di Bellocchio è un cinema della ricerca/dell’uccisione del padre) stanno due figure di padri, paralleli e contrapposti: il padre carnale Mortara e il papa Pio IX. Sigmund Freud leggerebbe qualcosa (già lo fa il papa stesso) nella foga con cui Edgardo adulto, precipitandosi su di lui per baciargli la mano, lo fa cadere.
Non è per caso che il film sia così fortemente giocato sul parallelismo, per esempio nel montaggio parallelo della messa in latino cui assiste Edgardo e del rito ebraico in casa Mortara. Connesso al parallelismo è l’uso frequente della replica, non in modo intellettualistico ma piuttosto giocato in analogie nascoste. Alcuni esempi: nel gioco a nascondino dei seminaristi, Pio IX per scherzo prende Edgardo e lo nasconde sotto le proprie vesti; e questo è un raddoppiamento rispetto alla scena drammatica dell’inizio in cui era stata la madre a nasconderlo sotto la gonna sperando di sottrarlo alla cattura. Ancora: segue la scena dell’insurrezione di Bologna, aperta con suore e pretini in fuga che richiamano visualmente il gioco ad acchiapparella della precedente. E ancora: vediamo la caduta della statua di San Pietro abbattuta, e subito dopo, analogia ma anche diminutio, una caduta di Pio IX in preda a un attacco epilettico.

Abbiamo menzionato la ribellione. Essa compare nel gesto di Edgardo, subito dopo il rapimento, di recitare la preghiera ebraica nel letto di nascosto, e si esplicita alla fine dell’incontro con la madre: dove il bambino rimane distaccato come nell’incontro precedente col padre, anche quando lei gli strappa la croce; ma poi d’improvviso, con una subitaneità sconvolgente, corre da lei e grida che dice le preghiere ebraiche ogni sera e implora “Voglio tornare dai miei fratelli!”
Questo tuttavia rientrerebbe ancora nei canoni del realismo psicologico. Molto più importante è la stupefacente scena che ha luogo dopo un’ellissi di dieci anni, con Edgardo ora adulto e convintamente cattolico, dopo la presa di Roma e dopo che ha rifiutato di tornare alla famiglia (“Il battesimo mi ha salvato”). Ora Pio IX è morto; durante la traslazione della salma al Verano, nel 1881, la plebaglia attacca il corteo e vuole buttare il cadavere nel Tevere. Edgardo è nel corteo e si batte per difendere il carro funebre – importante il suo grido “E’ morto! E’ morto!” – ma poi all’improvviso cambia posizione e grida “Sì, lo buttiamo nel Tevere, ‘sto porco di un papa!”. Poi fugge. E’, questo, un momento centrale del film, dove si ripete quell’esplosione ricorrente nel cinema di Bellocchio che è la bestemmia. Un momento che che non rappresenta una rovesciamento di posizione del personaggio, il quale infatti rimane nella chiesa cattolica (cercherà persino di battezzare la madre in punto di morte), bensì, ancora, la sua scissione. Infatti, segue una sequenza conclusiva terribile. La madre è sul letto di morte (il padre è morto da tempo) ed Edgardo si presenta in casa Mortara per la prima volta. Ben accolto da fratelli e sorelle, viene portato in camera della madre, e fa per battezzarla con l’acqua santa. Lei gli ferma la mano: “Io sono nata ebrea e morirò ebrea”; si copre il viso, recita la preghiera ebraica e muore.
La splendida inquadratura finale presenta, in un bilanciamento dell’immagine, la sintesi visuale di un’unità irrevocabilmente spezzata, attraverso un bellissimo surcadrage. Nell’apertura dello spazio a sinistra vediamo Edgardo (attaccato dal fratello) accasciato; in quello analogo a destra la camera della madre morta; e al centro in primo piano, ma non come elemento di mediazione, quel tavolo che nel corso del film ha rappresentato l’unità familiare (anche sotto il profilo religioso) ma ora è vuoto e abbandonato.

Premesso che tutta la storia cinematografica di Bellocchio, da I pugni in tasca a Marx può aspettare, ce lo rivela come il più profondamente, e dolorosamente, autobiografico dei grandi registi italiani (non l’ovvietà mnemonica di Fellini, non il maledettismo un po’ compiaciuto di Pasolini, e neppure la Aufhebung quasi serena di Bertolucci): l’ipotesi è che Bellocchio veda in Edgardo qualcosa di analogo alla propria fascinazione – una repulsione che contiene un elemento di attrazione – verso il cattolicesimo e la sua pompa (fondamentale in questo senso era già Nel nome del padre). Questo regista ateo ha sempre sentita fortissima la presenza della religione cattolica – e qui possiamo ripensare non solo alla sua educazione dai Barnabiti ma alla madre religiosissima, ossessionata dal peccato, di cui ci racconta in Marx può aspettare. E’ uno dei tratti che lo apparentano a Buñuel. Ciò lancia forse una luce, a contrariis, sulla scissione di Edgardo? Quel ch’è certo, lo sguardo su questa scissione – che non arriva a risolverla, ma la presenta con una profondità che potremmo definire quasi shakespeariana – è la ricchezza maggiore di un film molto ricco.

 

3 Giugno 2023Permalink

23 aprile 2023 – 25 aprile, letto nelle ‘Pagine Ebraiche’

Da Pagine ebraiche   –   Le istituzioni e il 25 Aprile

Nessuna polemica sul 25 Aprile. Questa, secondo il Corriere, la linea impartita da Giorgia Meloni nell’occasione dell’ultimo Consiglio dei ministri. L’appello della premier, si legge, “avrebbe prodotto un primo effetto: anche i più recalcitranti si sono convinti dell’opportunità di partecipare alle celebrazioni”. Quanto a Meloni, rileva il Corriere, “nell’agenda di Palazzo Chigi c’è un solo appuntamento”. E cioè la tradizionale deposizione di una corona d’alloro, all’Altare della Patria, da parte del Presidente Mattarella (che sarà poi a Cuneo, Borgo San Dalmazzo e Boves, in luoghi di grande significato per la Resistenza). In merito al 25 Aprile, prosegue l’articolo, i suoi collaboratori “non confermano l’intenzione di Meloni di scrivere un post da lanciare sui social, né la voglia di far sentire pubblicamente la sua voce”.

Tra le posizioni in evidenza sui giornali quella del presidente del Senato Ignazio La Russa, secondo il quale le sue parole sul termine antifascismo non presente nella Costituzione sarebbero state “stravolte”. La Russa sostiene di non dover rettificare “niente” in merito a quanto espresso. Al Corriere affida il suo pensiero Lorenzo Fontana, il presidente della Camera, che in una intervista dice di riconoscersi nel fatto “che il 25 Aprile debba essere la festa di tutti” e di ritenere l’antifascismo “un valore”. Sarebbe invece un errore, la sua opinione, “festeggiare la Liberazione come se fosse la festa solo di una parte, perché il suo valore è proprio questo: alla Resistenza hanno partecipato non soltanto comunisti e socialisti, ma anche liberali, monarchici e tanti cattolici”. La Liberazione, prosegue, “è stata il fondamento di questo Paese”.

Vari organi di informazione riferiscono di tensioni interne alla maggioranza. Secondo La Stampa “gli ammiccamenti al ventennio imbarazzano il centrodestra, dalle dichiarazioni di Ignazio La Russa adesso prendono le distanze anche Forza Italia e Lega e lo stesso presidente del Senato interviene per precisare il senso di quelle sue frasi”.

Molte le pagine e le opinioni sul 25 Aprile. Massimo Giannini, il direttore della Stampa, scrive in un editoriale di attendere cosa dirà Meloni “per capire se anche stavolta se la caverà evitando di pronunciare la parola ‘fascismo’ (come è riuscita a fare a proposito della Shoah o delle leggi razziali del ’38), oppure dicendo che nel Ventennio lei non era nata e che dunque anche il 25 aprile del ’45 va consegnato ai libri di Storia”. Tra le mancanze imputate alla premier quella di aver “taciuto sulle manipolazioni e sulle provocazioni di Ignazio Benito La Russa: alle prime appartengono le sparate sull’eccidio di Via Rasella, compiuto dai partigiani criminali a spese di una ‘banda di pensionati altoatesini’; alle seconde si iscrive l’ultima, di tre giorni fa, con la quale il presidente del Senato ha tenuto a far sapere agli italiani che nella Costituzione non c’è la parola antifascismo”. L’attore Stefano Massini (Repubblica) scrive di essere stato convinto a lungo “che dietro i continui attacchi all’antifascismo non ci fosse un preciso costrutto, ma solo sguaiato revanscismo cameratesco, legittimato dall’opinabile teoria che l’esito elettorale del 2022 sdoganasse full optional l’armamentario dottrinale di Salò, Predappio e mete affini del black tour”. Adesso invece spiega di aver “mutato opinione” e di essersi convinto sempre di più “che una strategia presieda a questi apparentemente bradi colpi di mortaio”.

“Meloni tra pacificazione e scheletri nell’armadio”. È il titolo di un intervento di Gad Lerner sul Fatto Quotidiano. Secondo il giornalista, la premier si sarebbe data “l’obiettivo prioritario di conquistare la benevolenza della comunità ebraica, ponendo l’accento sull’orrore delle leggi razziali e sulla necessità di vigilare contro l’antisemitismo”. Stando però sempre attenta a disgiungerla, accusa, “da qualsivoglia riflessione storica sul fascismo (quasi mai nominato)”.

Sul Corriere una riflessione   di Victor Magiar su Israele, le riforme avviate dal governo e l’opposizione di un’ampia parte della società. “Anche se sono già passati dei mesi, lo scontro vero è proprio non è ancora andato in scena: questa storia è solo all’inizio”, la sua opinione al riguardo. Se il governo andrà avanti, prosegue Magiar, “lo scontro sarà più duro, ed è ragionevole pensare che scorrerà anche del sangue: solo a quel punto forse si inizierà a ragionare per stabilire un nuovo compromesso”. Secondo Magiar “la gravità della situazione è ben dimostrata non solo dal fatto che dopo mesi la contestazione sembra inarrestabile (coinvolgendo tutti i settori della società, compresi molti elettori della stessa maggioranza) ma soprattutto dal fatto che sembrano coinvolti nella contestazione popolare persino la polizia, il sistema dell’intelligence e l’esercito, istituzioni peraltro assolutamente contrarie alla proposta di creare una cosiddetta Guardia Nazionale”.

In un editoriale dedicato alla realtà politica e sociale di Israele, pubblicato dal quotidiano Domani in data 19 aprile, la filosofa Roberta De Monticelli ha parlato di “cittadinanza riservata ai soli ebrei” che conferirebbe “un accesso preferenziale alle risorse materiali dello stato come anche ai sevizi sociali e di welfare, con relativa discriminazione dei cittadini non ebrei”. Concetti che non trovano riscontro nella realtà e che in quanto tali sono stati segnalati nel nostro commento alla rassegna stampa Bokertov del giorno stesso, suscitando una reazione scomposta da parte della studiosa. In un nuovo intervento, apparso ieri su Domani sotto al titolo “La vera menzogna sono le mezze verità di chi mi accusa di aver scritto il falso”, De Monticelli si scaglia infatti contro la redazione giornalistica dell’Unione, accusandola di averla esposta alla “accusa infamante” di “scrivere il falso”. Lei, sostiene, avrebbe ripreso “alla lettera la dichiarazione che il premier Benjamin Netanyahu ha fatto nel 2019, secondo la quale ‘lo stato di Israele non è lo stato di tutti i suoi cittadini ma del popolo ebraico esclusivamente’”.

Su Domani Davide Assael contesta alcuni punti sollevati da De Monticelli nelle sue analisi. In Israele, ricorda, “non esiste alcuna distinzione formale fra diritti nazionali e diritti universali che incida sulla sfera di quelli individuali, cosa che avrebbe immediatamente comportato la bocciatura della legge da parte della Corte suprema perché in palese contrasto con quanto scritto nella Carta d’Indipendenza del 1948, documento sommo dello stato ebraico, e con la legge fondamentale sulla Dignità della persona e sue libertà”. Per Assael la condizione palestinese descritta da De Monticelli “non è certo sancita da principi giuridici su base etnico-religiosa, ma da degenerate logiche di conflitto, in cui, ovviamente, hanno un ruolo entrambi gli attori”. Paragonarla all’apartheid è perciò “un falso storico, morale e giuridico”.

Giovedì a Firenze è prevista la procedura di sfratto della moschea di piazza dei Ciompi. Vari esponenti delle confessioni religiose cittadine annunciano una loro presenza in piazza, in segno di solidarietà alla comunità islamica. ”È parte integrante della nostra città, dobbiamo evitare che si senta umiliata” le parole di Enrico Fink, il presidente della Comunità ebraica, riportate dal Corriere Fiorentino. Annuncia Fink: “Verrò alla moschea giovedì mattina, non sarò il solo della comunità ebraica, è necessario un clima sereno per rendersi conto della ricchezza che la comunità islamica conferisce a Firenze”.

La Comunità ebraica festeggerà intanto quest’oggi Maria Necha Milner Burschtein, centenaria ospite della sua casa di riposo, che ventenne sopravvisse alla deportazione in campo di sterminio. A festeggiarla, insieme alla Comunità e ai figli Giuseppe ed Elisabetta, ci sarà anche il Comune con l’assessora Sara Funaro.

Il Secolo XIX ripercorre la Liberazione con gli occhi degli ebrei genovesi. “Mentre passavamo il confine cantavamo ‘Fratelli d’Italia’, perché ritornavamo qui e questo Paese era casa nostra” racconterà Piero Dello Strologo, che era allora un bambino di nove anni, temporaneamente rifugiatosi in Svizzera. Una delle voci di Memoria, si legge, “che hanno testimoniato il dolore della persecuzione della Comunità ebraica”. Ma, insieme al dolore, “anche l’appassionato senso di appartenenza”.
Adam Smulevich

Pagine Ebraiche 24 / L’Unione Informa 23 Aprile 2023 – 2 Iyar 5783 – depieroaugusta@gmail.com – Gmail (google.com)

23 Aprile 2023Permalink

17 gennaio 2023 – Giornata del dialogo ebraico-cristiano

Pubblicato in Attualità il ‍‍17/01/2023 – 24 טבת 5783

Decine di incontri in tutta Italia ad animare la 34esima edizione della Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei dedicata quest’anno al brano profetico di Isaia 40: “Consolate, consolate il mio popolo”. A confrontarsi nel merito rabbini, studiosi, esponenti del clero. “Il popolo di Israele, pur colpito da sciagure, sa che dopo il lutto viene la consolazione, la vita riprende, il legame con il Signore torna ad esprimersi su toni più sereni, nell’attesa fiduciosa della completa redenzione, su questo percorso il messaggio è sempre valido”, scrive l’Assemblea dei Rabbini d’Italia in un testo approntato per la Giornata in svolgimento. Un messaggio particolare e al tempo stesso universale: “In questi ultimi anni sono successe tante cose negative e non ne siamo ancora venuti fuori. Il passo profetico indica una strada, una direzione, una consolazione, purché l’essere umano sappia mettersi in ascolto della voce del Signore e con tale guida comprenda quale è il suo ruolo e il suo compito”.
“La stagione che stiamo vivendo, segnata dall’auspicata uscita dalla pandemia che per lungo tempo ha fiaccato la vita del Paese, comprese le comunità di fede, ci spinge a interrogarci a fondo sulla nostra presenza nella società come uomini e donne credenti nel Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe”, sottolinea la commissione episcopale per l’ecumenismo e il dialogo della CEI. In questo senso il passo di Isaia rappresenta “un annuncio di consolazione per il popolo, chiamato a stare saldo nella fiducia che il suo Signore non lo abbandonerà”. Possiamo avere fiducia nel futuro, si aggiunge, “perché la parola di Dio ci garantisce che egli è fedele; fondati in lui, troviamo la forza per dar credito alla vita ed essere fiduciosi, perché ci sentiamo preceduti e ‘superati’ dalla sua azione”.
Nell’occasione della Giornata è stato realizzato un sussidio che riporta anche un omaggio ad alcuni “testimoni” del Dialogo: tra loro l’ex rabbino capo di Roma rav Elio Toaff protagonista con Wojtyla della storica visita del papa polacco al Tempio Maggiore.

“Per capire la portata di quell’evento – si legge – è utile rifarsi alla cruda cronaca nazionale di quegli anni. Ad esempio, riportarsi a quel terribile 1982, quando – sulla spinta degli avvenimenti mediorientali, e del perdurare del conflitto israelopalestinese – prima, durante un corteo sindacale, viene deposta una bara nei pressi della sinagoga (con Toaff a denunciare, purtroppo profeticamente, il vento dell’odio); e qualche mese più tardi, il 9 ottobre, il piccolo Stefano Gaj Taché, due anni appena, è ucciso dalle schegge di una bomba, che fa inoltre 37 feriti, alla fine della cerimonia per la conclusione della festa di Sukkot, posta lì da terroristi palestinesi (significativamente, il presidente Mattarella, nel suo primo discorso di giuramento, ricorderà Stefano per nome, presentandolo come un nostro bambino, un bambino italiano)”. Il legame con Giovanni Paolo II, si ricorda, “doveva durare nel tempo, tanto che il nome del rabbino comparirà, unico con quello del suo segretario personale, nel testamento del pontefice; Toaff stesso sarà presente ai solenni funerali dell’amico cattolico”.

Notizie sulla visita del papa con il link
https://www.panorama.it/news/papa-francesco-sinagoga-roma-perche-visita-importante-foto

 

17 Gennaio 2023Permalink

5 gennaio 2023 – Nel giorno dei funerali di Joseph Ratzinger

Benedetto XVI è stato il più grande interprete del cristianesimo del Novecento. L’ultimo grande difensore della civiltà occidentale. Colui che meglio di tutti ha svegliato i laici mostrando con chiarezza che i valori di cui si dicono orgogliosi e che sono iscritti nelle nostre carte fondamentali sono in realtà quelli cristiani. E infine il grande intellettuale che sapeva coniugare fede e ragione”. Lo afferma l’ex presidente del Senato, Marcello Pera.

Morte del papa emerito Joseph Ratzinger, Marcello Pera: “Ultimo grande difensore della civiltà occidentale” – Il Fatto Quotidiano

Nota biografica:
Marcello Pera , professore di filosofia della scienza all’Università di Pisa,
Senatore della Repubblica nella XIII, XIV, XV e XVI legislatura
Nella XIV legislatura (2001-2006) è stato presidente del senato

È di nuovo presente in Senato nella XIX legislatura, proclamato l’1 ottobre 2022 .

Potremmo anche chiudere con la nota biografica a seguito della prima paginetta ma desidero assicurarmi un  riferimento per me importante

14 dicembre 2021-  Copio un solo passo ma il link può garantire a chiunque l’intero articolo
“Pera era il candidato patriota del centro destra, ateo devoto a Ratzinger”
L’editoriale del direttore Nico Perrone

 L’ateo devoto Marcello Pera è molto vicino a Benedetto XVI, e lo ha sempre difeso nei confronti degli attacchi degli estremisti islamici dopo il suo discorso di Ratisbona, dove lanciò un allarme sull’Islam. Ma non venne ascoltato… “Lei è buono, perché non solo non venne ascoltato, ma persino insultato. Quel discorso – disse Pera intervistato da la Fede quotidiana.it – andrebbe studiato, fu profetico. Venne duramente attaccato dal mondo islamico con violenti proteste e questo era prevedibile. Ma ci fu un vergognoso silenzio da parte di chi conta in Europa, lo lasciarono solo e sconcerta un certo basso profilo della Chiesa cattolica che non lo difese come sarebbe stato giusto. Insomma, Ratzinger non venne tutelato”.

Pera il candidato patriota del centrodestra, ateo devoto a Ratzinger – DIRE.it

Quando gli eventi si rincorrono e l’accostamento, pur casuale, può avere un significato –  oppure  no

23 GIUGNO 2021

Questo è il documento recapitato all’ambasciatore italiano presso la Santa Sede Sebastiani per chiedere al governo italiano di modificare il ddl contro l’omofobia perché violerebbe il Concordato

La Segreteria di Stato, sezione per i Rapporti con gli Stati, porge distinti ossequi all’Ecc.ma Ambasciata d’Italia e ha l’onore di fare riferimento al disegno di legge N.2005, recante “misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale,
sull’identità di genere e sulla disabilità”, il cui testo è stato già approvato dalla Camera dei Deputati il 4 novembre 2020 ed è attualmente all’esame del Senato della Repubblica.

Al riguardo la Segreteria di Stato rileva che alcuni contenuti dell’iniziativa legislativa – particolarmente nella parte in cui si stabilisce la criminalizzazione delle condotte discriminatorie per motivi “fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere” – avrebbero l’effetto di incidere negativamente sulle libertà assicurate alla Chiesa cattolica e ai suoi fedeli dal vigente regime concordatario. Ci sono espressioni della Sacra Scrittura e delle tradizioni ecclesiastiche del magistero autentico del Papa e dei vescovi, che considerano la differenza sessuale, secondo una prospettiva antropologica  che la Chiesa cattolica non ritiene disponibile perché derivata dalla stessa Rivelazione divina.
Tale prospettiva è infatti garantita dall’Accordo tra la Santa Sede e la Repubblica italiana di Revisione del concordato lateranense, sottoscritto il 18 febbraio 1984.
Nello specifico, all’articolo 2, comma 1, si afferma che “la Repubblica italiana riconosce alla Chiesa cattolica la piena libertà di svolgere la sua missione pastorale, educativa e caritativa, di evangelizzazione e di santificazione. In particolare è assicurata alla Chiesa la libertà di organizzazione, di pubblico esercizio del culto, di esercizio del magistero e del ministero spirituale, nonché della giurisdizione in materia ecclesiastica”. All’articolo 2, comma 3, si afferma ancora che “è garantita ai cattolici e alle loro associazioni e organizzazioni la piena libertà di riunione e di manifestazione del pensiero, con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”.
La Segreteria di Stato auspica pertanto che la Parte italiana possa tenere in debita considerazione le suddette argomentazioni e trovare una diversa modulazione del testo normativo in base agli accordi che regolano i rapporti tra Stato e Chiesa e ai quali la stessa Costituzione Repubblicana riserva una speciale menzione.

Allora il testo venne riportato da Repubblica . Immediatamente mi diedi da fare
per trovare il link all’originale secondo la mia abitudine  e lo trascrivo

Testo integrale della Nota Verbale – Vatican News

Il ddl Zan venne  bocciato in senato il 28  ottobre 2021  –  Stato Laico?  BOH

Ripresentato nel mese di maggio 2022 fu nuovamente bocciato in prossimità del 17 maggio, quando si celebra la giornata mondiale contro l’omotransfobia.
Questa data è stata scelta perché è l’anniversario della decisione da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) si rimuovere l’omosessualità dalla lista delle malattie mentali nella Classificazione internazionale delle Malattie.
La decisione  risale al 17 maggio 1990.

Fra laici devoti e credenti succubi del senso comune

3  dicembre 2022
In Friuli  Venezia Giulia si boccia l’ultimo tentativo di cancellare la legge che dal 2009 ostacola , con un  efficace raggiro, la registrazione anagrafica dei nati in Italia, se figli di migranti irregolari.  Ne tace anche un gruppo di sacerdoti nella consueta Lettera di Natale .
Forse era loro nota la storia del DDL Zan?

Nulla da dire – almeno di pubblico – da parte di cattolici obbedienti, tutti insieme – laici e chierici – a silenziare  il cap.1, 20-22 del Vangelo secondo Matteo c he quest’anno è lettura  liturgica della  chiesa cattolica.
“Mentre però stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; 21ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù”.
In un territorio che conosceva la feroce occupazione romana era pur possibile riconoscere un figlio. Oggi basterebbe assicurare  il funzionamento corretto dello sportello dei comuni , dove si registrano le nascite MA…

5 Gennaio 2023Permalink

3 gennaio 2023 – Morto un papa … ce n’è un altro

Alberto Melloni “Benedetto XVI, il coraggio di un Papa conservatore”

La lunga vecchiaia di Joseph Ratzinger ha dimostrato quanto sia stata coraggiosa e tempestiva la scelta di rinunciare al papato il 12 febbraio del 2013. Perché quel passo indietro, che richiedeva forza d’animo intatta e perfetta lucidità, non avrebbe potuto essere fatto quando la debolezza dell’uno o dell’altra lo avrebbe reso necessario. E gli anni che hanno separato quella rinuncia dalla scomparsa dell’ex papa ormai vegliardo, dicono che senza quelle dimissioni, la chiesa cattolico-romana avrebbe avuto al suo vertice un uomo riluttante al governo, trovatosi al centro di una fase di disordine sistemico nella chiesa cattolica che non aveva precedenti dall’inizio del Cinquecento e che nel 2013 aveva visto solo l’inizio della tempesta.

Benedetto XVI – prete immacolato, teologo timido e vendicativo – era salito al papato per un accordo di un blocco conservatore di cui s’era fatto garante lo stesso Giovanni Paolo II il 6 gennaio del 2005: aveva accettato di correre per vincere e aveva vinto (contro Bergoglio). Persuaso dal Sessantotto che i mali della chiesa e del mondo venissero da quell’anno-cerniera, papa Ratzinger aveva perfetta coscienza dei processi degenerativi cresciuti nella chiesa wojtyliana. Ma era convinto di poterli dominare con i propri strumenti intellettuali: e se necessario di intimidirli, ritraendosi con lo sdegno di uno uomo candido davanti alle turpitudini, al malaffare, alle miserie morali del clero, dell’episcopato, dei movimenti, della curia. Mali che anziché spaventarsi dall’arretrare del papa, invece tendevano ad allargarsi ovunque si lasciasse loro spazio – giungendo così fino all’appartamento pontificio, dove un cameriere rubava carte e le vendeva a ricettatori protetti dalla dicitura benevola di “giornalismo d’inchiesta” e parte di un indebolimento della voce internazionale della chiesa cattolica.

In più lo scandalo dei vescovi omertosi davanti a crimini pedofili commessi da chierici poneva un problema specifico a Ratzinger. Giacché nel 1996, quando era prefetto della congregazione per la dottrina della fede, era stato lui a bloccare il tentativo dei vescovi americani di fissare delle Guidelines comuni sugli abusi, per difendere il cardinale Law che, prima di Spotlight, rivendicava il diritto del singolo vescovo di decidere il da farsi (sic!). Quel veto, motivato teologicamente da una tesi sulla antecedenza ontologica della chiesa universale sulla chiesa particolare, si era rivelato tragicamente sbagliato da tutti i punti di vista: e divenuto papa, Benedetto XVI si rendeva conto che l’omertà episcopale – durata pochi decenni in più rispetto a quella della cultura borghese e di molte legislazioni novecentesche – aveva distrutto la credibilità di intere diocesi e di intere chiese in un disastro di cui il pontefice assumeva pubblicamente una responsabilità che ricadeva sul papato ed esprimeva una “vergogna” tanto sincera, quanto antipodica rispetto alla ricerca di cause che non potevano essere ritrovate, come invece credeva lui, nel Sessantotto.

Stretto dalla morsa fra la sua riluttanza al governo e il disdoro di cui la sua cultura conservatrice non vedeva l’uscita, Benedetto XVI aveva così deciso di rinunciare al ministero petrino, coprendo con l’enormità della sua fine un papato nel quale aveva ripreso un dialogo con la chiesa in Cina e nutrito una cultura conservatrice a corto di idee proprie. E poi nei dieci anni del suo emeritato ha creato, senza bisogno di norme, una prassi perfetta per l’ex-papa: si è consegnato in una forma di arresto volontario nei domini temporali del successore, s’è imposto un silenzio a cui non era tenuto, non ha scritto se non cose brevissime e sostanzialmente ripetitive di quanto aveva già detto, ha respinto ogni tentativo di usarlo contro Francesco.

Tuttavia, tanto quanto il papato del successore è stato da subito un papato del “primo” – primo uomo dell’emisfero sud salito ad un posto di rango mondiale, primo papa gesuita, primo papa figlio di migranti, primo papa mai liberato dagli Alleati, primo ragazzo nato in una metropoli, primo papa diventato prete dopo il concilio, primo papa con una sorella divorziata, ecc. – quello di Ratzinger è stato un papato “ultimo”.

Ultimo papa ad aver sognato una centralità intellettuale dell’Europa nel mondo; ultimo papa ad aver respirato da dentro l’aria del Vaticano II e cresciuto in un sistema teologico strutturato come quello tedesco; ultimo papa ad aver indossato una divisa della Seconda Guerra mondiale; ultimo papa con una relazione personale con un partito democratico-cristiano al potere. L’ultimo papa a non aver respinto l’idea di dimettersi…

Nel mondo post-bipolare l’utopia conservatrice ratzingeriana – un cattolicesimo di minoranza creativa che prepara una rinascita cristiana conservatrice per il momento in cui crollerà la dittatura del relativismo e la tirannia del desiderio – non ha trovato successo. Ma non perché un pensiero progressista lo abbia battuto in breccia, ma perché quella destra di cui sottovalutava i rancori animali, ha preso forza con i populismi e i nazional-populismi ben oltre i ricami del suo moderatismo stile CSU.

Ratzinger vedeva nelle legislazioni sui diritti LGBT una cultura anti-cattolica e nelle mille teorie sul gender una ideologia unitaria: ma senza rendersi conto che la “culture war” che lui disegnava sulla carta, diventava un vero disegno di potere con varianti sostanziali nell’America di Trump, nella Germania dell’Afd, nella Francia di Le Pen, nella Russia di Putin: e il fondamentalismo familista che dopo l’elezione di Bergoglio assumerà toni sedevacantisti (un leader politico italiano indossò la maglietta “il mio papa è Benedetto”) avrebbe usato quelle sue posizioni con un piglio che non avrebbe saputo governare.

Alberto Melloni “Benedetto XVI, il coraggio di un Papa conservatore” (alzogliocchiversoilcielo.com)

NOTA:
Questa volta le evidenziazioni in grassetto appartengono all’articolo  come l’ho trascritto non sono mie.
Nel caos delle informazioni , non tutte adeguate al significato del momento e  capaci di collocarsi in un contesto storico politico di grande complessità, mi fa piacere far memoria di un articolo che  condivido e apprezzo profondamente
L’autore, Alberto Melloni,   nato a Reggio Emilia6 gennaio 1959, è uno storico delle religioni italiano, ordinario di storia del cristianesimo nell’Università di Modena-Reggio Emilia.
Si è dedicato in particolare allo studio del Concilio Vaticano II. Titolare della Cattedra UNESCO sul pluralismo religioso e la pace dell’Università di Bologna, è socio dell’Accademia dei Lincei e segretario della Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII.

 

3 Gennaio 2023Permalink

15 ottobre 2022 – No a gay, migranti e aborto

15 ottobre
No a gay, migranti e aborto: le crociate dell’ultracattolico che sfilava con i neonazisti        di Paolo Berizzi


Ultrà del Verona, Fontana recita 50 Ave Maria al giorno. E ha abbracciato Forza Nuova e Alba Dorata. Identikit del leghista eletto nuovo presidente della Camera

Dai convegni dei neonazisti veronesi di Fortezza Europa al tifo per Putin.
Dalle tirate anti-immigrati e no gender agli affondi contro la legge Mancino, la bestia nera dei neofascisti e dei razzisti. Dagli Ave Maria – ne recita 50 al giorno – alla curva sud del Bentegodi, il tempio pagano della “squadra a forma di svastica”, come la chiamano gli ultrà dell’Hellas che inneggiano a Hitler. “Sono abbonato in curva dal 1999”.
La Verona identitaria di Lorenzo Fontana è quella dei butèi: ultra-cattolici, ultrà. Molti di ultradestra. E in 42 anni ne ha fatta di strada il butèl Fontana: da Quinzano e Saval – periferie popolari – a Palazzo Montecitorio passando per Bruxelles e Strasburgo, e prima ancora palazzo Barbieri e la Gran Guardia, ossia il potere a Verona.

Le spade sguainate e “le foglie verdi d’estate”

“Chi difende la normalità oggi è un eroe”, scrive su Facebook, da vicesindaco. Anno 2018. Prima di diventare ministro per la Famiglia accoglie l’arrivo in città del “Bus della Libertà”, già ribattezzato il “pullman omotransfobico”. Il primo calco di quella architettura reazionaria e oscurantista che, un anno dopo, assumerà le forme del Congresso internazionale delle famiglie: i feti di plastica, i gay “malati”, l’aborto “omicidio”. Se la prima edizione italiana è ospitata a Verona è anche e soprattutto merito di Fontana. Cita Gilbert Keith Chesterton: “Verrà un tempo in cui le spade saranno sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi d’estate”. Il vecchio colore della Lega, a cui il giovane Lorenzo si iscrive sedicenne. Sono gli anni di Bossi e però la fortuna del neo presidente della Camera, il vero trampolino, sarà l’incontro e l’amicizia con Matteo Salvini (sono stati coinquilini). “Veronese e cattolico”: su Twitter si presentava così.

Identikit del tifoso dell’ultradestra

Ma chi è, davvero, Fontana? Mai un politico, dalla città di Giulietta, era salito così in alto. “È sempre stato un nome marginale – chiosa un leghista della prima ora. Ma ha un talento: coltiva bene i rapporti fruttuosi”. Capo dei Giovani Padani e consigliere circoscrizionale a 22 anni (zona III, quella dello stadio), nel 2007 entra in consiglio comunale come ripescato – prima giunta Tosi. È il 2009: spinto dalla Lega veneta, sbarca a Bruxelles dove resterà fino al 2018 (nel 2014, altro ripescaggio: è il primo eletto alle Europee dietro a Tosi che rinuncia). Il resto è storia recente.

Operaio con tre lauree

Prima di fare il politico Fontana guidava il muletto all’Ente Fiera. Dopo la maturità scientifica prende tre lauree (Scienze politiche a Padova, Storia all’Università europea, filosofia all’Università pontificia San Tommaso d’Aquino Angelico) e sposa con rito tridentino una donna di Napoli. Sono gli anni in cui la Lega prende ancora di mira gli emigrati teròn, prima di passare agli immigrati. L’uomo che oggi dice “l’Italia non deve omologarsi” e “garantirò le minoranze” fino a ieri il sostegno l’ha garantito soprattutto a chi le minoranze le ha messe sotto le scarpe. Putin, di cui è stato fan incallito e indossò la maglietta anti-sanzioni; Orbàn (“grazie a lui il tasso di natalità è salito 3 figli per donna a 1,6”); Marine Le Pen; gli estremisti tedeschi di Afd e i neonazisti di Alba Dorata.
Gli “amici” ai quali, nel 2016, Fontana porta un saluto: “Siete dei combattenti…”.
Vero. Ad Atene pestavano gli immigrati e scatenavano risse in Parlamento. La Corte d’appello li ha definiti “organizzazione criminale”.

E il 25 aprile festeggia San Marco

Dai convegni dei neonazisti veronesi di Fortezza Europa al tifo per Putin. Dalle tirate anti-immigrati e no gender agli affondi contro la legge Mancino, la bestia nera dei neofascisti e dei razzisti. Dagli Ave Maria – ne recita 50 al giorno – alla curva sud del Bentegodi, il tempio pagano della “squadra a forma di svastica”, come la chiamano gli ultrà dell’Hellas che inneggiano a Hitler. “Sono abbonato in curva dal 1999”. La Verona identitaria di Lorenzo Fontana è quella dei butèi: ultra-cattolici, ultrà. Molti di ultradestra.
E in 42 anni ne ha fatta di strada il butèl Fontana: da Quinzano e Saval – periferie popolari –  a Palazzo Montecitorio passando per Bruxelles e Strasburgo, e prima ancora palazzo Barbieri e la Gran Guardia, ossia il potere a Verona.

“Immigrazione e teoria gender mirano a cancellare il nostro popolo”.

C’è stato un tempo in cui la terza carica dello Stato non faceva giri di parole: “I valori da difendere sono quelli della Chiesa cattolica, altrimenti aumenterà l’islamizzazione”. Ospite al primo “Festival per la Vita”, nel 2018 auspicava il ritorno a “un’Europa cristiana”. Un anno prima fece molto discutere la partecipazione a Verona a un convegno organizzato dai neonazi di Fortezza Europa. Si parlava di legittima difesa. Presentatore: Emanuele Tesauro, fondatore della rock band nazionalista Hobbit (“Ho il cuore nero, me ne frego e sputo”) con tatuaggio della Rsi sul braccio. Fontana, i fascisti, non li ha mai schivati. Al Verona Family Pride 2015 ha sfilato accanto al ras di Forza Nuova Luca Castellini, tra gli assaltatori della Cgil il 9 ottobre 2021. FN e Fortezza Europa sono da sempre contro l’aborto e la legge Mancino. Un caso? Così l’integralista Fontana, quattro anni fa: “Abroghiamo la legge Mancino, che in questi anni strani si è trasformata in una sponda normativa usata dai globalisti per ammantare di antifascismo il loro razzismo anti-italiano”.

https://www.repubblica.it/politica/2022/10/14/news/dichiarazioni_lorenzo_fontana_lega-370085483/#:~:text=Dai%20convegni%20dei,foglie%20verdi%20d%27estate%22

https://www.repubblica.it/politica/2022/10/14/news/dichiarazioni_lorenzo_fontana_lega-370085483/

20 Ottobre 2022Permalink

7 aprile 2022 – Giancarla Codrignani fra l’ecumenismo velleitario e l’elogio di Erasmo da Rotterdam

QUALE BILANCIO DEL NOSTRO VELLEITARIO ECUMENISM?                          Aprile 2022
Giancarla Codrignani

Li chiamiamo “fratelli ortodossi” ma oggi, per colpa di una guerra, chi sono davvero per noi? Francesco conferma l’abbraccio ai “fratelli”, ma non può, anche se vorrebbe, ripetere la mediazione che fu possibile a Giovanni XXIII quando il mondo rabbrividì per il pericolo dell’istallazioni di missili balistici sovietici a Cuba, una provocazione piena di minacce per gli Usa di Kennedy e la Russia di Krusciov: era il 1962 e la logica delle sfide e relativo onore da salvare – che connota i maschi e anche i governi (oggi contagia anche la vicepresidente americana Pamela Harris)- imponeva la risposta armata, un’altra guerra “mondiale” vent’anni dopo la “seconda”.
A nulla erano valsi i tentativi e i Due Grandi – che non volevano arrivare all’amato ok corral anche nel Far West americano – trovarono non indecoroso cedere al Papa.
Oggi Francesco non può permetterselo. La chiesa ortodossa ha sofferto il dramma dello scisma del patriarcato di Kiev che nel 2019 si è proclamato “autocefalo” ottenendo la legittimazione del patriarcato di Alessandria e degli ortodossi greci, non dal patriarcato istituzionale di Costantinopoli.  L’azione anarchica e, soprattutto, nazionalista dell’ortodossia ucraina si è di fatto resa responsabile del distacco politico dal patriarcato di Mosca da cui dipendeva.
Una vertenza sull’autocefalia non fa ridere, tanto più in questo momento e nonostante il buon senso che vorrebbe le chiese disimpegnate dagli interessi dei governanti. In questi giorni non si tratta più, infatti, di questioni teologiche, ma di quel potere che non è solo giuridico e canonico, ma amministrativo e politico. Il patriarca di Mosca Kiril nega la legittimazione del patriarcato di Kiev nel momento in cui è chiara la sua opposizione alla Russia di Putin e allo stesso modo il dittatore post sovietico intende recuperare a gloria della Santa Madre Russia, l’impero russo zarista con la benedizione del patriarca di Mosca. Solo che la fraternità e la comunione se ne vanno senza Cristo dietro la guerra.

intanto anche noi siamo rimasti fuori dal cuore dell’ecumenismo. Bisogna che confessiamo di essere clericali: preghiamo, studiamo (pochi) teologia ecumenica, facciamo bellissimi convegni.
In realtà siamo sempre noi (cattolici) la maggioranza; inevitabile, ma anche poco sensibili alla solitudine ignara del mondo cattolico di base non coinvolto nella ricerca di una fraternità confessionale di reciproca libertà. In genere nelle parrocchie non si conosce neppure il significato dell’impegno: siamo prigionieri della tradizione “colta” di una pratica detta “ecumenica”, che, se vuol dire universale, sarebbe meglio tradurla. Ma, di fatto, mi sento – proprio per il mio interesse rimasto di nicchia oggi più di quando il Sae prese il volo con Maria Vingiani – in difficoltà: sono arrivati tanti ortodossi in questo mese di guerra, tutti accolti con emozione condivisa, per la libertà dell’Ucraina. Ma la maggioranza degli arrivati trova qui da noi i/le parenti che lavorano in Italia: molte badanti hanno potuto accogliere la madre o la sorella con i bambini per la generosità delle famiglie dove da anni curano un nostro anziano.

Ma non le abbiamo mai viste alle nostre riunioni.

Ai margini, per chi cerca di dare senso all’ecumenismo, c’era stato il caso di Bose.
La formula postconciliare della Comunità monastica di Enzo Bianchi si è modificata diventando “monastero”, una trasformazione chiaramente alternativa anche sul piano della spiritualità e delle tematiche di studio. La Comunità era nata mista, comprensiva di uomini e di donne, non era riservata a soli presbiteri (l’abate Enzo Bianchi non lo è) e nemmeno ai soli cattolici. Infatti nell’attività di ricerca privilegiava la relazione e lo studio dell’ortodossia. Ricordando questa “fratellanza” sempre aperta alla partecipazione, non si può non pensare all’importanza che poteva avere la relazione con i vari patriarcati nella tragedia della guerra attuale che ha sciaguratamente approfondito il solco tra Kiev e Mosca anche sul versante religioso cristiano. La chiesa di Mosca invece di accogliere l’unità di fede come sostegno comune nella situazione blasfema della guerra, ha scelto di accettare la sfida e seguire la tradizione conservatrice che vuole l’Occidente corrotto e immorale e il primato della madre Russia. Anche se Papa Francesco, dopo essere stato bloccato dalla tensione tra i patriarcati, riuscirà, senza interferire in casa altrui, a richiamare Kiril all’abbraccio cristiano con il papa cattolico romano, la guerra estrema farà pagare cari i suoi costi, tra cui la frustrazione di quando i conflitti entrano nelle chiese.

LA GUERRA 12  è passato un mese dall’inizio  Giancarla Codrignani

La storia che abbiamo alle spalle, ma anche la testimonianza della libertà di opinione:

Nel 1511 esce l’Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam .

Non si usa più far miracoli: roba d’altri tempi. Insegnare ai fedeli è faticoso; interpretare le Sacre Scritture è lavoro da farsi a scuola; pregare è una perdita di tempo; spargere lacrime è misero e femmineo; vivere in povertà̀ è spregevole. Turpe la sconfitta e indegna di chi a mala pena ammette il re al bacio dei suoi piedi beati: infine, spiacevole la morte, e infamante la morte sulla croce.

Rimangono solo le armi e le “dolci  benedizioni” di cui parla san Paolo, e di cui fanno uso con tanta larghezza: interdetti, sospensioni, condanne aggravate, anatemi, esposizione di ritratti a titolo di vergogna, e quella tremenda folgore con cui, a un cenno del capo, mandano le anime dei mortali all’inferno e oltre. Di quella folgore, i santissimi padri in Cristo, e di Cristo vicari, si servono col massimo della violenza, soprattutto contro coloro che, per diabolico impulso, tentano di rimpicciolire e rosicchiare il patrimonio di Pietro. Benché́ le parole dell’Apostolo nel Vangelo siano: “Abbiamo abbandonato tutto e ti abbiamo seguito”, essi identificano il patrimonio di Pietro con i campi, le città, i tributi, i dazi, il potere. E mentre, accesi dall’amore di Cristo, combattono per queste cose col ferro e col fuoco, non senza grandissimo spargimento di sangue cristiano, credono di difendere apostolicamente la Chiesa, sposa di  Cristo, annientando da valorosi quelli che chiamano i nemici.

Come se la Chiesa avesse nemici peggiori dei pontefici empi; di Cristo non fanno parola: fosse per loro, svanirebbe nell’oblio; legiferando all’insegna dell’avidità, lo mettono in catene; con le loro interpretazioni forzate ne alterano l’insegnamento; coi loro turpi costumi lo uccidono.

Poiché́ la Chiesa cristiana è stata fondata, rafforzata e ingrandita col sangue, ora, come se Cristo fosse morto lasciando i fedeli senza una protezione conforme alla sua legge, governano con la spada, e, pur essendo la guerra una cosa tanto crudele da convenire alle belve più che agli uomini, tanto pazza che anche i poeti hanno immaginato fossero le Furie a scatenarla, così rovinosa da portare con sé la totale corruzione dei costumi, tanto ingiusta da offrire ai peggiori predoni la migliore occasione di affermarsi, tanto empia da non avere nulla in comune con Cristo, tuttavia, trascurando tutto il resto, fanno solo la guerra. Si possono vedere vecchi decrepiti che, inalberando un vigoroso spirito giovanile, non si sgomentano davanti alle spese, non cedono alle fatiche, non indietreggiano di un pollice se si trovano a mettere a soqquadro le leggi, la religione, la pace, l’intero genere umano. Né mancano colti adulatori, pronti a chiamare questa evidente follia zelo, pietà, fortezza, escogitando stratagemmi che permettono d’impugnare il ferro mortale e di immergerlo nelle viscere del fratello senza venir meno a quella suprema carità̀ che secondo il dettato di Cristo un cristiano deve al suo prossimo.

7 Aprile 2022Permalink

31 marzo 2022 – Sintetizzo alcune documentazioni che ho raccolto nel mio blog nei giorni precedenti e nel 2020

Per correttezza riporto i link anche alle pagine del mio blog, oltre che alle fonti.

30  marzo 2022  Da Il Mulino  12 marzo:
Le chiese in Ucraina e la sfida della pace ?                        di Adalberto Mainardi
https://www.rivistailmulino.it/a/le-chiese-in-ucraina-e-la-sfida-della-pace
https://diariealtro.it/?p=7895

Da Il Foglio  29 marzo 2022  Quella di Putin è la prima dichiarazione di guerra ufficiale all’omosessualità                di  Adriano  Sofri
https://www.ilfoglio.it/piccola-posta/2022/03/29/news/quella-di-putin-e-la-prima-dichiarazione-di-guerra-ufficiale-all-omosessualita–3853885/
https://diariealtro.it/?p=7893

Avevo sfiorato l’argomento (in un contesto evidentemente diverso ) nel 2020 e riporto quanto scritto nel mio blog:

« 13 giugno 2020   Quanto i vescovi non dicono il vero
Provo a scrivere le mie sempre più sconsolate considerazioni in merito all’intreccio pericoloso e per me inaccettabile sulle motivazioni con cui i Vescovi italiani si oppongono alla proposta di legge
“ … contrasto dell’omofobia e della transfobia  nonché delle altre discriminazioni riferite all’identità sessuale” (C 107) .
I vescovi non attaccano frontalmente la proposta, la aggirano affermando –  che “non si riscontra alcun vuoto normativo o lacune – che giustifichino l’urgenza di nuove disposizioni»..
https://diariealtro.it/?p=7334

L’affermazione precedente non è vera:  la violenza omofobica è sempre presente e documentata  e il vuoto normativo c’è:  ci sono nati in Italia cui viene negato per legge il nome e l’identità riconosciuta.
E anche questa (a mio parere) è violenza.

Le “nuove disposizioni” che chiedo da anni (devo dire in un clima di sconsolante isolamento quale spetta a una vecchia pensionata)  riguardano l’abrogazione dell’art. 1 comma 22 lettera  G della legge 94/2009 (“Disposizioni in materia di sicurezza pubblica”) . Tale norma , imponendo la presentazione del permesso di soggiorno per la registrazione dell’atto di nascita di un figlio  in Italia ,  può  ridurre  genitori non comunitari irregolari a uno stato di paura tale da  indurli a  non registrare  la nascita di un loro bambino per non scoprire la loro condizione.
Esiste una circolare che consente ciò che la legge nega  ma è ben chiaro che non si può chiedere ai migranti di destreggiarsi fra leggi e circolari. Inoltre la circolare che porta il n. 19/2009 (Ministero dell’interno) NON è in alcun  modo diffusa.
Mentre preciso che l’abrogazione di cui ho scritto non comporta onere di spesa ed è sostanzialmente  la ripresentazione  del testo della cd legge Turco Napolitano, segnalo che ho ottenuto dalla consapevole cortesia del direttore della   Caritas  Italiana una informazione importante che mi ha consentito di proporre in un mio pubblico intervento, trascritto anche nel sito equal uniud diritto antidiscriminatorio dell’Università di Udine lo scorso gennaio.

Copio:
« Il dr. Forti, questo il suo nome, ha scritto ribadendo l’iscrizione alla nascita come diritto costituzionalmente garantito ma testimoniando nel contempo il fatto che l’efficacia della circolare non è assoluta.
Leggo  e trascrivo: “Ad oggi purtroppo non tutte la anagrafi seguono pedissequamente la citata circolare che stabilisce: Per lo svolgimento delle attività riguardanti le dichiarazioni di nascita e di riconoscimento di filiazione (registro di nascita – dello stato civile) non devono essere esibiti documenti inerenti al soggiorno trattandosi di dichiarazioni rese, anche a tutela del minore, nell’interesse pubblico della certezza delle situazioni di fatto».

 

 

 

31 Marzo 2022Permalink

30 marzo 2022 – LE CHIESE IN UCRAINA E LA SFIDA DELLA PACE

LE CHIESE IN UCRAINA E LA SFIDA DELLA PACE

12 MARZO 2022           Le chiese in Ucraina si presentano all’appuntamento della storia tragicamente divise. Chi sono e come vedono se stessi i cristiani in Ucraina? Come le chiese hanno risposto al conflitto?
Che cosa è cambiato con la guerra?                                                         di Adalberto Mainardi

Il panorama religioso dell’Ucraina contemporanea vede oltre cinquanta religioni ufficialmente registrate. Chiesa maggioritaria è la Chiesa ortodossa ucraina, canonicamente parte del Patriarcato di Mosca, ma con uno statuto di ampia autonomia accordato nel concilio episcopale del 1990 e confermato dal concilio locale della Chiesa ortodossa russa del 2009 (lo stesso che elesse l’attuale patriarca Kirill). Capo della Chiesa ortodossa ucraina è il metropolita di Kiev, consacrato dal patriarca di Mosca ma eletto dall’episcopato ucraino (l’attuale metropolita Onufrij Berezovskii è stato eletto nel 2014).

Nel 1992 si era però formata la Chiesa ortodossa ucraina-Patriarcato di Kiev, con un seguito di alcuni milioni di fedeli, non riconosciuta dalle altre chiese ortodosse. Inoltre nel 1990, dopo l’incontro con Giovanni Paolo II, Gorbačev legalizzò la Chiesa greco-cattolica ucraina, che poté uscire dalla clandestinità cui era stata costretta da Stalin nel 1946. La convivenza delle tre comunità negli anni Novanta fu caratterizzata da tensioni ed episodi di violenza, che si riverberarono sullo stesso dialogo teologico cattolico-ortodosso, con una lunga battuta d’arresto fino al 2006.

Ma è l’autocefalia della Chiesa ucraina il nodo attorno a cui si stringono i problemi dell’ortodossia contemporanea. Nel 2016 il concilio panortodosso di Creta non riusciva ad affrontare il problema di quale Chiesa avesse il diritto di concedere a un’altra l’autocefalia (cioè la piena indipendenza):
il patriarca ecumenico di Costantinopoli? O la Chiesa madre? O l’insieme delle Chiese ortodosse? Per motivi diversi, quattro Chiese ortodosse disertarono l’assise di Creta: Mosca, Antiochia, la Chiesa ortodossa bulgara e la Chiesa di Georgia. A livello panortodosso, il problema canonico della concessione dell’autocefalia rimase irrisolto e lo scisma della Chiesa ucraina drammaticamente aperto.

Dopo l’annessione russa della Crimea e la destabilizzazione del Donbass nel 2014, la spinta politica a creare una Chiesa ucraina autocefala «canonica» crebbe considerevolmente. La metropolia di Kiev, culla storica della Chiesa ortodossa russa, dipendeva canonicamente dal patriarca di Costantinopoli fino alla fine del XVII secolo, quando la situazione politica ne provocò il passaggio al patriarcato di Mosca (eretto nel 1589). Nel 2018, il patriarca ecumenico Bartolomeo ritenne di revocare il tomos patriarcale del 1686 che concedeva al patriarca di Mosca il privilegio di consacrare il metropolita di Kiev. I fedeli fino ad allora ritenuti scismatici della Chiesa ortodossa ucraina-Patriarcato di Kiev e della minoritaria Chiesa ortodossa autocefala ucraina furono accolti nella comunione con Costantinopoli e in un concilio, alla presenza di due esarchi nominati dal patriarca ecumenico, costituirono la Chiesa ortodossa d’Ucraina (15 dicembre 2018).

A questa Chiesa, nel gennaio 2019, Bartolomeo concesse l’autocefalia. L’evento fu salutato dall’allora presidente ucraino Petro Poroshenko, che l’aveva fortemente voluto, come un nuovo «battesimo della Rus’», e la nascita di «una Chiesa senza Putin, ma una Chiesa con Dio e con l’Ucraina». Il Patriarcato di Mosca reagì rompendo la comunione eucaristica con Costantinopoli  e con le Chiese che successivamente riconobbero la Chiesa ortodossa d’Ucraina (la Chiesa greca, il Patriarcato di Alessandria e la Chiesa di Cipro).

La Chiesa ortodossa ucraina, rimasta fedele a Mosca, fu oggetto di attacchi e discriminazioni. Un progetto di legge imponeva di rinominarla «Chiesa ortodossa russa in Ucraina» (una disposizione che avrebbe potuto privarla dell’antichissimo monastero delle Grotte di Kiev). Il capo delle relazioni esterne del Patriarcato di Mosca, metropolita Ilarion Alfeev, nell’aprile 2021 protestò energicamente: «Il centro di questa Chiesa non è Mosca, ma Kiev: è una Chiesa indipendente, elegge i propri vescovi e il proprio primate. Non è una Chiesa di russi, ma di ucraini».

La guerra di Putin ha agito come detonatore in una situazione ecclesiale attraversata da tensioni irrisolte.  Le reazioni delle Chiese le hanno rese manifeste

Non sorprendono i toni del primate della Chiesa ortodossa d’Ucraina, metropolita Epifanij («un cinico attacco […] nostro comune compito è respingere il nemico, difendere la patria, il nostro futuro dalla tirannia dell’aggressore»), o dell’Arcivescovo maggiore della Chiesa greco cattolica ucraina, Svjatoslav Sevchuk («il nemico fraudolento ha invaso il suolo ucraino, portando con sé morte e devastazione […] è sacro dovere di ciascuno difendere la patria […] La vittoria dell’Ucraina sarà la vittoria della potenza di Dio sulla bassezza e l’insolenza dell’uomo»).

Ma se Putin, che ancora il 21 febbraio definiva la Chiesa ortodossa ucraina «perseguitata» dal regime di Kiev, si aspettava da essa un appoggio, si sbagliava. In un appassionato appello «al presidente della Russia» nel giorno dell’invasione, il metropolita Onufrij chiede di «fermare immediatamente la guerra fratricida […] Una guerra simile non ha giustificazione né per Dio né per l’uomo». Se individua la responsabilità del presidente russo, il messaggio di Onufrij non cede alla tentazione di invocare da Dio la vittoria sul nemico. Non c’è un nemico da distruggere, ma un fratello che non abbiamo il diritto di uccidere.

Le parole di Onufrij hanno reso più imbarazzante il silenzio del patriarca Kirill, che solo la sera del 24 febbraio si rivolge ai «fedeli figli della Chiesa ortodossa russa» senza parlare di guerra («questi eventi», «sventura») ed esortando «tutte le parti in conflitto a fare il possibile per evitare vittime civili». La cautela di Kirill, del resto, è condivisa. L’Unione dei battisti russi nel suo appello per la pace sostituisce la parola «guerra» con l’espressione «situazione complicata ai confini con l’Ucraina».

La dichiarazione del patriarca è parsa insufficiente al suo stesso clero, se oltre 250 preti e monaci hanno sottoscritto un appello in cui chiedono «la cessazione della guerra fratricida in Ucraina»,
di non perseguire per legge chi manifesta per la pace, «perché questo è il comandamento divino: “Beati gli operatori di pace”». Il 28 febbraio il sinodo della Chiesa ortodossa ucraina domanda con insistenza al patriarca di Mosca di «dire la sua parola di primate sulla cessazione del versamento fratricida di sangue in Ucraina». Il 2 marzo il segretario generale del Consiglio ecumenico delle Chiese di Ginevra, Ioan Sauca, ortodosso romeno, chiede ufficialmente a Kirill «di mediare perché la guerra possa essere fermata», e di «far sentire la sua voce per i fratelli e le sorelle che soffrono».

Nell’omelia della Domenica del perdono (6 marzo), che precede l’inizio della Quaresima, il patriarca Kirill sembra rispondere a queste sollecitazioni. Parla del «deterioramento della situazione nel Donbass» e individua come ragione dell’ostilità verso la Repubblica separatista il suo intransigente rifiuto al gay pride, biglietto di ingresso nel felice mondo del consumismo e dell’apparente «libertà» (un’eco del discorso di Ivan Karamazov contro la teodicea della modernità?). La guerra in corso, sembra dire il patriarca, è una lotta escatologica tra il bene e il male, ne va «della salvezza umana, di dove l’umanità si colloca», tra i sommersi o i salvati, «alla destra o alla sinistra di Dio Salvatore, che viene nel mondo come Giudice e Datore della ricompensa». Non tutti se ne rendono conto, prosegue. Bisogna chiamare peccato ciò che è peccato. L’omosessualità è un peccato. Negarlo è defraudare Dio del suo ruolo di giudice.
Da otto anni, nel silenzio dell’Occidente, è in corso un genocidio nel Donbass (una guerra dimenticata che ha già fatto 19.000 vittime). La sofferenza degli abitanti del Donbass è la sofferenza dei martiri. Si tratta di «una lotta che non ha un significato fisico ma metafisico».

L’omelia del patriarca ha lasciato stupefatti molti commentatori. Certo, mentre chiede di pregare per il popolo ortodosso del Donbass, Kirill dimentica che in Ucraina c’è un altro popolo ortodosso che è il suo stesso gregge; quando ricorda che perdonare è cessare di odiare il nemico, non si accorge che sta costruendo un nemico «esterno» (l’Occidente corrotto) addossandogli la responsabilità «più pesante», cioè di allargare «l’abisso tra i fratelli, colmandolo di odio, malizia e morte» (la guerra tra Russia e Ucraina), e sta assolvendo il presidente russo.

Ma la sua parola non deve stupire. Non è, banalmente, la degradazione dell’ideale evangelico a poltiglia ideologica. È il coerente sviluppo dell’idea del «mondo russo» (Russkij mir), costruita all’inizio degli anni Duemila. Un’idea di civiltà e insieme un’impresa politica, che tiene insieme eredità culturale e valori religiosi, principi etici tradizionali e capacità performativa post-secolare, una versione 2.0 della «Idea russa» combinata con l’ideale romantico della «Santa Rus’», di cui sarebbero portatori i popoli usciti dal battesimo nel Dniepr, russi, ucraini, bielorussi, come un’unica civiltà con una specifica missione: testimoniare un’alternativa valoriale allo smarrimento etico dell’Occidente, che dietro l’ipocrita difesa dei diritti umani nasconde l’idolo unico del profitto. Non è casuale la consonanza con la persuasione putiniana che russi e ucraini (e bielorussi) siano un unico popolo, fratelli che non possono e non devono abitare in case straniere. Il patriarca del resto ha salutato con favore gli emendamenti alla Costituzione russa del 2020, che introducono la menzione di Dio (art. 67,1 comma 2), la difesa del matrimonio come unione tra uomo e donna (72, comma 1), la promozione dei valori tradizionali della famiglia (114, comma 1).

Il conflitto ucraino sta brutalmente mostrando che il «mondo russo» non è più armonico del mondo occidentale. L’unità religiosa non è rafforzata dalle bombe ma polverizzata. Numerose parrocchie e vescovi della Chiesa ortodossa ucraina hanno cessato di menzionare il nome del patriarca nell’anafora eucaristica. Il solco scavato dalla guerra tra il patriarca di Mosca e la Chiesa ortodossa ucraina sta però anche segnalando che le ragioni della divisione tra le Chiese in Ucraina non sono così profonde. Non toccano l’essenza della fede. Forse la tragedia della guerra può aiutare le Chiese a comprendere che il Vangelo chiede un parlare chiaro: sì, sì, no, no. Chiede di chiamare la guerra «guerra», il peccato «peccato». Di dire che la divisione è un peccato, che la guerra è un peccato. Che solo l’amore salva. Che l’invocazione della pace deve radicarsi nella verità e nella giustizia, nella promozione della libertà e della vita dell’altro.

https://www.rivistailmulino.it/a/le-chiese-in-ucraina-e-la-sfida-della-pace

30 Marzo 2022Permalink