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Tag Archives: Palestina
22 dicembre 2023 _ Parlano i Patriarchi e le chiese di Gerusalemme
Una denuncia di tutte le azioni violente e un appello per chiederne la fine: è quanto contiene il Messaggio di Natale dei Patriarchi e dei Capi delle Chiese di Gerusalemme, diffuso oggi, nella Città santa. “Negli ultimi due mesi e mezzo – si legge nel testo – la violenza della guerra ha portato a sofferenze inimmaginabili per milioni di persone nella nostra amata Terra Santa. I suoi continui orrori hanno portato miseria e dolore inconsolabile a innumerevoli famiglie in tutta la nostra regione. La speranza sembra lontana e irraggiungibile”. Eppure, ricordano i leader religiosi, è “in un mondo simile che nostro Signore è nato per darci speranza. Dobbiamo ricordare che durante il primo Natale la situazione non era molto lontana da quella odierna. Così la Beata Vergine Maria e San Giuseppe ebbero difficoltà a trovare un luogo dove nascere il loro figlio. C’è stata l’uccisione di bambini. C’era un’occupazione militare. E c’era la Sacra Famiglia che veniva sfollata come rifugiata. Esteriormente, non c’era motivo di festeggiare se non la nascita del Signore Gesù”. “Questo è il messaggio divino di speranza e di pace che il Natale di Cristo ispira in noi”, ribadiscono i capi religiosi, ed “è in questo spirito natalizio che denunciamo tutte le azioni violente e chiediamo la loro fine. Allo stesso modo invitiamo le persone di questa terra e di tutto il mondo a cercare le grazie di Dio affinché possiamo imparare a camminare insieme sui sentieri della giustizia, della misericordia e della pace. Infine, invitiamo i fedeli e tutti coloro di buona volontà a lavorare instancabilmente per il sollievo degli afflitti e per una pace giusta e duratura in questa terra che è ugualmente sacra alle tre fedi monoteiste”.
10 dicembre 2023 _ La voce della poesia non può morire
9 dicembre 2023 _ Un caso di detenzione amministrativa (?) in Israele che sembra chiudersi positivamente
Il ricercatore italo-palestinese, arrestato ad agosto delle autorità israeliane e scarcerato un mese fa, ha superato il confine con la Giordania. La felicità della moglie, originaria del Molise
Il servizio di Dario Tescarollo, montaggio di Piero Manocchio
Presto Khaled El Qaisi potrà finalmente tornare in Italia: dopo mesi di preoccupazione per il suo destino, sembra arrivare il lieto fine per il ricercatore italo-palestinese dell’Università La Sapienza di Roma.
Era stato arrestato dalle autorità israeliane il 31 agosto scorso al valico di Allenby tra Cisgiordania e Giordania. Un mese dopo, a inizio ottobre, il tribunale israeliano di Rishon Le Tzion si pronunciò per la sua scarcerazione con la condizione del divieto di espatrio per una settimana. Khaled ha così potuto soggiornare liberamente nella casa di famiglia di Betlemme, poi però, l’8 ottobre, è scoppiato il conflitto in Israele e da quel momento alla lontananza si è sommata la preoccupazione delle bombe.
Oggi la situazione si è sbloccata; fonti diplomatiche confermano che il 28enne italo-palestinese si trova in territorio giordano e che presto farà ritorno in Italia per riabbracciare la propria famiglia. “Khaled ha attraversato il confine con la Giordania. Finalmente potremo riabbracciarlo”, le parole che la moglie Francesca Antinucci, di Campobasso, ha scritto sul proprio profilo Facebook.
https://www.rainews.it/tgr/molise/articoli/2023/12/khaled-el-qaisi-ha-lasciato-la-palestina-presto-il-ritorno-in-italia-e7e2c5fa-b28d-46cb-b6f2-358b039d6655.html
Ne avevo scritto nl mio blog diariealtro il 7 settembre
2 dicembre 2023 _ Qualche traccia di storia per non dimenticare_ Ben Gurion
David Ben Gurion, che fece Israele
David Ben Gurion, che morì 50 anni fa, il 1° dicembre del 1973, è ancora oggi la più importante figura politica della storia di Israele, e il più importante leader del popolo ebraico della storia moderna. Fu il più grande organizzatore del movimento sionista novecentesco, il primo firmatario della dichiarazione di indipendenza di Israele, il primo ministro del paese e il primo ministro della Difesa. Per tutta la parte iniziale della storia di Israele l’influenza politica e anche sociale di Ben Gurion fu senza pari, anche se oggi il suo ideale di uno stato di Israele laico e secolare si è sempre più andato affievolendo.
La figura di Ben Gurion, benché quasi universalmente amata in Israele e ammirata in gran parte del mondo, è ancora piuttosto controversa tra gli storici. Per realizzare il sogno di creare uno stato per il popolo ebraico, Ben Gurion dimostrò una certa spregiudicatezza, ed ebbe posizioni altalenanti e a volte ciniche su numerose questioni di rilievo, come il rapporto tra israeliani e arabi, la possibilità di una pace duratura e l’uso della violenza e della guerra come strumenti di istituzione dello stato di Israele.
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David Ben Gurion nacque nel 1886 nella cittadina di Płońsk, che attualmente si trova in Polonia ma al tempo faceva parte dell’Impero russo. Il suo vero nome era David Yosef Gruen, cambiato in età adulta in Ben Gurion, che in ebraico significa “figlio di un leone”. Gli anni della sua infanzia coincisero con la nascita del movimento sionista, che aspirava a creare per il popolo ebraico uno stato indipendente lontano dalle discriminazioni e dalle persecuzioni che gli ebrei subivano in Europa. Nel 1896 Theodor Herzl, il padre del sionismo moderno, pubblicò Der Judenstaat, cioè Lo Stato ebraico, un libro fondamentale per il movimento di creazione di uno stato ebraico, e in quello stesso anno il padre di Ben Gurion fondò un’associazione sionista a Płońsk.
Ben Gurion cominciò la sua carriera di attivista politico mentre ancora si trovava in Europa, dividendosi tra la causa sionista e quella socialista: tra le altre cose fu un sindacalista e dopo l’inizio della Rivoluzione russa del 1918 divenne un aperto ammiratore di Lenin. Per gran parte della sua vita rimase ateo e sospettoso nei confronti degli ebrei ortodossi: lavorava di sabato e mangiava carne di maiale, e si era vantato di aver messo piede in una sinagoga soltanto dopo la fondazione di Israele.
Nonostante questo, Ben Gurion era un conoscitore della Bibbia, che citava spesso nei suoi discorsi, e in vecchiaia disse di aver cominciato a credere in Dio.
Nel 1906, a vent’anni, Ben Gurion si trasferì in Palestina, che al tempo era sotto il controllo dell’Impero ottomano. Ben Gurion fece parte dei primi movimenti dell’“aliyah”, parola che in ebraico significa “ascesa” e che viene usata per descrivere il ritorno degli ebrei della diaspora in Palestina. Con alcune centinaia di compagni si integrò nelle comunità agricole gestite da ebrei che si stavano formando in quegli anni e che sarebbero state il precursore dei kibbutz. Le condizioni di vita erano estremamente difficili, tanto che a un certo punto Ben Gurion si ammalò di malaria.
Anche in Palestina divenne ben presto uno dei leader dei movimenti sionisti e socialisti che operavano al tempo.
Quando iniziò la Prima guerra mondiale (1914–1918), Ben Gurion e parte del movimento sionista tentarono prima di allearsi con l’Impero ottomano e poi, quando questo rifiutò (tra le altre cose Ben Gurion fu espulso dalla Palestina), con l’Impero britannico, che combatteva in Palestina proprio contro gli ottomani. Migliaia di ebrei da tutta Europa, compreso Ben Gurion e moltissimi di quelli che sarebbero in seguito diventati i leader politici di Israele, si arruolarono nell’esercito britannico dentro alla cosiddetta “Legione ebraica”, che ebbe un ruolo limitato nella guerra mondiale ma una certa importanza nella militarizzazione del movimento sionista.
Dopo la fine della Prima guerra mondiale, il Regno Unito assunse il “mandato” (cioè di fatto il controllo) della Palestina e di altri territori del Medio Oriente. In quegli anni, Ben Gurion divenne gradualmente il leader principale del movimento sionista: nel 1935 fu eletto presidente dell’Esecutivo sionista, il principale organo del sionismo mondiale, e dell’Agenzia ebraica, cioè il braccio operativo del movimento in Palestina. Di fatto, Ben Gurion divenne il capo del movimento sionista mondiale e il leader degli ebrei in Palestina. Continuò a dominare la politica ebraica per i successivi trent’anni.
Il suo rapporto con i dominatori britannici fu altalenante e in alcuni casi ambiguo. Ben Gurion partecipò alle operazioni clandestine per far arrivare in Palestina quanti più ebrei possibile (anche se i britannici volevano imporre dei limiti all’immigrazione ebraica) e per fare in modo che gli ebrei comprassero quanta più terra possibile nella regione. Nel 1936 la popolazione araba della Palestina si rivoltò sia contro i dominatori britannici sia contro le oppressioni e i soprusi degli immigrati ebrei, che tendenzialmente erano più ricchi e avevano a lungo goduto del sostegno dei britannici. Seguirono tre anni di quella che di fatto fu una guerra civile, e che secondo molti fu il punto d’inizio del conflitto israelo-palestinese.
Nel 1939, all’inizio della Seconda guerra mondiale, Ben Gurion esortò gli ebrei a sostenere lo sforzo bellico del Regno Unito e ad arruolarsi nell’esercito britannico. Ma a guerra finita, nel 1945, le cose cambiarono: nei decenni precedenti si erano formate in Palestina varie milizie e gruppi paramilitari ebraici che, dopo la fine della guerra, dichiararono guerra ai britannici, commettendo attacchi di guerriglia e atti di terrorismo. Formalmente, Ben Gurion si dissociò dagli attacchi delle milizie, ma in realtà sostenne almeno alcuni di questi gruppi.
Nel 1947, sfiancato dall’insurrezione ebraica, dalle pressioni dei leader arabi e dal costo di tenere sul campo 100 mila soldati, il Regno Unito lasciò il Mandato sulla Palestina alle Nazioni Unite, che in quello stesso anno proposero un piano di partizione della Palestina tra ebrei e palestinesi.
Nel novembre del 1947 l’Assemblea generale dell’ONU approvò la risoluzione 181, che prevedeva che il 56 per cento del territorio fosse dato agli ebrei, e il resto ai palestinesi. Gerusalemme sarebbe stata governata direttamente dall’ONU e sarebbe rimasta territorio neutrale. Ben Gurion e i leader ebrei accettarono immediatamente, e il 14 maggio 1948 Ben Gurion dichiarò la fondazione dello stato di Israele. Fu il primo firmatario della dichiarazione di indipendenza del nuovo stato e in breve ne divenne primo ministro e ministro della Difesa. Entrambe le grandi potenze del tempo, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, riconobbero il nuovo stato.
I palestinesi però non accettarono il piano dell’ONU. Ampie frange della società non accettavano l’idea che quello che fino a pochi decenni prima era stato territorio quasi interamente abitato da popolazioni arabe dovesse accogliere lo stato di Israele.
Nei giorni successivi alla dichiarazione di indipendenza israeliana, una coalizione di stati arabi solidali con la causa palestinese — l’Egitto, l’Iraq, la Giordania (che allora si chiamava Transgiordania) e la Siria — attaccarono lo stato di Israele appena nato da tutti i fronti, e cominciò la prima guerra arabo-israeliana.
Negli anni precedenti alla creazione dello stato di Israele, pubblicamente Ben Gurion si era detto fiducioso che i paesi arabi non avrebbero attaccato un eventuale stato ebraico, ma in realtà si stava preparando, e fu tra i principali artefici dell’unione di tutte le milizie ebraiche in quello che poi sarebbe diventato l’esercito israeliano. Contro le aspettative di molti, il nascente esercito israeliano si dimostrò più preparato del previsto e riuscì a contrattaccare conquistando enormi porzioni di territorio che l’ONU aveva attribuito ai palestinesi. Alla fine della guerra, nel luglio del 1949, Israele controllava il 72 per cento del territorio della Palestina contro il 56 previsto dall’ONU.
La guerra provocò anche la cosiddetta nakba, parola araba che significa catastrofe e che viene usata dai palestinesi per indicare il trasferimento forzato di oltre 700 mila persone palestinesi che furono costrette dall’esercito israeliano a lasciare le proprie case, abbandonare i territori palestinesi in cui abitavano e a trasferirsi in campi profughi. La nakba non fu un processo pacifico: in alcuni casi i soldati israeliani scacciarono i palestinesi con le buone, ma molto spesso ci furono violenze e massacri.
Alcuni storici e quasi tutti i palestinesi ritengono che Ben Gurion, in quanto principale leader politico di Israele e responsabile delle forze armate (anche se privo di un ruolo operativo) sia stato il principale artefice della nakba, e che fin dall’inizio l’obiettivo suo e dei suoi alleati fosse quello di creare uno stato israeliano cacciando gli abitanti palestinesi.
Su questo aspetto della vita di Ben Gurion (e più in generale sulle sue idee a proposito della convivenza tra israeliani e palestinesi) ci sono enormi dibattiti tra gli storici, in parte perché le posizioni dello stesso Ben Gurion sono state molto varie. Soprattutto all’inizio della sua carriera si era espresso pubblicamente sulla possibilità di una pacifica convivenza tra i due popoli, mentre più avanti, e sempre di più dopo la fondazione dello stato di Israele, fece dichiarazioni in cui parlava non soltanto di una divisione tra ebrei e palestinesi, ma anche di uno spostamento dei palestinesi fuori dalla Palestina come migliore soluzione per garantire la permanenza dello stato di Israele.
Più in generale, pur essendo al tempo ateo, Ben Gurion vedeva lo stato di Israele in un’ottica messianica: era convinto che gli ebrei avessero un diritto morale e storico alla Palestina, e che la fondazione dello stato di Israele fosse la ripresa di una storia millenaria che era stata temporaneamente interrotta con la diaspora.
Lo stato di Israele che Ben Gurion e gli altri leader sionisti crearono fu uno stato laico e secolare, tendenzialmente basato sui princìpi del socialismo, in cui gli ebrei ortodossi avevano un ruolo estremamente limitato e che divenne in poco tempo democratico e prospero. Ben Gurion presiedette alla creazione delle istituzioni dello stato e a vari progetti di sviluppo sociale ed economico.
Continuarono anche le operazioni militari: siccome miliziani palestinesi continuavano a fare operazioni in territorio israeliano, nel 1953 Ben Gurion diede ordine al generale Ariel Sharon di creare un’unità speciale che potesse muoversi agilmente per rispondere alle infiltrazioni dei miliziani palestinesi. Quest’unità lanciò numerosi attacchi contro le comunità e gli insediamenti palestinesi, facendo moltissimi morti civili e rendendosi tra le altre cose responsabile del massacro di Qibya, in cui furono uccisi 69 civili, quasi tutti donne e bambini.
Ben Gurion si dimise brevemente da primo ministro tra il 1954 e il 1955 per ragioni personali, ma poi tornò in carica anche grazie all’enorme sostegno popolare di cui godeva. Nel 1956 Israele attaccò l’Egitto assieme a Regno Unito e Francia, in quella che è nota come la “crisi di Suez”, cominciata dopo la decisione del presidente egiziano Gamal Abdel Nasser di nazionalizzare il canale di Suez. L’operazione però fu un insuccesso, soprattutto a causa delle pressioni internazionali di Stati Uniti e Unione Sovietica.
Nel 1963, ormai piuttosto anziano, Ben Gurion si dimise definitivamente, anche questa volta per ragioni personali. Rimase però una figura eccezionalmente influente nella politica israeliana ancora per quasi un decennio. Nel 1967, dopo la Guerra dei sei giorni, in cui tra le altre cose Israele conquistò tutta la Cisgiordania, Gerusalemme e la Striscia di Gaza, Ben Gurion sostenne che Israele dovesse restituire tutti i territori conquistati, con l’eccezione di Gerusalemme (non fu ascoltato).
Ben Gurion si ritirò infine dalla politica nel 1970 e trascorse i suoi ultimi anni in una modesta abitazione in un kibbutz nel deserto del Negev. Morì nel 1973, a 87 anni. Il suo corpo è stato seppellito a Sde Boker, in un parco nazionale, vicino a quello di sua moglie Paula Munweis.
17 novembre 2023 _ Storia di un olocausto strisciante: i bambini vittime in pace e in guerra_ 1
Prima di trascrivere l’importante articolo di Gideon Levy voglio ricordare che questa situazione corrisponde esattamente ai miei ricordi di ciò che ho direttamente conosciuto nella mia presenza in Palestina . Lo testimonio con uno dei miei ricordi con un link in calce.
Trascrivo da ciò che ho copiato da
https://www.assopacepalestina.org/2023/11/16/la-prossima-sorpresa-per-israele-viene-dalla-cisgiordania/
La prossima sorpresa per Israele viene dalla Cisgiordania
Nov 16, 2023 | Notizie di Gideon Levy,
Haaretz, 16 novembre 2023.
Palestinesi che bruciano pneumatici durante un raid dell’IDF a Tubas, in Cisgiordania, martedì. Raneen Sawafta/Reuters
La prossima sorpresa non sarà una sorpresa. Forse sarà meno letale di quella precedente, del 7 ottobre, ma il suo prezzo sarà salato. Quando ci cadrà sulla testa, lasciandoci storditi dalla brutalità del nemico, nessuno potrà dire che non sapeva che sarebbe arrivata.
L’esercito non potrà fare questa affermazione, perché ci ha costantemente messo in guardia, ma non ha mosso un dito per evitarlo. Quindi la responsabilità dell’esercito israeliano sarà grande come per il massacro del sud, e non meno significativa di quella dei coloni e dei politici che presumibilmente gli impediscono di agire.
La prossima pentola a pressione che sta per esploderci in faccia sta bollendo in Cisgiordania. L’IDF lo sa; i suoi comandanti non smettono di avvertirci. Si tratta di avvertimenti ipocriti e bigotti, destinati a coprire le spalle all’esercito. Gli avvertimenti sono spudorati, poiché l’IDF, con le proprie mani e i propri soldati, sta alimentando l’incendio non meno dei coloni.
Fingere che potremmo trovarci a combattere su un altro fronte solo a causa dei coloni è falso e ipocrita. Se l’IDF avesse voluto, avrebbe potuto agire subito per calmare le tensioni. Se avesse voluto, avrebbe agito contro i coloni, come un normale esercito è tenuto a fare con le milizie locali e i gruppi armati.
Tra i nemici di Israele in Cisgiordania ci sono i coloni, e l’IDF non sta facendo nulla per fermarli. I suoi soldati partecipano attivamente ai pogrom, maltrattando vergognosamente i residenti, fotografandoli e umiliandoli, uccidendoli e arrestandoli, distruggendo monumenti commemorativi, come quello di Yasser Arafat a Tulkarm, e strappando migliaia di persone dai loro letti. Tutto ciò aggiunge benzina al fuoco e inasprisce le tensioni.
Soldati vendicativi, invidiosi dei loro compatrioti a Gaza, si scatenano nei territori occupati, con un dito facile ed entusiasta sul grilletto. Dall’inizio della guerra hanno ucciso quasi 200 palestinesi e nessuno li ferma. Nessun comandante regionale, di divisione o di campo ferma la furia. Devono volerlo anche loro; è difficile credere che anche loro siano paralizzati dalla paura dei coloni. Sono considerati coraggiosi, dopo tutto.
I coloni sono estasiati. L’odore di sangue e distruzione che viene da Gaza li spinge a scatenarsi come mai prima d’ora. Non c’è più bisogno di favole su lupi solitari o su mele marce. L’impresa degli insediamenti, con la sua schiera di funzionari politici e di finanziamenti, non sta combattendo contro i pogrom che ne derivano. La guerra è la loro ricompensa, la loro grande occasione. Con la copertura della guerra e della brutalità di Hamas, hanno colto l’opportunità di cacciare il maggior numero possibile di palestinesi dai loro villaggi – soprattutto quelli più poveri e piccoli – in vista della grande espulsione che avverrà dopo la prossima guerra, o quella successiva.
Questa settimana ho visitato la terra di nessuno nelle colline meridionali di Hebron. Le cose non sono mai state così prima d’ora. Ogni colono è ora membro di una “squadra di sicurezza”. Ogni “squadra di sicurezza” è una milizia armata e selvaggia, autorizzata a maltrattare allevatori e agricoltori e a cacciarli via.
Sedici villaggi in Cisgiordania sono già stati abbandonati e l’espulsione continua a pieno ritmo. L’IDF sostanzialmente non esiste. Israele, che non si è mai interessato a ciò che accade in Cisgiordania, sicuramente non ne sentirà parlare ora. I media internazionali sono invece interessati: hanno capito dove si va a parare.
Dietro a tutto questo c’è la stessa arroganza israeliana che ha permesso la sorpresa del 7 ottobre. La vita dei palestinesi è vista come spazzatura. Occuparsi del loro destino e dell’occupazione è visto come un fastidio ossessivo. L’idea prevalente è che se lo ignoriamo, le cose si aggiusteranno in qualche modo.
Ciò che sta accadendo in Cisgiordania riflette uno stato di cose incredibile. Anche dopo il 7 ottobre, Israele non ha imparato nulla. Se l’attuale disastro nel sud è avvenuto dopo anni di assedio, negazione e indifferenza, il prossimo avverrà perché, dopo il precedente, Israele non ha preso sul serio gli avvertimenti, le minacce e la gravità della situazione.
La Cisgiordania geme di dolore e nessuno in Israele ascolta il suo grido di aiuto. I coloni si stanno scatenando e nessuno in Israele cerca di fermarli. Quanto possono ancora sopportare i palestinesi? Israele dovrà pagare il conto di tutto quello che succederà. Sarà un conto più o meno salato, ma in ogni caso molto sanguinoso.
https://www.haaretz.com/opinion/2023-11-16/ty-article-opinion/.premium/israels-next-surprise-is-coming-from-the-west-bank/0000018b-d4d9-df9a-ab8b-ded9c6030000
Traduzione a cura di AssoPacePalestina
3 settembre 2010 – Colloqui (forse) di pace e una segnalazione. (diariealtro.it)
13 novembre 2023 – La pace può costare cara_ Le voci che la ricordano devono fasi memoria collettiva

8 novembre 2023_Una notizia che non devo dimenticare né sottovalutare
https://www.tgcom24.mediaset.it/2023/video/bimba-italiana-di-6-anni-e-la-madre-palestinese-lasciano-gaza_72244434-02k.shtml
3 NOVEMBRE 2023 Da Gaza in Italia: la piccola Minerva e la mamma raggiungono il papà a Fiumicino
Mamma e figlia sono atterrate con l’operatore umanitario Jacopo Intini, e con sua moglie palestinese Amal. Il gruppo è riuscito ad attraversare il valico di Rafah
Minerva, la bimba italiana di sei anni, che proprio oggi festeggia il suo compleanno, con la sua mamma, palestinese, Bayan Alnayyar, e l’operatore umanitario Jacopo Intini, con sua moglie palestinese Amal, sono arrivati da Gaza questa sera in Italia. A Fiumicino il papà ha accolto con commozione la moglie e la bimba, stanca ma sorridente, un pupazzo di Minnie in mano ed un palloncino con scritto Happy Birthday. Il gruppo, che è riuscito a lasciare la Striscia attraversando il valico di Rafah, è sbarcato intorno alle 21 all’aeroporto di Fiumicino con un volo di linea Ita Airways proveniente dal Cairo. All’arrivo il gruppo è stato assistito da personale della guardia di finanza aeroportuale.
Nessun contatto con la stampa presente nella zona arrivi del Terminal 3. Nei loro volti però non c’è gioia, il pensiero è verso i cari lasciati in Palestina. «Siamo arrivati ma non posso dire che siamo felicissimi – ha detto all’arrivo Intini – i nostri pensieri sono per tre persone che sono ancora a Gaza, sotto i bombardamenti, nostri amici, colleghi e parenti. Ovviamente non credo ci sia granché da festeggiare. Sono contento che siano arrivate con noi la piccola Minerva e la mamma: felice per loro che ce l’hanno fatta. Dovevano uscire con noi da Gaza ma non è stato possibile, Ci sono riuscite il giorno successivo».
Da Gaza in Italia: la piccola Minerva e la mamma raggiungono il papà a Fiumicino – Open
1 novembre 2023 – Un nome alle cose: pogrom
Lettura da conservare – vedi anche 31 ottobre – Sofri
30 ottobre 2023 La Repubblica
Lo sguardo sul Male di Ezio Mauro
Convinti di aver capito la lezione che viene dal passato, non credevamo che i nostri figli avrebbero vissuto la contemporaneità di un pogrom, con i tagliagole che attaccano di notte per uccidere uomini, donne e bambini inermi, colpevoli soltanto di essere ebrei e per questo giustiziati come potatori di una colpa perenne, inestinguibile. Nel 2023 sembra di sentire la voce dei lamenti e dei racconti in yiddish testimoniati nella letteratura dell’Europa centrorientale, con la storia che non impara da se stessa (nonostante le fosse comuni del genocidio nel 1995 a Srebrenica) e il male che riemerge da ogni sconfitta, pronto a contendere il destino dell’umanità.
Ma è inutile negare che nel massacro programmato dai terroristi di Hamas abbiamo intravisto – in diverse proporzioni e tutt’altro contesto – la stessa scintilla dell’Olocausto con l’ebreo da annientare come perpetua e suprema missione, fuori dal tempo e indifferente allo spazio dove si compie.
Certo la Shoah parla attraverso la sua unicità che contiene il mistero dell’inconcepibile e fissa il limite supremo dell’abiezione: ma l’eccidio del
7 ottobre ha nel suo significato universale l’eco di quegli stessi propositi di annientamento e distruzione sul cui rigetto si è costruita la civiltà occidentale del Dopoguerra.
Proprio per queste ragioni anche il pogrom di Hamas è un uniucum dei nostri anni , e non per il numero di vittime , che resta spaventoso : ma perché i morti non sono combattenti in azioni di guerra ma bensì civili, inseguiti e uccisi nella normalità della loro esistenza quotidiana , nell’esercizio personale delle scelte autonome, nella libertà delle piccole cose che è il tessuto pratico, concreto , del modo di vivere in democrazia. Questa caratteristica – persone trasformate in bersaglio non per ciò che hanno fatto ma per ciò che sono, dato sufficiente e anzi dirimente nel decretarne la morte – porta l’accaduto fuori dalla dimensione della politica e addirittura oltre la morale , e ci chiede di giudicarlo semplicemente e finalmente come una dimensione del disumano.
Il problema è che non riusciamo a tenere lo sguardo fermo sul male . Anche la morale, troppo indaffarata e sollecitata da un mondo fuori controllo, procede per stereotipi assegnando una specifica categoria ad ogni vicenda, e finisce per giudicare la categoria, non l’avvenimento. E’ un giudizio disincarnato, prevedibile ma meccanico, quasi automatico dunque non riflessivo, che ci consente di rimanere al riparo delle nostre convinzioni e dei nostri pregiudizi senza lasciarci investire e deviare dalla furia degli eventi incalzati alla continua metamorfosi del male: che mentre si riproduce cambia ogni volta la sua configurazione per sorprenderci, tentarci, sedurci, fino a catturarci. Tutto conferma l’indebolimento della nostra capacità di conoscere e capire, fondamento indispensabile di qualsiasi scelta consapevole nel prendere posizione . Il risultato è che il giudizio del cittadino rischia di impigliarsi nei luoghi comuni gregari del pensiero egemone o nella semplificazione del controcanto populista, ottundendosi, oppure di smarrirsi soverchiato dalla portata universale dei fenomeni che deve valutare, arrendendosi..
Semplicemente, non reggiamo il peso del reale. Senza più sovrastrutture ideologiche e culturali capaci di ingannare e consolare ma anche di decifrare e tradurre, incasellando, non sappiamo maneggiare l’evidenza rovente di ciò che accade fuori dagli schemi costruiti per semplificarci la visione del mondo , con l’obiettivo di decantare le vicende che ci sconcertano, decontaminandole fino a banalizzarle. Rifuggiamo dalla potenza della realtà, oppure la consumiamo da semplici spettatori. Proiettandola all’esterno della nostra testimonianza di vita, illudendoci di essere al riparo protetti dallo schermo artificiale che trasforma l’esperienza in rappresentazione, dunque intangibili.
In realtà quel che cerchiamo di evitare non è tanto la vulnerabilità , ma la responsabilità, cioè la coscienza di essere anche noi , dovunque siamo, parti in causa del nuovo disordine mondiale che ci minaccia.
Ecco perché fatichiamo a chiamare il pogrom col suo nome, nell’unico significato possibile: per mantenere una distanza che salvi intatti i nostri equilibrismi politici e i nostri meccanismi ideologici, evitando che la novità antica del tragico nella sua potenza getti tutto per aria, costringendoci a ricominciare a pensare da capo per capire. Come è possibile che di fronte alla chiarezza pedagogica dell’assalto di Hamas e dell’invasione russa dell’Ucraina noi siamo incapaci di farci investire integralmente dall’accaduto, per giudicarlo nella sua essenza, passando dalla commiserazione alla condivisione? Invece procediamo per compensazione nelle colpe , per sottrazione di senso , per concatenazione di responsabilità fino a smarrire il bandolo di un giudizio e la capacità di cogliere la portata autentica di ciò che è successo. Illudendoci in questo modo di stare nella storia mentre invece al massimo siamo dentro l’opportunismo della realpolitik.
L’esperienza italiana col progetto di eversione armata e omicida ci ha insegnato che il primo strumento di contrasto al terrorismo è sempre la capacità di chiamarlo col suo nome, senza infingimenti e ambiguità. Così non ci possono essere dubbi sulla natura di Hamas , sui suoi metodi e i suoi obiettivi, dichiarati. Le scelte sciagurate compiute dal governo di Israele sono un’altra cosa, fanno parte della politica e non di uno statuto di sterminio, meritano condanna e opposizione ma non possono diventare un elemento di giustificazione o un’attenuante. Anche la sofferenza e la disumanità delle condizioni di vita cui sono costretti i palestinesi a Gaza devono essere considerate dci per sé , nel loro significato che testimonia la negazione di un diritto, e valutate per questo: mentre sotto i bombardamenti la vita della popolazione civile della Striscia si riduce a semplice corollario collaterale del nemico, Hamas, senza distinguere. Abbiamo oggi l’autonomia e la libertà per capire e giudicare queste diverse realtà che ci interpellano? Non ci accorgiamo nemmeno che nel declinare l’unica vera soluzione alla crisi mediorientale infinita -due popoli, due stati – noi occidentali condensiamo in una formula due distorsioni clamorose: la prima è l’affidamento della popolazione palestinese tenuta in gabbia a un’organizzazione terroristica, lasciando marcire nella corruzione e nell’inabilità l’Anp, il solo interlocutore istituzionale e politico possibile; la seconda è la noncuranza con cui ribadiamo, accanto al diritto all’autodeterminazione palestinese (che per quel popolo continua ad essere un miraggio fino a sembrare un inganno) , il diritto di Israele ad esistere: come se la sopravvivenza fosse una semplice variabile gregaria della politica, un’opzione tecnica che va ogni volta protocollata , perché in quella parte del mondo può entrare in revoca.
Da un linguaggio così malato non può venire alcun rimedio , perché ci rende incapaci di leggere ciò che stiamo vivendo, o di cui stiamo morendo. Finché i fatti si vendicano , soverchiandoci fuori dai nostri schemi di comodo, dove la realtà ci aspetta.
