1 marzo 2018 – Gerusalemme: la serrata del Santo Sepolcro

25 febbraio 2018 – Santo Sepolcro chiuso per protesta [fonte nota 1]

Con un’azione senza precedenti, le Chiese cristiane hanno deciso la chiusura indefinita del Santo Sepolcro a Gerusalemme come protesta contro le autorità israeliane. Il passo è stato annunciato congiuntamente dalla Chiesa cattolica, la chiesa greco ortodossa e la Chiesa Armena apostolica, in un comunicato in cui si parla di “campagna sistematica di abusi contro le Chiese e i Cristiani”.
Al centro della controversia, spiegano i media israeliani, vi è l’intenzione della municipalità di Gerusalemme di congelare beni ecclesiastici per ottenere il pagamento di tasse anche sulle proprietà delle chiese cristiane diverse dai luoghi d culto.
LA PROTESTA – Inoltre, i cristiani sono preoccupati per una legge in discussione alla Knesset che permetterà allo Stato di espropriare proprietà vendute dalle chiese cattolica e greca ortodossa a partire dal 2010.
VIOLAZIONE – Il documento diffuso dal Custode della Terrasanta Francesco Patton, il Patriarca greco ortodosso Teofilo III e il Patriarca armeno Nourhan Manougian parla di “flagrante violazione dello status quo” religioso di Gerusalemme e di “rottura degli accordi esistenti e degli obblighi internazionali”.
LA LEGGE – Il testo attacca con durezza “la legge razzista e discriminatoria che attacca soltanto le proprietà della comunità cristiana”, un provvedimento che ricorda “leggi di simile natura che furono messe in opera contro gli ebrei in periodi bui della storia europea”.

28 febbraio Non è questione di tasse, a Gerusalemmedal blog di Paola Caridi. [fonte nota 2 – per la foto vedi nota 3]

Il grande portone del Santo Sepolcro a Gerusalemme è stato riaperto all’alba.
La clamorosa protesta delle chiese cristiane presenti nella Città Santa e proprietarie di immobili si è chiusa, per il momento. O meglio, è stata sospesa quando si è aperta una linea di dialogo con il governo israeliano ed è stato messo per ora in un cassetto il progetto di legge presentato alla Knesset dalla deputata Rachel Azaria su complesse questioni immobiliari.
Sarebbe riduttivo descrivere lo scontro tra le chiese cristiane di Gerusalemme e Israele come una mera questione fiscale. Nessun parallelo è possibile con l’imposta sugli immobili di proprietà ecclesiastica in Italia. Gerusalemme è, nella sua parte orientale, occupata. Nella parte orientale, peraltro, ricade il Santo Sepolcro, così come molti degli appartamenti in cui vive, per esempio, la piccola comunità cattolica. La municipalità israeliana di Gerusalemme ha chiesto alle chiese (soprattutto a quelle che possiedono più immobili e più terra, come il patriarcato greco-ortodosso, la Custodia francescana di Terrasanta, gli armeni) il pagamento di imposte arretrate. Non sulle chiese, viene detto, bensì su appartamenti e alberghi. Dal punto di vista della comunicazione, non c’è dubbio che le autorità israeliane abbiano toccato un nervo sensibile, soprattutto in Italia. Perché non dovrebbero pagare, come tutti, l’esosa imposta sugli immobili che in loco porta il nome di “arnona”? Peccato che Gerusalemme sia una città completamente diversa da Roma, dal punto di vista del diritto internazionale. Peccato che la proprietà immobiliare debba relazionarsi non con una semplice amministrazione comunale, ma con una potenza occupante, per quanto concerne Gerusalemme.
E poi ci sono i nodi politici e diplomatici. La questione fiscale è parte integrante del negoziato pluridecennale tra Vaticano e Israele. E’ un negoziato complesso che non comprende solo gli alberghi per i pellegrini, ma proprietà delicatissime come – per esempio – la famosa Collina del Papa, un pezzo di terra tra l’area della Tomba di Lazzaro (quartiere palestinese) e la colonia israeliana di Maaleh Adumim che incide sulla stessa strategia di Tel Aviv verso il totale controllo della città. Re Hussein di Giordania donò la Collina a Paolo VI in occasione della sua visita in Terrasanta nel 1964. Appena alla vigilia del nuovo stravolgimento della terra e dei confini sancito dalla Guerra dei Sei Giorni. La Collina del Papa è all’interno di un’area cruciale per ridisegnare i confini municipali della città e tagliare il collegamento tra i quartieri orientali palestinesi e Ramallah.
E poi ci sono le case, gli appartamenti di proprietà della chiesa, dove vivono ad affitto calmierato famiglie palestinesi cristiane. A Beit Fage (l’ingresso di Gesù a Gerusalemme, per intenderci), così come a Beit Hanina o a Shuafat, quartiere dove sono stati costruiti edifici residenziali sulla terra di proprietà ecclesiastica. Quelle case sono un piccolo polmone all’interno di un contesto abitativo difficilissimo: i palestinesi (compresi i palestinesi di fede cristiana) debbono fronteggiare una carenza nell’offerta immobiliare che penalizza la loro comunità a vantaggio degli abitanti israeliani. Praticamente impossibile ottenere una licenza per ampliare i piccoli edifici a Gerusalemme est, nella neanche tanto velata strategia di spingere i palestinesi fuori dalla città, verso Ramallah e Betlemme. Le famiglie che non vogliono abbandonare Gerusalemme e perdere il diritto di risiedervi hanno poche alternative: costruire abusivamente, senza licenza; essere costretti a vivere in piccoli spazi affollatissimi; pagare affitti sproporzionati nei pochi quartieri rimasti a maggioranza palestinese. Oppure, ma sono in pochi a poter avere questo privilegio, ottenere un appartamento di quelli che le chiese (greco-ortodossa e cattolica) riescono a costruire sulle terre di loro proprietà. L’arnona è l’ultimo dei problemi, dunque, in una situazione così complessa, e soggetta a un evidente doppio standard.
Il gesto clamoroso ed eclatante di questi giorni, in cui le chiese hanno reagito a un chiaro tentativo di rompere uno status quo vecchio di circa 150 anni, ha indotto Israele a non spingere sull’acceleratore. Il governo è stato cioè costretto a una ritirata tattica che non significa, però, la chiusura del caso. Il caso, cioè, verrà molto probabilmente riproposto quando si abbasseranno le luci per ora dirette sul portone del Santo Sepolcro. E dunque, sarà necessario continuare a seguire la vicenda.
Vi è una riflessione ulteriore da fare. La chiusura eccezionale del Santo Sepolcro fa il paio con la protesta su Al Aqsa di un anno e mezzo fa. In entrambi i casi, toccare i Luoghi Santi di Gerusalemme ha suscitato reazioni immediate e ferme da parte sia delle istituzioni religiose sia della popolazione palestinese, scesa subito in massa a protestare senza distinzione di fede. Palestinesi musulmani e cristiani assieme. I Luoghi Santi non si toccano, perché incarnano una dimensione che va ben oltre quella religiosa: è dimensione identitaria, comunitaria, nazionale, popolare, politica. Occorre non dimenticarlo, in queste settimane che preludono a una delle fasi più delicate di Gerusalemme, e cioè lo spostamento dell’ambasciata americana da Tel Aviv. Proprio in concomitanza con il settantesimo anniversario della fondazione dello Stato di Israele. In aperto conflitto con l’anniversario coincidente, la naqba, la catastrofe palestinese.

Nota 1:
http://www.adnkronos.com/fatti/esteri/2018/02/25/santo-sepolcro-chiuso-per-protesta_fFQcCCdhxsfBqrwqCTjRIL.html
Nota 2
https://www.invisiblearabs.com/tag/santo-sepolcro/
Nota 3
La foto del Santo Sepolcro è di circa un secolo fa, ed è conservata nel fondo Eric Matson presso la Library of Congress di Washington.

1 Marzo 2018Permalink

10 febbraio 2017 – A proposito delle colonie nei Territori palestinesi

David Grossman: “Il mondo è stanco di questo conflitto ma così Israele va verso l’apartheid”

Lo scrittore commenta la decisione del governo di annettere le colonie nei Territori palestinesi: “È contro ogni legge: ci saranno conseguenze pesanti”  di FRANCESCA CAFERRI

La decisione del primo ministro Netanyahu e del suo governo è un cambiamento drammatico, un’escalation che porterà conseguenze difficili da immaginare ora: un Paese non può avere colonie in un’area che non gli appartiene. È contro la nostra legge, contro la legge internazionale. Tutti quelli che sono stati parte di questa decisione prima o poi ne pagheranno conseguenze pesanti”. All’indomani del voto della Knesset sull’annessione delle colonie israeliane a Gerusalemme e in Cisgiordania, la voce di David Grossman, uno dei più grandi scrittori contemporanei ma anche una delle più lucide coscienze critiche di Israele, suona triste: come quella di chi, nel futuro, non vede molti segni di speranza per il proprio, amatissimo, Paese.

Signor Grossman, qual è il senso di questa decisione?

“Questo è solo uno dei segni della direzione che ha preso questo governo, che è quella che va verso l’annessione dei Territori: vogliono farne parte dello Stato di Israele, ma una parte che non avrà gli stessi diritti dei cittadini israeliani. Il voto della Knesset è un altro passo verso la trasformazione di Israele da Stato democratico a Stato di apartheid “.

Eppure non mi sembra che ci sia stata una forte opposizione. Sbaglio?

“Non sbaglia affatto. L’opposizione politica interna è molto debole. Allo stesso tempo il mondo sembra essersi stancato dell’infinito conflitto fra Israele e i palestinesi: capisco la stanchezza, ma è pericoloso lasciare Israele e i palestinesi da soli perché la situazione può sfociare in violenza in tempi rapidissimi. Io non credo alla teoria secondo cui l’Isis o Al Qaeda sono nate a causa del conflitto israelo-palestinese, ma so per certo che risolvere in modo equo questo conflitto farà diminuire l’incendio che infiamma altre crisi. Per questo l’Europa, gli Stati Uniti e i Paesi arabi dovrebbero interessarsi di quello che sta accadendo. Ma oggi tutti aspettano di sapere cosa farà Donald Trump, perché il mondo è diventato il palcoscenico di uno show con un unico protagonista, lui”.

Lei cosa si aspetta da Trump? Cosa crede che porterà la sua era per Israele?

“Il secondo nome di Trump è ‘imprevedibile’. Credo che neanche lui sappia come reagirà: è chiaro che ha un’empatia verso Netanyahu e verso la destra israeliana e che disprezza i musulmani. Ha promesso di spostare l’ambasciata a Gerusalemme, una scelta che potrebbe provocare reazioni violente nel mondo arabo e fra i palestinesi. Eppure coltivo una flebile, e un po’ folle, speranza: presto Trump potrebbe cominciare a chiedersi se è davvero conveniente per gli Stati Uniti investire tanti soldi in questo fallimentare processo di pace, visto che Israele non fa che compiere passi che peggiorano la situazione. Potrebbe proporre a Putin di lanciare insieme un piano per il conflitto che né Israele né i palestinesi potrebbero rifiutare, senza andare incontro a durissime conseguenze. Ma capisco che questa speranza poggi su flebili basi”

Vorrei chiudere con una domanda personale: guardando Israele oggi, sembra che la voce degli intellettuali sia quasi l’unica a contrapporsi a Netanyahu. È così? E se la risposta è positiva: non ci si sente soli?

“Io, come molti dei miei colleghi, cerco di essere il più connesso possibile al mondo che mi circonda. Per questo capisco che oggi lo spazio per la speranza è molto ridotto. Ho compreso il senso della sua domanda: so bene che opinioni come la mia sono marginali e spesso anche disprezzate in Israele. Ma questo avviene perché negli ultimi anni, sotto il regime di Netanyahu, un dibattito che dovrebbe essere logico e razionale si è trasformato in qualcosa di emotivo. L’idea stessa di come essere cittadini di questo Stato è cambiata: si è passati dall’idea di appartenere a uno Stato democratico, basato sulla legge, a quella di appartenere a uno Stato basato sulla religione. Quello che conta oggi è se sei ebreo o no: nel primo caso hai diritti e privilegi, altrimenti quasi non sei benvenuto. È molto pericoloso: è una situazione in cui l’irrazionalità vince e ci spinge in un angolo in cui ci sentiamo soli e abbandonati dal resto del mondo”.

Il che ci riporta alla solitudine…

“Israele non è solo: gode di molto supporto nel mondo, e anche di molta simpatia. È il nostro primo ministro che incoraggia la crescita di un sentimento di isolamento. Così facendo spinge il Paese in un angolo pericoloso. Ci porta a perpetuare questa situazione di guerra: se la guerra è il tuo destino, fai di tutto per essere un guerriero migliore. Ma così facendo perdi ogni traccia di speranza. Nonostante tutto questo, e per rispondere alla sua domanda, le dico che sento ancora intorno l’appoggio verso chi ha opinioni simili alla mia. Se ci fosse un leader che non manipolasse le nostre ansie, che non usasse i fantasmi di traumi passati per farci paura, credo che molti israeliani lo ascolterebbero. Perché tanti di noi, nel profondo del cuore, sanno bene che abbiamo preso una strada pericolosa. La tragedia è che un leader così non c’è. Così la nostra società diventa sempre più apatica: e questo è grave, perché una società apatica diventa facilmente plasmabile da chi ha un’agenda nazionalista e violenta. Il rischio è che in Israele queste persone si impossessino del nostro futuro”.

FONTE:

http://www.repubblica.it/esteri/2017/02/09/news/david_grossman_il_mondo_e_stanco_di_questo_conflitto_ma_cosi_israele_va_verso_l_apartheid_-157918329/

10 Febbraio 2017Permalink

24 dicembre 2016 – Astensione degli USA all’ONU in merito agli insediamenti israeliani nei Territori.

Approfitto del testo inserito in fb da Tiziano Sguazzero.
Tiziano Sguazzero
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 Storica astensione degli Usa, approvata la risoluzione Onu contro le colonie israeliane

Israele/Territori Palestinesi Occupati. Rabbia di Israele per la decisione dell’Amministrazione Obama di non bloccare con il veto la risoluzione che riafferma lo status di territori occupati per Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est. Colpo di coda di Obama che tra un mese lascerà la Casa

Grazie a una astensione, senza alcun dubbio storica, degli Stati Uniti, ieri sera il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha approvato una risoluzione di aperta condanna degli insediamenti coloniali israeliani costruiti contro il diritto internazionale nei Territori palestinesi occupati. Le colonie – si legge nel testo – «non hanno validità legale». E’ il colpo di coda di Obama che Benyamin Netanyahu temeva e che ha cercato in tutti i modi di impedire. Gli Stati Uniti non possono appoggiare gli insediamenti coloniali e la soluzione dei Due Stati nello stesso tempo, ha spiegato la decisione di astenersi l’ambasciatrice americana all’Onu, Samantha Power. Rabbiosa la reazione di Israele. «Né il Consiglio di sicurezza dell’Onu né l’Unesco possono spezzare il legame fra il popolo di Israele e la terra di Israele», ha urlato l’ambasciatore israeliano all’Onu, Danny Danon sorvolando il “dettaglio” che i Territori palestinesi occupati non sono parte di Israele. Dopo aver sistematicamente bloccato all’Onu per otto anni ogni risoluzione di condanna dello Stato ebraico, Barack Obama ha inflitto un duro colpo a Netanyahu. Si è vendicato degli attacchi israeliani subiti per anni. Netanyahu inoltre non aveva esitato, nel marzo 2015, ad umiliarlo di fronte al Congresso Usa parlando contro l’accordo sul nucleare iraniano fortemente voluto dalla Casa Bianca.

È finita a stracci in faccia. Netanyahu, ingrato, dimenticando il recente via libera della Casa Bianca a un piano di aiuti militari a Israele per 40 miliardi di dollari nei prossimi dieci anni, in anticipo sul voto di ieri sera, usando un funzionario governativo aveva accusato Obama e il segretario di stato John Kerry di aver messo in atto una «spregevole mossa contro Israele alle Nazioni Unite». Il presidente americano uscente, aveva aggiunto il funzionario, ha coordinato le mosse all’Onu con i palestinesi per riaffermare lo status di città occupata di Gerusalemme e della sua zona araba: «L’amministrazione Usa ha segretamente confezionato con i palestinesi, alle spalle di Israele, una risoluzione estrema che avrebbe dato il vento in poppa al terrorismo e al boicottaggio e che avrebbe fatto del Muro del Pianto territorio palestinese occupato». Obama, ha aggiunto, «avrebbe dovuto subito dichiarare la sua volontà di mettere il veto su questa risoluzione, invece l’ha sostenuta. Questo è un abbandono che rompe decenni di politica americana a protezione di Israele all’Onu e mina le prospettive di lavorare con la prossima Amministrazione nel far avanzare la pace».

Invece il governo Netanyahu lavorerà molto bene e in piena sintonia con la prossima Amministrazione americana. L’ha detto subito l’ambasciatore Danon: «Non ho dubbi sul fatto che la nuova amministrazione americana e il nuovo segretario generale dell’Onu apriranno una nuova era in termini di relazioni dell’Onu con Israele». D’altronde gli sviluppi di giovedì notte, prima dell’approvazione ieri sera della risoluzione, lo dicono con estrema chiarezza. Netanyahu infatti era riuscito a bloccare il voto e a frenare l’Amministrazione Obama. Prima ha bombardato di telefonate gli egiziani, promotori del progetto di risoluzione, poi ha messo in moto gli “amici” alle Nazioni Unite. Determinante è stato anche il presidente eletto Usa Donald Trump che è intervenuto in ogni modo, anche via twitter, per far congelare il voto. Il Cairo giovedì aveva ceduto, subito. Trump, in una conversazione telefonica con il leader egiziano Abdel Fattah al Sisi, aveva messo le cose in chiaro: al comando presto ci sarò io, l’Egitto riceve sostanziosi aiuti americani, Israele e le sue politiche non si toccano. Al Sisi – che non ha mai digerito la politica di Obama in Medio Oriente, troppo morbida, a suo dire, con i Fratelli musulmani, e il mese scorso aveva applaudito alla vittoria di Trump – ieri ha spiegato di aver concordato il presidente eletto «che alla nuova amministrazione Usa deve essere data la possibilità di risolvere il conflitto israelo-palestinese».

Allo stesso tempo era scesa in campo la squadra di Trump per ricordare ad Obama che il suo mandato è agli sgoccioli e che non può fare un passo tanto importante in politica estera aggirando l’Amministrazione che entrerà in carica dopo il 20 gennaio. «La decisione del Cairo di ritirare la risoluzione rappresenta il primo concreto atto della cooperazione tra Trump e Netanyahu», ha commentato la tv israeliana Canale 2. Obama però non ha resistito al desiderio di mettere in atto la sua vendetta e ieri ha scagliato il suo colpo. Troppo tardi però. Questa vendetta non basta a cancellare le ombre, gigantesche, sulla sua presidenza. Pesano le mancate promesse fatte nel 2009 quando aveva parlato di una svolta nella politica mediorientale degli Usa, specie nei riguardi dei palestinesi senza Stato. Svolta che non è mai avvenuta, l’occupazione israeliana non è mai terminata. E con Trump può solo consolidarsi.

24 Dicembre 2016Permalink

6 novembre 2016 – Una chiacchierata su facebook che voglio ricordare

Cominciando da una vignetta
Ho condiviso su facebook una vignetta garbata e pertinente, formata da due battute attribuite e figure femminili Dice la figura 1: “Secondo Radio Maria il terremoto è un castigo divino perché in Italia abbiamo approvato la legge sulle unioni civili …” Replica la seconda: “… e cosa abbiamo combinato di peggio per avere Radio Maria”.

Un amico ha inserito un commento che trascrivo: “Fonzaga è quello che ha detto che lo tsunami del sud est asiatico l’ha voluto dio per portare nuove anime in paradiso. Dal suo punto di vista è coerente. Del resto un viceministro israeliano (druso) ha detto che il terremoto italiano era una punizione per il voto di astensione all’unesco. Bisogna avere pazienza…”

Ho replicato: “Poiché l’individuo Fonzaga si colloca in un ambito definito ognuno abbia la responsabilità di esprimerne il suo indignato dissenso, prima di tutto chi appartiene a quell’ambito quale che sia, soprattutto se in posizione di autorevolezza riconosciuta. Non capisco invece la precisazione etnica accanto alla funzione del viceministro dello stato di Israele. Quando io scrivo stupidaggini spero vengano contestate a prescindere dalla mia statura, peso o numero di scarpe, caratteristiche secondo me assimilabili a una eventuale appartenenza etnica mi venga appiccicata addosso”.

L’amico che aveva inviato il primo commento ha aggiunto due note. “Lo specifico per evitare (spero) la canea antisemita che si scatena a sentir parlare di un ministro israeliano” e ancora “Spero tu capisca che è un po’ diverso dal numero di scarpa, anche se concordo che non dovrebbe essere così”.

Ho risposto:
Caro J., mi spiace dover chiarire con te, che mi sei amico, quello che ritenevo ovvio ma proprio perché mi sei e ti sono amica, rispondo: 1. Ho scritto che – PER ME – una serie di caratteristiche di carattere banale sono “assimilabili a una eventuale appartenenza etnica mi venga appiccicata addosso”. Mi spiego: se qualcuno dice che sono nata in Friuli, che sono vissuta in Friuli, che risiedo in Friuli afferma evidenti dati di fatto. Ma se qualcuno mi attribuisce opinioni perché ‘friulana’ mi offendo perché trasferisce le mie scelte di vita all’immobile immodificabilità della etnia subita per nascita (che comprenderebbe quindi non solo nascita e residenza ma intelletto, etica e quant’altro – PER ME- appartiene alla libera scelta, maturata da una persona responsabile e consapevole o che almeno cerca di esserlo).
Ho vissuto la mia adolescenza e la mia prima giovinezza negli anni ’50 quando il sistema educativo (dalla famiglia, alla scuola, all’ambiente sociale) si riferiva alla tradizione consolidata localmente e quindi a una presunzione ‘etnica’ rigida, esclusiva non inclusiva. Mi sembrava di essere un bidone della spazzatura da riempire e il mio disgusto per tutto questo nato allora, è rimasto negli anni e negli anni (molti) l’ho elaborato.
2. L’indicazione di druso accanto al nome del ministro di Israele mi è sembrato un qualche cosa di inutile: aveva detto una sciocchezza nell’ambito del suo ruolo istituzionale e come tale meritava responsabile opposizione, come lo sciagurato teologo di Radio Maria, così come è doveroso sottoporre a attenzione critica e dissenso la risoluzione dell’Unesco, ricordando che gli antichi nomi di Gerusalemme hanno ANCHE una denominazione araba, entrambe non esclusive almeno nella storia.

6 Novembre 2016Permalink

24 ottobre 2016 — Quando l’uso strumentale della storia può costruire le condizioni per rinnovare non sopiti, anche speculari, razzismi.

Il 21 ottobre del 2015 Huffington Post  pubblicava un articolo redazionale dal titolo: “Benyamin Netanyahu: “Sono stati i palestinesi a spingere Hitler allo sterminio degli ebrei” “. Berlino: “Non cambiamo la storia” (link in calce)

L’articolo torna a girare non so per quale ragione. Lo ricopio e ricordo che pochi giorni fa c’è stato l’anniversario dello deportazione degli ebrei dal ghetto di Roma, di cui ho scritto nel mio blog il 16 ottobre e che Israele non riconosce (in consonanza con la Turchia) il genocidio armeno. Anche di questo ho pubblicato documentazione nel mio blog il 13 luglio scorso. Così ho dato spazio, il 16 settembre,  a un ‘Appello agli ebrei nel mondo’ (primi firmatari gli scrittori David Grossman e Amos Oz).

21 ottobre del 2015 “Benyamin Netanyahu: “Sono stati i palestinesi a spingere Hitler allo sterminio degli ebrei” “. Berlino: “Non cambiamo la storia”

Conosciamo bene i fatti, non c’è nessun motivo per cambiare la storia”, poche e lapidarie le parole del portavoce di Angela Merkel, Steffen Seibert, rispondendo alle affermazioni di Netanyahu sulla Shoah secondo cui Hitler all’epoca non voleva “sterminare” gli ebrei, ma “espellerli”. “Conosciamo bene l’origine dei fatti – ha aggiunto – ed è giusto che la responsabilità sia sulle spalle dei tedeschi”.

Le affermazioni del premier Benyamin Netanyahu hanno suscitato molto scalpore. Secondo quanto ha detto il premier israeliano, HItler fu convinto alla Soluzione finale dal Muftì di Gerusalemme Haj Amin Al-Husseini. “Hitler -ha detto al Congresso sionista- all’epoca non voleva sterminare gli ebrei ma espellerli. Il Muftì andò e gli disse ‘se li espelli, verranno in Palestina. ‘Cosa dovrei fare?’ chiese e il Muftì rispose ‘Bruciali'”.

Come ricorda oggi il quotidiano Haaretz, Netanyahu aveva già sostenuto tale tesi in un discorso tenuto alla Knesset nel 2012, quando definì Husseini “uno dei principali architetti” della soluzione finale. Una ricostruzione avanzata da diversi storici, ha sottolineato il quotidiano, ma respinta dai più accreditati ricercatori sull’olocausto.

Interpellati oggi dal quotidiano Yedioth Aharonot, diversi storici hanno di nuovo respinto tale ricostruzione. Il professore dan michman, a capo dell’istituto per la ricerca sull’olocausto dell’università di bar-ilan, tel aviv, e presidente dell’istituto internazionale per la ricerca sull’olocausto dello Yad Vashem, ha confermato l’incontro tra Hitler e il muftì, sottolineando però che questo avvenne quando la soluzione finale era già stata avviata.

Anche il presidente degli storici dello Yad Vashem, Dina Porat, ha respinto la ricostruzione di Netanyahu: “Non si può dire che è stato il muftì a dare a Hitler l’idea di uccidere o bruciare gli ebrei. Non è vero”.

Dura la replica del leader dell’opposizione Isaac Herzog: “Una pericolosa distorsione. Chiedo a Netanyahu di correggerla immediatamente perché minimizza la Shoah… e la responsabilità di Hitler nel terribile disastro del nostro popolo”.

L’affermazione di Netanyahu è totalmente senza basi”, ha invece commentato Efraim Zuroff, direttore del Centro Wiesenthal di Gerusalemme. “Che il Muftì spingesse sui nazisti e volesse l’invasione della Palestina è fuori discussione, ma Hitler non doveva essere convinto da nessuno”.

“Non ho avuta alcuna intenzione di sollevare Hitler dalla responsabilità per l’Olocausto e la Soluzione Finale”, ha in seguito precisato Netanyahu.

Fonti:

http://www.huffingtonpost.it/2015/10/21/netanyahu-palestinesi-hitler_n_8344490.html

16 ottobre 2016: La necessità della memoria,   https://diariealtro.it/?p=4656

13 luglio 2016 ‘Uso politico del negazionismo’   https://diariealtro.it/?p=4472

16 settembre 2016 ‘Appello agli ebrei nel mondo’ https://diariealtro.it/?p=4595

24 Ottobre 2016Permalink

16 settembre 2016 – Appello agli ebrei del mondo

SISO –     SALVA ISRAELE, FERMA L’OCCUPAZIONE

Appello   agli ebrei del mondo

Se amate Israele, il silenzio non è più un’opzione possibile

Con l’avvicinarsi del 2017 che segna il cinquantesimo anno dell’occupazione israeliana di territori palestinesi.   Israele è ad un punto di svolta. La situazione attuale è disastrosa. Il protrarsi dell’occupazione opprime i palestinesi e alimenta un ciclo ininterrotto di spargimento di sangue. Corrompe le fondamenta morali e democratiche dello Stato di Israele e danneggia la sua posizione nella comunità delle nazioni . La nostra migliore speranza per il futuro – il tragitto più sicuro verso la sicurezza, la prosperità e la pace – risiede in una soluzione negoziata del conflitto israelo-palestinese che conduca alla creazione di uno stato palestinese indipendente accanto e in rapporti di buon vicinato con lo Stato di Israele. Facciamo appello agli ebrei nel mondo intero perché si uniscano a noi israeliani in un’azione coordinata per porre fine all’occupazione e costruire un futuro nuovo per la salvezza dello Stato di Israele e delle generazioni future.

Sottoscritto da oltre 500 israeliani, fra cui :

David Grossman, Amos Oz, Achinoam Nini (Noa), David Broza, Avishai Margalit, Avraham Burg, Edward Edy Kaufman, Ohad Naharin, Orly Castel Bloom, Ilan Baruch, Alon Liel, Elie Barnavi, Alice Shalvi, -Shakhar, David Harel, David Tartakover, David Rubinger, David Shulman, , Dani Karavan, Daniel Bar-Tal, Daniel Kahneman, Zeev Sternhell, Chaim Oron (Jumes), Haim Ben-Shahar, Chaim Yavin, Yair Tzaban, Yehuda Bauer, Judith Katzir, Joshua Sobol, , Yoram Bilu, Yael Dayan, Iftach Spector, Yitzhak Frankenthal, Mossi Raz, Michael Benyair, Micha Ullman, Menahem Yaari, Moshe Gershuni, Noga Alon, Nahum Tevet, Naomi Chazan, Nathan Sharony, Savyon Liebrecht, Sami Michael, Sammy Smooha, Edit Doron, Amos Gitai, Amram Mitzna, Anat Maor, ‏‏ Colette Avital, Ronit Matalon,   Shaul Arieli, Shimon Shamir,  Akiva Eldaron,  Aharon Shabtai, Eva Illouz .

FONTE:
Ho ricevuto da Bruno Segre. Pubblico subito con profonda gratitudine

 

16 Settembre 2016Permalink

13 luglio 2016 – Uso politico del negazionismo

8 luglio 2016  “Ancora una volta, Israele nega il genocidio armeno” Il prof. Yair Auron si batte da anni per il riconoscimento del genocidio armeno da parte di Israele            alchetron (note biobliografiche sull’autore)

Yair Auron è uno studioso dei genocidi che si batte da anni per il riconoscimento del genocidio armeno da parte di Israele e del mondo. Visto che per mercoledì era previsto un voto della Knesset in seduta plenaria su questo tema, il docente della Open University e fondatore di Gariwo Israele ha proposto su Haaretz del 4 luglio una risoluzione di riconoscimento da parte almeno del Parlamento di Israele, se non di tutto lo Stato. In realtà mercoledì la Knesset ha deciso di rinviare la discussione per non compromettere i rapporti con la Turchia. Poiché questo articolo riflette comunque tutto l’iter complesso del riconoscimento israeliano del genocidio armeno, lo pubblichiamo, sicuri che le raccomandazioni di Auron conservino valore anche per future votazioni.  

Israele è uno dei pochissimi Paesi democratici al mondo, se non l’unico, a negare il genocidio armeno, e a sostenere la cocciuta politica negazionista della Turchia

Il 31 maggio, pochi giorni prima che la camera bassa del Bundestag Tedesco riconoscesse le uccisioni contro il popolo armeno – un atto che ha avuto risonanza in tutto il mondo – ci sarebbe dovuta essere una discussione su questo tema alla Knesset. Tuttavia, essa è stata rinviata per la pressione del Ministero degli Esteri (che è guidato dal Primo Ministro Benjamin Netanyahu). La discussione avrebbe dovuto avere luogo mercoledì 6 luglio, ma è stata ancora rinviata, sempre per non causare tensioni con la Turchia (NdR).

Questo è un dibattito molto importante, portato avanti da anni da coloro che sostengono che Israele debba riconoscere il genocidio armeno. Nell’ultimo anno speravo che, se non il governo israeliano, almeno la Knesset l’avrebbe finalmente riconosciuto, ma evidentemente le probabilità che ciò avvenga sono scarse, alla luce dell’accordo di riavvicinamento firmato con la Turchia. Dopo tutto, chi metterebbe in crisi l’accordo per via di una elemento così trascurabile come il fatto se vi sia stato o no un genocidio contro un’altra nazione?

È impossibile che il governo israeliano riconosca il genocidio armeno, ma nel corso dell’anno in cui si è commemorato il centenario dell’assassinio del popolo armeno (il 2015, ndR) c’era quanto meno la speranza che l’avrebbe fatto la Knesset. Ma evidentemente si tratta di una speranza destinata a dissolversi. Il Presidente Reuven Rivlin ha espresso in passato una profonda identificazione con la sofferenza degli armeni. Quando ha presieduto la Knesset ha perfino dichiarato che Israele dovrebbe riconoscere il genocidio armeno. È una vergogna che si sia trattenuto dal ripeterlo da quando è stato eletto Presidente, dicendo soltanto: “Non ho cambiato idea”.

In una discussione della Commissione della Knesset per l’Istruzione a luglio 2015, nella quale ha partecipato anche Edelstein (parlamentare del Likud e membro della coalizione di governo, ndR), tutti i relatori della coalizione di governo e dell’opposizione hanno appoggiato il riconoscimento. Solo un rappresentante del Ministero degli Esteri ha avanzato riserve, affermando che il concetto di “genocidio” è stato politicizzato, e quindi Israele non dovrebbe avvalersene. Immaginate se qualsiasi governo europeo dovesse affermare che “Shoah” è un concetto politico e quindi sarebbe esentato da usarlo.

In conclusione del dibattito, la Commissione Istruzione ha rivolto un appello alla Knesset affinché riconosca il genocidio e al Ministero dell’Istruzione affinché lo faccia insegnare, ma non è accaduto nulla. La discussione annuale che avrà luogo prossimamente è il momento della verità. Il deterioramento delle relazioni con la Turchia e gli accordi sugli armamenti tra i governi di Israele e Azerbaigian, del valore di miliardi di dollari e concernente armi destinate agli scontri con gli armeni – non fanno ben sperare che sia possibile il riconoscimento.

Anche se le persone e le istituzioni in Israele non saranno felici di sentire queste parole, esse vanno dette. Israele nega il genocidio armeno. Siamo uno dei pochissimi Paesi democratici al mondo, se non l’unico, a sostenere la cocciuta politica negazionista della Turchia. Gli Stati Uniti non riconoscono né negano il genocidio. Quando noi lo neghiamo, dissacriamo la memoria delle vittime. Secondo me, ciò facendo offendiamo anche le vittime della Shoah.

Per via di quest’ultima frase, che mi sono rifiutato di omettere, l’amministrazione di Yad Vashem ha rifiutato un articolo scientifico che ero stato invitato a scrivere per la newsletter dell’istituzione, Teaching the Legacy (insegnare il lascito). Ma io continuerò a dire e scrivere questa frase fino a quando lo Stato di Israele, anche solamente attraverso la Knesset, non riconoscerà il genocidio armeno.

Oggi si sa – è stato dimostrato – che quando neghiamo un genocidio del passato, prepariamo la strada a un genocidio futuro.

Il dibattito alla Knesset dovrebbe suscitare un grande interesse nel mondo, e senz’altro tra gli armeni, in Armenia e nella diaspora, e si spera anche qui. Coloro che si battono per il riconoscimento stanno chiedendo “un voto ora”. Spostare la discussione alla Commissione è stato un passo importante per diversi anni, ma è diventato uno strumento politico per nascondere la verità. Noi continuiamo a negare.

Il riconoscimento di Israele (che non è arrivato prima, con mio dispiacere) probabilmente porterebbe al riconoscimento del genocidio armeno in tutto il mondo. Se lo riconosce Israele, il Presidente USA Barack Obama non potrà continuare a rimanere in disparte. Ciò che è vero del genocidio, è vero anche per la battaglia contro la sua negazione: chiunque non sia dalla parte delle vittime è dalla parte dei negazionisti.

Link da cui è possibile raggiungere alla fonte il testo in italiano. Fonte Gariwo – La foresta dei giusti  http://it.gariwo.net/ .

http://it.gariwo.net/persecuzioni/negazionismo/ancora-una-volta-israele-nega-il-genocidio-armeno-15337.html

Molti ritengono che ragionare sulla politica di Israele sia antisemitismo; perciò ho raggiunto la fonte originaria, il quotidiano Haaretz dove è possibile leggere lo stesso testo in inglese.

http://www.haaretz.com/opinion/.premium-1.728904

HAARETZ Wednesday,  July 13, 2016. Tammuz 7, 5776 Time in Israel: 4:35 PM

YET Again, Israel Denies the Armenian Genocide Yair Auron  Jul 04, 2016 11:29 PM

Israel is one of the only democratic countries in the world, if not the only one, to do so, and to support Turkey’s stubborn policy of denial.

13 Luglio 2016Permalink

5 maggio 2016 – Abraham Yehoshua: “Europa aiutaci ….”



Israele, Abraham Yehoshua: “Europa aiutaci 
a fare la pace con i palestinesi”

Gli Stati Uniti sono ostaggio della destra israeliana. Solo voi potete 
riavviare la trattativa coi palestinesi. Per arrivare a uno Stato comune.  Ma il Vecchio Continente è troppo vile… Parla il grande scrittore israeliano  

DI WLODEK GOLDKORN  02 maggio 2016

Voi europei siete vili e anche poco dignitosi. Siete oltre mezzo miliardo di persone; benestanti; da decenni non avete conosciuto la guerra; avete creato una struttura unitaria che nonostante le apparenze è forte. Ma poi vi lamentate, vi presentate come deboli, pensate alle vie di fuga separatiste: tutto questo per evitare di misurarvi con i problemi del mondo; eppure la vostra ministra degli Esteri Federica Mogherini è brava e competente.

L’Europa nel Medio Oriente può fare moltissimo; e per quanto riguarda il conflitto tra noi israeliani e i palestinesi, può e deve essere decisiva, visto che tutto quello che fanno gli States è nocivo e distruttivo e che Washington è ormai ostaggio della destra israeliana. Dovete spingere il nostro governo e i palestinesi a tornare al tavolo dei negoziati. Purtroppo, la viltà vi sembra più comoda dell’assunzione di responsabilità…

Dalla sua casa di Tel Aviv, Abraham Yehoshua alza la voce mentre lancia la sua invettiva contro l’indolenza del Vecchio Continente e fa un appello perché noi europei usciamo dal torpore per salvare almeno una parte del mondo ai nostri confini. L’occasione per questa intervista è la lectio magistralis che lo scrittore terrà a Milano il 6 maggio al Festival dei diritti umani e che ha come titolo “Dalle donne ebree alle donne d’Israele”. E allora, procediamo con ordine e parliamo delle donne, prima di tornare alle vicende di geopolitica e geostrategia.

Yehoshua, per Flaubert, Emma Bovary è una donna ribelle, ma la sua è una rivolta poco sensata. Tolstoj racconta Anna Karenina come una schiava d’amore, e per questo, incapace di vera felicità. Le donne nevrotiche di Amos Oz sono il lato femminile dell’autore. Nei suoi romanzi invece

«Nei miei primissimi racconti le donne erano assenti. Poi, lentamente, sono entrate a far parte della narrazione; ma da figure dell’immaginazione del protagonista maschio. È con “Il viaggio alla fine del Millennio” del 1997, che una protagonista donna giudica, prende posizione. Ester Mina, questo è il suo nome, si oppone alla bigamia e agisce di conseguenza. Nella “Sposa liberata” del 2002, un’altra protagonista è l’arbitro di ciò che è lecito e illecito. Non era una mia invenzione. Semplicemente le donne in Israele sono una presenza massiccia nel sistema giudiziario: tra avvocati e magistrati. Nel mio più recente romanzo, “La comparsa”, la protagonista assoluta è finalmente una donna. Potrei dire che alla soglia degli 80 anni (lo scrittore li compie quest’anno, ndr) mi sono sentito abbastanza maturo e forte per capire il mondo femminile».

Parliamo di Israele, oggi. Ci sono donne, partorienti, che rifiutano di essere ricoverate nella stessa stanza d’ospedale con le arabe. Un deputato alla Knesset, Bezalel Smotrich, ha addirittura teorizzato il diritto delle ebree a non condividere la camera con le madri di potenziali futuri assassini dei loro figli…

«È in crescita il razzismo e il nazionalismo. L’incitamento all’odio fa parte della strategia politica del premier Benjamin Netanyahu. Ciò detto: il deputato Smotrich è semplicemente una persona cattiva, uno cui piace il Male. E perfino i suoi colleghi di destra lo hanno condannato. Del resto, nel sistema della sanità i contatti tra ebrei e arabi sono frequentissimi. Abbiamo tanti medici e tantissimi infermieri arabi. Le vite degli ebrei e degli arabi sono ormai intrecciate e non separabili».

Stiamo parlando di cittadini israeliani. E nei Territori?

«Lì è tutto assurdo. I fondamentalisti ebrei vanno ad abitare all’interno dei quartieri e delle città palestinesi».

Perché è assurdo?

«Perché il sionismo consiste nel legare l’identità ebraica alla lingua e al territorio; il contrario dell’identità diasporica. E i nostri fondamentalisti cosa fanno? Rinunciano a questa conquista; vanno ad abitare nei luoghi che non gli appartengono e in mezzo alla gente che non parla l’ebraico. Ma l’assurdità maggiore è un’altra».

Quale?

«Da un lato, vivono in mezzo ai non ebrei, ma dall’altro sono razzisti. Per loro, i non ebrei, gli arabi sono esseri umani inferiori».

Finora chi pensava a una pace possibile, aveva in mente il progetto di due Stati e il ritorno ai confini del 1967. È un’ipotesi ancora valida?

«Diversi anni fa avevo proposto che i coloni rimanessero là dove stanno, in quanto minoranza ebraica, sottoposta alla legge dello Stato palestinese a venire. Ma ho cambiato idea. Temo che oggi tirare fuori dalla Cisgiordania centinaia di migliaia di ebrei non sia più possibile. E non è, purtroppo, immaginabile stabilire una frontiera che divida in due la Palestina storica, e tanto meno la città di Gerusalemme. Non solo per l’opposizione dei coloni e delle nostre destre; sono convinto che neanche i palestinesi vogliono la separazione dagli israeliani. Siamo in una specie di limbo».

Ha un piano alternativo ?

«Sì. Anziché parlare di due Stati e continuare a seminare illusioni circa il ripristino dei vecchi confini, bisogna preparare un progetto della costruzione di una confederazione tra Israele e i palestinesi. Ho in mente un piano che rispecchi la realtà e non i sogni».

Insomma, uno Stato binazionale. E allora, con il sionismo, con l’idea di uno Stato tutto per gli ebrei, come la mettiamo?

«Il sionismo ha realizzato quello che si è prefigurato. Esiste una nazione israeliana. Esiste la lingua ebraica. E del resto, perfino dentro i confini del 1967 siamo uno Stato un po’ binazionale. Il 20 per cento della popolazione israeliana è arabo; e questo fatto non è in contraddizione con il sionismo. Però a me interessa un altro aspetto della questione: forse potremmo realizzare la più grande rivoluzione degli ultimi duemila anni; forse abbiamo una chance di separare l’aspetto religioso da quello nazionale della nostra identità. Ma forse, da scrittore, corro troppo con l’immaginazione».

Nel frattempo si va nella direzione opposta. Movimenti di destra accusano lei e i suoi colleghi Amos Oz e David Grossman di essere agenti del nemico. Il romanzo di Dorit Rabinyan, “Borderlife” (pubblicato in Italia da Longanesi), in cui si narra dell’amore tra un’israeliana e un palestinese è stato ritirato dalle scuole. La ministra della Cultura vuole negare finanziamenti a chi non riconosce il carattere ebraico dello Stato.

«Non mi stupisco. La destra fa la destra. Alla radice del problema c’è la debolezza del mondo arabo, in preda a guerre civili e disgregazione degli Stati. La nostra destra non ha più paura degli arabi e così il suo disprezzo nei loro confronti aumenta. Certo, il terrorismo – le bombe sugli autobus o gli accoltellamenti – rende la vita difficile, ma non è una minaccia all’esistenza del Stato d’Israele. E così la destra prende di mira la cultura. Ma la cosa non mi preoccupa più di tanto. Anzi, penso che la nostra sinistra sia fissata troppo sulle questioni di cultura a scapito della politica. All’epoca di Internet è impossibile limitare la libertà di parola. E ciò vale pure per i nostri avversari: non è possibile limitare la libertà di coloro che incitano all’odio contro persone come me. I social media poi rendono il tutto più volgare; chiunque può dar fiato a ciò che pensa e nella maniera che pensa. E per quanto riguarda Dorit Rabinyan: l’hanno attaccata, ma il suo libro in pochissimi giorni è diventato un bestseller. Ciò detto, siamo malati di razzismo e di xenofobia. Ma sono convinto che sia un bene che le nostre malattie si manifestino apertamente».

Davvero?

«Sì, perché così possiamo affrontarle. Una volta si parlava dell’“etica ebraica” e della “purezza delle armi” e poi si agiva in un modo che contraddiceva ogni etica. Oggi, tutto è in Rete. Un soldato che uccide o umilia un palestinese, viene fotografato e ne nasce un dibattito».

Torniamo all’Europa. È giusto segnare i prodotti dei Territori occupati? È giusto boicottarli?

«Sono contro. Nelle fabbriche di proprietà israeliana nei Territori lavorano i palestinesi. Vogliamo privarli dello stipendio? E poi, Israele vende merci alla Cina, all’India. Là nessuno chiede dove e chi le ha prodotte. Il boicottaggio serve solo all’autocompiacimento della sinistra europa».

In Europa, abbiamo il problema dell’Islam, dell’integrazione, dei rifugiati…

«Per contrastare il fondamentalismo islamico in Europa, bisogna cercare aiuto delle comunità islamiche: gente che vive tra di voi da decenni. Bisogna rafforzare le comunità. Non dovete aver paura dell’altro che risiede tra di voi».

E con lo Stato islamico lei cosa farebbe?

«Abbiamo vinto una guerra contro la Germania nazista e oggi pensiamo di non essere in grado di costruire una coalizione capace di spazzare via il Daesh, un esercito di straccioni, armato di qualche pickup e pochi fucili?».

Fonte: http://espresso.repubblica.it/attualita/2016/04/29/news/isreale-abraham-yehoshua-europa-aiutaci-a-fare-la-pace-con-i-palestinesi-1.263270?ref=HEF_RULLO

 

 

5 Maggio 2016Permalink

2 gennaio 2016 – Entra in vigore l’accordo tra la Santa Sede e lo Stato di Palestina firmato lo scorso 26 giugno

Entra in vigore l’accordo tra la Santa Sede e lo Stato di Palestina firmato lo scorso 26 giugno. Lo ha comunicato oggi il Vaticano spiegando che «la Santa Sede e lo Stato di Palestina hanno notificato reciprocamente il compimento delle procedure richieste per la sua entrata in vigore». L’intesa è arrivata dopo 15 anni dall’ accordo base tra la Santa Sede e l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) che era stato firmato il 15 febbraio 2000 e che ha costituito il punto di partenza dei negoziati.

Il testo: https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2015/06/26/0511/01117.html#com

Il precedente all’ONU

La prima bandiera palestinese all’Onu

01 ottobre 2015 09:43

Il 30 settembre 2015 è stata issata per la prima volta la bandiera della Palestina al palazzo delle Nazioni Unite. La cerimonia si è svolta durante il discorso del presidente palestinese Abu Mazen di fronte all’assemblea generale delle Nazioni Unite.

Il 10 settembre del 2015, l’assemblea ha votato in favore di una mozione che permette anche alle bandiere degli stati osservatori (dal 2012 Palestina e Città del Vaticano) di sventolare insieme ai vessilli dei 193 paesi membri dell’Onu. I paesi che riconoscono la Palestina come stato sono 135.

http://www.internazionale.it/notizie/2015/10/01/bandiera-palestina-onu-foto

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2 Gennaio 2016Permalink