1 agosto 2016 – Calendario di agosto

.1 agosto 1944 –  Scoppio della rivolta del ghetto di Varsavia contro
…………………….l’occupazione tedesca.
.1 agosto 1990 –  L’Iraq invade il Kuwait
.1 agosto 2014 –  Entra in vigore la Convenzione di Istanbul (vedi nota)
.2 agosto 1980 –  Strage alla stazione di Bologna
.3 agosto 1940 –  L’Italia invade la Somalia britannica
.4 agosto 1974 –  Bomba sul treno Italicus vicino a Bologna
.5 agosto 1938 –  In Italia viene pubblicato il Manifesto della razza (testo
…………………….in nota)
.6 agosto 1945 –  Gli USA sganciano la bomba atomica su Hiroschima
.7 agosto 2014 –  Estela Carlotto (Abuelas Plaza de Mayo) dichiara il
…………………….ritrovamento del nipote Guido
.8 agosto 1945 –  Gli USA sganciano la bomba atomica su Nagasaki
.8 agosto 1956 –  Tragedia nella miniera di Marcinelle
12 agosto 1944 – Strage nazista a Sant’Anna di Stazzema
13 agosto 1961 – Inizia costruzione muro di Berlino
14 agosto 1945 – Resa del Giappone e fine della seconda guerra mondiale
15 agosto 1867 – L. 3848 – Regno d’Italia – soppressione degli enti
…………………….ecclesiastici e liquidazione dei loro beni
15 agosto 2009 –  Approvazione della legge “15 luglio 2009, n. 94
“Disposizioni in materia di sicurezza pubblica
16 agosto 1924 –  Ritrovamento del corpo di Giacomo Matteotti
16 agosto 1968 – L’URSS invade la Cecoslovacchia
17 agosto 1945 – L’Indonesia si proclama indipendente dai Paesi Bassi
18 agosto 1936 – Assassinio di Federico Garcia Lorca
18 agosto 2015 – Assassinio di Khaled Asaad – Palmira
19 agosto 1954 – Morte di Alcide De Gasperi
19 agosto 1968 – L’URSS invade la Cecoslovacchia
20 agosto 1960 – Dichiarazione di indipendenza del Senegal
21 agosto 1940 – Assassinio di Lev Trotsky
21 agosto 1964 – Morte di Palmiro Togliatti
23 agosto 1923 – Assassinio di don Minzoni ad Argentea (FE)
23 agosto 1927 – USA esecuzione di Sacco e Vanzetti
24 agosto 2004 – Assassinio di Enzo Baldoni in Iraq
24 agosto 2016 – Terremoto in centro Italia
25 agosto 1900 – Morte di Friedrich Nietzshe
25 agosto 1989 – Assassinio di Jerry Masslo a Villa Literno (Caserta)
26 agosto 1769 – Francia: Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino
26 agosto 1978 – Elezione di papa Luciani (Giovanni Paolo I)
28 agosto 1963 – Martin Luther King guida la marcia su Washington per i
…………………….diritti civili.
29 agosto 1991 – La mafia uccide l’imprenditore Libero Grassi a Palermo
31 agosto 1994 – Irlanda – L’IRA dichiara la cessazione di tutte le operazioni
…………………….militari

NOTE:

1 Agosto 2016Permalink

27 luglio 2016 – Continuo ad aggrapparmi al ragionamento finché qualcuno lo pratica

27 luglio 2016 – La mia lettera ai fratelli musulmani: denunciamo chi sceglie il terrore

L’appello di Tahar Ben Jelloun. “Dobbiamo scendere in massa nelle piazze e unirci contro Daesh”. “Non abbiamo bisogno di obbligare le nostre donne a coprirsi come fantasmi neri” di TAHAR BEN JELLOUN

L’Islam ci ha riuniti in una stessa casa, una nazione. Che lo vogliamo o no, apparteniamo tutti a quello spirito superiore che celebra la pace e la fratellanza. Nel nome “Islam” è contenuta la radice della parola “pace”. Ma ecco che da qualche tempo la nozione di pace è tradita, lacerata e calpestata da individui che pretendono di appartenere a questa nostra casa, ma hanno deciso di ricostruirla su basi di esclusione e fanatismo. Per questo si danno all’assassinio di innocenti. Un’aberrazione, una crudeltà che nessuna religione permette.

Oggi hanno superato una linea rossa: entrare nella chiesa di una piccola città della Normandia e aggredire un anziano, un prete, sgozzarlo come un agnello, ripetere il gesto su un’altra persona, lasciandola a terra nel suo sangue tra la vita e la morte, gridare il nome di Daesh e poi morire: è una dichiarazione di guerra di nuovo genere, una guerra di religione. Sappiamo quanto può durare, e come va a finire. Male, molto male.

Perciò dopo i massacri del 13 novembre a Parigi, la strage di Nizza e altri crimini individuali, siamo tutti chiamati a reagire: la comunità musulmana dei praticanti e di chi non lo è, voi ed io, i nostri figli, i nostri vicini. Non basta insorgere verbalmente, indignarsi ancora una volta e ripetere che “questo non è l’Islam”. Non è più sufficiente, e sempre più spesso non siamo creduti quando diciamo che l’Islam è una religione di pace e di tolleranza. Non possiamo più salvare l’Islam – o piuttosto – se vogliamo ristabilirlo nella sua verità e nella sua storia, dimostrare che l’Islam non è sgozzare un sacerdote, allora dobbiamo scendere in massa nelle piazze e unirci attorno a uno stesso messaggio: liberiamo l’Islam dalle grinfie di Daesh. Abbiamo paura perché proviamo rabbia. Ma la nostra rabbia è l’inizio di una resistenza, anzi di un cambiamento radicale di ciò che l’Islam è in Europa.

Se l’Europa ci ha accolti, è perché aveva bisogno della nostra forza lavoro. Se nel 1975 la Francia ha deciso il ricongiungimento famigliare, lo ha fatto per dare un volto umano all’immigrazione. Perciò dobbiamo adattarci al diritto e alle leggi della Repubblica. Rinunciare a tutti i segni provocatori di appartenenza alla religione di Maometto. Non abbiamo bisogno di obbligare le nostre donne a coprirsi come fantasmi neri che per strada spaventano i bambini. Non abbiamo il diritto di impedire a un medico di auscultare una donna musulmana, né di pretendere piscine per sole donne. Così come non abbiamo il diritto di lasciar fare questi criminali, se decidono che la loro vita non ha più importanza e la offrono a Daesh.

Non solo: dobbiamo denunciare chi tra noi è tentato da questa criminale avventura. Non è delazione, ma al contrario un atto di coraggio, per garantire la sicurezza a tutti. Sapete bene che in ogni massacro si contano tra le vittime musulmani innocenti. Dobbiamo essere vigilanti a 360 gradi. Perciò è necessario che le istanze religiose si muovano e facciano appello a milioni di cittadini appartenenti alla casa dell’Islam, credenti o meno, perché scendano nelle piazze per denunciare a voce alta questo nemico, per dire che chi sgozza un prete fa scorrere il sangue dell’innocente sul volto dell’Islam.

Se continuiamo a guardare passivamente ciò che si sta tramando davanti a noi, presto o tardi saremo complici di questi assassini.

Apparteniamo alla stessa nazione, ma non per questo siamo “fratelli”. Oggi però, per provare che vale la pena di appartenere alla stessa casa, alla stessa nazione, dobbiamo reagire. Altrimenti non ci resterà altro che fare le valigie e tornare al Paese natale.

(traduzione di Elisabetta Horvat)

http://www.repubblica.it/esteri/2016/07/27/news/ben_jelloun_appello_a_musulmani-144881300/?ref=HRER2-1

 

27 Luglio 2016Permalink

26 luglio 2016 – Parole di donna

Il discorso di Michelle Obama alla convention democratica di Filadelfia fa riferimento al comune sentire degli affetti familiari e al femminismo ma dice alcune altre cose per me anche più importanti che mi limito a segnalare evidenziandole in colore rosso:

«È difficile credere che siano passati 8 anni dall’ultima volta che ho parlato da questo palco per spiegarvi perché credevo che mio marito dovesse diventare presidente Sono qui perché in questa elezione c’è una sola persona responsabile di cui mi fido, una sola veramente qualificata per la Casa Bianca: la nostra amica Hillary Clinton. Quello che ammiro di Hillary è che sa reggere la pressione, non cerca scorciatoie e non si è mai arresa nella vita. Questa è la storia di questo Paese, la storia che mi ha portato su questo palco la storia di generazioni di persone che provava il peso e la vergogna della schiavitù, il dolore della segregazione ma continuava a lottare per quello che era giusto. Ogni mattina mi sveglio in una casa costruita da schiavi e guardo le mie figlie, due belle e intelligenti ragazze nero che giocano con il cane sul prato della Casa Bianca. Grazie a Hillary Clinton le mie figlie e tutti i vostri figli ora sanno che una donna può essere presidente degli Stati Uniti E per questo in queste elezioni io STO CON LEI».

26 Luglio 2016Permalink

26 luglio 2016 – Dal 2013 al 2016 perplessità e preoccupazioni permangono

Oggi, secondo una cortese consuetudine, che sarebbe imbarazzante se non mi consentisse di verificare la mia monotematica coerenza, ho ritrovato una mia vecchia pagina di diario, da fb trasferita che ripubblico con la premessa aggiornata ad oggi e il link per raggiungerne il testo del 26 luglio 2013.

Per completare la vecchia notizia riesumata: Il dépliant segnalato nel 2013 è stato ritirato dopo un paio di mesi e sostituito da uno che non nomina il permesso di soggiorno fra i documenti da presentare per registrare la dichiarazione di nascita di un figlio. Ciò è avvenuto nel rispetto della circolare del ministero dell’interno che dice il contrario della legge che invece tanto impone (legge 9472009 art. 1 comma 22 lettera g). Purtroppo la mia segnalazione, in questo caso efficace, alla direzione dell’ospedale ha avuto solo in consenso di qualche persona amica. La società civile felicemente organizzata, pur se importante, ha taciuto e così continua. Per modificare la legge occorrerebbe un impegno della società civile che non c’è. Sorvolo – in un moto di mattutina e disgustata pietà – su istituzioni e chiese cristiane, cattolica e protestante, in ecumenica unione contro i figli dei sans papier.

https://diariealtro.it/?p=2535

 

26 Luglio 2016Permalink

23 luglio 2016 – Mi aggrappo al ragionamento cercando chi lo pratica.

Noam Chomsky, professore emerito al Massachusetts Institute of Technology, ha elaborato una lista delle 10 regole del controllo sociale, ovvero, strategie utilizzate per la manipolazione del pubblico attraverso i mass media.

1) La strategia della distrazione.  Mantenere l’attenzione del pubblico deviata dai veri problemi sociali imprigionata da temi senza vera importanza.

 2) Creare problemi e poi offrire le soluzioni.  organizzare attentati sanguinosi, con lo scopo che il pubblico sia che richieda le leggi di sicurezza e le politiche a discapito della libertà.

 3) La strategia della gradualità.  Per far accettare una misura inaccettabile basta applicarla gradualmente, al contagocce, per anni consecutivi.

 4) La strategia del differire.  Un altro modo per far accettare una decisione impopolare è quella di presentarla come dolorosa e necessaria, ottenendo l’applicazione pubblica nel momento, per un’applicazione futura.

 5) Rivolgersi al pubblico come ai bambini.  La maggior parte della pubblicità diretta al gran pubblico usa discorsi, argomenti, personaggi e un’intonazione particolarmente infantile, molte volte vicino alla debolezza, come se lo spettatore fosse una creatura di pochi anni o un deficiente mentale.

 6) Usare l’aspetto emotivo molto più della riflessione.  Sfruttare l’emozione è una tecnica classica per provocare un corto circuito su un’analisi razionale.

 7) Mantenere il pubblico nell’ignoranza e nella mediocrità.  Far si che il pubblico sia incapace di comprendere le tecnologie ed i metodi usati per il suo controllo e la sua schiavitù.

 8) Stimolare il pubblico ad essere compiacente con la mediocrità.  Spingere il pubblico a ritenere che è di moda essere stupidi, volgari e ignoranti.

 9) Rafforzare l’auto-colpevolezza.  Far credere all’individuo che è soltanto lui il colpevole della sua disgrazia. Così, invece di ribellarsi contro il sistema economico, l’individuo si auto-svaluta e s’incolpa, cosa che crea a sua volta uno stato depressivo, uno dei cui effetti è l’inibizione della sua azione. E senza azione non c’è rivoluzione.

 10) Conoscere gli individui meglio di quanto loro stessi si conoscano.  Negli anni ’50 i rapidi progressi della scienza hanno generato un divario crescente tra le conoscenze del pubblico e quelle possedute e utilizzate dalle élites dominanti.

http://www.altrogiornale.org/le-10-regole-del-controllo-sociale-noam-chomsky/

 

Gadi Luzzatto Voghera, storico   (22 luglio 2016)

Il richiamo alla cultura come strumento fondamentale per la lotta a ogni forma di razzismo e antisemitismo, e come antidoto ai visibili fenomeni di involuzione politica e sociale a cui assistiamo, non può essere interpretato come un semplice e generico auspicio. Si deve invece trattare di un concreto programma politico, che preveda l’investimento di importanti risorse in diverse direzioni. La prima è l’educazione, il sistema di istruzione. La consistente spinta all’investimento nei settori più tecnologici, legati allo sviluppo d’impresa e alla modernizzazione, negli ultimi decenni ha fortemente distorto l’organizzazione dei sistemi educativi relegando a un ruolo ancillare l’intero comparto delle materie umanistiche. Si tratta di un duplice errore a cui deve essere posto rimedio. Il primo errore è legato alla sottovalutazione dell’enorme potenziale economico che può essere liberato nella valorizzazione del turismo culturale, in termini di occupazione, di competenze, di sviluppo di nuove tecnologie della comunicazione, di movimenti e flussi di persone. Il secondo errore risiede nella rapida e diffusa perdita di conoscenze storiche e di riflessione intellettuale, un’emorragia che favorisce visibilmente la crescita dei populismi in politica, con una trasformazione del concetto stesso di democrazia. Si arriva così al paradosso di un presidente turco con poteri semidittatoriali che in nome della democrazia e della volontà della maggioranza mette in atto la più macroscopica repressione di stampo fascista avvenuta in Europa negli ultimi 70 anni. Si tratta quindi di rivedere profondamente le dinamiche dei sistemi di istruzione, progettando un’educazione diffusa che stabilisca criteri condivisi di convivenza umana e umanistica. La seconda è la comunicazione. Sempre nel nome della democrazia aperta e approfittando dell’enorme diffusione dei social network, si è andato affermando un modello di comunicazione che necessita urgentemente di correttivi, pena una lesione permanente del concetto stesso di libertà di parola. Il panorama conosce due poli estremi: da un lato il mondo delle dittature tipo Corea del Nord, Iran e – con qualche correttivo – la Cina. Lì il potere filtra o vieta completamente l’uso libero del web. Questo frena di molto la crescita economica, ma assicura un mantenimento sicuro del controllo sociale. All’altro estremo ci siamo noi, l’Occidente, in cui ad esempio uno strumento come Facebook permette liberamente ai terroristi l’utilizzo dei suoi canali, sostanzialmente senza limiti, arrivando anche qui al paradosso di un mondo delle libertà che produce strumenti utilizzati ampiamente da chi vuole distruggere quelle stesse libertà. Anche qui si tratta di avviare urgentemente una riflessione sul sistema delle comunicazioni e delle notizie, promuovendo lo sviluppo di una deontologia condivisa che crei una griglia delle libertà, capace di fornirci gli strumenti per capire quando un messaggio diventa potenzialmente distruttivo e dannoso per la civiltà umana. La terza è il lavoro, inteso come momento in cui si esprime la creatività di una civiltà. Se condividiamo il fatto che la cultura debba essere potenzialmente un patrimonio di tutta l’umanità, siamo anche costretti a riconoscere che il lavoro creativo deve ritornare al centro della programmazione politica. La fascinazione per il virtuale ha certamente potenzialità incredibili: certo, se invece di andare alla ricerca di Pokemon da allevare con lo smartphone si utilizzasse la stessa tecnologia a fini educativi gli sviluppi cognitivi sarebbero senza dubbio notevoli, e il vantaggio non si limiterebbe a salvare i disastrati conti economici della Nintendo. Ma cultura è anche prodotto materiale, concreto, è sapere artigiano che si nutre di letture e di esperienza. Perdere tutto questo significa rinunciare al proprio presente e alla costruzione di un futuro per lo meno vivibile, nel nome di una strampalata idea di postmodernità che ha già dimostrato tutti i suoi limiti. La quarta è la scienza. La ricerca scientifica – come ho avuto modo di scrivere altrove – può determinare l’apertura nella società degli spazi di libertà necessari al miglioramento delle condizioni di vita sul nostro pianeta e delle condizioni di convivenza fra i diversi gruppi umani. Una ricerca scientifica che sottragga l’umanità dalla morsa della superstizione e dall’oppressione delle ideologie, che aiuti a comprendere sempre più a fondo i meccanismi della natura e a governare il rapporto fra l’umanità e la natura stessa. La ricerca scientifica come terreno neutrale e privo di “simboli” nazionali o religiosi può aiutare progetti di convivenza e aprire spazi alle libertà individuali e collettive. La quinta è la religione, come fenomeno produttore di cultura. Non si tratta qui di fede, ma del riconoscimento che le culture religiose (non le gerarchie) hanno prodotto nella storia dinamiche umane e antropologiche che vanno conosciute e comprese nel profondo. Solo questa conoscenza ci aiuterà a combattere le odierne forme di fondamentalismo, che utilizzano in maniera strumentale i concetti base delle religioni per farne strumento di morte, distruzione, oppressione e potere.

http://moked.it/blog/2016/07/22/cultura-20/

Due commenti interessanti che trovo su fb  – Trascrivo

Tiziano Sguazzero  23 luglio alle ore 21:17

L’attuale «offensiva jihadista» e la propaganda antiterrorista che la accompagna possono far credere che il terrorismo sia un’esclusiva islamista: con tutta evidenza, è sbagliato. Fino a tempi recenti, altri terroristi erano in azione in molte aree del mondo non musulmano: l’Ira e gli unionisti nell’Irlanda del Nord; l’Eta in Spagna; le Farc e i paramilitari in Colombia; le Tigri tamil nello Sri Lanka; il Fronte Moro nelle Filippine ecc. Quello che è certo, è che l’allucinante brutalità dell’attuale terrorismo islamista (tanto quello di Al Qaeda quanto quello di Daesh, il sedicente Stato islamico) sembra aver indotto quasi tutte le altre organizzazioni armate del mondo – a eccezione del Pkk kurdo – a firmare in fretta accordi di cessate il fuoco e deposizione delle armi. Come se, davanti all’intensità ella commozione popolare, non volessero vedersi in alcun modo accostate alle atrocità jihadiste. Ricordiamo poi che, fino a pochissimo tempo fa, una potenza democratica come gli Stati uniti non riteneva per forza immorale l’appoggio a certi gruppi terroristi. Attraverso la Central Intelligence Agency (Cia), Washington preparava attentati in luoghi pubblici, sequestri di oppositori, dirottamento di aerei, sabotaggi, omicidi.

Tiziano Sguazzero 23 luglio alle ore 21:26

Riporto un passo dall’articolo di Ignacio Ramonet («Le Monde diplomatique» e «Il Manifesto»), utile per comprensione del fenomeno terroristico ed evitare banalizzanti generalizzazioni di comodo (http://ilmanifesto.info/le-nuove-armi-del-terrorismo-jihadista).Su questo irriducibile fenomeno politico (il terrorismo), che provoca al tempo stesso spavento e collera, incomprensione e repulsione, emozione e attrazione, sono stati scritti migliaia di testi. E anche almeno due opere magistrali: il romanzo I demoni (1872) di Fëdor Dostoevskij e l’opera teatrale I giusti (1949) di Albert Camus. Tuttavia, adesso che l’islamismo jihadista sta globalizzando il terrore a livelli mai visti prima, il progetto di «uccidere per un’idea o una causa» appare sempre più aberrante. E si impone quel rifiuto definitivo espresso magistralmente da Juan Goytisolo con la frase: «Uccidere un innocente non è difendere una causa, è uccidere un innocente». Naturalmente, sappiamo che molti di quelli che, a un certo punto della loro vita, difesero il terrorismo come «legittima arma degli oppressi», sono poi diventati rispettati uomini e donne di Stato. Per esempio i dirigenti nati dalla Resistenza francese (De Gaulle, Chaban-Delmas), che le autorità tedesche di occupazione definivano «terroristi»; Menachem Begin, ex capo dell’Irgun, diventato primo ministro di Israele; Abdelaziz Bouteflika, già responsabile del Fln algerino, in seguito presidente dell’Algeria; Nelson Mandela, capo dell’African National Congress (Anc), presidente del Sudafrica e premio Nobel per la pace; Dilma Rousseff, presidente del Brasile; Salvador Sánchez Cerén, attuale presidente del Salvador ecc. Come principio di azione e metodo di lotta, il terrorismo è stato rivendicato, a seconda delle circostanze, da quasi tutte le famiglie politiche, Il primo teorico che propose, nel 1848, una «dottrina del terrorismo» non fu un islamista alienato ma il repubblicano tedesco Karl Heinzen con il saggio Der Mord (L’omicidio), nel quale sosteneva che tutte le azioni sono buone, compreso l’attentato suicida, per affrettare l’avvento della democrazia. Antimonarchico radicale, Heinzen scrisse: «Se devi far saltare la metà di un continente e provocare un bagno di sangue per distruggere il partito dei barbari, non farti scrupoli. Chi non sacrifica gioiosamente la propria vita per provare la soddisfazione di sterminare un milione di barbari non è un vero repubblicano». L’attuale «offensiva jihadista» e la propaganda antiterrorista che la accompagna possono far credere che il terrorismo sia un’esclusiva islamista: con tutta evidenza, è sbagliato. Fino a tempi recenti, altri terroristi erano in azione in molte aree del mondo non musulmano: l’Ira e gli unionisti nell’Irlanda del Nord; l’Eta in Spagna; le Farc e i paramilitari in Colombia; le Tigri tamil nello Sri Lanka; il Fronte Moro nelle Filippine ecc. Quello che è certo, è che l’allucinante brutalità dell’attuale terrorismo islamista (tanto quello di Al Qaeda quanto quello di Daesh, il sedicente Stato islamico) sembra aver indotto quasi tutte le altre organizzazioni armate del mondo – a eccezione del Pkk kurdo – a firmare in fretta accordi di cessate il fuoco e deposizione delle armi. Come se, davanti all’intensità della commozione popolare, non volessero vedersi in alcun modo accostate alle atrocità jihadiste. Ricordiamo poi che, fino a pochissimo tempo fa, una potenza democratica come gli Stati uniti non riteneva per forza immorale l’appoggio a certi gruppi terroristi. Attraverso la Central Intelligence Agency (Cia), Washington preparava attentati in luoghi pubblici, sequestri di oppositori, dirottamento di aerei, sabotaggi, omicidi.

 

23 Luglio 2016Permalink

20 luglio 2016 – Finalmente

Il precedente in questo blog: 24 dicembre 2015. Buon Natale da Pontoglio (Lombardia)

19/07/2016 Le tradizioni religiose non possono essere strumentalizzate per discriminare: condannato il comune di Pontoglio

Con l’ordinanza di ieri, il Tribunale di Brescia ha dichiarato il carattere discriminatorio del comportamento tenuto dal Comune di Pontoglio che, con deliberazione del 30 novembre 2015, aveva disposto il posizionamento ai vari ingressi del paese di cartelli a sfondo marrone recanti la scritta «Pontoglio è un paese a cultura occidentale di profonda tradizione cristiana, chi non intende rispettare la cultura e le tradizioni locali è invitato ad andarsene».

«Il punto non è se tale proposizione corrisponda o meno al vero – si legge nell’ordinanza -, la questione è che detto stato di cose … non può essere strumentalizzato da un ente pubblico per ostacolare o condizionare, foss’anche nella semplice forma della persuasione, il libero esercizio dei diritti costituzionali da parte di coloro che non si riconoscono nel substrato culturale del Comune». Lo Stato italiano, come viene ricordato nell’ordinanza, non è confessionale bensì «improntato al principio di laicità (articolo 19 Costituzione)» e «ragioni di razza e religione non possono pregiudicare l’eguale godimento dei diritti fondamentali dell’individuo (art 3 Costituzione), fra i quali figura quello della libertà di circolazione e soggiorno (articolo 16 Costituzione). «Se l’obiettivo del comune fosse stato quello di richiamare i residenti ad una forma di rispetto reciproco delle rispettive tradizioni e credenze religiose, i cartelli di certo non avrebbero avuto il contenuto, unilaterale, oggi censurato», conclude il giudice. Ne deriva che le tradizioni religiose non possono essere strumentalizzate dalla pubblica amministrazione per discriminare e che il principio supremo di laicità impone condizioni di parità e rispetto reciproco per favorire l’inclusione e la convivenza tra persone di fedi religiose differenti.

Il giorno precedente all’udienza di precisazione delle conclusioni, il comune aveva rimosso tutta la cartellonistica stradale presente sul territorio (non limitatamente ai cartelli discriminatori). Il giudice ha comunque accertato, come stabilito dall’art 7 della Direttiva 2000/43, il carattere discriminatorio del comportamento tenuto, precisando che “il ripristino della situazione fisiologica – nessun cartello con messaggi estranei ai contenuti tipici previsti dal codice della strada – è la migliore risposta alla precedente situazione di discriminazione”.

http://www.asgi.it/notizia/le-tradizioni-religiose-non-possono-strumentalizzate-discriminare-condannato-comune-pontoglio/

20 Luglio 2016Permalink

15 luglio 2016 – Una giusta petizione da completare

 

Ieri ho  firmato la petizione “Al Presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella, : DOVE SONO FINITI I BAMBINI? 10.000 BAMBINI EMIGRATI IN EUROPA  SONO SCOMPARSI NEL NULLA” e vorrei chiederti di aiutarci aggiungendo il tuo nome.

https://www.change.org/p/al-presidente-della-repubblica-italiana-sergio-mattarella-dove-sono-finiti-i-bambini-10-000-bambini-emigrati-in-europa-sono-scomparsi-nel-nulla?recruiter=34062934&utm_source=share_petition&utm_medium=email&utm_campaign=share_email_responsive

L’ho girata a parecchi amici e ho ricevuto la conferma dell’adesione di molti di loro che hanno apposto la loro firma.

Ho aggiunto quello che per me è un necessario completamento del messaggio in cui non posso accettare zone d’ombra che coprono il razzismo italiano, finalizzato a distruggere nuovi nati

“Penso con dolore e orrore a questi bambini, finiti nelle maglie del crimine più o meno organizzato. Manteniamo comunque la richiesta della loro ricerca forte e chiara. E’ un dovere assoluto. Ricordiamo però che con sconvolgente, inammissibile e inaccettabile incoerenza la nostra legislazione dal 2009 prevede che vi siano bambini che nascono in Italia, cui è negato il certificato di nascita per l’irregolarità burocratica dei loro genitori (non comunitari privi di permesso di soggiorno). Modificare la legge sarebbe assai semplice solo che la relativa nuova norma venisse presa in considerazione dal Parlamento italiano. Il riferimento legislativo è l’art. 6 comma 2 del testo unico, decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e successive modificazioni, testo unico che, fino al 2009, non conteneva la norma cui ho fatto riferimento, norma che allora venne introdotta con la legge 94/2009 (art. 1 comma 22 lettera g). Mi rendo conto che rispetto alla quantità di minori che, fuggiti dalla guerra e dalla fame, hanno attraversato il mare e territori ostili, questo può sembrare un problema minore. Mi chiedo però che senso abbia fabbricare con legge minori che, nati in Italia, sono esposti alla criminalità senza poter essere difesi perché la legge li vuole giuridicamente inesistenti. Qui aggiungo: Il precedente più vicino a tutto questo, reperibile nella storia della shoa, é l’operato di Eichmann, il burocrate dello sterminio. E’ terribile che una norma presente nella legge italiana lo richiami alla mente”.

15 Luglio 2016Permalink

13 luglio 2016 – Uso politico del negazionismo

8 luglio 2016  “Ancora una volta, Israele nega il genocidio armeno” Il prof. Yair Auron si batte da anni per il riconoscimento del genocidio armeno da parte di Israele            alchetron (note biobliografiche sull’autore)

Yair Auron è uno studioso dei genocidi che si batte da anni per il riconoscimento del genocidio armeno da parte di Israele e del mondo. Visto che per mercoledì era previsto un voto della Knesset in seduta plenaria su questo tema, il docente della Open University e fondatore di Gariwo Israele ha proposto su Haaretz del 4 luglio una risoluzione di riconoscimento da parte almeno del Parlamento di Israele, se non di tutto lo Stato. In realtà mercoledì la Knesset ha deciso di rinviare la discussione per non compromettere i rapporti con la Turchia. Poiché questo articolo riflette comunque tutto l’iter complesso del riconoscimento israeliano del genocidio armeno, lo pubblichiamo, sicuri che le raccomandazioni di Auron conservino valore anche per future votazioni.  

Israele è uno dei pochissimi Paesi democratici al mondo, se non l’unico, a negare il genocidio armeno, e a sostenere la cocciuta politica negazionista della Turchia

Il 31 maggio, pochi giorni prima che la camera bassa del Bundestag Tedesco riconoscesse le uccisioni contro il popolo armeno – un atto che ha avuto risonanza in tutto il mondo – ci sarebbe dovuta essere una discussione su questo tema alla Knesset. Tuttavia, essa è stata rinviata per la pressione del Ministero degli Esteri (che è guidato dal Primo Ministro Benjamin Netanyahu). La discussione avrebbe dovuto avere luogo mercoledì 6 luglio, ma è stata ancora rinviata, sempre per non causare tensioni con la Turchia (NdR).

Questo è un dibattito molto importante, portato avanti da anni da coloro che sostengono che Israele debba riconoscere il genocidio armeno. Nell’ultimo anno speravo che, se non il governo israeliano, almeno la Knesset l’avrebbe finalmente riconosciuto, ma evidentemente le probabilità che ciò avvenga sono scarse, alla luce dell’accordo di riavvicinamento firmato con la Turchia. Dopo tutto, chi metterebbe in crisi l’accordo per via di una elemento così trascurabile come il fatto se vi sia stato o no un genocidio contro un’altra nazione?

È impossibile che il governo israeliano riconosca il genocidio armeno, ma nel corso dell’anno in cui si è commemorato il centenario dell’assassinio del popolo armeno (il 2015, ndR) c’era quanto meno la speranza che l’avrebbe fatto la Knesset. Ma evidentemente si tratta di una speranza destinata a dissolversi. Il Presidente Reuven Rivlin ha espresso in passato una profonda identificazione con la sofferenza degli armeni. Quando ha presieduto la Knesset ha perfino dichiarato che Israele dovrebbe riconoscere il genocidio armeno. È una vergogna che si sia trattenuto dal ripeterlo da quando è stato eletto Presidente, dicendo soltanto: “Non ho cambiato idea”.

In una discussione della Commissione della Knesset per l’Istruzione a luglio 2015, nella quale ha partecipato anche Edelstein (parlamentare del Likud e membro della coalizione di governo, ndR), tutti i relatori della coalizione di governo e dell’opposizione hanno appoggiato il riconoscimento. Solo un rappresentante del Ministero degli Esteri ha avanzato riserve, affermando che il concetto di “genocidio” è stato politicizzato, e quindi Israele non dovrebbe avvalersene. Immaginate se qualsiasi governo europeo dovesse affermare che “Shoah” è un concetto politico e quindi sarebbe esentato da usarlo.

In conclusione del dibattito, la Commissione Istruzione ha rivolto un appello alla Knesset affinché riconosca il genocidio e al Ministero dell’Istruzione affinché lo faccia insegnare, ma non è accaduto nulla. La discussione annuale che avrà luogo prossimamente è il momento della verità. Il deterioramento delle relazioni con la Turchia e gli accordi sugli armamenti tra i governi di Israele e Azerbaigian, del valore di miliardi di dollari e concernente armi destinate agli scontri con gli armeni – non fanno ben sperare che sia possibile il riconoscimento.

Anche se le persone e le istituzioni in Israele non saranno felici di sentire queste parole, esse vanno dette. Israele nega il genocidio armeno. Siamo uno dei pochissimi Paesi democratici al mondo, se non l’unico, a sostenere la cocciuta politica negazionista della Turchia. Gli Stati Uniti non riconoscono né negano il genocidio. Quando noi lo neghiamo, dissacriamo la memoria delle vittime. Secondo me, ciò facendo offendiamo anche le vittime della Shoah.

Per via di quest’ultima frase, che mi sono rifiutato di omettere, l’amministrazione di Yad Vashem ha rifiutato un articolo scientifico che ero stato invitato a scrivere per la newsletter dell’istituzione, Teaching the Legacy (insegnare il lascito). Ma io continuerò a dire e scrivere questa frase fino a quando lo Stato di Israele, anche solamente attraverso la Knesset, non riconoscerà il genocidio armeno.

Oggi si sa – è stato dimostrato – che quando neghiamo un genocidio del passato, prepariamo la strada a un genocidio futuro.

Il dibattito alla Knesset dovrebbe suscitare un grande interesse nel mondo, e senz’altro tra gli armeni, in Armenia e nella diaspora, e si spera anche qui. Coloro che si battono per il riconoscimento stanno chiedendo “un voto ora”. Spostare la discussione alla Commissione è stato un passo importante per diversi anni, ma è diventato uno strumento politico per nascondere la verità. Noi continuiamo a negare.

Il riconoscimento di Israele (che non è arrivato prima, con mio dispiacere) probabilmente porterebbe al riconoscimento del genocidio armeno in tutto il mondo. Se lo riconosce Israele, il Presidente USA Barack Obama non potrà continuare a rimanere in disparte. Ciò che è vero del genocidio, è vero anche per la battaglia contro la sua negazione: chiunque non sia dalla parte delle vittime è dalla parte dei negazionisti.

Link da cui è possibile raggiungere alla fonte il testo in italiano. Fonte Gariwo – La foresta dei giusti  http://it.gariwo.net/ .

http://it.gariwo.net/persecuzioni/negazionismo/ancora-una-volta-israele-nega-il-genocidio-armeno-15337.html

Molti ritengono che ragionare sulla politica di Israele sia antisemitismo; perciò ho raggiunto la fonte originaria, il quotidiano Haaretz dove è possibile leggere lo stesso testo in inglese.

http://www.haaretz.com/opinion/.premium-1.728904

HAARETZ Wednesday,  July 13, 2016. Tammuz 7, 5776 Time in Israel: 4:35 PM

YET Again, Israel Denies the Armenian Genocide Yair Auron  Jul 04, 2016 11:29 PM

Israel is one of the only democratic countries in the world, if not the only one, to do so, and to support Turkey’s stubborn policy of denial.

13 Luglio 2016Permalink

12 luglio 2016 – Bauman: “La paura e l’odio si nutrono dello stesso cibo”

Quando copiare è giusto. Perché dovrei scrivere io con le mie parole quando altri ha detto così bene ciò che penso con minor chiarezza?

11 luglio 2016 – Il filosofo: la xenofobia in Europa e a Dallas figlie della cronica incertezza
Francesca Paci  Roma

La paura è il demone più sinistro del nostro tempo», ammoniva già anni fa il filosofo polacco Zygmunt Bauman. A guardare il mondo occidentale, che dagli Usa all’acciaccata Europa, pare aver ceduto alle pulsioni più rabbiose quasi si fosse «mediorientalizzato», gli spettri evocati dal teorico della società liquida nonché una tra le menti più acute del pensiero contemporaneo assumono dimensioni epiche.

Dallas ma anche gli episodi xenofobi ripetutisi nel Regno Unito dopo la Brexit e, nell’Italia porto dei migranti, il rifugiato nigeriano ucciso a Fermo. Professor Bauman, stiamo passando dall’età della paura a quella dell’odio? «Non c’è alcun passaggio dalle paure nate dalla nostra cronica incertezza all’esibizione di odio a Dallas o ai mini pogrom avvenuti dopo la Brexit nelle strade inglesi: sono contemporanei, solo di rado li sperimentiamo separatamente. Paura e odio hanno le stesse origini e si nutrono dello stesso cibo: ricordano i gemelli siamesi condannati a trascorrere tutta la vita in compagnia reciproca: in molti casi non solo sono nati insieme ma possono solo morire insieme. La paura deve per forza cercare, inventare e costruire gli obiettivi su cui scaricare l’odio mentre l’odio ha bisogno della spaventosità dei suoi obiettivi come ragion d’essere: si rimpallano a vicenda, possono sopravvivere solo così».

C’è consequenzialità tra la diffusione dell’«hate speech» (incitamento all’odio) e le nuove tensioni etniche e razziali? «La loro coincidenza non è casuale ma neppure predeterminata. Come ogni alleanza è una scelta politica. Per quanto stiamo vivendo la scelta è stata dettata dalla simultaneità di due fenomeni. Il primo, individuato dal sociologo tedesco Ulrich Beck, è la stridente discrepanza tra l’essere stati assegnati a una “situazione cosmopolita” in assenza di una “consapevolezza cosmopolita” e senza gli strumenti adatti a gestirla. Il conseguente scontro tra strumenti di controllo politico territorialmente limitati e poteri extraterritoriali incontrollabili e imprevedibili ha prodotto la “deregulation” multi-direzionale delle condizioni di vita e ha saturato le nostre esistenze di paura per il futuro nostro e dei nostri figli. Quella paura era e resta una trinità avvelenata, l’incontro di tre sentimenti ossessionanti, ignoranza, impotenza e umiliazione. I poteri distanti e oscuri che ci condizionano vanno al di là del nostro sguardo e della nostra influenza, così come le nostre paure si muovono tra forze che siamo incapaci di addomesticare o contenere. Se non sappiamo respingere queste forze che minacciano tutto quanto ci è caro, non potremmo almeno tenerle a distanza, interdire loro l’accesso alle nostre case e ai luoghi di lavoro?».

Non potremmo, professore?   «L’afflusso massiccio e senza precedenti di rifugiati è il secondo fenomeno a cui accennavo e ha contribuito a dare a questa domanda una risposta credibile e “di buon senso” seppure falsa e fuorviante, una risposta elevata a rango di dogma da aspiranti politici che vi annusano la chance di un forte sostegno popolare. È balsamo per le anime tormentate: le paure senza sbocco e perciò tossiche non possono riversarsi sulle loro vere cause – forze poderose e così distanti da essere immuni al nostro risentimento – ma possono facilmente e tangibilmente rovesciarsi su chi appare e si comporta da straniero, dagli ambulanti ai mendicanti. Le aggressioni etniche e razziali sono la medicina dei poveri contro la propria miseria. La loro efficacia si misura non dal fatto che risolvano la fragilità della vita ma dal dare temporaneo sollievo al tormento psicologico dell’impotenza e dell’umiliazione».

La paura, certo. Ma non hanno responsabilità anche la diffusione delle armi in Usa, l’inanità europea sui migranti, Internet?   «Queste non sono cause: facilitano, anche molto, le azioni che quelle cause producono. Internet e i “social” possono servire altrettanto efficacemente all’inclusione come all’esclusione, al rispetto e al disprezzo, all’amicizia e all’odio. La responsabilità di scegliere ricade direttamente sulle nostre spalle di navigatori. Possiamo usare lo stesso coltello per tagliare pane o gole: a qualsiasi uso lo destini, chi lo tiene lo vuole affilato. Il web affila gli strumenti ma noi ne scegliamo l’applicazione».

È ancora «sonno della ragione»? «Come diceva il filosofo tedesco Leo Strauss, ci sono sempre stati e ci saranno sempre degli inattesi cambiamenti di punto di vista che modificano radicalmente il sapere precedente: ogni dottrina, per quanto definitiva sembri, sarà prima o poi soppiantata da un’altra. L’hanno già detto altri, il tribalismo è la risposta al perché le differenze tra gruppi della popolazione siano sempre ridotte a un rapporto inferiore/superiore».

 La reazione contrastata della Nra alle ultime uccisioni di neri da parte della polizia e alla strage dei poliziotti bianchi a Dallas ha aperto una faglia nella potente lobby. « L’associazione non ha esitato a fare le condoglianze ai familiari degli agenti uccisi, ma ha glissato sulla morte dei due afroamericani Sterling e Castile limitandosi a un blando comunicato che non prendeva posizione «dal momento che c’è una indagine in corso».

Fonte: http://www.lastampa.it/2016/07/11/esteri/bauman-la-paura-e-lodio-si-nutrono-dello-stesso-cibo-lobby-delle-armi-divisa-sugli-omicidi-dei-neri-uG4FeOyJcQwAGnlQk5M0yM/pagina.html

12 Luglio 2016Permalink

6 luglio 2016 – Il rapporto Chilcot

Prima di tutto la fonte

http://www.adnkronos.com/fatti/esteri/2016/07/06/esce-rapporto-chilcot-sull-invasione-iraq-guerra-non-era-necessaria_1sfJuGId8kF1F6eXEViyfN.html

Invasione in Iraq, rapporto Chilcot: “Guerra non era necessaria”. Blair: “Io in buona fede”   Pubblicato il: 06/07/2016 13:50

Il Regno Unito non esaurì tutte le possibili opzioni pacifiche prima di decidere di unirsi nel 2003 agli Stati Uniti nell’invasione dell’Iraq di Saddam Hussein. Queste le attese conclusioni di Sir John Chilcot, a capo della commissione di inchiesta che per 7 anni ha indagato sulle ragioni della guerra e che oggi presenta il suo Rapporto finale.

Per Chilcot, l’allora premier laburista Tony Blair giudicò le informazioni di intelligence sulla minaccia delle presunte armi di distruzione di massa irachene “con una certezza che non era giustificata”. I piani per il dopoguerra, inoltre, furono “completamente inadeguati” alla situazione.

In una dichiarazione Blair ha risposto alle conclusioni del Rapporto: “Il rapporto dovrebbe mettere a tacere le accuse di cattiva fede, menzogne o inganni. Sia che la gente sia d’accordo o in disaccordo con la mia decisione di intraprendere un’azione militare contro Saddam Hussein, lo feci in buona fede e in quello che credevo essere il migliore interesse del Paese”.rapporto-chilcot

E’ una critica “devastante”, come la definisce il Guardian, quella rivolta nei confronti di Blair dal Rapporto. Per John Chilcot, che per sette anni ha guidato la commissione d’inchiesta, la decisione britannica di invadere uno stato sovrano per la prima volta dalla Seconda Guerra Mondiale prima che tutte “le opzioni pacifiche per il disarmo” venissero esplorate, fu della “massima gravità”. E se l’azione militare non era all’epoca “l’ultima risorsa” possibile, Chilcot suggerisce che uno dei fattori decisivi nella decisione di unirsi agli Stati Uniti e scendere in guerra, fu proprio il convincimento di Blair.

Secondo il Rapporto, il celebre dossier presentato dal premier alla Camera dei Comuni nel settembre del 2002 non era sufficiente a supportare l’accusa che l’Iraq di Saddam Hussein stava sviluppando armi di distruzione di massa. L’allora governo laburista non riuscì inoltre a prevedere le disastrose conseguenze della guerra, ha detto Chilcot nell’illustrare le conclusioni contenute nei 12 volumi che compongono il Rapporto. Con almeno 150mila morti, molti dei quali civili e “oltre un milione di sfollati”, ha ricordato, “il popolo iracheno soffrì enormemente”.

Il ministro Franceschini dichiara: “Blair esce politicamente distrutto dal rapporto Chilcot”

È una “lezione su come non andare in guerra” il lungo rapporto di Sir Chilcot sulla partecipazione del Regno Unito all’intervento militare in Iraq del 2003. Supera di quattro volte per numero di parole “Guerra e Pace” di Lev Tolstoj e distrugge politicamente l’allora premier britannico Tony Blair. Una frase spicca dal rapporto: “Sarò con te in qualsiasi caso”, parole pronunciate dal premier al presidente Usa Goerge Bush molto prima che il Parlamento britannico approvasse la guerra in Iraq di Enrico Franceschini, corrispondente da Londra

Fonte: http://video.repubblica.it/mondo/franceschini-blair-esce-politicamente-distrutto-dal-rapporto-chilcot/245481/245565?ref=HRER3-1http://video.repubblica.it/mondo/franceschini-blair-esce-politicamente-distrutto-dal-rapporto-chilcot/245481/245565?ref=HRER3-1

Forse il silenzio sarebbe un indicatore di pudore

6 Luglio 2016Permalink