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8 novembre 2023_Una notizia che non devo dimenticare né sottovalutare
https://www.tgcom24.mediaset.it/2023/video/bimba-italiana-di-6-anni-e-la-madre-palestinese-lasciano-gaza_72244434-02k.shtml
3 NOVEMBRE 2023 Da Gaza in Italia: la piccola Minerva e la mamma raggiungono il papà a Fiumicino
Mamma e figlia sono atterrate con l’operatore umanitario Jacopo Intini, e con sua moglie palestinese Amal. Il gruppo è riuscito ad attraversare il valico di Rafah
Minerva, la bimba italiana di sei anni, che proprio oggi festeggia il suo compleanno, con la sua mamma, palestinese, Bayan Alnayyar, e l’operatore umanitario Jacopo Intini, con sua moglie palestinese Amal, sono arrivati da Gaza questa sera in Italia. A Fiumicino il papà ha accolto con commozione la moglie e la bimba, stanca ma sorridente, un pupazzo di Minnie in mano ed un palloncino con scritto Happy Birthday. Il gruppo, che è riuscito a lasciare la Striscia attraversando il valico di Rafah, è sbarcato intorno alle 21 all’aeroporto di Fiumicino con un volo di linea Ita Airways proveniente dal Cairo. All’arrivo il gruppo è stato assistito da personale della guardia di finanza aeroportuale.
Nessun contatto con la stampa presente nella zona arrivi del Terminal 3. Nei loro volti però non c’è gioia, il pensiero è verso i cari lasciati in Palestina. «Siamo arrivati ma non posso dire che siamo felicissimi – ha detto all’arrivo Intini – i nostri pensieri sono per tre persone che sono ancora a Gaza, sotto i bombardamenti, nostri amici, colleghi e parenti. Ovviamente non credo ci sia granché da festeggiare. Sono contento che siano arrivate con noi la piccola Minerva e la mamma: felice per loro che ce l’hanno fatta. Dovevano uscire con noi da Gaza ma non è stato possibile, Ci sono riuscite il giorno successivo».
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1 novembre 2023 – Un nome alle cose: pogrom
Lettura da conservare – vedi anche 31 ottobre – Sofri
30 ottobre 2023 La Repubblica
Lo sguardo sul Male di Ezio Mauro
Convinti di aver capito la lezione che viene dal passato, non credevamo che i nostri figli avrebbero vissuto la contemporaneità di un pogrom, con i tagliagole che attaccano di notte per uccidere uomini, donne e bambini inermi, colpevoli soltanto di essere ebrei e per questo giustiziati come potatori di una colpa perenne, inestinguibile. Nel 2023 sembra di sentire la voce dei lamenti e dei racconti in yiddish testimoniati nella letteratura dell’Europa centrorientale, con la storia che non impara da se stessa (nonostante le fosse comuni del genocidio nel 1995 a Srebrenica) e il male che riemerge da ogni sconfitta, pronto a contendere il destino dell’umanità.
Ma è inutile negare che nel massacro programmato dai terroristi di Hamas abbiamo intravisto – in diverse proporzioni e tutt’altro contesto – la stessa scintilla dell’Olocausto con l’ebreo da annientare come perpetua e suprema missione, fuori dal tempo e indifferente allo spazio dove si compie.
Certo la Shoah parla attraverso la sua unicità che contiene il mistero dell’inconcepibile e fissa il limite supremo dell’abiezione: ma l’eccidio del
7 ottobre ha nel suo significato universale l’eco di quegli stessi propositi di annientamento e distruzione sul cui rigetto si è costruita la civiltà occidentale del Dopoguerra.
Proprio per queste ragioni anche il pogrom di Hamas è un uniucum dei nostri anni , e non per il numero di vittime , che resta spaventoso : ma perché i morti non sono combattenti in azioni di guerra ma bensì civili, inseguiti e uccisi nella normalità della loro esistenza quotidiana , nell’esercizio personale delle scelte autonome, nella libertà delle piccole cose che è il tessuto pratico, concreto , del modo di vivere in democrazia. Questa caratteristica – persone trasformate in bersaglio non per ciò che hanno fatto ma per ciò che sono, dato sufficiente e anzi dirimente nel decretarne la morte – porta l’accaduto fuori dalla dimensione della politica e addirittura oltre la morale , e ci chiede di giudicarlo semplicemente e finalmente come una dimensione del disumano.
Il problema è che non riusciamo a tenere lo sguardo fermo sul male . Anche la morale, troppo indaffarata e sollecitata da un mondo fuori controllo, procede per stereotipi assegnando una specifica categoria ad ogni vicenda, e finisce per giudicare la categoria, non l’avvenimento. E’ un giudizio disincarnato, prevedibile ma meccanico, quasi automatico dunque non riflessivo, che ci consente di rimanere al riparo delle nostre convinzioni e dei nostri pregiudizi senza lasciarci investire e deviare dalla furia degli eventi incalzati alla continua metamorfosi del male: che mentre si riproduce cambia ogni volta la sua configurazione per sorprenderci, tentarci, sedurci, fino a catturarci. Tutto conferma l’indebolimento della nostra capacità di conoscere e capire, fondamento indispensabile di qualsiasi scelta consapevole nel prendere posizione . Il risultato è che il giudizio del cittadino rischia di impigliarsi nei luoghi comuni gregari del pensiero egemone o nella semplificazione del controcanto populista, ottundendosi, oppure di smarrirsi soverchiato dalla portata universale dei fenomeni che deve valutare, arrendendosi..
Semplicemente, non reggiamo il peso del reale. Senza più sovrastrutture ideologiche e culturali capaci di ingannare e consolare ma anche di decifrare e tradurre, incasellando, non sappiamo maneggiare l’evidenza rovente di ciò che accade fuori dagli schemi costruiti per semplificarci la visione del mondo , con l’obiettivo di decantare le vicende che ci sconcertano, decontaminandole fino a banalizzarle. Rifuggiamo dalla potenza della realtà, oppure la consumiamo da semplici spettatori. Proiettandola all’esterno della nostra testimonianza di vita, illudendoci di essere al riparo protetti dallo schermo artificiale che trasforma l’esperienza in rappresentazione, dunque intangibili.
In realtà quel che cerchiamo di evitare non è tanto la vulnerabilità , ma la responsabilità, cioè la coscienza di essere anche noi , dovunque siamo, parti in causa del nuovo disordine mondiale che ci minaccia.
Ecco perché fatichiamo a chiamare il pogrom col suo nome, nell’unico significato possibile: per mantenere una distanza che salvi intatti i nostri equilibrismi politici e i nostri meccanismi ideologici, evitando che la novità antica del tragico nella sua potenza getti tutto per aria, costringendoci a ricominciare a pensare da capo per capire. Come è possibile che di fronte alla chiarezza pedagogica dell’assalto di Hamas e dell’invasione russa dell’Ucraina noi siamo incapaci di farci investire integralmente dall’accaduto, per giudicarlo nella sua essenza, passando dalla commiserazione alla condivisione? Invece procediamo per compensazione nelle colpe , per sottrazione di senso , per concatenazione di responsabilità fino a smarrire il bandolo di un giudizio e la capacità di cogliere la portata autentica di ciò che è successo. Illudendoci in questo modo di stare nella storia mentre invece al massimo siamo dentro l’opportunismo della realpolitik.
L’esperienza italiana col progetto di eversione armata e omicida ci ha insegnato che il primo strumento di contrasto al terrorismo è sempre la capacità di chiamarlo col suo nome, senza infingimenti e ambiguità. Così non ci possono essere dubbi sulla natura di Hamas , sui suoi metodi e i suoi obiettivi, dichiarati. Le scelte sciagurate compiute dal governo di Israele sono un’altra cosa, fanno parte della politica e non di uno statuto di sterminio, meritano condanna e opposizione ma non possono diventare un elemento di giustificazione o un’attenuante. Anche la sofferenza e la disumanità delle condizioni di vita cui sono costretti i palestinesi a Gaza devono essere considerate dci per sé , nel loro significato che testimonia la negazione di un diritto, e valutate per questo: mentre sotto i bombardamenti la vita della popolazione civile della Striscia si riduce a semplice corollario collaterale del nemico, Hamas, senza distinguere. Abbiamo oggi l’autonomia e la libertà per capire e giudicare queste diverse realtà che ci interpellano? Non ci accorgiamo nemmeno che nel declinare l’unica vera soluzione alla crisi mediorientale infinita -due popoli, due stati – noi occidentali condensiamo in una formula due distorsioni clamorose: la prima è l’affidamento della popolazione palestinese tenuta in gabbia a un’organizzazione terroristica, lasciando marcire nella corruzione e nell’inabilità l’Anp, il solo interlocutore istituzionale e politico possibile; la seconda è la noncuranza con cui ribadiamo, accanto al diritto all’autodeterminazione palestinese (che per quel popolo continua ad essere un miraggio fino a sembrare un inganno) , il diritto di Israele ad esistere: come se la sopravvivenza fosse una semplice variabile gregaria della politica, un’opzione tecnica che va ogni volta protocollata , perché in quella parte del mondo può entrare in revoca.
Da un linguaggio così malato non può venire alcun rimedio , perché ci rende incapaci di leggere ciò che stiamo vivendo, o di cui stiamo morendo. Finché i fatti si vendicano , soverchiandoci fuori dai nostri schemi di comodo, dove la realtà ci aspetta.
31 0tt0bre 2023 – Una riflessione di Adriano Sofri
31 OTT 2023 Il Foglio piccola posta
La vendetta non può essere indiscriminata Adriano Sofri
Nessuno che guardi la giovane Shani Louk, uccisa da Hamas, e “resti umano”, come si dice, deve vergognarsi di desiderare la vendetta per Israele. Ma quello che sta accadendo a Gaza è un’ingiustizia, una violazione della legge, e prima ancora è un abuso e una perversione della vendetta
Non è vero che il perdono sia la miglior vendetta. Il perdono non ha niente a che fare con la vendetta, salvo che sia un perdono malignamente simulato, per rendere più forte il tormento del nemico. Non è vero nemmeno che la vendetta sia il contrario della giustizia. La vendetta sta fra l’ingiustizia estrema e la giustizia ideale, è insieme un passo verso la giustizia e una sua contraffazione. Si può desiderare e perseguire la vendetta meditatamente, senza vergognarsene. All’indomani del 7 ottobre, chi avrebbe osato raccomandare alla gente di Israele il perdono? (Magari in quella forma così di successo nella nostra scena quotidiana, il microfono caldo puntato contro la madre chiedendole: “E scusi, lei perdona?”). Di più, chi avrebbe osato deprecarne un desiderio di vendetta? La giustizia è una vendetta proporzionata e sottratta all’offeso per essere delegata a un’autorità, divina o terrena – e, dove c’è, a una legge e alle sue procedure – riconosciuta superiore.
Ci sono circostanze in cui la rinuncia alla vendetta appare inaccettabile e derisoria. La giustizia, in uno dei punti essenziali cui è arrivata in una parte del mondo, ripudia la pena di morte. La vendetta no, e anche in quelle parti di mondo ha bisogno della morte, e la chiama guerra. Gli israeliani che hanno esplicitamente rivendicato (è la stessa parola) la volontà di vendetta, non hanno bestemmiato. Ma la vendetta pone un problema decisivo, ancora più della giustizia: che non deve sbagliare bersaglio, nemmeno di poco. La giustizia è bendata, per non essere parziale, la vendetta ha l’occhio bene aperto, per non mancare la mira. La vendetta non può essere indiscriminata. Gaza è un’ingiustizia, una violazione della legge, ma è prima ancora un abuso e una perversione della vendetta.
Nessuno che guardi la giovane Shani Louk e “resti umano”, come si dice, deve vergognarsi di desiderare la vendetta. Israele, in molte drammatiche occasioni, aveva dilazionato la vendetta per salvare vite minacciate: ceduto al ricatto, riservandosi di farlo pagare carissimo a tempo debito. Si possono scambiare mille prigionieri per un ostaggio, diecimila per 229, e fissarsi nella memoria il nome e le facce dei ricattatori, e contare i giorni. Altra cosa, tutt’altra sproporzione, incomparabile, è quella fra 1.400 morti civili israeliani trucidati e migliaia di civili di Gaza uccisi senza colpa. Questa volta Israele è corso all’attacco indiscriminato, e a una vendetta accecata dall’offesa e dall’ira. La giustizia vuole, presume, di essere impersonale in chi la esercita, personale in chi ne è sanzionato. La vendetta, di cui oggi sento di riconoscere il valore, ha solo questo in comune col perdono, che devono ambedue essere freddi, e stare alla larga dal mucchio. (Ho scritto così, benché la vendetta scaldi il cuore ben più che la giustizia). Infine, ancora più della giustizia, la vendetta non può permettersi lo scialo di danni collaterali.
31 ottobre 2023 – C’era una volta re Erode. E’ tornato a farci visita
Ho commentato anch’io
26 ottobre 2023 – Una voce insolita cui voglio dare suono
I giovani ebrei contro il razzismo: “Basta lutti e stragi, uguaglianza e libertà per israeliani e palestinesi”
Abbiamo incontrato attiviste e attivisti del Laboratorio ebraico antirazzista. Criticano le politiche di Israele e si mobilitano per la fine dei bombardamenti a Gaza, combattono l’antisemitismo e l’apartheid. “Per ogni civile morto c’è dietro una famiglia che soffre e che si radicalizza, che sia israeliana o palestinese”.
A cura di Valerio Renzi
Daniel è nato e cresciuto a Roma da una famiglia ebraica, è un antropologo. Bruno ha 28 anni, fa il ricercatore e viene anche lui da Roma, la sua però è una famiglia mista: solo la madre è ebrea. Tali è di Genova, ha 25 anni, e sta ancora studiando. Per definire la sua identità religiosa dice “vengo da una famiglia ebraica, e io stessa sono ebrea”.
Tutti e tre, con altri ragazze e ragazzi, fanno parte di LəA sigla che sta per Laboratorio ebraico antirazzista. Si sono incontrati nel 2020, spinti dall’urgenza di dire qualcosa come ebrei italiani sul piano di annessione della Cisgiordania da parte di Nethanyahu. Urgenza che si ripresenta in modo ancora più impellente e drammatico oggi, con l’escalation in corso a Gaza. Li abbiamo incontrati a Milano. Con loro abbiamo parlato di Palestina e Israele, di antisemitismo e apartheid, ma soprattutto di come fare a spezzare una spirale di violenza e traumi che sembra senza fine.
Confrontandosi hanno scoperto di avere vissuto esperienze simili, in quella che Tali descrive come “una posizione scomoda” perché nelle comunità ebraica c’è “poco spazio per la critica” delle politiche di Israele. Ma dall’altra parte anche la difficoltà di essere ebrei di sinistra, quindi di attraversare ambienti politici trovandosi spesso a disagio “a causa di forme di antisemitismo che consce o inconsce, non sono sufficientemente elaborate”. E sono spesso negate. Da qui la voglia di costruire un punto di vista condiviso, senza rinunciare però a frequentare né la comunità ebraica, né i gruppi della sinistra. “Fanno parte delle nostre vite”.
Oggi di fronte al massacro di civili attuato da Hamas e la punizione collettiva dell’esercito israeliano, è facile perdere la speranza o sentirsi impotenti. Ma la priorità per questi giovani ebrei italiani è “riconoscersi nel dolore dell’altro”, spezzare la catena di lutti, anche se ora sembra impossibile. “Cosa provo? Abbiamo perso amici attivisti da entrambe le parti. – spiega Daniel – Innanzitutto c’è questa profonda sofferenza e il senso di sconfitta, perché non si riesce a capire che per ogni civile morto c’è dietro una famiglia che soffre e che si radicalizza ancora di più. Quindi la pace è più lontana. Aumenterà semplicemente il fanatismo da una parte e si rafforzerà l’estrema destra dall’altra”.
Di fronte all’intensificarsi del conflitto e al rischio che si allarghi ad altri fronti, prima di tutto in Cisgiordania, è Bruno a spiegare quali sono le ragioni per cui sono pronti a mobilitarsi: “Per noi la priorità è anzitutto la fine della punizione collettiva a cui è sottoposta la popolazione civile di Gaza e l’immediato rilascio degli ostaggi. Poi è necessaria la fine dell’apartheid e dell’occupazione a cui sono sottoposti i palestinesi”. E quindi fare pressioni sui governi e le istituzioni internazionali per mettere le parti attorno a un tavolo, imporre delle sanzioni, interrompere la fornitura di armi e gli accordi militari.
Ma il conflitto porta con sé non solo la mobilitazione per la fine dei bombardamenti, ma anche la paura che gli ebrei diventino un obiettivo, per la recrudescenza di sentimenti antisemiti. “Da quando è iniziata la guerra abbiamo visto acuirsi la polarizzazione nel discorso pubblico in Italia e in Europa, alimentata soprattutto dalla retorica dello scontro di civiltà. Una situazione accresce la stigmatizzazione delle comunità ebraiche da un lato, ma anche di quelle islamiche dall’altro”, ragiona Tali. Ci sono stati infatti episodi preoccupanti tanto negli Stati Uniti quanto in Europa, contro entrambe le comunità. Ma attenzione, se l’antisemitismo, come ogni discorso di disumanizzazione dell’avversario, non va sottovalutato, non va neanche strumentalizzato: “Siamo contrari a chi usa l’accusa di antisemitismo per portare avanti campagne politiche di censura di manifestazioni che supportano la causa palestinese. Nel nostro Paese il governo appoggia in modo indiscriminato Israele, ma il governo è composto da forze politiche con un retaggio fascista e antisemita molto forte”.
Daniel, Bruno e Tali, così come gli altri, spiegano con grande chiarezza, che si può essere ebrei senza partecipare alla vita della comunità ebraica, o si può partecipare alla vita comunitaria senza sostenere il governo d’Israele.
Daniel sostiene che le comunità ebraiche in Italia siano variegate e eterogenee al loro interno, “così come lo è il nostro gruppo e la nostra partecipazione all’interno delle comunità. Le persone delle comunità ebraiche italiane fanno parte della società civile italiana e quindi rispecchiano in piccolo il dibattito pubblico del nostro Paese. Nel nostro Paese c’è stata una virata verso destra e questa cosa si è riflessa anche nelle comunità” e,.
Ebraismo, istituzioni comunitarie e stato di Israele sono tre insiemi distinti, anche se “tra la diaspora e lo Stato di Israele, è innegabile che ci sia un rapporto. Il legame è dovuto anche solo a parentele o amicizie, nonché al valore simbolico che può rappresentare per alcune persone. Quindi a volte diventa complicato criticare le politiche del governo israeliano, anche perché spesso c’è una relazione acritica tra comunità e governo di Israele”. È un disagio che si può vivere tanto nelle istituzioni comunitarie, quanto a livello di socialità, familiare e di amicizia.
“Spesso noi ebrei veniamo interpellati da persone comuni su Israele come se fossimo i responsabili di ciò che avviene lì. Allo stesso tempo, il governo di Israele pretende di parlare a nome di tutti gli ebrei. – spiega Bruno – Noi prendiamo la parola in quanto ebrei, pur non sentendoci responsabili di quello che fa il governo israeliano, ma abbiamo dei legami con Israele. Abbiamo dei legami con gli attivisti in Israele,in Cisgiordania e a Gaza”. E per il futuro? Se, finita l’occupazione, parlare di un solo stato multiconfessionale e multietnico sembra lontanissimo, intanto oggi la priorità è affermare “una condizione di giustizia, eguaglianza e di libertà per israeliani e palestinesi. Serve il riconoscimento dell’altro affinché possa esserci una coesistenza sullo stesso territorio”. Ma ogni giorno di guerra tutto questo si allontana di un altro passo.
9 ottobre 2023 _ Per vedere l’effetto che fa l’obiezione di coscienza
17 ottobre 2023 _ Armare lo sguardo_ B’Tselem
16 OTTOBRE 2023ANTICHI SAMUEL, LESSICO DELLA CONTEMPORANEITÀ di SAMUEL ANTICHI
Raccontare il conflitto israelo-palestinese, il caso di B’Tselem.
Con l’attacco da parte di Hamas contro Israele il 7 ottobre scorso, l’Occidente rivolge nuovamente l’attenzione a un conflitto che imperversa in realtà da settantacinque anni e il cui acuirsi era già riconducibile alla ri-elezione di Benjamin Netanyahu nel novembre 2022. L’occupazione israeliana, oltre a livello territoriale, si è contraddistinta per un processo di armamento dello sguardo che prevede l’appropriazione del campo di percezione e della rappresentabilità, limitando lo spettro visivo con schermi difensivi, alzando muri e torri di controllo. Inoltre, come sottolinea l’architetto Eyal Weizman, gli insediamenti israeliani sono costruiti molto spesso su zone collinari in modo da poter adottare una separazione verticale, dall’alto verso il basso, tra loro e i villaggi palestinesi a valle, impiegando una one-way hierarchy of vision.
Analogamente, le strade sono direzionate e le finestre delle abitazioni orientate verso i villaggi palestinesi. Questo permette anche ai coloni israeliani di indirizzare lo sguardo costantemente verso il nemico in una forma di controllo e sorveglianza. Il processo di armamento dello sguardo viene incrementato a partire dal 2011 quando l’esercito di difesa israeliano (IDF) inizia a fornire videocamere ai soldati che operano nei territori occupati attraverso un’iniziativa denominata Documenting Warrior Project. In aggiunta, l’anno successivo, viene formata un’unità speciale di “Camera-combattenti” (Lochamim-Tzalmim) addestrati in campo militare e cinematografico. A partire dall’operazione “Margine di protezione”, campagna militare delle forze armate israeliane nella striscia di Gaza, nell’estate del 2014, i video-operatori seguono costantemente l’esercito di difesa producendo quelle che potremmo definire, parafrasando il pensiero di Judith Butler, compliant images, immagini che aderiscono alla prospettiva visuale dello stato colonizzatore, dove «lo sguardo rimane limitato ai parametri stabiliti di una determinata azione» (Butler 2005, p. 822).
Più recentemente, l’IDF ha incoraggiato i militari ad utilizzare anche i propri smartphone per raccogliere materiale video da pubblicare, andando ad arricchire ulteriormente i canali ufficiali dell’esercito. Oltre ai soldati muniti di videocamera e operatori embedded, troviamo anche un corpo speciale composto da sole donne denominato Tazpitaniot (osservatrici) che controllano da remoto i filmati di più di 1700 camere di sicurezza posizionate in punti strategici a Gaza e in Cisgiordania. Le strutture di video sorveglianza si estendono con l’utilizzo di droni e della fotografia aerea per la mappatura e controllo del territorio.
Dall’altra parte invece, per controbilanciare il regime scopico egemonico imposto dall’occupazione israeliana, l’organizzazione non governativa B’Tselem, – Centro di Informazione per i diritti umanitari nei territori occupati, ad esempio, ha lanciato nel 2007 Camera Distribution Project, tre anni prima delle Primavere Arabe, che hanno reso evidente il ruolo dei digital e social media nel trasmettere e restituire i conflitti politici così come denunciare la violazione dei diritti umanitari. Il progetto, che inizialmente si chiamava Shooting Back, ha l’intento di “armare” i cittadini palestinesi fornendo loro una handycam in modo da poter contrattaccare, filmando, le violenze subite e perpetrate dall’esercito israeliano. Camera Project, esponendo le ingiustizie, le violenze e gli abusi subiti dai cittadini palestinesi nel regime di occupazione, mettendo in discussione la legittimità dei comportamenti dei coloni israeliani a livello internazionale, decostruisce lo stesso apparato di potere che queste azioni regolarizza.
Ridotti a corpi da osservare, controllare e ispezionare, soggetti ad un regime scopico di occupazione, la pratica documentaria come forma di attivismo rende visibile l’invisibilità a cui è confinata la popolazione palestinese. Le videocamere nelle mani dei volontari tentano di rovesciare la dominazione visuale imposta dai colonizzatori rivendicando il proprio right to look, «un’autonomia basata su uno dei suoi principi primi: il diritto all’esistenza» (Mirzoeff 2011, p. 477). Questo aspetto richiama inoltre il carattere di precarietà delle vite perse in guerra espresso da Judith Butler che sottolinea come, all’interno delle dinamiche di potere, dominio e prevaricazione esercitate da un regime oppressivo, alcune vite non vengano considerate da compiangere, in quanto «non si possono percepire vite specifiche come ferite o perse se prima non sono percepite come viventi» (Butler 2009, p. 50). Dal momento della sua fondazione, B’Tselem ha svolto un lavoro di documentazione e di ricerca pubblicando statistiche, informazioni così come testimonianze e filmati sulle violazioni dei diritti umani perpetrate da Israele nei confronti della popolazione palestinese. L’archivio video di B’Tselem contiene più di 5000 ore di materiale video, di cui una buona parte è accessibile online.
L’amateurized media universe che ha preso vita a partire dai filmati realizzati dai volontari di B’Tselem per certi versi si discosta da quello di altre forme di video-attivismo, per esempio la narrazione della guerra civile siriana, caratterizzato come sottolinea Papadopoulos da ipermobilità, opacità, non narratività e raw audio. L’intenzione più che fornire allo spettatore un’esperienza soggettiva e incarnata, immergerlo all’interno della natura del conflitto, è quella di carattere sia testimoniale che informativo. Piuttosto che focalizzare l’attenzione esclusivamente sulla rappresentazione grafica della violenza perpetrata dall’esercito israeliano attraverso immagini sensazionalistiche, l’obiettivo è quello di mostrare le pratiche di controllo dei coloni esponendo azioni ormai iscrivibili alla routine quotidiana. Molti dei video realizzati dai volontari cercano di mostrare il meccanismo strutturale dell’occupazione che consiste prima di tutto nell’invasione e nell’appropriazione dello spazio privato, perquisizioni nelle case durante la notte, abbattimento di abitazioni, espropriazione di terreni, blocco dell’accesso alle cisterne dell’acqua, azioni legali e permesse che diventano parte di un vero e proprio piano regolatore.
I volontari di B’Tselem nello specifico, una volta che iniziano a collaborare al progetto, prendono parte ad una serie di workshop in cui i field researchers e i membri dell’organizzazione insegnano loro alcune tecniche di ripresa da utilizzare in determinati contesti. Oltre a istruzioni di base, come mi è stato detto nelle interviste che ho condotto nel mio periodo di ricerca a Gerusalemme presso l’organizzazione, un punto su cui ci si sofferma nel workshop è l’importanza di tenere la videocamera stabile, perché troppi movimenti rischiano di rendere il tutto troppo confuso e di infastidire e confondere lo spettatore.
Per stabilizzare l’inquadratura, viene insegnata ai volontari la cosiddetta posizione del T Rex in cui i gomiti sono attaccati e la videocamera posizionata all’altezza del petto. Per evitare di doversi accostare troppo all’azione e mettere magari a rischio la propria vita, uno strumento per avvicinare lo sguardo della camera impiegato spesso nei video di B’Tselem, che non viene invece pressoché mai usato nei filmati amatoriali della guerra civile siriana, è lo zoom. Il consiglio rimane comunque quello di fare uno zoom ad allargare il campo e quindi inserire il contesto piuttosto che uno zoom in dove l’inquadratura rischia di diventare meno stabile. Con l’intento di raccogliere materiale per mostrare il meccanismo strutturale e sistemico dell’occupazione e della violazione dei diritti umanitari, B’Tselem pone l’attenzione su quella che Žižek ha definito objective violence, una violenza molto spesso invisibile perché insita all’interno di determinate dinamiche di potere coloniale.
Contrariamente, la violenza soggettiva mostra «una perturbazione dello stato normale e pacifico delle cose», per questo motivo è visibile ed esercitata da un soggetto chiaramente identificabile (una persona armata) contro una vittima chiaramente identificabile (persona ferita dal colpo dell’arma) (Žižek 2008, p. 2). Se da una parte, la violenza soggettiva richiama particolare attenzione perché squarcia il velo di normalità, un “non-violent zero level”, la violenza oggettiva mostra «la violenza inerente a questo normale stato delle cose», le dinamiche di violenza e soprusi che reggono sistematicamente i meccanismi di un regime oppressivo (ibidem).
Piuttosto che collezionare esclusivamente immagini di violenza grafica che potrebbero avere un apporto prevalentemente sensazionalistico, andando a costituire singoli frammenti di violenza soggettiva, B’Tselem nel suo raccogliere materiale in un archivio digitale dove vengono mostrati i meccanismi che regolano le dinamiche di occupazione, e come queste perdurino nel tempo, cerca di rendere visibile la violenza oggettiva, provando a raggiungere un impatto maggiore. Usando la macchina da presa come arma di comunicazione di massa, tentano di rovesciare la dominazione visuale imposta dai colonizzatori mettendo in mostra le dinamiche di potere che regolarizzano la violazione perpetua dei diritti umanitari nei territori occupati.
Riferimenti bibliografici
- Berdugo, The Weaponized Camera in the Middle East Videography, Aesthetics, and Politics in Israel and Palestine, Bloomsbury, London, 2021.
- Butler, Photography, War, Outrage, in “PMLA”, v. 120, n. 3, 2005.
Id., Frames of War: When Is Life Grievable?, Verso, London, 2009.
- Mirzoeff, The Right to Look, in “Critical Inquiry”, v. 37, n. 3, 2011.
- Papadopoulos, Citizen camera-witnessing: Embodied political dissent in the age of mediated mass self-communication, in “New media & society”, v. 16, v. 5, 2013.
- Weizman, Hollow Land: Israel’s Architecture of Occupation, Verso, London, 2007.
- Žižek, Violence: Six sideways reflections, Picador, New York, 2008.
NOTA
B’Tselem (ebraico: בצלם, “a immagine di”, come in Genesi 1:27) è una organizzazione israeliana non governativa (ONG). Il B’Tselem si riferisce a sé stesso come “Il Centro di informazione israeliano per i diritti umani nei territori occupati”. Il gruppo è stato fondato il 3 febbraio 1989 da un gruppo di personalità pubbliche israeliane, tra cui avvocati, accademici, giornalisti e membri della Knesset. Il suo direttore esecutivo è Jessica Montel.
Gli obbiettivi dichiarati di B’Tselem sono “documentare ed educare il pubblico ed i politici israeliani sulle violazioni dei diritti umani compiuti dallo stato di Israele nei territori occupati, impegnarsi nella lotta contro il fenomeno della negazione tra i cittadini israeliani e contribuire a creare una cultura dei diritti umani in Israele”.
Nel dicembre 1989 l’organizzazione ha ricevuto il Carter-Menil Human Rights Prize. B’Tselem è finanziata dal ministero degli esteri del Regno Unito e della Norvegia, come pure le fondazioni con sede in Europa e Nord America.
15 ottobre 2023 – Spinoza e molto altro
Vito Mancuso: Ecco che cosa significa nascere in una “Striscia”
Il numero uno di Hamas (che al momento risiede in Qatar da dove ha diffuso un video che lo ritrae mentre prega il suo Dio ringraziandolo per l’avvenuto massacro di israeliani da parte dei suoi) si chiama Ismail Haniyeh ed è nato nel 1962, il mio stesso anno di nascita.
Il numero due di Hamas (che al momento è nella Striscia di Gaza e che per gli israeliani è un uomo già morto) si chiama Yahya Sinwar ed è nato anch’egli nel 1962. Avrei potuto essere loro compagno di classe, seduto nello stesso banco, giocare insieme al pallone. Solo sulla carta, ovviamente, perché in realtà, mentre io sono nato in un operoso paese della Brianza parte di uno Stato nazionale relativamente prospero, essi sono nati entrambi in un campo profughi della Striscia di Gaza privi di uno stato che rappresenti la loro nazione (non a caso ho dovuto scrivere “Striscia”, non Stato). Cosa significa nascere in una Striscia? Cosa significa nascere e crescere in un campo profughi di persone cacciate dalle loro case ed espulse dalla loro terra, e senza nessuna credibile prospettiva di poter superare quella condizione avendo finalmente uno Stato nazionale e riavendo una casa? Significa crescere a pane e odio. A volte può persino mancare il pane, l’odio però mai; anzi, di sicuro esso viene accresciuto dalla mancanza del pane.
Sarà per il medesimo anno di nascita, ma io non posso fare a meno di chiedermi che cosa avrebbe rappresentato per me crescere in quelle condizioni. Che cosa sarei diventato io, venuto al mondo nello stesso anno del numero 1 e del numero 2 di Hamas, se fossi nato lì, da genitori cacciati dalle loro case e dalla loro terra, e vedendo che le speranze di ristabilire un minimo di decenza delle mie condizioni vitali invece di crescere diminuiscono giorno per giorno fino a risultare inesistenti?
Non pensi il lettore che questo mio discorso sia teso a giustificare o anche solo a giudicare con minore severità il massacro del 7 ottobre perpetrato dai militanti, o meglio terroristi, di Hamas. No, nessuna giustificazione di nessun tipo. Sono convinto però che non si debba deporre l’intelligenza che ricerca le cause perché solo così si va alla vera radice dei problemi. Ha scritto uno dei più grandi pensatori ebrei di tutti i tempi, Baruch Spinoza, che citerò molto in questo articolo: «Mi sono impegnato a fondo non a deridere, né a compiangere, né tanto meno a detestare le azioni degli uomini, ma a comprenderle» (Trattato politico, I, 4). Comprendere: di questo si tratta, e quindi la domanda è: il massacro di Hamas è riconducibile alle condizioni in cui i palestinesi versano dal 1948 a oggi, diventate via via sempre più intollerabili? “Il più grande carcere a cielo aperto”, come è stata giustamente definita la Striscia di Gaza, e il continuo furto di terreno da parte dei coloni israeliani nella Cisgiordania, possono rappresentare la spiegazione sufficiente dell’odio assassino di Hamas? A tale questione io rispondo di no.
Non dico che la situazione sociale e politica del popolo palestinese non sia in gioco nella genesi di quell’odio; dico che essa non basta a spiegare la ripetuta decapitazione di bambini ebrei, assunta quale simbolo più tragico dell’enorme massacro. Se le inique condizioni di Gaza fossero la ragione sufficiente, dovremmo logicamente concludere che gli oltre due milioni di palestinesi della Striscia sarebbero disposti a compiere il medesimo gesto: tutti pronti a sgozzare bambine e bambini indifesi. Naturalmente io non posso sapere con sicurezza che non sia davvero così, ma la mia ragione si rifiuta di procedere con queste generalizzazioni grossolane perché il suo compito è strutturalmente un altro: la distinzione. Distinguere è il lavoro per eccellenza del ragionamento debitamente condotto, e come dall’aggressività e dal disprezzo della proprietà altrui da parte dei coloni israeliani non è lecito inferire che tutti gli israeliani siano pronti a calpestare il diritto internazionale, così allo stesso modo dal massacro di Hamas non è lecito inferire che tutti gli abitanti della Striscia di Gaza siano pronti a compiere i crimini inqualificabili di qualche giorno fa.
Ma se non bastano le condizioni sociopolitiche a comprendere il massacro di Hamas, quali altri fattori occorre convocare? La risposta non è difficile: l’odio. Non l’odio come vampata di ira più incandescente del solito che in qualche momento può incendiare l’animo, no; ben più radicalmente, l’odio quale persistente e sistematica ideologia che, a freddo e totalmente in possesso delle sue facoltà, non pensa ad altro che al nemico e alla sua eliminazione. L’odio quale carburante della vita di un essere umano. Perché questo è il punto: che si può fare dell’odio la propria fonte di energia, la propria sorgente vitale, la ragione del proprio esistere. L’odio può conferire una sorta di macabra vitalità e lucidità alla mente.
Ha affermato Sami Modiano, sopravvissuto ad Auschwitz: «Non è vero che l’odio è cieco, ha la vista molto acuta, quella di un cecchino, e se si addormenta il suo sonno non è mai eterno, ritorna». E che l’odio abbia la vista molto acuta lo dimostra l’accuratezza con cui Hamas ha preparato e condotto il massacro.
Torniamo ai suoi capi. Si può nascere nello stesso anno, nella stessa città o nello stesso campo profughi, persino nella stessa famiglia, e avere vite diverse, addirittura opposte. Per fortuna o sfortuna che sia, noi siamo esseri indeterminati. Per fortuna o sfortuna che sia, la libertà esiste davvero. Ha scritto un altro sopravvissuto ad Auschwitz, lo psicologo ebreo viennese Victor Frankl, riflettendo sulle condizioni nel campo di sterminio: «Tutto ciò che accade all’anima dell’uomo è il frutto di una decisione interna. In linea di principio ogni uomo, anche se condizionato da gravissime circostanze esterne, può in qualche modo decidere cosa sarà di sé». Si può leggere il Corano e trarne insegnamenti di odio e di violenza; lo si può leggere e trarne insegnamenti di amore e di pace. Lo stesso vale per la Bibbia, dove pure vi sono passi di odio infuocato e altri di amore luminoso. Perché alcuni leggono il loro libro sacro nel primo modo e altri nel secondo? Lo stesso vale per ogni altra lettura, a cominciare da quella più importante di tutte, la nostra vita: perché alcuni la interpretano come odio e altri, a parità di condizioni, come volontà di pace?
Dopo aver osservato con il più rigoroso distacco le azioni umane nella loro genesi e nel loro sviluppo, Spinoza giunge alla conclusione che «l’odio non può mai essere buono» (Etica IV, 45). Sono del tutto d’accordo con lui. Mai vuol dire “mai”, anche quando si tratta di rispondere all’odio ricevuto. Soprattutto quando ad agire è lo Stato, come Spinoza specifica: «Tutto ciò che appetiamo perché siamo affetti dall’odio è turpe e ingiusto nello Stato». La caratteristica peculiare di un vero politico è la capacità di affrontare il nemico con determinazione ma senza odio, perché, come ha scritto sempre Spinoza, «ognuno che è guidato dalla ragione desidera anche per gli altri il bene che appetisce per sé» (Etica, IV, 73). Desideri la terra? Dai la terra anche al tuo nemico. Desideri l’acqua? Dai l’acqua al tuo nemico. E così per ogni altro bene vitale. Dietro queste parole del più grande filosofo ebreo, io rivedo il nobile volto di Yitzhak Rabin.
Vito Mancuso, La Stampa 15 ottobre 2023
https://www.alzogliocchiversoilcielo.com/2023/10/vito-mancuso-ecco-che-cosa-significa.html
15 ottobre 2023 – La conoscenza fa paura, ovunque
14 OTTOBRE 2023 Sospeso il premio per la palestinese Adania Shibli alla Fiera del Libro di Francoforte.
Scrittori e case editrici arabe lasciano l’evento di Shady Hamadi |
La Fiera del Libro di Francoforte annuncia la cancellazione della cerimonia di premiazione di Adenia Shibli, autrice palestinese del libro “Un dettaglio minore”. La motivazione, diffusa in una nota da Litprom, agenzia letteraria che organizza il premio, è “la guerra in Israele”. In compenso, “spazio addizionale sarà concesso alle voci israeliane”, ha fatto sapere, quasi in contemporanea, Juergen Boos, direttore della fiera tedesca.
Il libro della Shibli si trascina dietro polemiche fin da questa estate, cioè da quando Ulrich Noller, giornalista e membro della giuria del premio, si era dimesso contro la decisione di premiare la scrittrice palestinese. A riaccendere la discussione c’è stato poi un articolo di giornale, uscito questa settimana, in cui il libro, che racconta la vera storia di una beduina stuprata e uccisa dai soldati israeliani nel 1949, è stato accusato di “descrivere Israele come una macchina assassina”. Il volume, tradotto e pubblicato in tedesco nel 2022, si è aggiudicato il prestigioso premio LiBeraturpreis, dato ad autori provenienti dall’Asia, Africa e Mondo arabo. Annualmente, il riconoscimento viene consegnato durante una cerimonia solenne alla Fiera del Libro di Francoforte che è uno dei più grandi e autorevoli ritrovi dell’editoria mondiale.
Le dichiarazioni di Boos e la cancellazione della cerimonia di premiazione della Shibli hanno sollevato la protesta delle case editrici arabe e di molti autori. Dall’Autorità del libro di Sharja, fino all’Associazione degli editori arabi degli Emirati, passando per molte case editrici indipendenti arabe e scrittori, è arrivato l’annuncio del ritiro della loro partecipazione dall’evento a Francoforte. “Sosteniamo il ruolo della cultura e dei libri – scrive in un comunicato l’associazione degli editori arabi degli Emirati –, per incoraggiare il dialogo e la comprensione fra le persone”. E concludono: “Crediamo che questo ruolo sia importante ora più che mai”.
Said Khatibi, celebre scrittore algerino, ha anche lui annunciato la cancellazione della sua partecipazione perché, scrive su Facebook, “speravamo che la letteratura giocasse un ruolo importante per costruire un dialogo fra le parti”. Ma, continua Khatibi che aveva in programma due incontri, “la fiera ha preso una posizione politica di una sola parte contro l’altra”, i palestinesi. Nei giorni passati, il direttore Boos aveva dichiarato che “la fiera condannava fermamente il barbaro terrore di Hamas” e che “il loro pensiero era per le vittime, i loro parenti e le persone che stanno soffrendo per questa guerra”, non menzionando le vittime a palestinesi. A tentare di spegnere le polemiche è la Litprom che, dopo il polverone, ha comunicato di voler riorganizzare la cerimonia. Ma soltanto dopo la fine della fiera.
Un precedente italiano documentato il 4 marzo 2022
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