Sul mensile Ho un sogno abbiamo deciso di pubblicare qualche nota sulla prima guerra mondiale avendo come punto di riferimento le vittime civili – in sostanza la popolazione tutta – per cui non sembra esserci molto spazio nelle celebrazioni ufficiali.
Mentre mi predisponevo a trascrivere quanto pubblicato in giugno sul mensile Ho un sogno (i due testi precedenti sono stati inseriti in questo diario il 31 maggio e si possono leggere anche da qui) ci è giunta un’intervista anche questa leggibile nel quadro di un punto di vista diverso da quello celebrativo. La trascrivo di seguito, rappresenta un altro punto di vista non troppo diffuso in un clima celebrativo-militare
Ho un sogno – giugno
A PESTE, FAME ET BELLO LIBERA NOS DOMINE
Il 4 novembre 1918, mentre il generale Diaz ci racconta che “I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli, che avevano disceso con orgogliosa sicurezza” un povero curato di Cleulis (Paluzza), ferito e derubato chiede giustizia. La lunga lettera di cui riportiamo alcuni tratti, ritrovata dentro il registro dell’archivio parrocchiale dal parroco del paese dei genitori del sacerdote mittente, nel 1972 venne trascritta nel mensile ‘Quattrogatti’, una pubblicazione friulana che per quattro anni provò a dar voce alle speranza suscitate nel mondo cattolico e non solo dal Concilio Vaticano secondo.
Terza puntata della rassegna sulle “Storie senza vittoria” in occasione del centenario della I guerra mondiale.
Le immagini sono tratte dal sito www.donneincarnia.it/ieri/cleulis.htm.
Genitori carissimi,
lettera lunga, cosa insolita … ma sono insolite anche le cose che sto per narrarvi.
[… ]Tutto andò bene fino agli ultimi di ottobre, quando s’incominciò a scorgere dei grandi gruppi di soldati che venivano su da Paluzza…. Si parla di una grande ritirata, si dice che gli Austroungarici si ritirano per far luogo agli Italiani […]
Le cose si fanno serie: saccheggi e ruberie, accompagnati da minacce. Intanto sono partiti anche i gendarmi e noi tutti, mille e più abitanti, restiamo a discrezione del più forte.
Il 3 novembre sera due, tre soldati, appartenenti al 39o Reggimento di Fanteria Austro Ungarica e si fanno vedere per Cleulis a chiedere informazioni di questo e di quello, penetrare anche in chiesa a chiedere dell’abitazione del Curato.
Verso le ore 8 andiamo a dormire e ci addormentiamo. A un certo punto sento battere al muro: è la Caterina che mi chiama dalla camera attigua; e contemporaneamente sento un rumore di vetri infranti.
« Queste – pensai – sono granate da 75 che gli Italiani mandano da Paluzza» e in quella sento un altro colpo simile al primo ed insieme sentii anche delle voci.
Senza vestirmi, in camicia, corsi alla scala, aprii e mi trovai innanzi a 4 o 5 soldati dei quali uno o due con baionetta innestata […]
Qui cominciò la “Via Crucis”. In mezzo a continue minacce di morte a me e alla serva, si posero a saccheggiarmi. Prima di tutto posero mano a due orologi d’argento che aveva a prestito perché il mio si era rotto. Poi mi portarono via il taccuino con circa 300 lire, la legitimazione ed altre carte, due maglie di lana con collo alto, due tovaglie da mensa, un lenzuolo fino, 5 tovagliuoli, mezzo chilo di zucchero, tutto il formaggio, 2 forchette, 2 coltelli e 3 cucchiai avuti a prestito, la mia catena d’argento, 2 paia di calzette, 1 camicia di lana, il rasoio, 2 pezzi di sapone, mezzo chilo di carte, una scatola di tabacco, tutti i pennini e tutti i lapis e perfino un pettine.
Frattanto mi domandarono vino. Aveva litri 1 e mezzo per messa; me lo trovarono, poi se lo tracannarono tutto […] e vollero andare in cantina per cercarne altro. Quando videro che non c’erano che patate e cavoli voltarono: mi presero per forza, mi ricacciarono in cantina e mi chiusero a chiave. Capii tutto. Diffatti poco più d’un minuto dopo sentii gridare di sopra: «Aiuto! aiuto! aiuto!». Erano le grida della mia povera Caterina che rompevano gli orrori di quella notte e che penetrarono nelle più intime fibbre del mio povero cuore.
Che fare? Tastai le pareti della mia prigione e trovai una finestra che metteva nella piazza. Volli aprirla; ma una voce infernale dal di fuori mi fece voltare indietro colla minaccia di una fucilata. Picchiai alla porta chiedendo per pietà che mi aprissero. Pietà, sì, in quelle anime d’inferno! Dal di sopra non più una voce. […]
Attesi ancora un momento , poi tentai di nuovo di aprire la finestra. La apersi. Guardai nella piazza: nessuno. Entrai per la porta lasciata semiaperta e precipitai su per la scala chiamando Caterina. […]
Ma, oh Dio, quale spettacolo! Essa tutta grondate di sangue dalla testa, giù pel petto e perfin sulla gonnella. Ha essa una ferita sulla testa e una sul collo del naso. Mi racconta che dopo tornati sopra uno di quei ribaldi, il capo, la trascinò in camera mia e le chiese cose innominabili, che essa chiamò subito aiuto e che piuttosto che cedere, si lasciò ferire sulla testa e sul naso colla baionetta, percuotere sulla testa colla impugnatura del revolver, pestare di pugni e di schiaffi; che dopo averla insanguinata quel demonio la lasciò…
[…] Se non l’ho mai provato, quella mattina certo provai il bisogno di una persona che ci confortasse. Ne trovai non una, ma cento, ma tutti! E siano vere grazie ai buoni Cleuliani. Più di uno si sarebbe messo in mio aiuto, ma appena qualcuno metteva fuori la testa da una porta o da una finestra o da una contrada, c’era un soldato che puntava il fucile.
Ah misericordia, che nottataccia! Dio solo e la Vergine benedetta mi ha salvato da peggiori mali; e li ringrazio di tutto e vero cuore. […]
Quel dì (il 4 novembre) lo persi in ricerche. Se fosse stato mezz’ora prima avrei potuto far metter mano sul capo briganti; ma pur nel pomeriggio ottenni che uno fosse colto con addosso la mia roba […]
Deposi al capitano della sua compagnia un protocollo lungo lungo… e buona notte.
Se c’è ancora giustizia a questo mondo qualcosa rinascerà di sicuro.
Il capitano mi disse che il minimo della pena sarà di 10 anni di galera. Poco, poco e poco!
Eppure ciononostante la mia parola, dopo tanto dolore e dopo tanto spavento, è stata quella del perdono. Grazie a Dio!
Così come vedete, dopo tal fatto, sono diventato anche più povero e più bisognoso del vostro aiuto.
Vostro affez.mo figlio.
Il testo che precede si può leggere anche da qui.
INTERVISTA A ZLATKO DIZDAREVIĆ*
Le iniziative per commemorare il centenario dell’attentato a Francesco Ferdinando e la situazione in Bosnia Erzegovina oggi.
In giugno l’Europa ricorderà i 100 anni dall’inizio della Prima guerra mondiale con un fitto programma di iniziative qui a Sarajevo. Cosa pensa di queste celebrazioni?
Si tratta di un’espressione di cinismo. Sono iniziative che certamente non vanno a vantaggio di Sarajevo, né dei sarajevesi, e hanno riaperto una battaglia tra di noi, su Gavrilo Princip. Adesso per una metà dei bosniaci Princip è un terrorista, per l’altra metà è un eroe. Che bisogno avevamo ora di discutere di queste cose? Abbiamo un paese, la Bosnia Erzegovina, completamente distrutto. Non funziona, non esiste. E i politici europei verranno qui per una settimana sorridenti, con i palloncini colorati, grandi dichiarazioni, “Mai più”, a ricordare l’amore dell’Europa per Sarajevo, i princìpi europei. Si tratta di un incredibile cinismo. Se c’è un luogo dove i princìpi europei vengono abbandonati, questo è Sarajevo.
Allora perché queste celebrazioni?
È un’occasione meravigliosa per lavarsi la coscienza, per organizzare qualcosa di positivo, una grande festa, in un momento in cui la situazione europea e mondiale è drammatica, con la guerra sempre più presente, l’estrema destra sempre più forte, il progressivo abbandono degli ideali di libertà e cosmopolitismo.
Eppure la morte di Francesco Ferdinando ha segnato la fine di un’epoca, e l’inizio della grande guerra civile europea. Non è importante riflettere su quegli eventi?
Anzitutto io non penso che quella guerra sia iniziata a Sarajevo, le grandi potenze erano già preparate per la guerra. Sarajevo non è responsabile per la guerra.
L’attentato è stato solo un pretesto?
Sarajevo è stata una vittima delle relazioni internazionali esistenti. Anche nell’ultima guerra il suo destino è stato questo. La colpa non era di Sarajevo. Nel 1992, quando la guerra è iniziata, nessuno di noi pensava che fosse possibile. L’atmosfera, le relazioni tra le persone, non consentivano di pensarlo. Dopo il primo sangue, naturalmente, la situazione è cambiata.
Dunque non era necessario riaprire il dibattito su questi temi?
Non penso fosse necessario adesso, né tanto meno a Sarajevo. Il nazionalismo, la storia degli ultimi 20 anni, tutti i problemi ancora irrisolti… Sarajevo non è il posto dove fare queste celebrazioni. Nelle nostre scuole elementari abbiamo manuali di storia che presentano tre versioni diverse dello stesso episodio, come possiamo discutere di queste cose? Perché queste celebrazioni non le hanno fatte a Parigi, a Londra, a New York? Io non sarei contrario a una piccola manifestazione, a una commemorazione, una mostra, è ovvio, non si possono chiudere gli occhi di fronte a questo anniversario. Ma quanto sta accadendo è semplicemente isterico.
Cioè?
Tutte le espressioni della vita culturale, dal cinema al teatro, alla letteratura, alle manifestazioni sportive, avverranno nel quadro del centenario della Prima guerra mondiale. L’Ambasciata francese ha proposto che il Tour de France inizi a Sarajevo, nel nome del centenario. Tutto questo è cinico. Viene fatto per dimenticare quella che è la realtà della Bosnia Erzegovina oggi, una realtà che nessuno vuole affrontare. C’è una grande retorica, e falsità, in queste celebrazioni. Alla gente di Sarajevo non interessano, questa non è la nostra festa.
Il tema del 28 giugno ha quindi già prodotto divisioni?
In realtà i cittadini sono semplicemente stanchi di questi dibattiti, pensano a come trovare qualcosa da mangiare, un posto di lavoro. Sarajevo è stanca di queste promesse europee, che qui vengono regolarmente disattese. Venti anni fa ho scritto un libro con l’amico Gigi Riva dal titolo “L’Onu è morta a Sarajevo”. Oggi, venti anni dopo, penso che sia l’Europa ad essere morta a Sarajevo.
Perché le istituzioni culturali e politiche locali non hanno impedito questa operazione, se gli effetti sono così negativi?
Perché sono sottoposti alle pressioni delle diverse istituzioni internazionali e dei diversi uffici europei, delle organizzazioni non governative… Sono tutti esaltati per questo evento, sono in estasi. La realtà però è che anche oggi l’Europa è divisa, in Est e Ovest, nell’Europa slava e quella degli austro ungarici.
Quindi la situazione non è molto diversa da quella di 100 anni fa?
Assolutamente no. Guardate all’Ucraina, alla Siria. Sono il risultato di sogni imperiali, di ambizioni neocoloniali.
E la Bosnia Erzegovina?
Se non vengono presentati segnali assolutamente chiari sul futuro europeo della Bosnia, lo spazio vuoto verrà occupato da altri, dalla Turchia, dalla Russia o dai paesi arabi del Golfo.
*Zlatko Dizdarević, giornalista e scrittore sarajevese, è stato ambasciatore della Bosnia Erzegovina in Croazia e Medio Oriente
FONTE: OBC Rovereto
testo inglese integrale: http://www.balcanicaucaso.org/eng/Regions-and-countries/Bosnia-Herzegovina/Sarajevo-One-Hundred-Years-151730