Il 25 agosto compariva sul web l’immagine di un uomo che vendeva penne a Beirut come tanti che anche da noi cercano di procurarsi qualche soldo per sopravvivere. Però quell’immagine aveva un elemento inusuale. Sulla spalla dell’uomo era appollaiata una bambina che dormiva profondamente. Con un braccio il papà la sosteneva, con l’altro porgeva ai passanti la sua povera mercanzia. Un attivista svedese, trovata la foto in rete, l’ha diffusa. In pochi giorni l’immagine ha fatto il giro del mondo. E’ scattata una raccolta spontanea (la campagna #BuyPens), l’uomo è stato identificato come Abdul, un siriano fuggito dl campo profughi di Yarmuk e in poche ore si sono raccolti 80 mila dollari. La maggior parte delle donazioni è arrivata dagli Stati Uniti, poi Gran Bretagna e a seguire Emirati Arabi, Arabia Saudita, Svezia e Canada.
In Italia invece …
Io posso solo augurarmi che nessuno abbia ricamato su questa storia e che Abdul possa trovare una sicurezza che gli consenta di mandare a scuola i suoi figli secondo il desiderio che ha espresso.
Comunque sia mi pongo una domanda. Quando sei anni fa ho cominciato a chiedermi e a chiedere cosa si potesse fare per cancellare l’infamia di una legge che nega il certificato di nascita ai figli dei migranti senza permesso di soggiorno (e non ho mai promosso raccolte di denaro ma soltanto chiesto di sostenere una semplice modifica di legge) mi sono scontrata con l’indifferenza. Certamente un padre che non può registrare la nascita del proprio figlio non può metterselo in spalla. Deve nasconderlo perché quel bambino senza nome non ha neppure una famiglia che come tale sia riconosciuta. Va bene così? Senza immagine si possono assicurare l’indifferenza e la complicità?