21 ottobre 2011 – Rileggendo diariealtro

La morte di Gheddafi
Le immagini atroci dell’uomo rifugiato in un scarico fognario, preso e, vivo o morto che fosse, calpestato e trascinato a terra assumono, per me, un forte valore simbolico.
Per quanti amici di Gheddafi, che ora probabilmente si sentiranno rassicurati dalla scomparsa del colonello che forse conosceva anche loro non confessabili segreti, quel buco fetido sarebbe, almeno simbolicamente, un adatto rifugio?
Un ex ambasciatore – ora rispettato editorialista- oggi ha scritto su Il Corriere della sera un articolo con un passaggio molto interessante. Quando il colonnello prese il potere: l’identità nazionale libica era molto più labile delle identità nazionali dell’Egitto, del Marocco, dell’Algeria e della Tunisia. <…>La Libia era una creazione artificiale del colonialismo italiano, uno Stato composto da due territori (la Tripolitania e la Cirenaica) che avevano avuto storie diverse, popolato da tribù che avevano interessi contrastanti, abitato da circa due milioni di persone (tanti erano i libici quando Gheddafi conquistò il potere), sparse su un enorme territorio prevalentemente desertico”.
Una identità artificiale, nata dalla decadenza dell’impero ottomano, costruita contro qualcuno … a me viene in mente la Padania con tutti i nefasti ‘contro’ via via esibiti: meridionali, zingari, stranieri …
Costruire contro è facile. Aiuta a non guardare se stessi, a imprecare o piatire, secondo i gusti, a non costruire nulla e, quando ciò torna utile, a distruggere.
E non si distruggono solo cose ma anche i riferimenti di civiltà faticosamente definiti.
Comunque chi volesse, al di là delle mie elucubrazioni, leggere l’intero articolo di Sergio Romano, può farlo anche da qui.

Il ritorno di Shalit
Quando ho saputo del rientro a seguito di trattativa del soldato Shalit, prigioniero da cinque anni di Hamas a Gaza, mi sono detta che – al di là della gioia per quel ragazzo e per i più di mille palestinesi che tornano a casa- Netanyahu aveva trovato il mezzo – opportunistico e cinico, al di là dell’umanitaria copertura – per umiliare al Fatah e renderlo poco credibile davanti all’occidente e agli stessi palestinesi, dopo che Abu Mazen era riuscito a portare, sia pur per ora senza successo, la questione palestinese alle Nazioni Unite.
Quando ho letto su Repubblica del 19 ottobre un articolo di Lucio Caracciolo intitolato “Lo sconfitto è Abu Mazen” mi sono sentita molto confortata nella mia opinione.
L’articolo è molto circostanziato, merita di essere letto e potete farlo anche da qui.
Però ho poi trovato su Il Manifesto del 20 0ttobre, un articolo di Zwi Schuldiner, un anziano professore universitario e giornalista israeliano che stimo molto.
Scrive problematicamente Schuldiner: Netanyahu si è aggiudicato una vittoria di cui aveva un gran bisogno dentro il paese, in quanto essa farà dimenticare – almeno per un po’ – le proteste sociali e la paralisi dei negoziati con i palestinesi. I pessimisti temono che l’improvvisa popolarità del premier gli consentirà di sferrare un attacco militare all’Iran e questo – un progetto demenziale che metterebbe a rischio il futuro stesso di Israele – sarebbe possibile con il via libera Usa.
Però è possibile anche una versione più ottimista. In Israele si sta levando qualche voce a sostegno della logica dell’accordo che ha portato alla liberazione di Shalit: volente o nolente Netanyahu ha negoziato, sia pure in forma indiretta, con Hamas ed è arrivato il tempo di capire che il movimento islamico può essere un partner per negoziati più generali”.
Lascio anche il testo dell’articolo di Schuldiner alla lettura di chi fosse interessato.

21 Ottobre 2011Permalink