12 novembre 2011 – Donne sotto traccia 7

MARY SILVA: QUANDO I NOSTRI FIGLI ERANO CLANDESTINI

Da tempo ci occupiamo su Ho un Sogno della registrazione anagrafica degli atti di stato civile riguardanti gli immigrati senza permesso di soggiorno. Nel 2009 infatti una modifica alla legislazione precedente ha loro imposto di esibire il documento che non possiedono anche per registrare la nascita di un figlio e sposarsi.
Di recente una sentenza della Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità della norma in materia di matrimoni, mentre la possibilità di registrare le nascite resta affidata alla labilità di una circolare e in legge permane un divieto che disonora il nostro paese.
Molte persone, quando abbiamo cercato di passare questa informazione, ci hanno detto ‘non è possibile’.
E ciò che non è possibile non è vero.
Certo impedire a un genitore di dire ‘questo è mio figlio’ sembra una mostruosità incredibile ma la protezione del nuovo nato, su cui la vita si fonda, sarebbe un tabou inviolabile, se non fosse già stato violato. Ad esempio in Svizzera le leggi in vigore in un non troppo lontano passato impedivano ai lavoratori stagionali emigrati di tenere con sé i figli che, solo vivendo nascosti, assicuravano il lavoro dei loro genitori.
A questo punto interviene Mary Silva, una donna che in Svizzera aveva lavorato per cinque anni e ora vorrebbe servirsi della memoria come di una risorsa che consenta di leggere meglio il presente e immaginarne, se possibile, il cambiamento.
“Non solo i figli dei lavoratori stagionali ma anche quelli di chi aveva il permesso annuale –precisa – subivano la clandestinità. Infatti le mogli, se volevano vivere con  il marito, dovevano essere lavoratrici e non potevano quindi accudire a bambini tanto ‘ingombranti’. Per loro non c’era posto. Infatti la politica degli alloggi per emigranti li costringeva in spazi particolarmente ridotti”.
Gli emigrati che in patria avessero nonni disponibili avrebbero visto i figli – pur amorosamente accuditi –solo durante il periodo di ferie (“A questo proposito – ricorda Mary Silva- la distanza rendeva particolarmente pesante la condizione delle donne del sud”).
La divisione delle famiglie ne causava spesso una definitiva disgregazione o almeno situazioni di quotidiana crudeltà. ((La nostra interlocutrice ricorda la mamma che voleva regalare un vestitino al figlio ma dall’ultima visita non poteva sapere quanto era cresciuto!).
Certamente merita di essere ricordata anche la solidarietà che permetteva alla comunità italiana di nascondere i bambini e di proteggerli durante le uscite notturne dall’alloggio che per loro di giorno (quando la visibilità era più rischiosa) era prigione.
Anche la vita dei piccoli che potevano vivere alla luce del sole non era certamente felice.
Pregiudizio e difficoltà linguistiche discriminavano gli scolari italiani costringendoli nelle classi ‘speciali’.
C’era una scuola italiana, riconosciuta nell’ordinamento dello stato, ma aveva poca disponibilità di posti anche nell’era pre-Gelmini.
Mary Silva, che allora guardava questo squallore con gli occhi di una giovane cui l’esperienza non aveva ancora insegnato che i soggetti contrattualmente deboli possano essere perseguitati ovunque proprio in quanto tali, pensava “Da noi non accadrà mai. Siamo diversi dagli Svizzeri”.
Oggi sa che non è così.
La banalità del male ne consente la diffusione ovunque e una ben governata burocrazia costringe alcuni bambini a non esistere anche in Italia.

12 Novembre 2011Permalink