19 novembre 2011 – Veli e svelamenti

16.11.2011 Giudice intima all’interprete musulmana di togliersi il velo in aula

Comunicato dell’ASGI: “Una lesione del diritto costituzionale alla libertà religiosa”
 
Stando alle notizie pubblicate su diversi quotidiani (si veda ad es. l’articolo comparso sul quotidiano “La Repubblica“, edizione del 15 nov. 2011), nel corso di un’udienza dinanzi alla prima sezione penale di Torino, il 14 ottobre scorso,  un giudice avrebbe intimato all’interprete di lingua araba di togliersi il velo islamico, l’hijab, che questa portava sul capo coprendone i capelli ed il collo lasciando libero interamente il volto oppure, in caso contrario, di lasciare l’aula. Il caso sarebbe stato portato davanti al CSM dal Presidente del Tribunale di Torino, non d’accordo con la decisione del collega. Il magistrato avrebbe giustificato la sua posizione, asserendo la necessità di rispettare il dettato dell’art. 129 del codice di procedura civile che impone a chi interviene o assiste all’udienza di stare a capo scoperto per rispetto nei confronti della Corte.

Ancora dal  comunicato stampa dell’ASGI del 15 novembre

La sezione torinese dell’ASGI esprime il proprio disappunto e sconcerto per la vicenda dell’esclusione dall’aula giudiziaria dell’interprete in lingua araba decisa nel corso di un’udienza tenutasi il 14 ottobre scorso davanti alla prima sezione penale del Tribunale di Torino, in ragione del fatto che la donna indossava lo hijab, il velo tradizionale islamico che copre i capelli ed il collo, lasciando libero il volto.

Sebbene l’art. 129 del c.p.c. preveda che chi interviene o assiste in udienza debba stare a capo scoperto e prassi istituzionale vorrebbe che chi presenzia in udienza stia a capo scoperto a tutela del decoro e del rispetto dell’Autorità Giudiziaria sulla base anche dei poteri di disciplina dell’udienza attribuiti al giudice ai sensi dell’art. 470 c.p.p., l’ASGI ricorda che l’applicazione di tali norme deve trovare il limite del legittimo  rispetto del diritto fondamentale alla libertà religiosa e alla manifestazione del proprio credo religioso di cui all’art. 19 della Cost.  e all’art. 9 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Inoltre, un‘ applicazione assoluta delle norme dei codici di procedura senza le dovute eccezioni per chi ritenga di rimanere  con il capo  coperto in ossequio alla propria fede religiosa (sia essa la suora cattolica, o l’ebreo ortodosso, o il sikh o la donna musulmana) o abbia altre legittime ragioni per farlo (si pensi alla persona sottoposta a chemioterapia) finirebbe per snaturare la stessa ratio della norma, esorbitando dalla sua funzione di assicurare il dovuto rispetto nei confronti della Corte per invece arrecare una lesione alla dignità della persona coinvolta. Inoltre,  l’applicazione generalizzata della norma,  senza possibilità di giustificate esenzioni,  nei confronti di  persone che svolgano  in udienza incarichi professionali tecnici quali quelli di interprete o verbalizzante, costituirebbe anche una forma di  “discriminazione indiretta” nell’esercizio dell’attività lavorativa, vietata dal d.lgs. n. 216/2003 di recepimento della direttiva europea n. 2000/78. Questo in quanto l’applicazione di un criterio apparentemente neutro (il capo scoperto) finirebbe per escludere dall’attività professionale persone appartenenti a minoranze religiose senza che ciò corrisponda ai requisiti di necessità e proporzionalità.

Ho ricopiato la notizia mettendo in chiaro anche una parte che nell’originale è accessibile attraverso link e questo mi ha suscitato altre considerazioni su cui mi propongo di tornare presto.

Non chiamatelo sempre burqa

Per ora torno alle mie storie pubblicate su Ho un sogno e riprese in questo blog sotto il titolo  di ‘donne sotto traccia’ dove anche di velo si parla.
Chi volesse leggere il testo integrale delle tre storie troverà il link agendo sul nome delle tre donne
Faten  “La donna che ho davanti veste come me, non l’ho mai vista velata né con la testa coperta oltre la necessità di difendersi dal freddo. Eppure so che è mussulmana praticante, che ha fatto il pellegrinaggio a La Mecca (uno dei pilastri dell’Islam, cui si è accompagnata al marito) ed è tornata – secondo il titolo che spetta ai pellegrini- ‘agia’”
Nabila “ indossa il velo come la sua mamma e ne parliamo. Chiarisce subito che si tratta di una sua scelta personale, come personale è quella delle due sorelle che non lo indossano. In famiglia questo significativo pluralismo di atteggiamenti è accettato con tranquillità. A nessuna di loro è stato richiesto di giustificare le ragioni della scelta compiuta. Nabila mi spiega che il velo (le copre i capelli e il collo, nulla nasconde del volto) è una protezione della ‘modestia’ suggerita dalla tradizione religiosa islamica.
Vissuta in Marocco –paese islamico quasi al cento per cento- l’identità in cui si riconosce appartiene a quella realtà, senza che ciò la faccia sentire a disagio nell’occidente in cui è immersa”.
Majda  “Porta il velo che non copre il volto, che lei chiama khemar  e che a me ricorda l’hijab. Mi piacerebbe in ogni caso che si smettesse di usare sempre – e per lo più a sproposito – il termine afgano di burqa”.

Forse se provassimo ad ascoltare in libertà (soprattutto dal pregiudizio) arriveremmo da noi alle conclusioni che l’Asgi ci propone ma sostenere in Italia (o almeno in Friuli dove vivo) che l’uso del velo è compatibile con una scelta libera e che non portarlo non è offesa al Corano suscita derisione e ostilità.
Eppure gli  anziani (e soprattutto le anziane) se non usassero la memoria come un’arma per celebrare le proprie virtù e rovesciarle sugli altri come un liquame invasivo dovrebbero ricordare che la connessione fra veli, abiti e religione maggioritaria appartiene anche alla nostra storia.
Ne riparlerò perché voglio testimoniarmi che non omologo la mia memoria al comune cattivo buon senso.

19 Novembre 2011Permalink