24 aprile 2009 – Da re Erode al Parlamento italiano.

La strage continua…e c’é sempre chi sta a guardare.

Nel mio blog e in questo sito ho dato molte informazioni su due aspetti di quel coacervo di proposte confuse e spesso illeggibili, che va sotto il nome di decreto sicurezza, approvato dal Senato e ora in dibattito alla Camera.
A quanto ho capito consultando gli atti parlamentari fino alla seduta di commissione di ieri pomeriggio, il provvedimento riprenderà il suo iter in aula il 29 aprile.
E’ possibile quindi che la prossima settimana lo scempio si compia.
Forse c’é qualche speranza per ciò che riguarda l’abolizione della norma che vuole trasformare i medici in spioni –abolendo il vincolo del segreto professionale: A questo si sono opposti medici e personale sanitario in genere.
Lo hanno fatto in forma trasparente e determinata, tanto da ottenere un’audizione in parlamento

Riporto per esteso la relazione che ne hanno dato perché offre informazioni attendibili.

  22 aprile 2009. Audizione alle Commissioni congiunte Affari Costituzionali e Giustizia della Camera. Questo pomeriggio in Commissione congiunta Affari Costituzionali e Giustizia della Camera, sono stati auditi il dr. Bianco della FNOMCeO, la dr.ssa Di Tullio a nome dell’Intersindacale medica, il dr. Magnano di MSF ed il dr. Geraci della SIMM (che ha rappresentato anche l’OISG). Questa audizione fa parte di una serie di audizioni sul c.d. “pacchetto sicurezza”. In modo unanime è stata espressa, con varie argomentazioni, la contrarietà alla cancellazione del “divieto di segnalazione” con l’invito pressante a ristabilire la “ratio” della norma originaria e cioè rimuovere tutti gli aspetti ostativi (quindi anche eventuali timori di denuncia) nell’accesso alla tutela sanitaria degli immigrati. In base a specifiche domande sono stati forniti dati e considerazioni sulla salute degli immigrati e sui possibili scenari. La SIMM ha espresso una esplicita critica anche all’introduzione del “reato di clandestinità”, condizione patogena di per sé!Si è cercato di avere conferme sulla notizia circa lo stralcio dal ddl della norma in questione (abrogazione del comma 5 dell’articolo 35 del D.Livo 286 del 98) pubblicata su La Repubblica (22 aprile pg. 11). Nessuno dei parlamentari presenti (circa 15) ha confermato la notizia.
Prima dell’audizione, su sollecitazione dell’on. Mussolini, e successivamente all’incontro in una discussione con un esponente della Lega, ci è stato fatto notare come l’eventuale stralcio della norma non cambi nella sostanza il dovere dei sanitari di denunciare l’immigrato senza permesso di soggiorno, in quanto sussiste un reato perseguibile d’ufficio come quello di presenza irregolare. Ci riserviamo di approfondire tale scenario anche se riteniamo che qualora auspicabilmente persistesse il divieto di “alcuna segnalazione”, ciò possa essere di per se esaustivo.

Per ciò che riguarda invece l’impossibilità per chi sia privo di permesso di soggiorno di registrare atti di stato civile il silenzio é plumbeo da tutte le parti o quasi.
Eppure, sia pur tardivamente, alcuni siti specializzati ne hanno dato notizia e proposto commenti.
Cito per tutti l’Associazione Studi Giuridici Immigrazione cui rinvio per un esame più accurato della questione.
Da parte mia mi limito a segnalare una novità storica di significativa portata: le leggi razziali del 1938 impedivano la registrazione del matrimonio dei non ariani (presto sarà impedito il matrimonio dei sans papier), ma non ponevano ostacoli alla registrazione della nascita.
Presto probabilmente la possibilità di tale registrazione sarà negata agli stessi sans papier per ragioni etno-burocratiche.
L’unico precedente storico a me noto é l’appropriazione di neonati da parte dei colonnelli argentini, che poi provvedevano ad ucciderne le madri per farli ‘adottare’ da loro complici.
Ce ne hanno parlato le nonne di piazza di maggio, evidentemente inascoltate.
Io mi aspettavo una reazione da parte dei sindaci: come possono accettare di non avere l’evidenza della popolazione del territorio che dicono di governare?
Ho guardato i comunicati dell’ANCI. Nulla.
Nemmeno uno squittio, almeno nella regione dove mi é capitato di vivere.
Probabilmente se fossero minacciati da una proposta di legge intesa a decurtare la loro retribuzione si recherebbero tempestivamente a Roma, coperti da fascia tricolore.
Ma i bambini, cui sarà impedita la vita in famiglia, non meritano tanto sforzo.
Io dispero e mi chiedo: dopo il parto chi avrà il compito di strapparli alle madri?

24 Aprile 2009Permalink

28 marzo 2009 – Angoscia e vergogna

Comincio dall’angoscia o dalla vergogna?

Inizialmente ci stanno tutte due. Ho scritto molto nel mio blog ‘diariealtro’ (che potete raggiungere anche da qui, per esempio il 15 marzo) sul problema di cui tratterò ancora e, ne sono certa, ancora … Sono noiosa?
Forse, ma non squallida come molti responsabili della realtà che ci disonora tutti.
Chi andrà a leggere il mio articolo del 10 marzo 2009 (Siamo tutti mostri?) potrà avere una adeguata descrizione di un fenomen0 che non avrei saputo immaginare da me: l’impossibilità per gli stranieri privi di permesso di soggiorno di riconoscere i propri figli.
Questo fenomeno é stato soffocato dentro uno più noto: l’offerta ai medici di farsi delatori dei propri pazienti per identificare i sans papier al momento della necessità delle cure (ivi comprese quelle relative alla maternità e quelle dovute ai bambini).
I medici hanno dignitosamente e apertamente protestato (guardate qui) e in molti hanno creduto (o finto di credere?) che il silenzio dei medici avrebbe risolto tutto.
Certamente non é vero e non potrà risolvere per nulla lo scippo dall’anagrafe dei bambini che si vuole vengano al mondo in veste di fantasmi.
Io pensavo a una rivolta dell’opinione pubblica o, almeno, dei sindaci e invece niente o quasi, almeno a Udine dove vivo.
Attendono che il parlamento si pronunci e poi eseguiranno.
Così ho scritto al sindaco e qualche assessore … signori votati al silenzio.
(Si veda: 15 marzo 2009 – Ci stiamo organizzando per creare i bambini fantasma).
E così la vergogna per avere amministratori irresponsabili (non si permettano di venirmi a chiedere un voto alle prossime elezioni, se mai il regime venturo e molto prossimo ci lascerà ancora il diritto di voto) diventa l’angoscia del non poter far nulla.

Altrove invece…
La determinazione distruggere i bambini non trova spazio solo in Italia.
Quando nel 2003 arrivai a Betlemme, per un soggiorno che sarebbe durato qualche mese, i muri della cittadina erano coperti da manifesti con le fotografie di una bambina che era stata assassinata qualche mese prima,
Sei anni fa, in marzo, si trovava “nell’auto dei genitori, di ritorno a casa dopo una visita di famiglia, quando i soldati colpirono la macchina con una raffica di proiettili. Aveva 12 anni al tempo della sua morte”. Così ne scrisse il 20 ottobre 2004 un bravo giornalista israeliano, Gideon Levy (Uccidere i bambini non è più una faccenda tanto importante. Haaretz Domenica 17 ottobre 2004 Cheshvan 2, 5765).

La chiamò Kristen Saada, io la conoscevo come Christine e per me resta l’icona di tutti i bambini eliminati, di qua o di là, dentro quello e ogni altro confine.
Due anni dopo tornai e cercai la “mia” Christine ma di quei manifesti restava qualche residuo brandello e mi chiedevo se fossero tutto quello che rimaneva del ricordo di lei, piccola vittima di una delle tante morti che, ovunque avvengano, sono senza senso. Ma alzando gli occhi nella preziosa bottega del signor Jacaman (il prezioso negoziante che mi preparava il caffè macinato con la giusta dose di cardamomo) scorsi la fotografia della piccola, in alto, perché le merci che arrivavano quasi al soffitto non la nascondessero. Scoprii che il signor Jacaman le era parente e ne parlammo per un po’.
Nessuno di noi due ebbe il coraggio di dire “fino a quando?”. Per Christine e per tante bambine e bambini come lei un “quando” non era e non è più pronunciabile se non al passato.

Di nuovo Christine e non solo lei
Lucia Cuocci del mensile Confronti, con cui ho condiviso esperienze israelo palestinese, ha ristrovato la mamma di Christine e l’ha messa in virtuale colloquio con la mamma di Agai, un ragazzo israeliano ucciso da terroristi palestinesi.
Il colloquio a distanza fra le due donne ci rivela che la condivisione del dolore può farsi relazione capace di suscitare speranza.
Le due donne fanno parte dell’organizzazione Parents Circle Family Forum (che Lucia conosce bene), dove persone colpite da un lutto si incontrano con il nemico per realizzare, come e dove possono, qualche passo per costruire la pace.
In Italia, a Udine molte persone con cui ne ho parlato alzano le spalle e dicono “ma sono realtà piccole! Occorre ben altro!”.
E’ vero occorre molto di più, ma intanto ci si costruisce l’alibi che consente il lusso di burlarsi anche di chi é capace, nonostante tutto, di sperare. La prima condizione per costruire un possibile futuro.
E’ l’alibi che serve al sindaco, agli amministratori tutti della città dove mi é capitato di nascere e vivere (e non solo a loro) per affrontare con disinvoltura e senza vergogna l’ipotesi di farsi produttori di bambini fantasma, appena un parlamento senza decenza e senza pudore glielo consentirà.
Sarà il prezzo dell’affettuosa alleanza del Pdl (ivi compresa la fu An) con la Lega Nord. Ma davvero tanto legame ha bisogno anche di vittime sacrificali? Si rendono conto questi individui che non occorre abbandonare i bambini ai cani randagi (come a Scicli, Ragusa) per distruggerli? Basta distruggerne il legame con la madre, con i genitori. E’ sufficiente un pezzo di carta. Il sangue non si vede e gli italiani, come sempre brava gente, staranno buoni: parlamentari, sindaci, cittadini tutti, persino papi e vescovi – altrimenti loquaci- non troveranno nulla da dire.

28 Marzo 2009Permalink

15 marzo 2009 – Ci stiamo organizzando per creare i bambini fantasma.

All’Assessore regionale
alla salute e protezione sociale

Al Sindaco di Udine

Agli assessori comunali ai servizi sociali, demografici e di cittadinanza

LORO SEDI
Egregi signori,

Può accadere che leggi di livello nazionale investano così direttamente la nostra esistenza da esigere, ancor prima di circolari esplicative che ne chiariscano i modi dell’operatività, l’intervento dell’ente locale quale momento di diretto contatto con le persone, minacciate da rischi il cui annuncio é già per sé carico di gravi conseguenze. Le istituzioni in questi casi possono essere, come non mai, garanzie di coesione e ragionevoli certezze nell’organizzazione sociale.

E’ ormai noto, perché anche mezzi di comunicazione spesso sommari e sonnacchiosi ne hanno dato ampia informazione, che la minacciata soppressione del segreto professionale nei confronti degli immigrati irregolari ha mobilitato le coscienze di medici e operatori sanitari in genere, determinati a difendere, insieme ai diritti dei migranti sans papier, la propria etica professionale e il bene della popolazione tutta.
Il comma 5 dell’articolo 35 della Dlgs 286/1998 – di cui il senato ha previsto la soppressione -così recita: “L’accesso alle strutture sanitarie da parte dello straniero non in regola con le norme sul soggiorno non può comportare alcun tipo di segnalazione all’autorità, salvo i casi in cui sia obbligatorio il referto, a parità di condizioni con il cittadino italiano” (Ne é prevista la soppressione alla lettera t) comma 1 del ddl 733).
Perciò non dirò nulla in merito al problema appena richiamato, per soffermarmi invece su un altro aspetto meno noto della questione, anche perché espresso nel disegno di legge in un linguaggio inaccessibile al lettore, che pur avrebbe diritto ad essere informato sui contenuti dell’attività parlamentare.

Oggi le norme ancora in vigore prevedono che gli immigrati non siano tenuti ad esibire il permesso di soggiorno (o analogo documento quale, ad esempio, la carta di soggiorno, come indicato all’articolo 5, comma 8 del Dlgs 286/1998) quando chiedano documenti attinenti lo stato civile.
Così recita il comma 2 dell’art. 6 del Dlgs 286/1998 ” Fatta eccezione per i provvedimenti riguardanti attività sportive e ricreative a carattere temporaneo e per quelli inerenti agli atti di stato civile o all’accesso a pubblici servizi, i documenti inerenti al soggiorno di cui all’articolo 5, comma 8, devono essere esibiti agli uffici della pubblica amministrazione ai fini del rilascio di licenze, autorizzazioni, iscrizioni ed altri provvedimenti di interesse dello straniero comunque denominati”.
Se alla Camera dei deputati verrà confermato il testo del ‘pacchetto sicurezza’ già approvato inl Senato non sarà più così: la richiesta degli atti di stato civile comporterà l’esibizione del permesso di soggiorno, di cui –per definizione- un sans papier non dispone. Di conseguenza la nuova legge, se approvata, “introdurrebbe l’obbligo per il cittadino straniero di esibire il permesso di soggiorno in sede di richiesta di provvedimenti di stato civile, tra i quali sono inclusi anche gli atti di nascita” (Comunicato ASGI – 11 marzo 2009 che si riporta integralmente in calce).

Così recita, nel quadro delle Modifiche al testo unico del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 proposte dal ‘pacchetto sicurezza’, la lettera f) del comma 1) dell’articolo 45:
”le parole «e per quelli inerenti agli atti di stato civile o all’accesso a pubblici servizi» sono sostituite dalle seguenti: «e per quelli inerenti all’accesso alle prestazioni sanitarie di cui all’articolo 35».
Il nuovo articolo che ho cercato di ricostruire reciterebbe: ”Fatta eccezione per i provvedimenti riguardanti attività sportive e ricreative a carattere temporaneo e per quelli inerenti all’accesso alle prestazioni sanitarie di cui all’articolo 35, i documenti inerenti al soggiorno di cui all’articolo 5, comma 8, devono essere esibiti agli uffici della pubblica amministrazione ai fini del rilascio di licenze, autorizzazioni, iscrizioni ed altri provvedimenti di interesse dello straniero comunque denominati”.
Per l’aspetto che qui ci interessa così recita l’articolo 35 del Dlgs 25 luglio 1998, n. 286: “Ai cittadini stranieri presenti sul territorio nazionale, non in regola con le norme relative all’ingresso ed al soggiorno, sono assicurate, nei presidi pubblici ed accreditati, le cure ambulatoriali ed ospedaliere urgenti o comunque essenziali, ancorché continuative, per malattia ed infortunio e sono estesi i programmi di medicina preventiva a salvaguardia della salute individuale e collettiva. Sono, in particolare, garantiti:
la tutela sociale della gravidanza e della maternità, a parità di trattamento con le cittadine italiane, ai sensi delle leggi 29 luglio 1975, n. 405, e 22 maggio 1978, n. 194, e del decreto del Ministro della sanità 6 marzo 1995, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 87 del 13 aprile 1995, a parità di trattamento con i cittadini italiani”.
Nella stesura del nuovo articolo le parole ‘atti di stato civile’ scompaiono per essere sostituite dal riferimento alle prestazioni sanitarie previste dall’art. 35 (per cui non sarebbe richiesto il permesso di soggiorno, ma che sono diventate di diffuso interesse per essere soggette a possibilità di conclamata delazione).

Forse gli ‘atti di stato civile’ non sono nominati nel nuovo testo – né per venir riconosciuti, né per essere esclusi al fine dell’esibizione o meno di documenti identificativi – perché. nell’intenzione del legislatore dall’oscuro linguaggio, rientrano fra quelli relativi al “rilascio di licenze, autorizzazioni, iscrizioni ed altri provvedimenti di interesse dello straniero comunque denominati” (sempre elencati nell’ormai famosa lettera f) del comma 1 dell’art. 45) che richiedono l’esibizione previa del permesso di soggiorno o analogo documento.

Ora cerchiamo di immaginare quale circostanza crea la necessità della richiesta dell’atto di stato civile che attesta una nascita: é evidentemente quella del parto, quando una mamma riconosce formalmente che una relazione d’amore durata nove mesi approda all’autonomia di un essere umano oppure decide di non riconoscerlo o viene costretta a tanto dalle circostanze (in cui rientrerebbe a pieno titolo il pacchetto sicurezza). La sua volontà é certificata nell’apposito modulo “Certificato di assistenza al parto”, compilato dall’ostetrica o dal medico che assiste al parto, in cui sono riportate anche le generalità della madre (data di nascita, comune di residenza e cittadinanza). A questo primo atto seguirà la registrazione presso il comune di residenza.

Se ciò le viene reso impossibile dall’assenza di un pezzo di carta, il permesso di soggiorno appunto, il neonato sarà un individuo insostituibilmente presente nel divenire dell’umanità, ma inesistente all’anagrafe, impossibilitalo ad essere riconosciuto figlio dei suoi genitori che, comunque, offrirebbero allo stato italiano la possibilità di censire una fetta di stranieri irregolari.

Che accadrà di quel piccolo?

Se la mancata registrazione del bambino all’anagrafe comunale verrà incrociata con i dati del certificato di assistenza al parto, ne potrebbe conseguire l’espulsione della non-mamma (é possibile essere riconosciute madri di fantasmi?).
Le norme ancora in vigore prevedono che le puerpere non possano venir espulse, per rispettare il diritto del neonato ad essere accudito, appunto, dalla sua mamma.
A chi spetterebbe la cura di fantasmi neonati nella previsione del legislatore italiano?
Oppure quel piccolo potrebbe venir sottratto alla madre (che volesse prendersene cura pur senza poterlo riconoscere, se, per farlo, dovesse esibire il fatal pezzo di carta di cui qualsiasi irregolare non dispone) e inserito di forza in qualche rinato istituto, a beneficio dei gestori dello stesso.
In tal caso chi si occuperebbe di strapparlo dalle braccia della madre per adempiere al dettato criptato nella lettera f del comma 1 dell’art. 45?
E se la madre, indotta dalla paura della delazione sanitaria, lo partorisse occultamente (affrontando tutti i conseguenti danni per la salute sua e del piccolo) potrebbe facilmente esserle tolto da organizzazioni criminali per venir immesso in qualche canale finalizzato al ‘dono’ d’organi, allo sfruttamento sessuale, ad adozioni illegali (simili nell’origine a quelle praticate in Argentina ai tempi dei colonnelli) o ad altro obiettivo perverso.
Si permetta infine ad una singola cittadina di chiedere al Sindaco in virtù del Suo ruolo e agli Assessori nell’ambito delle rispettive competenze, se vogliano preoccuparsi della questione almeno per lo sconcio imposto ai servizi anagrafici, qualora accettino, a seguito di un’omissione che in futuro potrebbe essere imposta, che sul loro territorio si costruiscano apolidi o bimbi fantasma.
Non sembra che la gravità del problema consenta un’attesa silente e passiva della deprecata, ma possibile, approvazione del pacchetto sicurezza, un’attesa che non si assicuri la precostituzione di difese delle persone minacciate e insieme della dignità dell’ente locale.
E permetta l’assessore regionale, sempre ad una persona scollegata da qualsiasi vincolo di appartenenza politica o associativa, di chiedere che vengano allertati -nell’ambito dei poteri della regione- i comuni e i punti nascita perché ottemperino, nonostante tutto, il dettato della Legge 27 maggio 1991, n.176 Ratifica ed esecuzione della convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989 di cui si trascrivono pochi articoli (precisando che il termine fanciullo indica convenzionalmente il minore).
Articolo 2
1. Gli Stati parti si impegnano a rispettare i diritti enunciati nella presente Convenzione ed a garantirli ad ogni fanciullo che dipende dalla loro giurisdizione, senza distinzione di sorta ed a prescindere da ogni considerazione di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o altra del fanciullo o dei suoi genitori o rappresentanti legali, dalla loro origine nazionale, etnica o sociale, dalla loro situazione finanziaria, dalla loro incapacità, dalla loro nascita o da ogni altra circostanza;
2. Gli Stati parti adottano tutti i provvedimenti appropriati affinché il fanciullo sia effettivamente tutelato contro ogni forma di discriminazione o di sanzione motivate dalla condizione sociale, dalle attività, opinioni professate o convinzioni dei suoi genitori, dei suoi rappresentanti legali o dei suoi familiari.
Articolo 7
1. Il fanciullo e’ registrato immediatamente al momento della sua nascita e da allora ha diritto ad un nome, ad acquisire una cittadinanza e, nella misura del possibile, a conoscere i suoi genitori ed a essere allevato da essi.
2. Gli Stati parti vigilano affinché questi diritti siano attuati in conformità con la loro legislazione nazionale e con gli obblighi che sono imposti loro dagli strumenti internazionali applicabili in materia, in particolare nei casi in cui se cio’ non fosse fatto, il fanciullo verrebbe a trovarsi apolide.
Articolo 8
1. Gli Stati parti si impegnano a rispettare il diritto del fanciullo a perseverare la propria identità, ivi compresa la sua nazionalità, il suo nome e le sue relazioni famigliari, così come sono riconosciute dalla legge, senza ingerenze illegali.
2. Se un fanciullo e’ illegalmente privato degli elementi costitutivi della sua identità o di alcuni di essi, gli Stati parti devono concedergli adeguata assistenza e protezione affinché la sua identità sia ristabilita il più rapidamente possibile.
Distinti saluti
Augusta De Piero

15 Marzo 2009Permalink

10 marzo 2009. Siamo tutti mostri?

Alla cortese attenzione
dei membri della Commissione Affari Costituzionali della Camera dei Deputati
dei membri della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati
dei membri della Commissione parlamentare per l’Infanzia
dei Gruppi parlamentari della Camera dei Deputati

9 marzo 2009

Oggetto: Conseguenze dell’art. 45, comma 1, lett. f) del ddl C. 2180 sul diritto del minore a essere registrato alla nascita

L’art. 45, comma 1, lett. f) del disegno di legge “Disposizioni in materia di sicurezza”, approvato dal Senato e attualmente all’esame della Camera (C. 2180), introduce l’obbligo per il cittadino straniero di esibire il permesso di soggiorno in sede di richiesta di provvedimenti riguardanti gli atti di stato civile, tra i quali sono inclusi anche gli atti di nascita[1][1].
L’ufficiale dello stato civile non potrà dunque ricevere la dichiarazione di nascita né di riconoscimento del figlio naturale da parte di genitori stranieri privi di permesso di soggiorno.

La norma che impedisce la registrazione della nascita si configura come una misura che oggettivamente scoraggia una protezione del minore e della maternità. Una simile norma appare dunque incostituzionale sotto diversi profili. In primo luogo comporta una palese violazione del dovere per la Repubblica di proteggere la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo (art. 31, comma 2 Cost.) e sfavorisce il diritto-dovere costituzionale dei genitori di mantenere i figli (art. 30, comma 1 Cost.). In secondo luogo viola il divieto costituzionale di privare della capacità giuridica e del nome una persona per motivi politici (art. 22 Cost.) ed è noto che la dottrina si riferisce alle privazioni per qualsiasi motivo di interesse politico dello Stato.
La norma è altresì incostituzionale per violazione del limite previsto dall’art. 117, comma 1 Cost. che impone alla legge di rispettare gli obblighi internazionali. Essa si pone infatti in palese contrasto con la Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza del 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176 che agli articoli 7 e 8 riconosce a ogni minore, senza alcuna discriminazione (dunque indipendentemente dalla nazionalità e dalla regolarità del soggiorno del genitore), il diritto di essere “registrato immediatamente al momento della sua nascita”, il diritto “ad un nome, ad acquisire una cittadinanza e, nella misura del possibile, a conoscere i suoi genitori ed a essere allevato da essi”, nonché il diritto “a preservare la propria identità, ivi compresa la sua nazionalità, il suo nome e le sue relazioni famigliari”. La disposizione in oggetto violerebbe inoltre l’art. 24, comma 2 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, firmato a New York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881, che espressamente prevede che ogni bambino deve essere registrato immediatamente dopo la nascita ed avere un nome.

Le conseguenze di tale modifica normativa sui bambini che nascono in Italia da genitori irregolari sarebbero gravissime.
I minori che non saranno registrati alla nascita, infatti, resteranno privi di qualsiasi documento e totalmente sconosciuti alle istituzioni: bambini invisibili, senza identità, e dunque esposti a ogni violazione di quei diritti fondamentali che ai sensi della Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza devono essere riconosciuti a ogni minore. Ad esempio, in mancanza di un documento da cui risulti il rapporto di filiazione, molti di questi bambini non potranno acquisire la cittadinanza dei genitori e diventeranno dunque apolidi di fatto. Per tutta la vita incontreranno ostacoli nel rapportarsi con qualsiasi istituzione, inclusa la scuola. Proprio a causa della loro invisibilità, saranno assai più facilmente vittime di abusi, di sfruttamento e della tratta di esseri umani.

In secondo luogo, vi è il forte rischio che i bambini nati in ospedale non vengano consegnati ai genitori privi di permesso di soggiorno, essendo a quest’ultimi impedito il riconoscimento del figlio, e che in tali casi venga aperto un procedimento per la dichiarazione dello stato d’abbandono. Questi bambini, dunque, potranno essere separati dai loro genitori, in violazione del diritto fondamentale di ogni minore a crescere nella propria famiglia (ad eccezione dei casi in cui ciò sia contrario all’interesse del minore), sancito dalla Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza e dalla legislazione italiana.

E’ probabile, infine, che molte donne prive di permesso di soggiorno, temendo che il figlio venga loro tolto, decidano di non partorire in ospedale. Anche in considerazione delle condizioni estremamente precarie in cui vivono molti immigrati irregolari, sono evidenti gli elevatissimi rischi che questo comporterebbe per la salute sia del bambino che della madre, con un conseguente aumento delle morti di parto e delle morti alla nascita.

Per evitare queste gravissime violazioni dei diritti dei minori (oltre che dei loro genitori), rivolgiamo un appello ai Parlamentari affinché respingano la disposizione di cui all’art. 45, comma 1, lett. f) del disegno di legge “Disposizioni in materia di sicurezza” (C. 2180).

A.S.G.I.

Io spero che chi legge creda almeno alla firma dell’ASGI (Associazione Studi Giuridici Immigrazione), che é una delle più serie organizzazioni di settore.
Insisto nel dichiarare che dell’attacco, tipico di ogni politica violenta, contro i bambini ho scritto più di venti volte (l’ultima l’otto marzo) nel mio blog diariealtro. Forse sento il bisogno di giustificare l’inutilità di tutto questo (perché di questa inutilità mi vergogno), ma non so cos’altro avrei potuto fare, soprattutto dopo aver riscontrato tanta indifferenza e incredulità.
Mi chiedo anche perché dalle forze politiche presenti in parlamento non sia venuto un allarme tempestivo che consentisse di capire, superando l’incrocio di citazioni e controcitazioni sotto cui viene sepolta la decisione di un crimine, e almeno di dire che molti di noi non sono ancora razzisti.. Pigrizia? Incompetenza?
Come si comporteranno i sindaci cui, se il pacchetto sicurezza diventerà legge, sarà impedito di registrare bambini nati nel loro comune? Saranno soddisfatti, indifferenti, rassegnati, comunque zitti?
Il sindaco di Udine si unirà  ai suoi colleghi consenzienti (e sono certa che ne troverà), alla negazione del diritto di esistere in omaggio ai deliri razzisti di moda?
Forse le nonne di piazza di maggio potrebbero spiegargli qualche cosa.

augusta

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Testo aggiunto il giorno successivo:

ASGI – Comunicato 11 marzo 2009

DDL Sicurezza – Tutelare la registrazione della nascita del minore

Sottoscritto da più di 200 associazioni l’appello ai deputati affinchè venga bocciato l’art. 45, comma 1 lett. f) del ddl “sicurezza”, che, se approvato, introdurrebbe l’obbligo per il cittadino straniero di esibire il permesso di soggiorno in sede di richiesta di provvedimenti di stato civile, tra i quali sono inclusi anche gli atti di nascita. Nell’ appello vengono richiamati i profili di incostituzionalità di tale norma e le conseguenze gravissime che una tale normativa avrebbe sui bambini che nascono in Italia da genitori irregolari

L’ASGI rivolge un appello ai Parlamentari affinchè respingano le disposizioni di cui all’art. 45, comma 1 lett. f) del ddl “Sicurezza” (C-2180) in quanto suscettibili, se approvate, di causare gravissime violazioni dei diritti fondamentali dei minori (oltrechè dei loro genitori).
Le adesioni all’appello possono essere inviate all’indirizzo: info@asgi.it

L’ASGI inoltre sottolinea che la norma ora in discussione alla Camera impedirebbe, se approvata, l’ effettuazione delle pubblicazioni matrimoniali e la registrazione del matrimonio, combinandosi con l’altra normativa contenuta nel ddl che richiede i documenti di soggiorno ai fini delle pubblicazioni matrimoniali da parte dello straniero.
Al di là delle conseguenze di una simile norma al fine di impedire eventuali matrimoni fittizi (finalità che potrebbe eventualmente essere assicurata con altre norme), essa appare incostituzionale per violazione del limite previsto dall’art. 117, comma 1 Cost. che impone alla legge di rispettare gli obblighi internazionali, perché prevedendo un limite assoluto ed inderogabile alla celebrazione e registrazione di matrimoni nei quali anche uno solo dei nubendi sia sprovvisto di un valido titolo di soggiorno impedisce l’esercizio del diritto di sposarsi e di fondare una famiglia, diritti garantiti dall’art. 12 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848) e dall’art. 23, comma 2 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, firmato a New York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881). Tale ragionamento è stato riconosciuto anche dal Tribunale costituzionale francese con il parere dd. 26.11.2003 (paragrafi 95 – 96) emesso in relazione ad un simile disegno di legge presentato dal governo francese e poi ritirato.

10 Marzo 2009Permalink

08 marzo 2009 – Un otto marzo con dedica

Perché quando ho cominciato a scrivere qualche cosa per l’otto marzo mi si sono imposte alla mente le parole “far memoria” e perché, per un po’, non mi hanno infastidito e se ne stavano tranquille dentro di me, come ovvie? Il sussulto di consapevolezza é arrivato tardi: si fa memoria di qualche cosa che non c’é più, ma che é bene non dimenticare perché, nella cura del ricordo, si colora di una lontana vitalità.
Capire che mi stavo chiedendo cosa ha da dire a me la memoria dell’otto marzo é stata una presa di coscienza triste.
Ricordo anni in cui significava, nel fare il punto di esperienze vissute – quando non di raccontarci nuovi percorsi in spazi finalmente aperti – condividere la gioia di aver trovato parola, per dire –per dirsi- le dimensioni di un’esperienza che usciva da prigioni che il trascorrere di un lungo tempo muto aveva consolidato. E la consapevolezza finalmente collettiva (o ci illudevamo che lo fosse?), si rovesciava nella politica rinnovandola in nome di diritti che non dovevano essere più negati, di dimensioni di vita e dolore che emergevano dalla storia di genere, dall’oscurità imposta che si faceva parola condivisa, strumento di nuove modalità di relazione.
Penso alla liberazione che seguì il rovesciamento dell’immagine della violenza sessuale, finalmente vergogna dei violentatori e non delle violentate. Si ribaltava un modo di vivere, di pensare, di pensarsi, che ci aveva volute custodi delle porte di quella prigione che si chiamava condizione delle donne.
E la solidarietà finalmente passava dalle consolazioni della dimensione privata alla chiarezza di un grande processo di rinnovamento della politica.
Forse il punto più alto di quella solidarietà fu l’elaborazione delle modalità che identificammo per declinare la tutela sociale della maternità. Spostare la maternità dal destino alla libera scelta significò scrollarsi di dosso il peso terribile e soporifero di chi di quel destino ci voleva suddite incoscienti, mettere in discussione il mondo del lavoro e il sistema sanitario, renderli disponibili a confrontarsi anche con altre esigenze, sempre sottaciute e chiuse nella dimensione del privato.
Oggi – nel gelo di una crisi distruttrice di ogni sicurezza- la tutela sociale della maternità, che volevamo uguale offerta a una condizione di genere, si colora di discriminanti etniche, che una mancata presa di coscienza non vuole chiamare apertamente razziste.
Il pacchetto sicurezza, come uscito dal dibattito in senato, offre ai medici (e nel sistema sanitario non ci sono solo medici) l’opportunità di segnalare agli organi di polizia le immigrate (e ovviamente gli immigrati) prive di permesso di soggiorno.
Sono prive perché entrate senza seguire le norme previste per i processi migratori? prive perché richiedenti asilo? prive perché rimaste senza lavoro? Non c’é distinzione: l’offerta delatoria é onnicomprensiva.
E poiché la vita continua, oltre i timbri su un qualsivoglia modulo, le donne, anche le donne migranti, continueranno a voler decidere della propria maternità, a lavorare per vivere e a dover rendere compatibili maternità e lavoro, a trovarsi di fronte al problema dell’interruzione di gravidanza, a voler curare e prevenire malattie devastanti. La paura della delazione toglierà loro la speranza del futuro, si negheranno a quei servizi che pure erano stati aperti anche a chi tessera sanitaria non ha e la necessità di nascondersi si farà più forte di ogni altra ricerca di sicurezza.
In questo otto marzo dovremo dirci che tutto ciò che abbiamo chiamato ‘tutela sociale della maternità ci appartiene per privilegio di razza. Lo faremo senza vergognarcene?
Mi resta ancora la libertà di dare un nome alla cosa, ma non mi basta.
Però, nella pesante constatazione della mia memoria offesa, una giovane donna ha aperto uno spiraglio di speranza. L’ho conosciuta durante un esame sanitario e si é dimostrata piacevolmente professionale anche nella capacità di attuare una relazione fatta di attenzione e comunicazione attenta e paziente. Gliel’ho detto e le ho lasciato il mio indirizzo.
Mi ha scritto che la vicenda Englaro “ha toccato tutti profondamente. Non ho mai manifestato in vita mia ma sono rimasta dispiaciuta per tutti gli attacchi che ha subito il padre di Eluana e per questo dopo il lavoro sono andata davanti alla Quiete a tenere lo striscione ‘Udine vicina a papà Beppino’ insieme ad altre persone, in silenzio”.
Un indizio di solidarietà riscoperta che mi piacerebbe si facesse condivisa oltre l’emergenza di un caso.
E a quella giovane donna dedico questo mio otto marzo che non vuole essere solo memoria.

8 Marzo 2009Permalink

03 marzo 2009 – Moni Ovadia. Deriva razzista e alibi della sicurezza.

Deriva razzista e alibi della sicurezza

Alimentare la paura dello straniero – come spiega a Confronti Moni Ovadia, attore, musicista, scrittore e protagonista di battaglie culturali e civili – serve soprattutto a stornare l’attenzione dai veri problemi: si strumentalizza così la paura in chiave securitaria e la si cavalca per guadagnare consenso e potere.
Da tempo assistiamo nel nostro paese ad una vera e propria deriva razzista. Un fenomeno ormai evidente, che nasce dall’uso strumentale e cinico della paura e della tipica, vecchia e putrefatta logica che da sempre guida tutte le mentalità reazionarie e conservatrici: seminare la paura e dividere la popolazione per guadagnare consenso. Naturalmente la sicurezza è un legittimo diritto di ogni cittadino, ma la propaganda securitaria non ha niente a che vedere con la sicurezza e consiste nel creare il panico per potersi poi presentare come i difensori dell’ordine.
Come notava il sociologo Ilvo Diamanti, hanno più paura coloro che guardano molto la televisione. Proprio perché la paura è uno dei sentimenti più forti che dominano gli esseri umani, i politici dovrebbero essere responsabili e cercare di contrastarla, invece la cavalcano. Purtroppo questo accade spesso anche ai politici di centro-sinistra, che hanno perso di vista il principio secondo cui la sicurezza si ottiene soprattutto creando una società aperta, dinamica, civile, che accoglie (lo ha detto persino il presidente della Camera Fini). Certo, alimentare la paura dello straniero serve anche a stornare l’attenzione dai veri problemi e dai veri responsabili. Si agita la questione della sicurezza, ma si parla poco della sicurezza economica o – per esempio – della sicurezza sul lavoro: se un uomo viene investito da un extracomunitario ubriaco diventa improvvisamente un’emergenza nazionale, ma se poi 1.100 lavoratori precipitano dalle impalcature nessuno se ne interessa.
Una delle cause di questa deriva razzista la si può ritrovare nell’abbandono del grande argine che il fondamento dell’antifascismo e della Resistenza sono stati per la nostra democrazia. La riabilitazione revisionistica e strumentale – soprattutto quella televisiva becera – del fascismo permette anche una sorta di condimento sottoculturale che finisce per legittimare l’idea che ci sia stato un tempo in cui c’era ordine, disciplina e tutto sommato le cose andavano bene… che insomma il fascismo non fosse poi così male.
Questa destra al governo ha una grande responsabilità, anche se questo non assolve l’opposizione. Si vede chiaramente che Berlusconi vuole demolire la Costituzione repubblicana, ma in fondo perché non dovrebbe farlo, visto che gli si permette di fare quello che vuole? È inutile scandalizzarsi dopo, quando i buoi sono già fuggiti dalla stalla: occorre una mobilitazione permanente. Del resto, questa destra non ha niente a che vedere con i centro-destra europei civili, democratici, attaccati ai valori dell’antifascismo. Un tempo dicevamo di non voler «morire democristiani», ma oggi se c’è da firmare per morire democristiani lo faccio immediatamente. La Dc era fatta anche di persone di grande valore, con una storia antifascista alle spalle. C’erano persone della statura di De Gasperi, ad esempio; mentre questi di oggi sono omuncoli.
Il 10 febbraio abbiamo celebrato il Giorno del ricordo delle vittime delle foibe, dicendo in sostanza che gli slavi sono cattivi e malvagi e hanno fatto la pulizia etnica, ma i crimini del fascismo – volutamente – ormai non vengono più ricordati. A Trieste le bandiere erano abbrunate, cosa che però non era accaduta il 27 gennaio per il Giorno della Memoria della Shoah. Lo slavo, quindi, a causa delle foibe è un criminale, ma i fascisti italiani no, anche se hanno fatto pulizia etnica, hanno assassinato, hanno fatto i campi di sterminio… è chiaro che le foibe sono state un orrore che non va assolutamente sottovalutato. Come è chiaro che le vittime innocenti sono tutte uguali. Io ho profondo rispetto per il dramma di chi ha avuto parenti che hanno subito l’infoibamento in Italia ad opera delle truppe di Tito, però bisognerebbe capire anche perché tutto questo è successo, stabilire l’ordine delle cose, considerare le devastazioni che in Europa ha fatto il nazifascismo. Come dice il vecchio detto, «chi semina vento raccoglie tempesta». Questo non giustifica i crimini o l’espulsione degli istriani, però la storia va raccontata in modo completo. La destra invece manipola la storia e la realtà, si regge sulla ricchezza e il potere di un uomo e fingendo di essere una forza democratica.
Anche la deriva razzista e il securitarismo sono figli di questo scempio totale del senso comune della democrazia e dove l’anello più debole della catena è sempre l’extracomunitario, il rumeno. Una volta era l’ebreo, ma adesso non lo è più: ora agli ebrei si fanno le moine (e questo, da ebreo, mi ripugna ancora di più!), si va in pellegrinaggio ad Auschwitz, ci si mette la kippà d’ordinanza, si guadagna una «photo opportunity» e si crede così di essersi lavati la coscienza, ma è tutto un gioco sporco di propaganda per avere il potere. O meglio: il dominio del paese. Il presidente del Senato Schifani, quando è andato ad Auschwitz, ha detto «mi sento israeliano». Ma cosa c’entra questa affermazione? Avrebbe dovuto dire «mi sento ebreo» (oppure rom, sinti, omosessuale, testimone di Geova, antifascista…). È chiaro che è tutto finto, tutto maquillage: mentono spudoratamente, anche l’ebreo gli serve solamente per riaccreditarsi e molti ebrei delle istituzioni comunitarie ci cascano e si lasciano strumentalizzare.
Moni Ovadia

3 Marzo 2009Permalink

13 febbraio 2009 – Siamo medici e infermieri Non siamo spie – fonte: www.simmweb.it

 

7 febbraio 2009:
Preambolo del documento finale della X Consensus Conference e VIII Congresso nazionale SIMM (Trapani 5, 6 e 7 febbraio 2009). Il giorno della inaugurazione del nostro VIII Congresso nazionale è drammaticamente coinciso con l’approvazione, in Senato, di un emendamento che, incidendo sulla normativa vigente con l’abolizione del comma 5 dell’art. 35 del D. Lgs. 286/98, comporterà pesanti ricadute sulla salute di tante persone fragili, giunte in Italia in modo precario con la speranza di una vita più dignitosa, quelle stesse persone che si rivolgono ai tanti servizi in cui operiamo.

Temiamo che, ancora una volta, le istituzioni e la società civile debbano attendere situazioni estreme, come decessi, aborti evitabili, rischio di salute per bambini e adulti che hanno, come unica colpa, quello di non avere “le carte in regola”. Siamo fermamente contrari, come operatori che hanno come faro della loro azione la tutela incondizionata della salute di ogni individuo, a qualunque provvedimento la possa mettere a repentaglio. Sappiamo bene che indurre ‘clandestinità sanitaria’ non giova né ai singoli individui, né alla collettività intera. Come medici, infermieri, ostetriche, psicologi, assistenti sociali e tutte le altre professioni rappresentate nella nostra Società scientifica, rivendichiamo con orgoglio i presupposti e i principi deontologici fondativi del nostro ruolo sociale contro chiunque lo voglia snaturare. Intendiamo proclamare che mai ci presteremo a denunciare un nostro assistito solo in quanto privo di un permesso di soggiorno in corso di regolarità sapendo bene che, se lo facessimo, metteremmo in serio pericolo la sua salute.

 

“Non vogliamo, non possiamo, non dobbiamo”. 

Chi volesse saperne di più può andare al blog diarieatro.splinder.com (raggiungibile anche con il pulsante in prima pagina). Ne ho trattato lo scorso anno il 21, 26, 28, 31 ottobre, 3, 6, 11, 14, 19, 21, 24 novembre. 1, 2 e 16 dicembre e nel 2009:3, 4, 6, 15, 25, 29 gennaio e 6 febbraio

Ultimo comunicato della Società Italiana di medicina delle Migrazioni riguardante l’impegno governativo a negare le cure agli immigrati privi di permesso soggiorno

Fonte: www.simmweb.it

13 Febbraio 2009Permalink

08 febbraio 2009 – Dopo l’inferno di Gaza, quale futuro?

Il dramma di Gaza, con annessi e connessi, ha scosso e scuote le nostre coscienze, di tutte e tutti noi «occidentali». Infatti, se quegli eventi hanno ovviamente colpito il mondo intero, anche nel Sud del pianeta, essi hanno pesato, e pesano, soprattutto sul Nord del mondo – sull’Occidente, in sostanza. E questo perché la vicenda storica del popolo ebraico l’antisemitismo e l’antigiudaismo cristiano, l’illuminismo, la modernità, il colonialismo, il comunismo, il nazismo, la Shoah, il rapporto con l’islam, la necessità «nostra» del petrolio del Medio Oriente in mano a regimi a vario titolo ed intensità proclamantisi musulmani… formano un amalgama intricatissimo e incombente che penetra fino alle fibre più profonde del nostro essere, personale e collettivo, e sprigiona passioni fortissime. Di fronte alla tragedia di Gaza, in controluce – almeno a noi sembra – sta tutto questo intricato ed ineliminabile background.

Negli ultimi anni, per fermarci a questi, sono avvenute nel mondo vicende che hanno provocato infinitamente più vittime (in Conga e in Ruanda quattro milioni!), uccise in modo crudelissimo, che non quante sarebbero morte secondo fonte palestinese – tra le 1300 e le 1400 – a Gaza e ai suoi confini in Israele, dal 27 dicembre al 18 gennaio. Ci siamo commossi anche per le tragedie africane, ed altre, del pianeta; ma senza esagerare e senza inquietarci troppo. Quali masse hanno infatti percorso le strade delle nostre città per gridare contro gli eccidi nel cuore del continente nero? Invece, ora, si sono moltiplicate, qui da noi, le manifestazioni pro o contro Israele per il dramma di Gaza. Perché – questa la nostra ipotesi – in quest’ultima vicenda noi sentiamo, oscuramente forse, che siamo in gioco in prima persona, come Occidente.

Proprio perché siamo così coinvolti, inevitabile che sulla vicenda di Gaza siamo uniti da eguale passione, ma anche, spesso, divergenti sull’analisi dei fatti, nel loro contesto storico immediato o lontano, e sulle prospettive per uscire dalla crisi. Specchio di tali divergenze sono le dichiarazioni dei leader europei, o di personalità occidentali che – semplificando – hanno individuato la causa del dramma in Hamas che lancia razzi sulla popolazione civile d’Israele o in questo che bombarda indiscriminatamente la Striscia e che da oltre quarant’anni occupa i Territori.

In quanto Confronti, come rivista siamo – volenti o nolenti – inseriti in questo quadro, ed a maggior ragione perché, nel nostro piccolo (infinitamente piccolo di fronte alla vastità immensa dei problemi), cerchiamo di favorire il dialogo tra ebrei, cristiani, musulmani e «laici», e portare la nostra minuscola tessera per creare il grande mosaico della pace in Medio Oriente, che preveda la pace nella giustizia (non la pace di Brenno del «Guai ai vinti!») e, cioè, due Stati per due popoli: Israele (ma Stato per gli ebrei, o Stato per tutti i cittadini che lo abitano?), che c’è, e deve esserci, ed una Palestina che non c’è, e che va creata come realtà vivibile e non semplice fantoccio o «bantustan» – l’ipotesi poi, o il sogno, che i due Stati decidano di unirsi in confederazione sarà, forse, un tema obbligato del lontano futuro. Consapevoli dell’estrema complessità della situazione, tentiamo dunque di riflettere su tali problemi senza la pretesa di avere la verità in tasca e, anzi, desiderosi che voci variegate ci aiutino, su queste pagine, a vedere le molteplici sfaccettature della tragedia, e i numerosi fili della matassa.

Perché – proviamo ad addentrarci nella cronaca – il governo di Ehud Olmert, leader del partito Kadima, il 27 dicembre ha avviato la micidiale operazione «Piombo fuso» contro Gaza? Ci sembra che in quel momento, e in quella proporzione, il premier abbia così scelto per tre motivi. Intanto, per la consapevolezza che la popolazione israeliana era stremata, con crisi economica e città in via di sviluppo mai sviluppatesi. Poi per rafforzare le fortune del suo partito alle elezioni politiche anticipate del 10 febbraio. Va infatti ricordato che, quello in carica, è un governo degli affari correnti, perché Olmert, accusato di corruzione, è stato costretto a dimettersi in settembre. Il suo ministro degli Esteri, la signora Tzipi Livni, aveva tentato in ottobre di formare un nuovo governo ma, non essendoci riuscita, il presidente di Israele, Shimon Peres, ha indetto le elezioni anticipate per la Knesset (il parlamento). Olmert e Livni, insieme al ministro della Difesa, ed ex premier laburista, Ehud Barak, decidendo «Piombo fuso» hanno probabilmente pensato – si vedrà con quale risultato – di rovesciare i pronostici elettorali che, fino al 27 dicembre, davano per vincitore il leader del Likud, Benyamin Netanyahu, colui che da sempre propugna il pugno di ferro contro i palestinesi.

Ma il motivo forse più pressante per attuare a fine anno l’attacco contro Gaza è stato l’interregno del partner decisivo e dello sponsor fondamentale di Israele, il presidente degli Stati Uniti d’America. Barack Obama, infatti, eletto il 4 novembre ma in carica solo dal 20 gennaio, non poteva intervenire, essendo ancora al comando George W. Bush. Era scontato l’o.k. di questi alla decisione di Olmert, e il segretario di Stato Condoleezza Rice si era affrettata a dire che quella di Israele era una legittima scelta di autodifesa da un’aggressione; ma anche se, per ipotesi, la Casa Bianca fosse stata contraria, è ben possibile che Olmert avrebbe proceduto lo stesso, essendo ormai Bush un’«anatra zoppa». In ogni caso Obama non era in carica e, da presidente, adesso si ritrova con un’inattesa patata bollente in mano. Quello che egli farà concretamente, lo vedremo, e per giudicare occorre attendere.

Il governo d’Israele afferma che Hamas ha violato la tregua di sei mesi stipulata in giugno e che scadeva il 19 dicembre. Ma, appunto, la tregua era scaduta, e quindi non è stata violata. Essa poteva comunque almeno essere rinegoziata, senza ignorare i pericoli che avrebbe corso la popolazione civile di Gaza, i bambini primi fra tutti, a fronte di una reazione israeliana. Altro e differente problema è valutare la decisione di Hamas. Molti ritengono che, riprendendo in grande stile il lancio di razzi contro le città israeliane prossime alla Striscia, esso abbia offerto su di un piatto d’argento il pretesto ad Olmert per far partire «Piombo fuso» (altro problema ancora è quanto sull’operazione abbia pesato il governo e quanto, seppure non formalmente, il vertice delle Idf – Tsahal –, le forze di difesa israeliane). Hamas sottolinea che, durante la cosiddetta tregua, in realtà Israele ha continuato le esecuzioni mirate e, soprattutto, ha continuato a chiudere, a sua inappellabile discrezione, i passaggi tra Israele (o dal Mediterraneo) e Gaza. È vero infatti che nel 2005 il premier Ariel Sharon aveva costretto gli ottomila coloni ebrei ad abbandonare i 21 insediamenti della Striscia, ma aveva mantenuto le chiavi di essa, rendendola una grande prigione a cielo aperto, dove i beni essenziali, dai viveri alle medicine all’energia, entrano solo se Israele lo consente, e si arrestano quando sbarra le porte. L’obiettivo, sicuramente fallito, di tali chiusure, era bloccare l’entrata di armi nella Striscia, ma esse sono arrivate in abbondanza (soprattutto attraverso i tunnel «artigianali» scavati sotto il confine tra la Striscia e l’Egitto).

Bisogna anche ricordare che lo sgombero israeliano della Striscia era stato deciso da Sharon senza alcuna concertazione con il presidente palestinese ed esponente di al-Fatah Abu Mazen (il 9 gennaio 2005 eletto dal popolo come successore di Yasser Arafat, morto due mesi prima). Il premier sosteneva di non avere un partner con cui trattare ma, escludendolo come inesistente, ha umiliato Abu Mazen, reso ridicolo agli occhi di molti palestinesi, e favorendo così proprio Hamas. Che, infatti, alle elezioni legislative del 25 gennaio 2006 ha ottenuto la maggioranza assoluta nel parlamento. Una vittoria assicurata, naturalmente, da diversi fattori, tra i quali una diffusa corruzione nell’Autorità palestinese controllata da al-Fatah, resasi così insopportabile agli occhi della popolazione. Il tentativo, poi, di condominio tra al-Fatah ed Hamas nel governo con un premier, Ismail Haniyeh, indicato dal Movimento di resistenza islamico, è fallito. E nel giugno 2007 con un colpo di mano (compiuto, afferma, per prevenirne uno analogo di Abu Mazen per debellarlo), e lasciando per le strade morti del confronto fratricida, Hamas ha preso da sola il potere a Gaza. Per cui da allora vige un potere bicefalo intra-palestinese: Hamas a Gaza, al-Fahah in Cisgiordania.

Il mandato di Abu Mazen scadeva il 9 gennaio 2009 ma, sostenuto da al-Fatah, ha deciso di prolungarlo; decisione considerata anticostituzionale da Hamas. Così che ora sono in carica un presidente la cui legittimità è dubbia, e un premier di Hamas, rifiutato da Israele e dall’Occidente, seppur frutto di elezioni democratiche.

Perché Hamas ha deciso di provocare Israele lanciando razzi contro la popolazione civile? Che il numero di morti israeliani sia stato limitatissimo – tredici persone, in maggioranza militari caduti durante l’operazione «Piombo fuso», e alcuni di essi uccisi da «fuoco amico» – non cancella il furore che questi lanci hanno provocato nell’opinione pubblica del paese? Intanto, vanno segnalate le tensioni alla testa del Movimento, tra l’ala politica e l’ala militare e, soprattutto, tra chi opera a Gaza e chi, come il leader Khaled Meshaal, è riparato a Damasco: gli uni al fronte, gli altri al sicuro in Siria. Infine, comunque, una decisione fu presa, e forse Hamas ha agito per conto dell’Iran, ritenendo, a Gaza o a Teheran, che mille o duemila morti palestinesi, e un disastro materiale immane provocati dai prevedibili bombardamenti israeliani, servissero alla «causa». E diversi regimi arabi – dalla Giordania, all’Arabia Saudita, all’Egitto anch’esso con in mano una delle chiavi di accesso alla Striscia – pur verbalmente condannando la scelta d’Israele, hanno visto con sollievo il lavoro sporco fatto dalle Idf per decapitare Hamas, ritenuto la longa manus dell’Iran per esportare idee e scelte tali da far traballare i loro regimi. Pur essendo sciita, l’Iran aiuta strumentalmente il sunnita Hamas. Ma la vera posta in gioco è la leadership del mondo musulmano e il contrasto tra le potenze musulmane per ottenerla.

Perché Israele ha risposto ad Hamas con tale potenza di fuoco – usando, pare, anche bombe Dime e al fosforo bianco – da provocare, a quanto sappiamo il 21 gennaio, mentre scriviamo, tra i 1300 e i 1400 morti, di cui quasi un terzo bambini – e cioè più di cento palestinesi morti per ogni israeliano ucciso dai razzi o durante l’attacco a Gaza – senza contare i più di cinquemila feriti, e le tremende distruzioni di case e infrastrutture, ospedali compresi? Sembra che Olmert abbia voluto applicare a Gaza la «dottrina Dahiya» che il generale Gadi Eisenkot, comandante del Comando settentrionale di Israele, aveva così espresso in ottobre in un’intervista al quotidiano Yedioth Ahronoth: «Useremo una forza sproporzionata contro ogni villaggio da cui saranno sparati colpi contro Israele e provocheremo immensi danni e distruzioni». Il riferimento era a Dahiya, un sobborgo di Beirut raso al suolo dagli aerei israeliani durante la guerra dell’estate 2006 per stroncare i guerriglieri filo-sciiti Hezbollah. Il governo Olmert avrebbe dunque applicato all’intera Striscia controllata da Hamas la punizione inferta al villaggio libanese che ospitava i miliziani. Senza tenere in alcun conto i terribili «effetti collaterali», l’uccisione di centinaia di donne e bambini e, perfino, la distruzione di edifici dell’Unrwa (il Servizio dell’Onu per i rifugiati palestinesi), duramente criticata dal segretario dell’Onu, Ban Ki-moon.

La tragedia di Gaza ha mostrato, una volta di più, la pochezza delle Nazioni Unite e dell’Unione europea. Ma, pensando al futuro, come ipotizzare una pace, dopo tanto sangue, e partendo dalla tregua (fragilissima) proclamata unilateralmente da Israele e da Hamas il 18 gennaio? Il programma politico-ideologico del Movimento di resistenza islamico fa paura, perché in sostanza prevede uno Stato rigidamente teocratico dove viga la sharia (legge islamica interpretata nel modo più rigido), e dove la «laicità» che innervava larga parte dell’Olp viene cancellata. Esso è dunque non solo contro l’Occidente, ma anche contro quello che pensano molti palestinesi. E però è stato massicciamente da questi votato, perché delusissimi dall’appoggio acritico degli Usa e dell’Unione europea alla politica israeliana. E adesso?

Adesso Israele avrebbe tutto l’interesse a favorire al più presto, senza furbe dilazioni, la nascita di uno Stato palestinese, trattando con tutte le parti interessate – tutte, nessuna esclusa. Una giusta soluzione comporta la fine dell’occupazione militare e coloniale dei Territori che dura intollerabilmente da oltre quarant’anni, la condivisione di Gerusalemme come capitale di due Stati (la Palestina formata da Striscia e Cisgiordania non amputata), un accordo onesto su possibili scambi territoriali tenendo però come base i confini israeliani del 1967, una soluzione concordata del problema dei profughi. Ora che Hamas sembra indebolito (ma, dopo un periodo di «convalescenza», forse diventerà ancora più forte, perché bisognerà vedere come si orienteranno, crescendo, quelle migliaia e migliaia di bambini che hanno visto gli orrori di «Piombo fuso»), che farà l’attuale e il futuro governo israeliano? I palestinesi dovranno ancora mendicare giustizia? Le risoluzioni dell’Onu saranno finalmente applicate, o sempre svuotate? Obama sarà un mediatore efficace ed autorevole, o semplice portavoce del governo israeliano e di chi lo sostiene, anche negli States? Nel suo discorso del 20 gennaio, parlando del Medio Oriente il neo-presidente ha nominato esplicitamente l’Iraq («responsabilmente lasceremo il paese alla sua gente») ma non ha citato né Israele né Gaza: un silenzio singolare! Tuttavia ha precisato: «Al mondo musulmano dico che cerchiamo una nuova via di uscita basata sugli interessi reciproci e sul reciproco rispetto… A quanti [nel mondo] rimangono attaccati al potere con la corruzione, la menzogna e soffocando il dissenso, dico che stanno dalla parte sbagliata della storia, ma che tenderemo loro la mano se si dimostreranno disposti ad un segno di pace».

Lo slogan riassuntivo per sciogliere veramente ed onestamente il nodo gordiano israelo-palestinese non può essere (come abbiamo sentito in Italia): «Salviamo Israele per salvare la pace»; ma: «Salviamo Israele e Palestina per salvare la pace». Perché salvare solo uno è impossibile, se si vuole una pace degna di questo nome.

la redazione di Confronti

8 Febbraio 2009Permalink

01 febbraio 2009 – Medio Oriente. Prima, durante e dopo una tragedia annunciata – da Confronti – febbraio 2009

  

La tragedia di Gaza ha naturalmente sconvolto anche ciascuna e ciascuno di noi di Confronti, e  quante e quanti seguono il nostro lavoro, le nostre iniziative, e ci onorano della loro fiducia. Un dramma tremendo che pesa sul nostro cuore, e lacera le nostre coscienze. Mille le domande che si siamo fatti, e continuiamo a farci: che possiamo fare, che possiamo dire per dare il nostro – infinitesimale, ma sincero – contributo ad una pace giusta? In questo numero, dall’editoriale alle pagine che seguono, riportiamo voci variegate per tentare una qualche analisi, porre domande a noi stessi, arrischiare brandelli di risposte. Un «confronto» che naturalmente non può esaurirsi in questo numero, e che continuerà a lungo, arricchito, vogliamo sperare, da interventi di commento, di critica, di sostegno, di analisi da parte di chi ci legge, e che noi caldamente invitiamo ad entrare in questa arena – non per combatterci ma, nel rispetto delle diverse ed appassionate opinioni, per aiutarci tutti a capire e ad aiutare la pace. 

Ma, intanto cominciamo qui a fare la cronaca del nostro viaggio a Gerusalemme e dintorni, programmato attorno a Capodanno, perché esso si è intrecciato proprio con gli imprevisti eventi di Gaza. Partiamo lo stesso? Annulliamo? Domande angosciose, che ci siamo scambiati tra noi, e con ciascuna delle persone – provenienti da varie regioni italiane – che si erano iscritte al nostro ennesimo viaggio di studio là dove la pace è più difficile, e che dal 28 dicembre al 5 gennaio ci avrebbe portati in Israele e in Cisgiordania. L’attacco israeliano è iniziato laggiù alle 11,30 del 27 dicembre – era sabato ma, abbiamo appreso poi, il rabbinato aveva dato il suo consenso al lavoro dell’operazione «Piombo fuso» in quanto considerata una necessaria misura difensiva contro l’aggressione di Hamas. Dopo molte consultazioni e telefonate, abbiamo deciso di partire, anche perché su 31 iscritti solo una persona, già per diversi motivi, aveva dovuto disdire il viaggio. Naturalmente, il nostro itinerario – preparato accuratamente da molte settimane – avrebbe subìto variazioni, da valutarsi in rapporto alla situazione in loco e sentite anche le autorità diplomatiche italiane. Di fatto, siamo stati costretti ad annullare i previsti incontri con le autorità di Sderot, la città israeliana, quasi confinante con la Striscia, e bersaglio da mesi di razzi lanciati da Hamas; e cancellare la visita alla città di Jenin – al nord della Cisgiordania occupata – dove tra l’altro ci attendevano impazienti le ragazze e i ragazzi che nel giugno scorso erano stati da noi invitati in Italia, nell’àmbito dell’iniziativa Fiori di pace, insieme a coetanei ebrei israeliani. La cancellazione della tappa di Jenin ci ha privati di testimonianze importanti. 

Da «Parents circle» a «Breaking the silence» 

A Gerusalemme abbiamo incontrato Rami Elhanan, ebreo, uno dei leader di Parents circle in Israele; impedito dalla situazione politica e militare, all’appuntamento non è però arrivato un rappresentante palestinese dell’organizzazione bipartisan che raccoglie circa cinquecento famiglie di ebrei israeliani e di palestinesi che, gli uni a causa dei kamikaze, gli altri a causa dei bombardamenti o degli attacchi delle Idf-Tshal (Forze di difesa israeliane), hanno perso un familiare e che, da questo dramma, non vogliono trarre motivi di vendetta ma motivi per non spargere altro sangue e ricavare dalla rispettiva tragedia il coraggio di riconciliarsi con il nemico e lavorare insieme per una pace giusta. Il nostro amico Rami (che, con il suo «collega» palestinese, avevamo incontrato varie altre volte in precedenti viaggi), oltre a raccontare la sua vicenda – una figlia morta in un attentato kamikaze – e la scelta di Parents circle, ha anche raccontato quello che certamente avrebbe detto l’amico palestinese. 

A proposito di Gaza, Rami, giudicando una tragedia la scelta del governo d’Israele, si è chiesto che cosa sarebbe avvenuto quando tutto fosse finito, se Israele sarebbe stato più al sicuro e la pace giusta più vicina. Più o meno lo stesso interrogativo se lo è posto Mikhael Manekin, uno degli esponenti di Breaking the silence, un’organizzazione che raccoglie un piccolissimo gruppo di soldati israeliani che hanno prestato servizio nei check-point della Cisgiordania occupata e che, proprio partendo dalla loro concreta esperienza, hanno deciso appunto di «spezzare il silenzio» raccontando all’opinione pubblica israeliana le ingiustizie inevitabilmente collegate con gli stessi passaggi di controllo disseminati ovunque in Cisgiordania, che sono decine e decine. Senza voler giudicare nessuno, ma parlando di sé o di ciò che lui ha personalmente constatato, ha ricordato che moltissimi soldati vigilano ai check-point senza sapere una parola di arabo, il che comporta quasi automaticamente incomprensioni con i palestinesi che cercano di passare, e spesso innescano brutalità perché la gente, non comprendendoli, magari disobbedisce a certi ordini. «Sono un ebreo israeliano, amo Israele, soffro per Israele. Proprio perché amo il mio paese ritengo giusto parlare delle cose che non vanno, per cercare di correggerle». 

Hand in Hand. Wolfson Center. Ministero israeliano degli Affari sociali. Caritas Baby Hospital 

In Israele vi è un’organizzazione, Hand in Hand (mano nella mano) che gestisce quattro scuole – che vanno dalle elementari alla scuola media (14 anni) – nelle quali gli insegnanti parlano in ebraico o in arabo, e gli alunni imparano le due lingue. Queste scuole seguono i normali programmi del Ministero dell’Istruzione, che dunque paga i docenti. Ma il governo paga un solo docente per materia, e quindi l’altro deve essere pagato dall’organizzazione che è dunque impegnata a raccogliere fondi ad hoc sia in patria che all’estero. Anche i presidi delle scuole Hand in Hand sono due, un ebreo israeliano e un arabo israeliano: Orna Eylat e Taghreed Khatib sono le due presidi della scuola Galil da noi visitata. Anche nel nostro incontro alla scuola Galil non poteva non irrompere la tragedia di Gaza. Molto onestamente, Orna e Taghreed ci hanno detto di non aver direttamente toccato la tematica con i bambini più piccoli, ma di averla invece affrontata con i ragazzi più grandi. I quali, così, hanno potuto sentire due punti di vista: l’uno che sostanzialmente ritiene inevitabile la ferma risposta delle Idf ai lanci di razzi da parte di Hamas, l’altra che ritiene tale risposta, così come attuata, immorale e anche, politicamente parlando, in prospettiva deleteria per Israele. 

Le ripercussioni della tragedia di Gaza sulla coraggiosa iniziativa di Hand in Hand hanno toccato anche gli insegnanti e le famiglie della scuola Galil e di Jenin da dove, finora, sono venuti la maggior parte dei ragazzi israeliani e palestinesi coinvolti in Fiori di pace. Noi non sappiamo, ora, se e come potremo portare avanti la nostra iniziativa, che prevedeva una nuova puntata proprio alla metà del prossimo marzo: infatti, se alcune famiglie (di qua e di là del «fronte»), a quanto finora abbiamo potuto apprendere, sono ancor più motivate a continuare l’esperienza iniziata, altre invece pensano che, dopo il dramma di Gaza, non abbia più senso un tale dialogo. 

Ma un particolare tipo di dialogo – se possiamo denominarlo così – continua in una singolare esperienza, che per la prima volta abbiamo avvicinato nei nostri viaggi: Save a child’s heart (Sch, Salva il cuore di un bambino). Iniziata nel 1996 per opera del dottor Ami Cohen presso il Wolfson Center, un ospedale di Holon – periferia di Tel Aviv – Sch è specializzato per curare bambini con malattie cardiache. Il che non è nulla di speciale, naturalmente: la particolarità è che tali bambini provengono da paesi «in via di sviluppo» e, in particolare – un terzo – dai Territori palestinesi occupati e dall’Iraq. I piccoli degenti sono ospitati gratuitamente, insieme ai genitori che li accompagnano, e tutte le spese sono coperte da Sch, che si finanzia con donazioni di privati in Israele e nel mondo (per informazioni: www.saveachildshearth.org). In tredici anni di lavoro Sch ha curato più di duemila bambini, provenienti da trenta paesi asiatici ed africani. Ci dice il dottor Sion Houri – ebreo di origine tunisina e tra i fondatori di Sch– che lavora al Wolfson Center: «Non guardiamo al colore della pelle, né al paese di provenienza. Curiamo tutti i bambini che, nei limiti delle nostre possibilità, riusciamo ad ospitare. Siamo tutti di una sola razza: umana». 

Ancora sul versante israeliano, al Ministero degli Affari sociali incontriamo il dottor Avraham Lavine, direttore del Dipartimento degli affari internazionali del Ministero, che ci illustra quello che il suo dicastero ha fatto per i Territori palestinesi fino a che (nel 1994, come applicazione degli accordi di Oslo) la sanità e gli affari sociali sono stati presi in mano dall’Autorità palestinese. Secondo Lavine Israele aveva messo in piedi, in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza occupate nel 1967, un’ampia e solida rete che stava dando i suoi frutti e che Israele sperava si sarebbe ulteriormente sviluppata una volta affidata totalmente ai palestinesi. Purtroppo però – questa la tesi di Lavine – così non è accaduto, e molte delle infrastrutture messe in piedi sono state smantellate o si sono esaurite. Ad esempio, precisa Lavine, quando Israele aveva il controllo dei Territori vi erano solo cinque Ong (organizzazioni non governative) che davano un contributo per il welfare; ma, poi, sotto il governo palestinese esse sono diventate un centinaio. 

Sempre nel campo dell’assistenza sanitaria, a Betlemme torniamo a salutare il Caritas Baby Hospital (Cbh), l’unica struttura pediatrica della Cisgiordania: struttura fondata nel 1952 dal sacerdote svizzero Ernst Schnydrig, e dove lavorano da anni anche alcune suore italiane (le elisabettiane di Padova) che danno un apporto preziosissimo per la formazione del personale (tutto palestinese, in maggioranza musulmano) e per la gestione complessiva dell’ospedale – che, anch’esso, vive di donazioni provenienti dall’estero (per informazioni: info@cbh.beth.org). Suor Donatella, veneta, ci descrive con passione il «suo» ospedale: ci parla delle difficoltà oggettive (molti bambini, in Cisgiordania, nascono con gravi problemi perché spesso i genitori sono tra loro cugini, il che favorisce malattie genetiche; e molte donne subiscono un maschilismo atavico). Naturalmente, le difficoltà che pesano sulla Cisgiordania occupata incombono anche sul Cbh. Il Muro – che Israele ha iniziato a costruire nel 2002 allo scopo dichiarato di impedire il passaggio di kamikaze; Muro il cui tracciato, quasi sempre in territorio palestinese, nel 2004 è stato dichiarato illegale dalla Corte internazionale dell’Aja – si erge per un tratto proprio di fronte al Cbh: «Che possiamo fare? Per dire la nostra silenziosa protesta, e la nostra solidarietà a chi soffre – ci dice suor Donatella – ogni venerdì ci raccogliamo presso il Muro a pregare. Speriamo che Dio ci doni la desiderata, e tanto necessaria, pace nella giustizia». 

Arabi israeliani/palestinesi di Israele. Il vescovo melkita Elias Chacour 

La popolazione complessiva di Israele è di oltre sette milioni di abitanti, in maggioranza ebrei; ma vi è una forte minoranza di arabi israeliani (ma essi più volentieri si chiamano palestinesi di Israele) di 1,2 milioni di persone circa; vi sono poi centomila drusi e altre piccole comunità. Gli arabi israeliani/palestinesi di Israele sono in gran parte musulmani (il 16% sul totale della popolazione israeliana), ma (e lo stesso accade nei Territori) vi è tra loro un 2% di cristiani, di varie Chiese. 

«Dove vuole arrivare, il governo d’Israele, con «Piombo fuso», un’operazione che inevitabilmente comporta e comporterà un altissimo numero di vittime civili, soprattutto di bambini? Nella Striscia, una delle zone del mondo a più alta densità di popolazione, è impossibile distinguere bersagli militari da bersagli civili. Inoltre, tutte queste vittime indeboliranno Hamas – movimento, preciso, con la cui visione politica io sono in disaccordo – o non finiranno piuttosto per rafforzarlo?». A parlarci, a Nazareth, è Mustafa Qossoqsi, arabo israeliano, psicoterapeuta che lavora anche a Jenin, e con il quale abbiamo lavorato insieme fruttuosamente nell’ambito di Semi di pace e Fiori di pace. 

Ad Haifa ci riceve monsignor Elias Chacour, da tre anni vescovo melkita (greco-cattolico) di Akko. Parlando di Gaza, egli ci invita a situare l’attuale dramma in un più ampio contesto storico. Egli sottolinea (per il testo integrale, si veda Adista 8/09) che la costituzione, nel 1948, dello Stato di Israele, in quella vicenda che gli ebrei israeliani considerano la loro vittoriosa guerra di indipendenza, e gli arabi palestinesi la naqba, la catastrofe, «la maggioranza dei palestinesi subì una pulizia etnica: sono stati deportati, cacciati da case e villaggi, 460 villaggi palestinesi sono stati completamente svuotati e distrutti, compreso il mio villaggio natale… L’inizio della tragedia palestinese è stata la miopia degli ebrei di non voler vedere che la Palestina non era vuota, ma abitata dagli arabi palestinesi». 

Monsignor Chacour ribadisce: «Dio dice chiaramente: Non uccidere! Non dice: non uccidere l’ebreo o il palestinese; dice solo: Non uccidere. Ebrei e palestinesi gridano: “La terra è nostra, la terra ci appartiene”. Hanno dimenticato che la terra non può appartenere né agli ebrei né ai palestinesi, la terra appartiene a Dio, e palestinesi ed ebrei devono imparare che essi appartengono a questa terra e finché non si accetta di appartenere alla terra, finché si vuole controllare la terra esclusivamente, non ci sarà né pace né giustizia». Infine: «Noi palestinesi abbiamo bisogno della vostra solidarietà; ma chi vi dice che l’amicizia verso di noi debba diventare automaticamente inimicizia verso gli ebrei? Se prendete parte per l’uno contro l’altro, vi riducete ad essere un nemico in più, e oggi non abbiamo bisogno di un nemico in più. Abbiamo bisogno, invece, di un amico comune e perciò io mendico in tutto il mondo per trovare un amico comune. Solo nell’amicizia potremo risolvere i problemi, ma non sarà facile. Del resto non c’è niente di prezioso che può essere raggiunto facilmente. E che c’è di più prezioso della riconciliazione fra ebrei e palestinesi?». 

Lucia Cuocci e David Gabrielli 

1 Febbraio 2009Permalink

16 gennaio 2009 – Primo articolo

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16 Gennaio 2009Permalink