11 ottobre 2023. Due articoli che non diffonderò. Il pregiudizio si trova ovunque
9 Ottobre 2023 Sulle “colpe” di Israele
Perché tra l’editoriale di Haaretz, che attribuisce a Netanyahu una grande responsabilità, e la dichiarazione degli studenti di Harvard, che accusano il regime israeliano, c’è un’enorme differenza.
di Anna Momigliano
Ci sono i fatti, in questo caso fatti atroci, che cambieranno la storia, in peggio, nei decenni a venire, e poi ci sono le reazioni ai fatti, che a volte fanno schifo pure quelle ma di cui ci dimenticheremo nel giro di una settimana. Proprio perché delle seconde presto non ci ricorderemo più, vale la pena di cristallizzarle per un secondo. Mentre dei terroristi attaccavano cittadine, kibbutz, persino un festival, nel Sud di Israele, ammazzando civili, uomini, donne e bambini, stanandoli casa per casa, mentre i terroristi – chiamateli anche “gruppo radicale” come ha fatto il Post, non sono quelle due parole che fanno la differenza – postavano festanti immagini di cadaveri dissacrati, in un raccapricciante cross-over tra Bucha e il Bataclan, capitava che un giornale israeliano pubblicasse un editoriale che accusava il primo ministro: «Il disastro che si è abbattuto su Israele porta la responsabilità chiara di una persona: Benjamin Netanyahu». Quell’editoriale, nella sua versione in inglese, è girato moltissimo sui social occidentali.
Sui social occidentali però è girata moltissimo anche un’altra accusa, lo screenshot di una dichiarazione, firmata da svariate dozzine di associazioni studentesche di Harvard, che decretavano: «Riteniamo il regime israeliano interamente responsabile dei fatti violenti». Il ragionamento era questo: l’attacco terroristico non si è svolto in un vuoto storico, sono decenni che gli israeliani hanno fatto di Gaza una prigione a cielo aperto, sono 75 anni che gli israeliani ammazzano i palestinesi, la priorità adesso è evitare la “rappresaglia coloniale”. Il fatto che le due accuse, quella di Haaretz e quella degli studenti di Harvard, girassero nella stessa bolla, mi spinge a pensare che la gente non ha capito un cazzo.
A questo punto si potrebbe fare un bel discorsetto sul moral high ground, sul fatto che i giornalisti di Haaretz (glasnost: persone che conosco, giornale con cui collaboro) scrivevano sotto i razzi, mentre perdevano amici e parenti, mentre aspettavano notizie di un redattore asserragliato coi figli piccoli in un kibbutz, e invece le Karen di Harvard sputavano sentenze dal New England. Si potrebbe buttarla sul moral high ground, che su internet tira parecchio, ma la verità è che sono due accuse completamente diverse, perché dicono cose completamente diverse.
Cosa intende Haaretz quando dà la colpa a Netanyahu?
Che è un incompetente e un pazzoide nazionalista, dove le due cose vanno a braccetto. Da quando è al potere, Netanyahu ha concentrato tutti gli sforzi a consolidare la presenza dei coloni e dell’esercito in Cisgiordania, ma ha di fatto indebolito l’apparato securitario in tutto il resto del Paese. Quando i terroristi sono entrati nei kibbutz e nelle cittadine vicine a Gaza non c’era neanche mezzo soldato, e sì che quelle parti un tempo erano considerate pericolose. Accecato dalla sete espansionistica, ma anche dall’illusione che i terroristi palestinesi non fossero veramente pericolosi (sorpresa: lo sono), Netanyahu ha trasformato l’esercito israeliano in una forza di protezione per il coloni, e abbiamo visto i risultati, per tutti.
Le Karen di Harvard invece dicono altro. Dicono: l’occupazione è disumana, è da mo’ che i palestinesi vengono ammazzati a Gaza, che cosa vi aspettavate? Dicono: la priorità non è evitare che di ripeta il cross-over tra Bucha e il Bataclan, ma evitare che Israele si vendichi. Spero non ci sia bisogno di spiegare perché è moralmente ripugnante, ma forse si può ricordare perché è, fattualmente, suicida, che, se facciamo nostra la prospettiva del “che cosa vi aspettavate?”, si va verso una escalation senza fine. Ora, l’indignazione per la conclusione (ve la traduco: Israele se l’è andata a cercare) non deve evitare di riconoscere che alcuni dei punti da cui partono sono validi. L’occupazione è moralmente sbagliata, è una violazione dei diritti umani e civili dei Palestinesi, e deve finire. Certo, l’occupazione è una delle cause per cui il conflitto continua ad andare avanti, e non si vedono vie d’uscita senza che essa finisca. Ma pensare che sia quella l’origine di tutto, e che basti eliminare quella per porre fine alle violenze significa non avere capito nulla, foss’anche che la guerra tra arabi e israeliani è cominciata da ben prima del 1967. Alle Karen di Harvard non penserà più nessuno tra qualche giorno. Forse non penseranno più neppure loro a quella dichiarazione, visto che a ottobre ci sono gli esami di metà semestre. Per gli altri, quelli per cui la guerra è un incubo, non un’occasione di virtue signalling, il peggio deve ancora venire.
https://www.rivistastudio.com/israele- Per aprire il link aggiungere attacco-hamas
10 Ott. 2023 Moni Ovadia: “Israele ha coltivato l’odio, ora a pagare sono gli innocenti” di Lara Tomasetta
alle 13:42 – Aggiornato il 11 Ott. 2023 alle 16:48
Israele dichiara lo stato di guerra. Una colonna di tank si dirige verso Gaza. Diluvio di bombe sulla striscia. Scontri con Hamas al confine. Il nuovo bilancio dei morti israeliani e palestinesi è in continuo aumento. Moni Ovadia, intellettuale, attore, scrittore e musicista di origini ebraiche parla di “pentola a pressione che doveva esplodere”. E punta il dito anche contro la comunità internazionale, colpevole di non essere intervenuta per cercare una soluzione di pace concreta, lasciando Isreale “libera di colonizzare i territori palestinesi”.
L’ambasciatore d’Israele a Roma, Alon Bar, ha dichiarato a TPI: “noi, finora, avevamo imparato a vivere con questa costante minaccia del terrorismo palestinese, in qualche modo adeguandoci. Pensavamo potesse durare. Ma avevamo torto. Oggi abbiamo imparato che questo non è più possibile”. Come commenta questa affermazione?
«Più che convivere con la minaccia del terrorismo palestinese, gli israeliani hanno sigillato Gaza in una scatola di sardine. Cioè sottoponendo gli abitanti di Gaza a una vita infernale. L’Onu ha dichiarato Gaza territorio inabitabile 2 anni fa, mi sembra improprio il discorso. Convivere col terrorismo palestinese sì, in qualche modo l’affermazione è vera ma dimentica la cosa fondamentale, che la vita del palestinese a Gaza non è una vita da esseri umani. In quelle condizioni l’odio e l’esasperazione montano, ora dopo ora, minuto dopo minuto, e il risultato è stato questo».
Cos’è Gaza oggi? Una prigione? Un campo di concentramento?
«Peggio. È una scatola di sardine esagitata. Tutto è sotto il controllo di Israele, i confini terrestri, quelli marittimi e lo spazio aereo. Decidono loro, l’energia, l’elettricità e l’acqua. Ed è una delle zone più popolate del mondo. Poi ci sono state diverse operazioni israeliane che hanno reso la vita ancora più infernale. Gli israeliani hanno deciso: teniamoci il pericolo del terrorismo. Hanno fatto tutto fuorché cercare una soluzione. A Gaza non si può entrare, non si può uscire».
Stiamo vedendo le immagini di un film di cui ci è stato mostrato solo il finale. Ma cosa è successo prima?
«Sono 75 anni che Gaza è sigillata, prima c’erano anche i coloni israeliani ma non solo. Il popolo palestinese è diviso tra Gaza e Cisgiordania. In Cirsgiordania gli israeliani si sono appropriati di terre, hanno tenuto in prigione anche quella parte di palestinesi. La situazione è veramente spaventosa e allora questa violenza che è scoppiata doveva venir fuori prima o poi. Non è un modo di vivere quello».
Tutto questo ovviamente non giustifica l’orrore di questo giorni.
«È ovvio. Come sempre pagano gli innocenti. Anche questi israeliani che sono stati uccisi in modo atroce. Quelli che sono stati presi come ostaggi, non posso immaginare l’angoscia loro e quella dei loro parenti. Ma tutto questo perché nessuno si è curato dei palestinesi, schiavi e non padroni del loro destino».
Il ruolo di Hamas qual è?
«È la forza che governa quel territorio. Una forza che ha la parte armata. Ma le condizioni di vita a Gaza sono un inferno, è normale che la gente covi odio e disperazione, quando si viene rinchiusi e blindati. Nessuno riuscirebbe a vivere in una condizione del genere senza cercare di ribellarsi. Naturalmente ognuno si ribella con i mezzi che ha. I palestinesi in pratica hanno il terrorismo perché non hanno un esercito. Non hanno le armi, né l’esercito strutturato che ha Israele. Quindi esprimono la loro ribellione con gli strumenti che hanno. E anche se questo ha prodotto un orrore spaventoso che ci ferisce e ci lascia sgomenti, si è lasciata marcire questa situazione senza intervenire».
Lei ha parlato anche di una comunità internazionale “complice”.
«Certo, la comunità internazionale non ha fatto niente per imporre una soluzione politica basata sulla legalità nazionale. I governi israeliani hanno occupato, colonizzato e sottoposto a un regime vessatorio di prigionia 2 milioni di palestinesi a Gaza e altri 3 milioni in Cisgiordania. Forse di più. Non è un modo per evitare che poi scoppi la pentola a pressione. Si coltiva l’odio. Quattro bambini su cinque a Gaza sono depressi. Alcuni meditano il suicidio. Sono come dei topi che non posso uscire. Tutti hanno detto che Israele ha diritto di difendersi, i diritti dei palestinesi? Ci fosse stato qualcuno che avesse detto questo concetto. Ci vuole anche il rispetto dei palestinesi. Invece no. Loro devono star lì e morire in quella situazione. Adesso ci saranno migliaia di morti, però questa esplosione di ribellione selvaggia e violenza è motivata dalle condizioni di vita. Ci sono bambini che non hanno mai vissuto se non in prigionia. Ragazzini che poi hanno reazioni pensando a quando potranno farlo anche loro. Questa situazione è un disastro. E la comunità internazionale avrebbe dovuto imporre a Israele di risolvere questa situazione sulla base di negoziati veri, non di chiacchiere senza costrutto».
Amiram Levin, ex generale israeliano, a inizio 2023 ha rilasciato un’intervista alla radio Kan in Israele in cui ha fatto riferimento al “totale apartheid” nella Cisgiordania occupata: “Da 56 anni non vi è democrazia. Vige un totale apartheid. L’IDF (esercito israeliano), che è costretto a gestire il potere in quei luoghi, è in disfacimento dall’interno. Osserva dal di fuori, sta a guardare i coloni teppisti e sta iniziando a diventare complice dei crimini di guerra”.
È così?
«Prima di sentire Lei, ascoltavo l’opinione di uno studioso dell’ISPI che diceva non è una democrazia, è una democrazia etnica. Israele è una democrazia per gli ebrei, non per i palestinesi. I palestinesi non vivono in democrazia ma in apartheid. In discriminazione».
Il leader più longevo di Israele, che si vantava di non aver mai cominciato una guerra, ora deve condurre un conflitto che si annuncia lungo e difficile. Sapendo che questo sarà probabilmente il suo passo di addio. Cosa pensa di Netanyahu?
«Netanyahu è il peggio del peggio per me. È un uomo che sta cercando di sfuggire alla galera e si appoggia al peggio della società israeliana e della classe dirigente. A dei fanatici che sostengono il partito dei coloni e che sono totalmente incompetenti. E questa è anche la ragione per la quale il tanto celebrato servizio segreto israeliano non ha potuto fronteggiare i missili che arrivavano. Evidentemente si occupavano di altro. Di dare spazio ai coloni per derubare i palestinesi delle loro terre».
L’attacco contro Israele si crede fosse preparato da mesi e si nutrono sospetti sul ruolo dell’Iran. Lei come giudica?
«Ognuno fa la sua politica in quei territori. La cosiddetta realpolitik impone di cercarsi i propri amici, quelli che possono servire. L’Iran vuole avere un ruolo e questo evidentemente provoca delle politiche di potere.È possibile che l’Iran abbia fornito dei missili, non escludo che quel Paese fondato su un fondamentalismo fanatico abbia svolto una funzione, ma questo avviene in un contesto che favorisce il peggio del peggio. Che cos’hanno da perdere i palestinesi di Gaza e quelli della Cisgiordania? L’Iran si appoggia ad Hamas, ad Hezobollah. Questo le garantisce di poter giocare un ruolo».
Cosa pensa dell’atteggiamento del governo italiano?
«Non è solo il governo italiano. I governi europei si limitano a fare dichiarazioni di circostanza. “Siamo vicini a Israele”. Che razza di posizione è questa? È per dire noi siamo quelli bravi che stanno con quelli bravi. Invece di partecipare a un movimento di paesi che avrebbero dovuto sollecitare una risoluzione di pace. Quante volte si è sentito dire “due popoli, due stati”. Sono chiacchiere, vaniloqui perché la possibilità di renderlo realtà è stata compromessa dall’attività di colonizzazione israeliana. Non correre rischi. Altrimenti gli israeliani mi dicono che sono antisemita. Perché questa è la storia. Questo non è far politica, mettere la testa sotto la sabbia. In particolare gli europei che non sanno muovere un passo se non arriva la Nato a dirgli cosa fare».
7 ottobre 1943 / 7 ottobre 2023 _ Un ricordo nella pagina de l’Unione informa
Da Pagine Ebraiche 24 ‘Unione Informa e Bokertov sono pubblicazioni edite dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane.
L’Unione informa 6 ottobre 2023 – 21 Tishrì 5784
L’ANNIVERSARIO
7 ottobre 1943, la Rsi si scatena contro l’Arma
L’ordine di disarmo fu firmato dal criminale fascista Rodolfo Graziani, ministro delle Difesa e delle Forze Armate della Repubblica Sociale Italiana. Poche ore dopo, il 7 ottobre del ’43, paracadutisti tedeschi e SS entrarono in azione nelle caserme romane, cercando di arrestare il maggior numero possibile di carabinieri. Il timore dei nazisti era che, fedeli al loro codice di onore, molti di loro avrebbero costituito un inciampo rispetto ad alcuni progetti di prossima attuazione in città, tra cui il rastrellamento degli ebrei poi avviato casa per casa all’alba del 16 ottobre. Nei giorni successivi al fermo, oltre duemila carabinieri saranno deportati nei campi di concentramento e 600 di loro, entrati a far parte dei cosiddetti IMI (gli Internati Militari Italiani), perderanno la vita tra gli stenti. Ad Affile (RM), invece, nella “sua” valle dell’Aniene, un mausoleo celebra dal 2012 la figura del “maresciallo d’Italia”.
“L’arresto dei carabinieri romani fu la più grossa operazione contro una forza armata, che era anche una forza di polizia: aveva pertanto l’obbligo per legge di svolgere la propria attività anche in un regime di occupazione”, sottolinea a Pagine Ebraiche lo storico Antonio Parisella, presidente del Museo Storico della Liberazione di via Tasso e promotore della ricerca che ha portato nel 2008 alla pubblicazione del libro 7 ottobre 1943. La deportazione dei Carabinieri romani nei Lager nazisti a cura di Anna Maria Casavola. Lo studio “ha fatto sì che, almeno l’Arma dei Carabinieri, facesse sua la necessità di ricordare quel che era accaduto”.
Un approfondimento poi allargatosi alla ricostruzione degli arresti e delle deportazioni avvenute nel ’44, in particolare tra quanti scelsero di prendere parte attiva alla Resistenza. Fa notare al riguardo Parisella: “I carabinieri coinvolti nelle operazioni di Resistenza al nazifascismo furono un numero considerevole, andando a costituire forze di polizia partigiane di fondamentale importanza, anche nel proteggere i contadini da ricatti e tentativi di estorsione”. Storie che meritano di essere conosciute, ma di cui non c’è forse sufficiente consapevolezza. “Nei circuiti ‘Unione Informa e Bokertov sono pubblicazioni edite dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane.scolastici l’argomento inizia ad essere presente. Non è purtroppo così, a parte l’Arma con le sue iniziative, in quelli istituzionali. Non credo che questi fatti si sappiano, c’è una rilevante ignoranza dei dati”, il pensiero dello storico.
Il mausoleo di Affile per il carnefice Graziani, stigmatizzato più volte anche dall’Ucei, che in passato ne ha chiesto la demolizione, resta intanto in piedi. “Per noi della Valle Aniene”, disse l’assessore regionale del Lazio e oggi ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida, partecipando alla sua inaugurazione, “l’affetto per il generale Rodolfo Graziani è stato sempre un punto di riferimento”. Diverso il parere Parisella: “Oggi, per fortuna, è un rudere che nessuno si fila più”
L’ordine di disarmo fu firmato dal criminale fascista Rodolfo Graziani, ministro delle Difesa e delle Forze Armate della Repubblica Sociale Italiana. Poche ore dopo, il 7 ottobre del ’43, paracadutisti tedeschi e SS entrarono in azione nelle caserme romane, cercando di arrestare il maggior numero possibile di carabinieri. Il timore dei nazisti era che, fedeli al loro codice di onore, molti di loro avrebbero costituito un inciampo rispetto ad alcuni progetti di prossima attuazione in città, tra cui il rastrellamento degli ebrei poi avviato casa per casa all’alba del 16 ottobre. Nei giorni successivi al fermo, oltre duemila carabinieri saranno deportati nei campi di concentramento e 600 di loro, entrati a far parte dei cosiddetti IMI (gli Internati Militari Italiani), perderanno la vita tra gli stenti. Ad Affile (RM), invece, nella “sua” valle dell’Aniene, un mausoleo celebra dal 2012 la figura del “maresciallo d’Italia”.
“L’arresto dei carabinieri romani fu la più grossa operazione contro una forza armata, che era anche una forza di polizia: aveva pertanto l’obbligo per legge di svolgere la propria attività anche in un regime di occupazione”, sottolinea a Pagine Ebraiche lo storico Antonio Parisella, presidente del Museo Storico della Liberazione di via Tasso e promotore della ricerca che ha portato nel 2008 alla pubblicazione del libro 7 ottobre 1943. La deportazione dei Carabinieri romani nei Lager nazisti a cura di Anna Maria Casavola. Lo studio “ha fatto sì che, almeno l’Arma dei Carabinieri, facesse sua la necessità di ricordare quel che era accaduto”.
Un approfondimento poi allargatosi alla ricostruzione degli arresti e delle deportazioni avvenute nel ’44, in particolare tra quanti scelsero di prendere parte attiva alla Resistenza. Fa notare al riguardo Parisella: “I carabinieri coinvolti nelle operazioni di Resistenza al nazifascismo furono un numero considerevole, andando a costituire forze di polizia partigiane di fondamentale importanza, anche nel proteggere i contadini da ricatti e tentativi di estorsione”. Storie che meritano di essere conosciute, ma di cui non c’è forse sufficiente consapevolezza. “Nei circuiti scolastici l’argomento inizia ad essere presente. Non è purtroppo così, a parte l’Arma con le sue iniziative, in quelli istituzionali. Non credo che questi fatti si sappiano, c’è una rilevante ignoranza dei dati”, il pensiero dello storico.
Il mausoleo di Affile per il carnefice Graziani, stigmatizzato più volte anche dall’Ucei, che in passato ne ha chiesto la demolizione, resta intanto in piedi. “Per noi della Valle Aniene”, disse l’assessore regionale del Lazio e oggi ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida, partecipando alla sua inaugurazione, “l’affetto per il generale Rodolfo Graziani è stato sempre un punto di riferimento”. Diverso il parere Parisella: “Oggi, per fortuna, è un rudere che nessuno si fila più”
1 ottobre 2023 _ Calendario di ottobre
01 ottobre 2017 – Muore il poeta friulano Pierluigi Cappello
02 ottobre – …… Giornata internazionale della nonviolenza
02 ottobre 1868 – Nascita di Gandhi
03 ottobre 1935 – . L’Italia invade l’Etiopia…… [nota 1]
03 ottobre 1990 – .. Riunificazione della Germania
03 ottobre 2013 – . Strage di 366 migranti a Lampedusa.
……………………………….Giornata del migrante
06 ottobre 1973 – . Guerra del Kippur
06 ottobre 2023 Conclusione Sukkot anno 5784
06 ottobre 2023 – Premio Nobel per la pace a Narges Mohammadi
07 ottobre 2001 -… Inizio guerra USA contro l’Afghanistan
07 ottobre 2006 – … Assassinio della giornalista Anna Politkovskaja
07 ottobre 2023 – Attacco di Hamas a Israele. Risposta militare
08 ottobre 1963 -…. Nella notte catastrofe del Vajont
09 ottobre 1967 -…. Uccisione di Ernesto ‘Che’ Guevara in Bolivia
10 ottobre – ………… .Giornata mondiale contro la pena di morte
10 ottobre 2015 – … Strage ad Ankara. Bombe su corteo pacifista
10 ottobre 2019 -. Premio Nobel per la pace 2019: Abiy Ahmed Ali,
…………………..……….primo ministro dell’Etiopia. [nota 2]
11 ottobre 1962 – … .Apertura del Concilio Vaticano II
11 ottobre 2011 -….. Giornata internazionale delle bambine .[nota 3]
12 ottobre – ………… Columbus day – Giornata della resistenza
……………………………….indigena
13 ottobre- Apertura XIX legislatura
14 ottobre 1964 Premio Nobel per la pace a Martin Luther King,
……………………………….assassinato il 4 aprile 1968
14 ottobre 1979 – ……Prima marcia per i diritti dei gay negli USA
15 ottobre 1582 -.. ….Entra in vigore il calendario gregoriano
16 ottobre 1943 – ……Rastrellamento nazista nel ghetto di Roma
18 ottobre 1964 -…….Muore il card. Lercaro
19 ottobre 1968 – … Muore Aldo Capitini
19 ottobre 1960 -……La Mauritania ottiene l’indipendenza dalla
……………………………..Francia
20 ottobre 2011 – ……Spagna: l’ETA depone le armi… [nota 4]
20 0ttobre 2011 – …….Libia: uccisione di Ghedaffi
21 ottobre 1945 – ……..Francia: le donne votano per la prima volta
23 ottobre 1915 -…… A New York 30.000 donne chiedono il diritto
……………………………… di voto
24 ottobre 1945 -……. Nasce l’Organizzazione delle Nazioni Unite
24 0ttobre 2005 – ….. .Morte di Rosa Parks
25 ottobre 1936 – …… Hitler e Mussolini creano l’Asse Roma-Berlino
25 ottobre 1996 -……..Irlanda. Chiusura dell’ultima lavanderia
……………………………….Magdalene
26 ottobre 1954 – ….. .Ritorno di Trieste all’Italia………… [nota 5]
27 ottobre 1479 – ….. Nascita di Erasmo da Rotterdam
27 ottobre 2020 – …… Diciannovesima giornata del dialogo
………………………………cristiano-islamico
28 ottobre 1922 -…….. Marcia su Roma
29 ottobre 1923 -…….. La Turchia diventa Repubblica indipendente
30 ottobre 2016 – Nuova scossa terremoto. Norcia: crollo della
……………………………….cattedrale di san Benedetto
31 ottobre 1517 -…….. Lutero affigge le sue 95 tesi sulla porta del
………………………………duomo di Wittemberg
31 ottobre – …………… Le chiese protestanti celebrano la festa della
……………………………..Riforma
31 ottobre 1967 – …….Primo numero di Adista dal cui calendario
……………………………….nasce il primo nucleo di questo calendario.
NOTE
[nota 1] 3 ottobre 1935 L’Italia invade l’Etiopia
Un breve promemoria in Enciclopedia-Italiana
http://www.treccani.it/enciclopedia/guerra-italo-etiopica_%28Enciclopedia-Italiana%29
[nota 2] …Il premio Nobel per la Pace 2019 è stato assegnato Abiy Ahmed Ali,
primo ministro dell’Etiopia, “per i suoi sforzi nel raggiungere la pace e l
a cooperazione internazionale, e in particolare per le sue iniziative decisive
per risolvere i conflitti lungo il confine con l’Eritrea”
https://www.agi.it/video/chi_il_premio_nobel_per_la_pace_2019-6342293/video/2019-10-12/
Abiy Ahmed Ali si è incontrato con Giorgia Meloni il 6 febbraio 1923
[nota 3] …Giornata internazionale delle bambine
Istituita dalle Nazioni Unite con la Risoluzione 66/170 del 19 dicembre 2011
[nota 4]
ETA: Euskadi Ta Askatasuna (in spagnolo País Vasco y Libertad, letteralmente “paese basco e libertà”
[nota 5] Ritorno di Trieste all’Italia. La Venezia Giulia era divisa in due zone di influenza, al centro della prima fase della guerra fredda.
L’area fu divisa in due macro zone di influenza: la zona A controllata dagli anglo-americani e la zona B dagli jugoslavi. Dal 1947 Gorizia e Monfalcone tornarono all’Italia, mentre l’Istria divenne parte del territorio della Federazione Jugoslava. Anche la città di Trieste fu separata in due zone e posta sotto l’amministrazione anglo-americana (AMG-FTT) o Territorio libero di Trieste, e sotto l’amministrazione di Belgrado (zona B-TLT). In seguito al Memorandum di Londra firmato il 5 ottobre 1954 fra i Governi d’Italia, del Regno Unito, degli Stati Uniti e della Repubblica Federativa Popolare di Jugoslavia, concernente il Territorio Libero di Trieste, si stabiliva che la Zona A passava dall’amministrazione militare alleata all’amministrazione civile italiana (con alcune correzioni territoriali a favore della Jugoslavia con l’Operazione Giardinaggio) e quindi passavano all’amministrazione italiana i seguenti comuni della zona A: Duino, Aurisina, Muggia, Sgonico, Monrupino, San Dorligo
15 settembre 2023 – Imperativo quasi categorico : Difendere Dio
De La stampa 15 Settembre 2023
Lo sgradevole sentore della guerra di religione di Lucetta Scaraffia
«Dobbiamo difendere Dio e gli elementi della nostra civiltà» : sono queste le parole sfuggite alla nostra presidente del Consiglio dopo il colloquio con Orban e sono parole che a dir poco lasciano perplessi: Sappiamo bene come sia difficile rispondere all’impronta su qualunque argomento e per giunta in un momento di grande tensione interna e internazionale, ma quando si tratta di dire cosa si vuole difendere sarebbe senz’altro meglio stare un po’ più attenti e cercare di spiegarsi meglio. Difendere Dio, oltre che affermazione teologicamente dubbia – se mai è Dio che ci difende – è un obiettivo molto vago, che non corrisponde in nulla al problema che dobbiamo affrontare , cioè la crescente ondata migratoria di giovani maschi – in prevalenza provenienti da Paesi di tradizione islamica. Costoro infatti potrebbero rispondere che anche loro difendono Dio, e forse con molto maggiore entusiasmo e molta maggiore convinzione di noi europei. Il fatto che il Dio che difendono è diverso da quello della maggior parte di noi non va certo dimenticato, ma le parole di Meloni sembrano alludere a un Dio che invece è solo nostro , quasi che solo da queste parti si creda in un Dio e si lasciano dietro uno sgradevole , sgradevolissimo, sentore di guerra di religione.
Si può supporre , naturalmente , che Meloni, dicendo quello che ha detto, intendesse parlare di difesa della nostra tradizione cristiana davanti a un’ondata migratoria c he porta in Europa tanti mussulmani spesso assai rigidi nel modo di vivere la loro identità religiosa. Il che, è bene dirlo subito, rappresenta un problema reale, un problema che esiste e si fa sempre più grave. In una società secolarizzata come è la nostra, infatti, si è creato un vuoto religioso e in gran parte anche etico che è facile sia riempito da chi ha idee forti e una fede molto sentita. Sappiamo per esempio che in molti Paesi europei dove è stata forte la migrazione islamica – come l’Olanda, la Gran Bretagna, la Svezia e perfino la Germania – si sta discutendo se addirittura accettare i principi della sharìa anche nei tribunali locali, creando in tal modo una sorta di sistema giuridico parallelo. Un sistema che, ricordiamolo sempre, non riconosce la libertà delle donne , il diritto a convertirsi a un’altra religione e altri diritti che noi consideriamo giustamente fondamentali.
Ma le nostre società , la nostra civiltà così intrisa d’incertezza sul senso e il valore della propria identità ha non poche difficoltà, con il suo relativismo diffuso, a resistere all’ondata di certezze che ci viene rovesciata addosso dall’immigrazione islamica. Viviamo infatti in un contesto culturale che non ha chiarito quali siano “gli elementi della nostra civiltà da difendere”. Ammettiamolo: chi di noi si sentirebbe così sicuro , ad esempio , nel redigere un elenco dei suddetti “elementi”? Allora sarebbe stato opportuno che magari Meloni avesse chiarito meglio quali sarebbero a suo avviso gli elementi da “difendere “, e magari cercasse su tale elenco il consenso più vasto dell’opinione pubblica. Solo con la chiarezza e la consapevolezza di chi siamo , cioè della nostra tradizione culturale , possiamo avviare un confronto con quel mondo così diverso che, nel sentire di molti, ci sta accerchiando, e avviene un confronto vero, che permetta di uscire dall’utopia di un multiculturalismo impraticabile ma anche dalla prospettiva di un inevitabile scontro di civiltà.
9 settembre 2023_Patrick Zaki si è sposato
Bologna, 9 settembre 2023 – Dopo la laurea all’Università di Bologna e la sua liberazione dopo tre anni di calvario giudiziario, lui l’aveva ringraziata sui social per il suo amore, il suo sostegno e incoraggiamento, accanto a una foto di mani intrecciate. In occasione dell’anniversario di fidanzamento, lei gli aveva scritto una lettera colma d’emozione e di speranza, pochi giorni prima della liberazione. E già lo vedeva, quel matrimonio, “più bello di come l’abbiamo sognato”.
Oggi Patrick Zaki – l’attivista egiziano laureato Unibo e cittadino onorario di Bologna, graziato al termine di caso giudiziario in Egitto durato tre anni – si è sposato al Cairo con Reny Iskander.
La cerimonia si è svolta presso la cattedrale copta di San Marco nel quartiere di Heliopolis della capitale egiziana, con rito copto-ortodosso.
Oltre ai genitori della sposa e dello sposo (papà George e mamma Hala) e alla sorella di Patrick, Marise, in chiesa erano presenti fra gli altri la sua avvocata principale, Hoda Nasrallah, e diversi militanti per la difesa dei diritti umani in Egitto, tra cui Ahmed Douna, come Patrick graziato quest’estate dal presidente egiziano Abdel Fattah Al-Sisi.
La sposa indossava un abito bianco con velo e Patrick un completo nero con papillon e camicia bianca. Durante la funzione Patrick ha poi indossato una pesante tunica bianca con bordature e croce dorate e Reny un’abbinata mantellina.
Reny Iskander, moglie di Patrick Zaki, si è laureata – come lo stesso attivista –nel curriculum Gemma dell’Unibo. I due sono insieme da più di quattro anni, uniti nel percorso di studi e nella vita privata.
Reny era accanto a Patrick anche prima degli anni prigionia. Una presenza importante e di riferimento: durante la sua permanenza in carcere, una visita di Iskander aveva scaldato il cuore dello studente egiziano, che le raccontava della sua situazione anche attraverso una lettera.
E poi il giorno della scarcerazione, l’abbraccio tanto atteso tra i due fidanzati ha fatto il giro dei social.
Patrick Zaki si è sposato, chi è la moglie (msn.com)
8 settembre 2023 Sono passati ottant’anni 2. Qualche notizia pro memoria
La Repubblica 8 settembre 2023
8 settembre 1943, l’Italia firma l’armistizio. Ecco cosa accadde ottant’anni fa
a cura della redazione Cultura
Fu l’inizio della feroce occupazione tedesca del nostro Paese, ma anche della Resistenza che portò alla rinascita dell’Italia democratica
Che cosa è successo l’8 settembre 1943?
L’8 settembre 1943 segna la data in cui venne reso pubblica, tramite un proclama del maresciallo Pietro Badoglio, diventato primo ministro il 25 luglio in seguito alla deposizione di Mussolini, la firma dell’armistizio di Cassibile. L’armistizio, così chiamato perché era stato firmato il 3 settembre nella località siciliana, prevedeva che l’Italia si arrendesse incondizionatamente alle Nazioni Unite e abbandonasse l’alleanza con la Germania di Hitler. La firma dell’armistizio il 3 settembre prevedeva che rimanesse segreto per cinque giorni: il pomeriggio dell’8 settembre 1943 alle ore 17:30, corrispondenti alle 18:30 italiane, il generale Dwight Eisenhower ne diede notizia, in lingua inglese, su Radio Algeri.
Il proclama di Badoglio fu trasmesso alle 19:42 dai microfoni dell’Eiar. Il giorno stesso della firma dell’armistizio gli angloamericani sbarcarono a Salerno, iniziando a risalire verso Nord. Dal 28 agosto Mussolini si trovava a Campo Imperatore, ai piedi del Gran Sasso, controllato da 250 carabinieri e guardie di pubblica sicurezza. Nelle prime ore del 12 settembre un gruppo di paracadutisti tedeschi, con un’operazione denominata Quercia, lo libera e lo trasporta per via aerea prima a Pratica di mare, poi a Vienna e infine a Monaco di Baviera.
Quali furono le conseguenze della proclamazione dell’armistizio?
Nella notte tra l’8 e il 9 settembre il re Vittorio Emanuele III fugge da Roma insieme alla regina Elena, al principe ereditario Umberto, al maresciallo Badoglio e lo Stato maggiore al completo. A Pescara si imbarcano sulla corvetta “Baionetta” e 48 ore dopo arrivano nel porto di Brindisi. Lasciato senza comandi sia in Italia che all’estero, l’esercito italiano è allo sbando: si tratta di oltre un milione di uomini dislocati in Italia e di 900.000 dislocati nei Paesi occupati. Un esercito male equipaggiato, con armamento inadeguato alle esigenze del momento, che resta senza direttive.
La Germania, ormai ex alleato, dà il via all’Operazione Achse, che prevede che i reparti della Wehrmacht e le SS prendano il controllo del territorio dell’Italia settentrionale e centrale fino a Roma. Le truppe tedesche prendono subito possesso di aeroporti, stazioni ferroviarie e caserme, cogliendo di sorpresa le forze armate italiane. Era previsto che chi accettava di continuare a combattere al fianco dei tedeschi potesse conservare le armi; chi rifiutava era da considerarsi prigioniero di guerra da internare in Germania, chi si fosse opposto sarebbe stato passato per le armi.
A Roma, presso l’ambasciata tedesca, il 28 settembre viene istituito in assenza di Mussolini stesso, che ancora si trovava in Germania, lo “Stato Fascista Repubblicano d’Italia” che verrà denominato più tardi Repubblica Sociale Italiana a partire dal 1 dicembre, detta poi Repubblica di Salò dal nome della località sul lago di Garda che era sede del Ministero della cultura popolare e delle agenzie di stampa. Pur rivendicando l’intero Regno d’Italia, la Repubblica di Salò coincideva con il territorio ancora nelle mani delle truppe nazifasciste, e andò riducendosi progressivamente man mano che gli Alleati avanzavano verso nord.
Come nacque la Resistenza?
Le forze politiche antifasciste (comunisti, socialisti, democristiani, azionisti, liberali) danno vita il 9 settembre 1943 al Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), che nei 20 mesi successivi sarà guida politica e militare della lotta di Liberazione. I tedeschi nei giorni immediatamente successivi all’armistizio hanno disarmato e catturato in Italia e all’estero circa 800.000 soldati italiani: la gran parte degli uomini, deportati nei lager, sarà protagonista della “Resistenza disarmata” dei cosiddetti internati militari italiani (IMI).
La Resistenza, guidata da antifascisti che hanno combattuto il regime fascista nel corso di tutto il Ventennio, è composta da forze con diverso orientamento e vi partecipano civili di ogni età e militari che hanno rifiutato l’arruolamento a Salò e che, sfuggiti alla cattura e alla deportazione, decidono di partecipare alla ricostruzione dell’Italia democratica. In clandestinità, il CLN riesce a organizzare comitati militari che assumono la responsabilità dell’organizzazione delle forze che vanno raccogliendosi in città e in montagna, e si radicano nel territorio.
Le formazioni partigiane si organizzano in brigate (le “Garibaldi”, le “Giustizia e Libertà”, le “Matteotti”, le “Mazzini”, le “Autonome”, etc.) mentre nelle città prendono vita le SAP (Squadre di Azione Patriottica) e i GAP (Gruppi di Azione Patriottica), dediti a operazioni di reclutamento e propaganda, sabotaggio, guerriglia urbani
8 settembre 1943, l’Italia firma l’armistizio. Ecco cosa accadde ottant’anni fa – la Repubblica
8 settembre 2023 – Sono passati 80 anni. Mi serve far memoria di qualche data
25 luglio 1943 arresto Mussolini governo Badoglio 
31 luglio Roma città aperta
3 settembre Armistizio di Cassibile
A causa dell’avanzata degli Alleati dal sud Italia, il governo italiano il 3 settembre 1943, aveva firmato a Cassibile la prima versione di un armistizio con gli inglesi e gli americani, abbandonando di fatto l’alleanza con i tedeschi. L’accordo era stato firmato dal generale Giuseppe Castellano.
8 settembre annuncio armistizio 
Fuga Re 9 settembre 1943
La fuga da Roma del re d’Italia Vittorio Emanuele III di Savoiae del maresciallo d’Italia Pietro Badoglio consistette nel precipitoso abbandono della capitale – all’alba del 9 settembre 1943– alla volta di Brindisi, da parte del sovrano, del capo del Governo e di alcuni esponenti della Real Casa (fra cui la regina/moglie e l’erede Umberto), del governo presieduto da Pietro Badoglio e dei vertici militari. Nessuna disposizione fu assicurata alle truppe e agli apparati dello Stato utile per fronteggiare le conseguenze dell’Armistizio.
Questo avvenimento segnò una svolta nella storia italiana durante la seconda guerra mondiale.
16 ottobre 1943 Rastrellamento del ghetto di Roma
Regno del Sud L’espressione si riferisce alla situazione creatasi nei territori controllati dal Regno d’Italia dopo l’annuncio dell’armistizio di Cassibile
24 marzo 1944 Fosse ardeatine
4 giugno1944 Liberazione di Roma
Il 4 giugno 1944 Roma venne liberata e Vittorio Emanuele III nominò l’indomani il figlio Umberto quale Luogotenente del regno, ritirandosi a vita privata. Umberto si insediò al Quirinale e, su proposta del CLN, affidò l’incarico di formare il nuovo governo a Ivanoe Bonomi, anziano leader politico già Presidente del Consiglio prima dell’avvento del fascismo. Il nuovo governo si insediò così in luglio nella Capitale
Repubblica di Salò . settembre 1943- aprile 1945
La Repubblica Sociale Italiana (RSI), anche conosciuta come Repubblica di Salò, fu un regime collaborazionista della Germania nazista, ( settembre 1943 -aprile 1945), voluto da Adolf Hitler e guidato da Benito Mussolini, al fine di governare parte dei territori italiani controllati militarmente dai tedeschi dopo l’armistizio di Cassibile
7 settembre 2023_ Una notizia dalla Palestina
Israele arresta Khaled El Qaisi, ricercatore italo-palestinese

redazione
Pagine Esteri, 6 settembre 2023 – Lo scorso 31 agosto il giovane ricercatore italo-palestinese Khaled El Qaisi è stato arrestato dalle autorità israeliane al valico di Allenby, tra Cisgiordania e Giordania. Ne danno notizia la moglie del ricercatore, Francesca Antinucci, e la madre, Lucia Marchetti.
El Qaisi, di doppia nazionalità, italiana e palestinese, la scorsa settimana, diretto ad Amman, stava attraversando il valico di Allenby con moglie e figlio dopo aver trascorso le vacanze con la propria famiglia a Betlemme. Al controllo dei bagagli e dei documenti è stato ammanettato sotto lo sguardo del figlio di 4 anni, e della moglie.
Antinucci spiega che alle richieste di delucidazioni sui motivi del fermo, non è seguita risposta alcuna da parte degli agenti di frontiera israeliani. Invece le sono state sottoposte domande per poi essere allontanata col figlio verso il territorio giordano, senza telefono, senza contanti né contatti, in un paese straniero. Solo nel tardo pomeriggio la moglie e il bambino sono riusciti a raggiungere l’Ambasciata italiana ad Amman grazie all’aiuto di alcune persone.
Khaled El Qaisi, aggiungono la madre e la moglie, ancora non ha potuto incontrare il suo avvocato. Si è solo saputo che affronterà un’udienza davanti a giudici israeliani domani, 7 settembre, presso il tribunale di Rishon Lezion.
Traduttore e studente di Lingue e Civiltà Orientali all’Università La Sapienza di Roma, stimato per il suo impegno nella raccolta, divulgazione e traduzione di materiale storico, è tra i fondatori del Centro Documentazione Palestinese, associazione che mira a promuovere la cultura palestinese in Italia.
A sostegno di Khaled El Qaisi, l’intergruppo parlamentare per la Pace tra Palestina e Israele ha inviato una lettera-appello al ministro degli esteri Antonio Tajani, per sollecitare un intervento delle autorità di governo italiane su quelle israeliane. Pagine Esteri
2 settembre 2023 _ Colpi di stato in Africa – Un mio piccolo dossier
Dopo il Niger, il Gabon. A mettere in fila gli eventi, si potrebbe immaginare un domino Wagner nell’Africa francofona: dopo il fallito ‘putsch’ in Russia dei mercenari di Evgheny Prigozhin il 24 e 25 giugno, c’è stato un colpo di Stato in Niger il 25 luglio della guardia presidenziale contro il presidente Mohamed Bazoum, filo-occidentale; e, ieri, a una settimana dalla tragica scomparsa di Prigozhin in uno schianto aereo, c’è stato un colpo di Stato in Gabon contro il presidente Ali Bongo Ondimba, appoggiato (non senza screzi) da Parigi. (Giampiero Gramaglia – Gp News)
31 agosto 2023. Le ragioni dei continui colpi di stato in Africa
Pierre Haski, France Inter, Francia
Il fenomeno è eccezionale e non può essere spiegato in modo semplicistico. Guinea, Mali, Burkina Faso, Niger e il 30 agosto anche il Gabon: negli ultimi anni cinque paesi francofoni dell’Africa hanno vissuto colpi di stato militari. Inevitabilmente emergono diversi interrogativi.
Tra le spiegazioni semplicistiche possiamo elencare una semplice epidemia di golpe, un complotto russo o un rifiuto della Francia. Senza dubbio questi ingredienti sono presenti qua e là, a vario grado. Ma bisogna approfondire.
Il punto in comune tra le vicende citate è il fallimento degli stati postcoloniali, creati sotto una forte influenza francese e caratterizzati da due fasi storiche, una autoritaria e l’altra democratica, o per essere più precisi pseudo-democratica.
Nel 1960, quando diverse colonie francesi ottennero l’indipendenza, il presidente Charles de Gaulle e il suo “monsieur Afrique”, il discusso Jacques Foccart, misero in piedi regimi il cui obiettivo era quello di garantire l’influenza francese dietro una facciata di sovranità.
Il Gabon è stato la caricatura di questo processo.
Democrazie senza alternanza, senza contropoteri e senza alcun freno alla corruzione. Ma ora questo inganno politico sta saltando per aria
Foccart ha raccontato di aver scelto personalmente Omar Bongo (padre) quando il primo presidente del paese, Léon Mba, ha scoperto di essere affetto da un cancro, nel 1965. Bongo, all’epoca trentenne, era il direttore di gabinetto del presidente. Sostenuto da Foccart, ha guidato il Gabon fino alla sua morte, nel 2009. Poi il figlio, Ali Bongo Ondimba, ha preso il suo posto fino al golpe del 30 agosto 2023, arrivato dopo quasi sessant’anni di dominio della famiglia Bongo.
Questo non basta a spiegare il colpo di stato, ma aiuta a comprendere la gioia popolare che ha accompagnato il golpe. Inoltre da questa prospettiva è facile capire l’impasse politica in cui si trovava il Gabon, al pari di altri paesi del continente.
Durante la prima fase la Francia non si è solo adattata, ma ha tirato le fila del regime autoritario. In occasione della mia prima visita a Libreville, nel 1981, i tre uomini forti del paese erano l’ambasciatore francese, il comandante francese della guardia presidenziale e il capo di Elf, la compagnia petrolifera francese. Nel paese nessuno poteva fare niente senza il loro consenso.
Dopo la caduta del muro di Berlino, François Mitterrand ha vincolato gli aiuti francesi alla democratizzazione del regime. Un escamotage che ha permesso agli autocrati di prolungare il loro dominio, come dimostra in modo lampante il caso dei due Bongo, padre e figlio, ma anche quello di Paul Biya, l’eterno presidente del Camerun. Democrazie senza alternanza, senza contropoteri e senza alcun freno alla corruzione. Ma ora questo inganno politico sta saltando per aria un po’ ovunque.
La Francia ha progressivamente allentato la presa politica. Gli interessi economici francesi nel continente si sono ridotti, con l’eccezione proprio del Gabon. Nel frattempo la Cina si è ritagliata un ruolo di primo piano in buona parte dell’Africa,
Ma ancora oggi sopravvivono l’eredità, il quadro istituzionale e i blocchi politici lasciati dalla Francia, mentre le nuove generazioni non sopportano più di essere mal governate e i militari si presentano come salvatori della patria. Parigi si illude evocando il ritorno di istituzioni che hanno perso tutta la loro legittimità, ma il patto sociale si è rotto, e forse questa è l’occasione di rinegoziarlo.
In queste condizioni, come sottolineava qualche settimana fa il pensatore di origine camerunese Achille Mbembe sul quotidiano Le Monde, “i golpe appaiono come l’unico modo di provocare un cambiamento, di assicurare una forma di alternanza al vertice dello stato e di accelerare la transizione generazionale”. Una tripla necessità che non abbiamo voluto considerare e che oggi esplode, nel bene e nel male. (Traduzione di Andrea Sparacino)
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Gabon: dopo Niger, epidemia colpi di Stato in Africa prosegue (gyvs) (informazione.it)
https://www.internazionale.it/opinione/pierre-haski/2023/08/31/africa-gabon-colpi-stato
L’epidemia di golpe africani: un allarme per l’Europa
diFederico Rampini| 30 agosto 2023
Un filo conduttore è la crisi di molti esperimenti democratici in Africa: solo il 38% degli africani è soddisfatto di come funziona la democrazia, le loro élite intellettuali la associano all’Occidente inteso come imperialismo e neo-colonialismo
Il golpe in Gabon è l’ottavo consecutivo in soli tre anni in quella parte dell’Africa, cioè la fascia occidentale e centrale del continente. Lo hanno preceduto Mali, Guinea, Burkina Faso e di recente il Niger, alcuni dei quali hanno subito dei colpi di Stato militari a ripetizione (è così che si arriva al totale di otto).
L’instabilità politica che questa “epidemia” segnala, il grave arretramento della democrazia che genera, hanno spinto il responsabile della politica estera Ue Josep Borrell a parlare di “un grosso problema per l’Europa”. A conferma, della crisi in Gabon parleranno a breve i ministri della Difesa dell’Unione.
In cerca di semplificazioni sarebbe facile soffermarsi su un aspetto: tutti i paesi sopra elencati per la “epidemia dei golpe” sono ex-colonie francesi. Molti di loro in seguito alla presa di potere dell’esercito hanno denunciato gli accordi con la Francia, in certi casi (Mali, Burkina) cacciando i contingenti delle forze armate di Parigi.
Siamo dunque in presenza di una «seconda morte dell’impero coloniale francese in Africa»? Senza dubbio il sentimento anti-francese gioca un ruolo. Nel Niger poco dopo la deposizione del presidente democraticamente eletto abbiamo visto scendere in piazza delle folle che inneggiavano ai militari golpisti, urlavano «abbasso la Francia e viva Putin». Le accuse di neocolonialismo contro Emmanuel Macron e i suoi predecessori sono pratica corrente. È ancora presto per dire se il copione si ripeterà in Gabon, dove pure la presenza transalpina è rilevante, per esempio con la società Elf nel petrolio. Greggio e cacao sono le due principali esportazioni del Gabon.
Un simbolo che spesso viene usato per esemplificare i retaggi di colonialismo francese, è l’unione monetaria nel Cfa o franco africano, un’istituzione abbastanza curiosa anche nel nome, visto che a Parigi il franco non esiste più, sostituito ovviamente dall’euro da oltre un ventennio.
Il Cfa è un’architettura a dir poco barocca: quella sigla descrive in realtà due unioni monetarie, una per l’Africa centrale e l’altra per l’Africa occidentale; tutt’e due legate all’euro da una parità fissa e garantite dal Tesoro di Parigi. Si possono tracciare delle (vaghe) analogie con il Commonwealth britannico. La Francia ne ricava pochi vantaggi comunque. In compenso paga un prezzo politico: nell’immaginario collettivo di molti paesi africani la sola esistenza di un “franco Cfa” è un simbolo potentissimo di ciò che loro percepiscono come un retaggio coloniale.
Ma le accuse a Parigi sono solo in parte giustificate, per lo più invece sono pretestuose, incoerenti, in malafede. Gli stessi paesi che ora cacciano i militari francesi, magari per sostituirli con mercenari russi, l’altroieri avevano chiesto aiuto a Parigi per combattere terroristi jihadisti e milizie separatiste. Gli stessi militari che hanno preso il potere a ripetizione, invocando come pretesto per i loro golpe l’incapacità dei governi civili di garantire ordine e sicurezza, sono essi stessi responsabili per clamorosi insuccessi nel reprimere terroristi, jihadisti, organizzazioni criminali. I generali che cacciano i politici accusandoli di corruzione sono di solito i primi campioni della corruzione.
Celebrare la seconda morte dell’impero francese è una forzatura anche perché la crisi della democrazia – e della sicurezza – si estende oltre l’Africa francofona. L’anglofono Zimbabwe ha appena tenuto delle elezioni di dubbia correttezza, non più limpide di quanto lo sia stata in Gabon la vittoria del “figlio d’arte” Ali Bongo (il 64enne presidente appena deposto viene da una dinastia initerrottamente al potere da 56 anni, suo padre Omar Bongo governò dal 1967 al 2009). Il Sudan, che non è un ex colonia francese bensì fu un possedimento in condominio anglo-egiziano, è ancora devastato dalla guerra tra due fazioni militari. Una ricaduta di disordini e di repressione si sta verificando anche in Etiopia, la nazione dell’Africa che si vanta di non essere mai stata colonizzata da nessuno (a ragione gli etiopi definiscono “occupazione” l’episodio italiano, che considerano talmente breve e con impatto troppo modesto per potersi definire una colonizzazione).
Un filo conduttore è la crisi di molti esperimenti democratici in Africa. L’ultimo sondaggio Afrobarometro rivela che solo il 38% degli africani sono soddisfatti di come funziona la democrazia nel proprio paese (quelli che ce l’hanno). Secondo la ong americana Freedom House metà degli Stati continentali sono “non liberi”, il 43% “parzialmente liberi”.
Noi occidentali però questi giudizi dovremmo maneggiarli con moderazione e spirito critico, tenuto conto che anche le opinioni pubbliche di casa nostra danno segnali di delusione e disaffezione verso il sistema politico democratico. Dovremmo anche considerare quel che sta accadendo in Africa come un’emergenza che ci riguarda per diversi aspetti, non tutti scontati. Da una parte è un “grosso problema” (come dice Borrell) perché la catena dei golpe investe zone strategiche per l’Europa sia come origini di flussi migratori sia come giacimenti di risorse energetiche e minerarie. D’altra parte è un “grosso problema” se e quando questi golpe poggiano su narrazioni anti-occidentali e spianano la strada a ulteriori penetrazioni di Cina, Russia, o anche altri attori come Arabia saudita, Turchia.
Dietro quest’ultimo fenomeno c’è una tendenza allarmante che accomuna tanti paesi africani: troppo spesso le loro élite intellettuali tendono ad associare la democrazia all’Occidente nel senso deteriore che esse danno alla parola Occidente, cioè come simbolo di imperialismo, post o neo-colonialismo, sfruttamento. Così facendo queste élite ottengono il triplice risultato di screditare la democrazia, avallare i golpe, legittimare le intese fra golpisti e Pechino, Mosca, eccetera.
È utile che del tema si occupino i ministri della Difesa europei perché buona parte dell’Africa soffre per un deficit di sicurezza prima ancora che di stabilità o di libertà. La democrazia non sopravvive se non è capace di assicurare ai propri cittadini un minimo di “legge e ordine” (tema sottovalutato o incompreso negli stessi paesi occidentali). I militari del Gabon, come quelli del Niger, Mali e Burkina Faso prima di loro, sono dei bugiardi quando promettono sicurezza visto che fino a ieri hanno avuto vasti poteri per mantenere l’ordine e non lo hanno fatto. Qualcuno però dovrà riuscirci prima o poi. Crescita economica, sviluppo, occupazione, istruzione e sanità, progrediscono se esiste un minimo di sicurezza. L’Europa dovrebbe sviluppare una offerta alternativa – in una cornice di rispetto dei diritti umani – rispetto al Gruppo Wagner o altre milizie mercenarie.
Il fatto che il golpe del Gabon sia accaduto a così breve distanza da quello del Niger ricorda un altro fallimento che si sta consumando: quello della comunità economica dell’Africa occidentale, Ecowas. Sotto la leadership della nazione più importante di tutto il continente, la Nigeria, l’Ecowas aveva promesso/minacciato un intervento militare multinazionale per ripristinare il legittimo governo civile in Niger. Poi l’Ecowas si è impaurita, soprattutto perché all’interno della stessa Nigeria sono cresciute le resistenze. Forse l’Unione europea dovrebbe riprendere il bandolo della matassa proprio da lì.
L’epidemia di golpe africani: un allarme per l’Europa- Corriere.it