24 agosto 2024 – Un soldato di Israele obiettore di coscienza dopo la sua esperienza nella striscia di Gaza

Leggo con emozione un articolo della bravissima Francesca Mannocchi  e apprezzo molto la cortesia de La Stampa di consentirmene la lettura anche se non sono abbonata
Lo conservo nella mia memoria storica , il mio blog,  e ne segnalo la lettura a chi possa e voglia procurarsi il quotidiano.

La Stampa  24  agost0 2024  pag 14-15

 

Yuval Green, da riservista a obiettore di coscienza: “Mi hanno detto di bruciare le case dei civili palestinesi. Questa guerra è una follia”

 

Francesca  Mannocchi

KADIMA (ISRAELE). «Sono stato cinquanta giorni a Gaza, da soldato, ti guardi a destra, a sinistra e vedi solo distruzione, tutto è in rovina, non ci sono strade, tanti ospedali e università sono stati distrutti. Non ci sono parole per spiegare la quantità di danni e questo non si può giustificare. Credo che il motivo per cui sto rilasciando interviste ora, il motivo per cui sto parlando pubblicamente sia che voglio chiedere alle persone di aiutarmi a spingere a firmare un accordo di cessate il fuoco, per poter porre fine a tutta questa morte intorno a noi».

Un buon soldato

Da ragazzo Yuval Green non aveva dubbi. Sarebbe stato un buon soldato, avrebbe eseguito i suoi doveri perché è così che ogni ragazzo e ogni ragazza israeliano cresce: imparando che una delle parti più importanti della vita sarà far parte dell’esercito. Suo padre era un paracadutista, è stato un ufficiale per molto tempo, e Yuval, come tutti, ha ascoltato i racconti sull’esercito fin da quando era bambino. Per questo, col tempo, non ha solo desiderato di essere un soldato combattente, ma di far parte di una delle unità speciali. Prima è finito in Marina e poi, come suo padre, nei paracadutisti. È poi diventato il paramedico della sua  unità.Oa Rafah si scava tra le macerie dopo il raid israeliano
L’obiezione di coscienza

Alla fine di giugno, dopo cinquanta giorni dentro Gaza, Yuval Green ha deciso di lasciare l’esercito. Pochi giorni, insieme ad altri 40 riservisti, ha firmato una lettera aperta per dichiarare che non avrebbe più continuato a prestare servizio nelle operazioni a Rafah, nella parte meridionale della Striscia di Gaza: «I sei mesi in cui abbiamo preso parte allo sforzo bellico ci hanno dimostrato che l’azione militare da sola non riporterà a casa gli ostaggi – si legge nella lettera -. L’invasione di Rafah, oltre a mettere in pericolo le nostre vite e quelle degli innocenti a Rafah, non riporterà indietro vivi gli ostaggi. Pertanto, dopo la decisione di entrare a Rafah piuttosto che concludere un accordo sugli ostaggi, noi, riservisti uomini e donne, dichiariamo che la nostra coscienza non ci consente di dare una mano a perdere la vita degli ostaggi e a boicottare un altro accordo».

La lettera

firmatari sanno che la loro posizione è un’eccezione nell’esercito. Impopolare prima del 7 ottobre, irricevibile oggi per gran parte della società israeliana.
Lo sa anche Yuval Green che, se chiamato di nuovo, non ha intenzione di presentarsi di nuovo per il servizio di riserva. Yuval, che non si cura delle sanzioni a cui potrebbe andare incontro, perché, dice, non rischia la vita, ma lo status sociale e «come mi sono sacrificato per il servizio militare, così ora mi sacrificherò per la mia coscienza».
Yuval ha incontrato La Stampa nella casa dei suoi genitori a Kadima, una cittadina fondata negli Anni Trenta da coloni emigrati dalla Germania. In casa le sorelle, sua madre e molti libri, a riempire gli scaffali testi sulle tradizioni palestinesi, sulla storia e i costumi della Palestina.

«Sono entrato nell’esercito credendo che fosse la cosa giusta da fare. Solo dopo aver terminato il servizio militare regolare ho cominciato a mettere in discussione tutto, a chiedermi se essere parte dello stato di occupazione fosse davvero giusto». Ha cominciato a pensarci a Hebron, in arabo al-Khalil. È lì che ha cominciato a capire che servire l’esercito fosse per lui completamente sbagliato. È lì che ha guardato l’occupazione negli occhi. «Hebron è una città occupata, è completamente palestinese, a eccezione di alcuni quartieri israeliani che stanno cancellando la vita delle persone intorno. È ancora più chiaro che in altri posti della Cisgiordania perché vedi ogni giorno come la segregazione e i coloni influenzino le vite dei palestinesi. E non puoi ignorarlo». Lui, almeno, non ha potuto. Pensa di essere stato più gentile degli altri, con i palestinesi che incontrava, ma «ero comunque parte del sistema che stava sottraendo la loro terra». I suoi dubbi non facevano che crescere, così alla fine di settembre Yuval Green ha deciso di scrivere una lettera per i suoi amici nell’unità. Voleva inviarla l’8 ottobre, il giorno dopo la fine della festa di Simhat Torah. Poi il 7 ottobre ha cambiato tutto, ha rimesso i suoi dubbi nel cassetto e Yuval si è messo a disposizione dell’esercito. Ha pensato che fosse necessario essere presente, che fosse suo dovere. È stato richiamato, è andato in uno dei magazzini militari, si è equipaggiato e si è unito di nuovo alla sua unità. Si è addestrato per un paio di mesi e poi, alla fine di novembre, è entrato a Gaza.

La linea rossa

Quando è iniziata l’offensiva militare, Yuval Green pensava che l’equazione fosse semplice: vanno liberati gli ostaggi e quindi tutto sarà molto breve. Poi ha capito di aver calcolato male tutto. Tempi e intenzioni del governo. La linea rossa è arrivata durante la sua missione a Khan Younis, quando il suo comandante ha chiesto ai soldati di incendiare una abitazione civile. Green ha chiesto il motivo di quell’ordine ma la risposta non è stata sufficiente: «Tutto ruota attorno a come le cose appaiono dal punto di vista israeliano. Israele cerca sempre di spiegare le proprie azioni dicendo che tutto ciò che fa a Gaza è per uno scopo militare». Green non capiva la ragione operativa, strategica di quell’ordine. Ha chiesto se ci fossero prove che appartenesse ad Hamas, il comandante ha risposto che bisognava essere sicuri che non ci fosse attrezzatura militare, Yuval ha risposto che quello non era un motivo ragionevole per bruciare una casa «fondamentalmente, quello che il comandante mi ha detto era che stavamo bruciando ogni casa o distruggendo ogni casa. Io ho detto “questo è folle”, andiamo in così tante abitazioni, come possiamo distruggere le case di così tante persone?». Ha capito, in quel momento, che per il suo comandante fosse «scontato» dare alle fiamme quell’edificio, «penso che questo sia un esempio di come Israele giustifichi le sue azioni con motivazioni militari. Molte volte queste motivazioni sono corrette, stanno cercando di raggiungere degli obiettivi, ma molte volte non è dato sapere se queste motivazioni sono realmente di carattere militare o se sono animate da vendetta o motivazioni brutalmente ideologiche».
Quando ha parlato col suo comandante, Yuval Green, ha pensato che le motivazioni che gli dava avessero più a che fare con la vendetta che con la strategia militare. A rafforzare la sua scelta anche la condotta dei soldati. Vedeva persone intorno a sé lasciare graffiti, insulti, sulle macerie delle abitazioni dei gazawi, infliggere danni inutili a cose e case, portare via i “souvenir dalle case arabe”. Era per lui tutto inaccettabile, si opponeva continuamente. Nessuno della sua unità, dunque, è rimasto sorpreso quando Yuval andato via. Come lui non è rimasto sorpreso nel vedere cosa stesse accadendo alla società israeliana dopo il 7 ottobre, perché erano sentimenti che covavano da tanto tempo. Tutti i suoi amici reagivano in modo orribile, demonizzando i palestinesi, sostenendo che la modalità dell’offensiva fosse la sola possibile perché non esistono innocenti a Gaza. Che la soluzione fosse, in sintesi, ucciderli tutti. Cose che non aveva mai sentito prima, non così, pubblicamente e senza pudore, opinioni che, un tempo molto estreme, sono diventate improvvisamente comuni, normali. Era sconvolto ma non stupito perché molte persone pensavano anche prima del 7 ottobre che i palestinesi dovessero essere espulsi da Gaza. Solo che ora hanno cominciato a dirlo pubblicamente: «Quando le persone dicono che non ci sono innocenti a Gaza, penso sia corretto dire che non esistono innocenti in tutto il conflitto. Se vai in una casa israeliana e apri un armadio trovi un’uniforme dell’Idf, l’esercito israeliano cerca di proteggere il Paese dagli attacchi ma allo stesso tempo siamo parte del sistema che sta cercando di occupare la Palestina. Siamo tutti coinvolti e non possiamo continuare con la disumanizzazione delle persone di Gaza. Hanno il diritto di vivere esattamente come noi. E chiunque cerchi di minare sotto questo diritto sta facendo male a sé stesso e alle persone che stanno cercando di trovare pace in questo conflitto. È tutto molto chiaro: se non usciamo da Gaza moriranno molte altre persone. E questo crea semplicemente le prossime generazioni che saranno furiose con Israele. Non stiamo facendo bene a noi stessi e non stiamo facendo bene ai palestinesi».

 

 

24 Agosto 2024Permalink

1 agosto 2024 _ Cronache dalla terra del massacro

Trascrivo questo link  che consente di raggiungere un intervento significativo per il luogo da cui proviene  e per la professionalità  di chi lo propone

https://youtu.be/cM8HATqS-Jo?si=IH5aQusDWAtRoe6m

Intervento del dott. Mads Gilbert, medico norvegese (specialista in anestesiologia e capo del dipartimento di medicina d’urgenza presso l’Ospedale Universitario della Norvegia settentrionale), attivista, da 30 anni presente negli Ospedali di Gaza.

1 Agosto 2024Permalink

24 luglio 2024_ Ricopio un articolo che leggo oltre l’attualità

Copio manualmente da La Stampa di oggi  (pag. 2)  l’articolo che segue  e annoto che Andrea Malaguti è il direttore de la Stampa.
Segnalo che le pagine 2 e 3 del quotidiano sono integralmente dedicate al caso e ai risvolti politici che lo riguardano sotto la voce  “La Torino nera” .
A pag. 3 un articolo di  Francesco Rigatelli,  che ha scelto  la forma di intervista allo storico Giordano Bruno Guerri,  si allarga ad alcune considerazioni dell’intervistato  su un eletto italiano al Parlamento Europeo e al ministro – voce de la Lega –  che affianca il sullodato.

Andrea Malaguti. Se questa è la seconda carica dello Stato

Confesso che Ignazio La Russa mi mette a disagio. Un limite mio. È un maschio del Novecento che non riesce a uscire dalla grottesca armatura di pece in cui è rimasto imprigionato da bambino. Gli piace fare il bullo. Ha cristallizzato il senso di sé ai milanesi anni Settanta di piazza San Babila. Se non fosse il presidente del Senato derubricherei la cosa a “problema  personale”.

Invece La Russa è la seconda carica dello Stato. Regala la sua solidarietà  pelosa al nostro Andrea Joly per le botte ricevute fingendo sdegno,  liquida La Stampa col solito sarcasmo da capocomico e aggiunge: «Non credo che passasse di lì per caso , trovo   che  sarebbe stato meglio che avesse dichiarato di essere un giornalista».
Mi sfugge, presidente: per farsi menare di più o di meno?
C’erano cento fascisti in mezzo alla strada a mezzanotte che cantavano a squarciagola canzoncine mussoliniane riempiendo l’aria di fumogeni. Cercavano privacy?
Al numero due dello Stato non la si fa, lui lo ha capito che Joly voleva fare il furbetto e che i picchiatori di Casa Pound gli hanno dato una memorabile lezione. Che pena. Come avrebbe detto il mio professore di filosofia del liceo: siamo al di sotto del limite morale inferiore.

Se questa è la seconda carica dello Stato – La Stampa

 

24 Luglio 2024Permalink

12 luglio 2024_ Mentre si chiacchiera della denominazione a tempo di record di un aeroporto il mio blog ripropone un nome occultato ma indimenticabile

Comincio con il link di  una vecchia pagina del mio blok

15 marzo 2023 – Omicidio Attanasio, l’appello della moglie: “No alla pena di morte per gli imputati” (diariealtro.it)

Due  giorni  fa  si discuteva del nome da dare a Malpensa.
Naturalmente ha  vinto quello che riesce ad andare oltre il senso del ridicolo

Qualcuno aveva fatto i nomi dell’ambasciatore Atanasio e della scienziata Margherita Hack.
Meglio che la scelta sia finita male e precipitosamente .
Discutere di due persone straordinarie in contrapposizione  a colui cui poi l’aeroporto è stato dedicato sarebbe stato a deprimente e irritante  assieme.
Considerato che l’ambasciatore Atanasio è memo noto di Margherita Hack ho deciso di arricchire la mia memoria con un articolo nel mio blog dove la memoria è affidata alla moglie
Zakia Seddiki.

 

Luca Attanasio, tre anni dalla morte. La moglie: “Il mio impegno è dare corpo alle parole'”

Tajani ha deposto una corona di fiori alla Farnesina. Il giovane ambasciatore italiano è stato ucciso 3 anni fa insieme al carabiniere Vittorio Iacovacci e al loro autista Mustapha Milambo in un agguato nella Repubblica Democratica del Congo

 28/02/2024

A tre anni dalla morte dell’Ambasciatore il suo ricordo rimane sempre più vivo. Il vice premier e ministro degli Esteri Antonio Tajani ha deposto una corona di fiori in memoria dell’ambasciatore Luca Attanasio e osservato un minuto di silenzio. La commemorazione si è svolta presso il ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale. Un momento importante anche per sottolineare il valore della memoria come forza propulsiva  del lavoro dei diplomatici.

Luca Attanasio è stato ucciso il 22 febbraio di tre anni fa insieme al carabiniere Vittorio Iacovacci e al loro autista Mustapha Milambo in un agguato nella provincia di Goma, nella Repubblica Democratica del Congo.

La toccante cerimonia si è svolta alla presenza della vedova Zakia Seddiki Attanasio, presso la Scalea Attanasio, dove c’è la targa che il ministero ha dedicato al diplomatico. Tra i presenti anche il padre dell’ambasciatore.
Cure a distanza in Marocco nel nome di Luca Attanasio

In occasione dell’anniversario è stato anche presentato il progetto ‘Mama Sofia accorcia le distanze nella  cura’. L’iniziativa pilota, di cui è presidente  Zakia Seddiki, è stata avviata in Marocco e è stata  realizzata in collaborazione con Dedalus e Ospedale Gaslini.

“Mama Sofia accorcia le distanze nella cura” ha l’obiettivo di ridurre le distanze per curare persone fragili e distanti dalle grandi città. Tre gli scopi principali: permettere a chi vive lontano in zone rurali e desertiche di avere un monitoraggio di dati clinici da fornire ai centri sanitari del paese; uno scopo formativo per il personale che con la telemedicina può interagire con centri di eccellenza medica italiana e uno scopo di prevenzione delle malattie utilizzando strumenti digitali.

“Il mio impegno è di ‘dare corpo alle parole’, in casa con le mie bimbe e fuori casa con la Fondazione Mama Sofia”: Così, a tre anni dalla morte di suo marito, l’ambasciatore Luca Attanasio, la moglie, la signora Zakia Seddiki Attanasio, ha spiegato come mantenga viva, concreta e fruttuosa la presenza del diplomatico nella vita quotidiana.

Poi la moglie, durante l’evento che ha ricordato la figura straordinaria del marito, “un uomo di buona volontà, un diplomatico straordinario, un padre generoso, un compagno indimenticabile”. “È stata per me fonte di conforto e di speranza vedere il ministero degli Esteri e la rete diplomatica nel mondo fermarsi lo scorso 22 febbraio per ricordare la loro persona e il loro sacrificio. E lo è sicuramente questo momento di commemorazione odierna, a tre anni dalla loro tragica scomparsa. Quel giorno ho perso mio marito, il padre di tre bellissime bambine. L’Italia ha perso due figli, due servitori dello Stato. Con Luca abbiamo perso anche Vittorio Iacovacci che, come dice il generale Francesco Luigi Gargaro, ‘è un esempio di fedeltà, coerenza, determinazione e coraggio ed è portatore di valori straordinari”.

“Luca diceva sempre: “ho una grande responsabilità, grande come il mio Paese. Non è una missione facile, ma è importante per tanti nostri concittadini e per la nostra bandiera”.

Luca Attanasio, tre anni dalla morte. La moglie: “Il mio impegno è dare corpo alle parole'” (rainews.it)

 

 

13 Luglio 2024Permalink

7 luglio 2024 _ Pro memoria storica_ Discorso Papa a Trieste

Non è stato facilissimo trovare il discorso del Papa  di apertura all’ultima giornata della settimana sociale dei cattolici che ha avuto luogo a Trieste.
Il testo è decisamente lungo . comunque questo blog è la mia memoria storica  che ha le sue esigenze.

Domenica, 07.07.2024 Pubblicazione: Immediata Sommario: N. 0556 ♢ Visita Pastorale del Santo Padre Francesco a Trieste in occasione della 50ª Settimana Sociale dei Cattolici in Italia – Incontro con i Congressisti Questa mattina, lasciata Casa Santa Marta, il Santo Padre Francesco si è trasferito all’eliporto del Vaticano da dove, alle ore 6.30, è partito per recarsi in Visita Pastorale a Trieste in occasione della 50ª Settimana Sociale dei Cattolici in Italia, in corso dal 3 al 7 luglio sul tema “Al cuore della democrazia. Partecipare tra storia e futuro”. Al Suo arrivo, alle ore 7.54, dopo l’atterraggio al Centro Congressi “Generali Convention Center”, il Papa è stato accolto dall’Em.mo Card. Matteo Maria Zuppi, Arcivescovo Metropolita di Bologna, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, da S.E. Mons. Luigi Renna, Arcivescovo di Catania, Presidente del Comitato Organizzatore delle Settimane Sociali, da S.E. Mons. Enrico Trevisi, Vescovo di Trieste, dall’On. Massimiliano Fedriga, Presidente della Regione Friuli Venezia Giulia, da S.E. il Signor Pietro Signoriello, Prefetto di Trieste, dal Signor Roberto Dipiazza, Sindaco di Trieste, e dal Dottor Philippe Donnet, Amministratore Delegato di “Generali”. Quindi il Papa si è trasferito all’interno del Centro Congressi, dove ha incontrato i circa 1.200 Congressisti a conclusione dei lavori della 50ª Settimana Sociale dei Cattolici in Italia. Dopo l’indirizzo di saluto dell’Em.mo Card. Matteo Maria Zuppi e l’introduzione di S.E. Mons. Luigi Renna, il Santo Padre ha pronunciato il Suo discorso. Al termine del discorso, mentre i partecipanti alla Settimana Sociale dei Cattolici in Italia si sono trasferiti a Piazza Unità d’Italia per la celebrazione della Santa Messa, Papa Francesco ha incontrato brevemente alcuni Rappresentanti Ecumenici, il Mondo Accademico e un gruppo di Migranti e Disabili. Pubblichiamo di seguito il discorso che il Papa ha rivolto ai presenti nel corso dell’Incontro: Discorso del Santo Padre Illustri Autorità, cari fratelli Vescovi, Signori Cardinali, fratelli e sorelle, buongiorno

 

BOLLETTINO N. 0556 – 07.07.2024 2 Ringrazio il Cardinale Zuppi e Monsignor Baturi per avermi invitato a condividere con voi questa sessione conclusiva. Saluto Monsignor Renna e il Comitato Scientifico e Organizzatore delle Settimane Sociali. A nome di tutti esprimo gratitudine a Monsignor Trevisi per l’accoglienza della Diocesi di Trieste. La prima volta che ho sentito parlare di Trieste è stato da mio nonno che aveva fatto il ‛14 sul Piave. Lui ci insegnava tante canzoni e una era su Trieste: “Il general Cadorna scrisse alla regina: ‘Se vuol guardare Trieste, che la guardi in cartolina’”. E questa è la prima volta che ho sentito nominare la città. Questa è stata la 50.ma Settimana Sociale. La storia delle “Settimane” si intreccia con la storia dell’Italia, e questo dice già molto: dice di una Chiesa sensibile alle trasformazioni della società e protesa a contribuire al bene comune. Forti di questa esperienza, avete voluto approfondire un tema di grande attualità: “Al cuore della democrazia. Partecipare tra storia e futuro”. Il Beato Giuseppe Toniolo, che ha dato avvio a questa iniziativa nel 1907, affermava che la democrazia si può definire «quell’ordinamento civile nel quale tutte le forze sociali, giuridiche ed economiche, nella pienezza del loro sviluppo gerarchico, cooperano propriamente al bene comune, rifluendo nell’ultimo risultato a prevalente vantaggio delle classi inferiori»[1]. Così diceva Toniolo. Alla luce di questa definizione, è evidente che nel mondo di oggi la democrazia, diciamo la verità, non gode di buona salute. Questo ci interessa e ci preoccupa, perché è in gioco il bene dell’uomo, e niente di ciò che è umano può esserci estraneo[2]. In Italia è maturato l’ordinamento democratico dopo la seconda guerra mondiale, grazie anche al contributo determinante dei cattolici. Si può essere fieri di questa storia, sulla quale ha inciso pure l’esperienza delle Settimane Sociali; e, senza mitizzare il passato, bisogna trarne insegnamento per assumere la responsabilità di costruire qualcosa di buono nel nostro tempo. Questo atteggiamento si ritrova nella Nota pastorale con cui nel 1988 l’Episcopato italiano ha ripristinato le Settimane Sociali. Cito le finalità: «Dare senso all’impegno di tutti per la trasformazione della società; dare attenzione alla gente che resta fuori o ai margini dei processi e dei meccanismi economici vincenti; dare spazio alla solidarietà sociale in tutte le sue forme; dare sostegno al ritorno di un’etica sollecita del bene comune […]; dare significato allo sviluppo del Paese, inteso […] come globale miglioramento della qualità della vita, della convivenza collettiva, della partecipazione democratica, dell’autentica libertà»[3]. Fine citazione.
Questa visione, radicata nella Dottrina Sociale della Chiesa, abbraccia alcune dimensioni dell’impegno cristiano e una lettura evangelica dei fenomeni sociali che non valgono soltanto per il contesto italiano, ma rappresentano un monito per l’intera società umana e per il cammino di tutti i popoli. Infatti, così come la crisi della democrazia è trasversale a diverse realtà e Nazioni, allo stesso modo l’atteggiamento della responsabilità nei confronti delle trasformazioni sociali è una chiamata rivolta a tutti i cristiani, ovunque essi si trovino a vivere e ad operare, in ogni parte del mondo. C’è un’immagine che riassume tutto ciò e che voi avete scelto come simbolo di questo appuntamento: il cuore. A partire da questa immagine, vi propongo due riflessioni per alimentare il percorso futuro. Nella prima possiamo immaginare la crisi della democrazia come un cuore ferito. Ciò che limita la partecipazione è sotto i nostri occhi. Se la costruzione e l’intelligenza mostrano un cuore “infartuato”, devono preoccupare anche le diverse forme di esclusione sociale. Ogni volta che qualcuno è emarginato, tutto il corpo sociale soffre. La cultura dello scarto disegna una città dove non c’è posto per i poveri, i nascituri, le persone fragili, i malati, i bambini, le donne, i giovani, i vecchi. Questo è la cultura dello scarto. Il potere diventa autoreferenziale – è una malattia brutta questa –, incapace di ascolto e di servizio alle persone. Aldo Moro ricordava che «uno Stato non è veramente democratico se non è al servizio dell’uomo, se non ha come fine supremo la dignità, la libertà, l’autonomia della persona umana, se non è rispettoso di quelle formazioni sociali nelle quali la persona umana liberamente si svolge e nelle quali essa integra la propria personalità»[4]. La parola stessa “democrazia” non coincide semplicemente con il voto del popolo; nel frattempo a me preoccupa il numero ridotto della gente che è andata a votare. Cosa significa quello? Non è il voto del popolo solamente, ma esige che si creino le condizioni perché tutti si possano esprimere e possano

BOLLETTINO N. 0556 – 07.07.2024 3 partecipare. E la partecipazione non si improvvisa: si impara da ragazzi, da giovani, e va “allenata”, anche al senso critico rispetto alle tentazioni ideologiche e populistiche. In questa prospettiva, come ho avuto modo di ricordare anni fa visitando il Parlamento Europeo e il Consiglio d’Europa, è importante far emergere «l’apporto che il cristianesimo può fornire oggi allo sviluppo culturale e sociale europeo nell’ambito di una corretta relazione fra religione e società»[5], promuovendo un dialogo fecondo con la comunità civile e con le istituzioni politiche perché, illuminandoci a vicenda e liberandoci dalle scorie dell’ideologia, possiamo avviare una riflessione comune in special modo sui temi legati alla vita umana e alla dignità della persona. Le ideologie sono seduttrici. Qualcuno le comparava a quello che a Hamelin suonava il flauto; seducono, ma ti portano a negarti. A tale scopo rimangono fecondi i principi di solidarietà e sussidiarietà. Infatti un popolo si tiene insieme per i legami che lo costituiscono, e i legami si rafforzano quando ciascuno è valorizzato. Ogni persona ha un valore; ogni persona è importante. La democrazia richiede sempre il passaggio dal parteggiare al partecipare, dal “fare il tifo” al dialogare. «Finché il nostro sistema economico-sociale produrrà ancora una vittima e ci sarà una sola persona scartata, non ci potrà essere la festa della fraternità universale. Una società umana e fraterna è in grado di adoperarsi per assicurare in modo efficiente e stabile che tutti siano accompagnati nel percorso della loro vita, non solo per provvedere ai bisogni primari, ma perché possano dare il meglio di sé, anche se il loro rendimento non sarà il migliore, anche se andranno lentamente, anche se la loro efficienza sarà poco rilevante» [6].Tutti devono sentirsi parte di un progetto di comunità; nessuno deve sentirsi inutile. Certe forme di assistenzialismo che non riconoscono la dignità delle persone … Mi fermo alla parola assistenzialismo. L’assistenzialismo, soltanto così, è nemico della democrazia, è nemico dell’amore al prossimo. E certe forme di assistenzialismo che non riconoscono la dignità delle persone sono ipocrisia sociale. Non dimentichiamo questo. E cosa c’è dietro questo prendere distanze dalla realtà sociale? C’è l’indifferenza, e l’indifferenza è un cancro della democrazia, un non partecipare. La seconda riflessione è un incoraggiamento a partecipare, affinché la democrazia assomigli a un cuore risanato. È questo: a me piace pensare che nella vita sociale è necessario tanto risanare i cuori, risanare i cuori. Un cuore risanato. E per questo occorre esercitare la creatività. Se ci guardiamo attorno, vediamo tanti segni dell’azione dello Spirito Santo nella vita delle famiglie e delle comunità. Persino nei campi dell’economia, della ideologia, della politica, della società. Pensiamo a chi ha fatto spazio all’interno di un’attività economica a persone con disabilità; ai lavoratori che hanno rinunciato a un loro diritto per impedire il licenziamento di altri; alle comunità energetiche rinnovabili che promuovono l’ecologia integrale, facendosi carico anche delle famiglie in povertà energetica; agli amministratori che favoriscono la natalità, il lavoro, la scuola, i servizi educativi, le case accessibili, la mobilità per tutti, l’integrazione dei migranti. Tutte queste cose non entrano in una politica senza partecipazione. Il cuore della politica è fare partecipe. E queste sono le cose che fa la partecipazione, un prendersi cura del tutto; non solo la beneficenza, prendersi cura di questo …, no: del tutto! La fraternità fa fiorire i rapporti sociali; e d’altra parte il prendersi cura gli uni degli altri richiede il coraggio di pensarsi come popolo. Ci vuole coraggio per pensarsi come popolo e non come io o il mio clan, la mia famiglia, i miei amici. Purtroppo questa categoria – “popolo” – spesso è male interpretata e, «potrebbe portare a eliminare la parola stessa “democrazia” (“governo del popolo”). Ciò nonostante, per affermare che la società è di più della mera somma degli individui, è necessario il termine “popolo”»[7], che non è populismo. No, è un’altra cosa: il popolo. In effetti, «è molto difficile progettare qualcosa di grande a lungo termine se non si ottiene che diventi un sogno collettivo» [8]. Una democrazia dal cuore risanato continua a coltivare sogni per il futuro, mette in gioco, chiama al coinvolgimento personale e comunitario. Sognare il futuro. Non avere paura. Non lasciamoci ingannare dalle soluzioni facili. Appassioniamoci invece al bene comune. Ci spetta il compito di non manipolare la parola democrazia né di deformarla con titoli vuoti di contenuto, capaci di giustificare qualsiasi azione. La democrazia non è una scatola vuota, ma è legata ai valori della persona, della fraternità e anche dell’ecologia integrale.

BOLLETTINO N. 0556 – 07.07.2024 4 Come cattolici, in questo orizzonte, non possiamo accontentarci di una fede marginale, o privata. Ciò significa non tanto di essere ascoltati, ma soprattutto avere il coraggio di fare proposte di giustizia e di pace nel dibattito pubblico. Abbiamo qualcosa da dire, ma non per difendere privilegi. No. Dobbiamo essere voce, voce che denuncia e che propone in una società spesso afona e dove troppi non hanno voce. Tanti, tanti non hanno voce. Tanti. Questo è l’amore politico[9], che non si accontenta di curare gli effetti ma cerca di affrontare le cause. Questo è l’amore politico. È una forma di carità che permette alla politica di essere all’altezza delle sue responsabilità e di uscire dalle polarizzazioni, queste polarizzazioni che immiseriscono e non aiutano a capire e affrontare le sfide. A questa carità politica è chiamata tutta la comunità cristiana, nella distinzione dei ministeri e dei carismi. Formiamoci a questo amore, per metterlo in circolo in un mondo che è a corto di passione civile. Dobbiamo riprendere la passione civile, questo, dei grandi politici che noi abbiamo conosciuto. Impariamo sempre più e meglio a camminare insieme come popolo di Dio, per essere lievito di partecipazione in mezzo al popolo di cui facciamo parte. E questa è una cosa importante nel nostro agire politico, anche dei pastori nostri: conoscere il popolo, avvicinarsi al popolo. Un politico può essere come un pastore che va davanti al popolo, in mezzo al popolo e dietro al popolo. Davanti al popolo per segnalare un po’ il cammino; in mezzo al popolo, per avere il fiuto del popolo; dietro al popolo per aiutare i ritardatari. Un politico che non abbia il fiuto del popolo, è un teorico. Gli manca il principale. Giorgio La Pira aveva pensato al protagonismo delle città, che non hanno il potere di fare le guerre ma che ad esse pagano il prezzo più alto. Così immaginava un sistema di “ponti” tra le città del mondo per creare occasioni di unità e di dialogo. Sull’esempio di La Pira, non manchi al laicato cattolico italiano questa capacità “organizzare la speranza”. Questo è un compito vostro, di organizzare. Organizzare anche la pace e i progetti di buona politica che possono nascere dal basso. Perché non rilanciare, sostenere e moltiplicare gli sforzi per una formazione sociale e politica che parta dai giovani? Perché non condividere la ricchezza dell’insegnamento sociale della Chiesa? Possiamo prevedere luoghi di confronto e di dialogo e favorire sinergie per il bene comune. Se il processo sinodale ci ha allenati al discernimento comunitario, l’orizzonte del Giubileo ci veda attivi, pellegrini di speranza, per l’Italia di domani. Da discepoli del Risorto, non smettiamo mai di alimentare la fiducia, certi che il tempo è superiore allo spazio. Non dimentichiamo questo. Tante volte pensiamo che il lavoro politico è prendere spazi: no! È scommettere sul tempo, avviare processi, non prendere luoghi. Il tempo è superiore allo spazio e non dimentichiamo che avviare processi è più saggio di occupare spazi. Io mi raccomando che voi, nella vostra vita sociale, abbiate il coraggio di avviare processi, sempre. È la creatività e anche è la legge della vita. Una donna, quando fa nascere un figlio, incomincia a avviare un processo e lo accompagna. Anche noi nella politica dobbiamo fare lo stesso. Questo è il ruolo della Chiesa: coinvolgere nella speranza, perché senza di essa si amministra il presente ma non si costruisce il futuro. Senza speranza, saremmo amministratori, equilibristi del presente e non profeti e costruttori del futuro. Fratelli e sorelle, vi ringrazio per il vostro impegno. Vi benedico e vi auguro di essere artigiani di democrazia e testimoni contagiosi di partecipazione. E per favore vi chiedo di pregare per me, perché questo lavoro non è facile. Grazie. Adesso, preghiamo insieme e vi darò la benedizione. [Recita del Padre Nostro] _

[1] G. Toniolo, Democrazia cristiana. Concetti e indirizzi, I, Città del Vaticano 1949, 29.

[2] Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 1.

[3] Conferenza Episcopale Italiana, Ripristino e rinnovamento delle Settimane Sociali dei cattolici italiani, 20 novembre 1988, n. 4.

[4] A. Moro, Il fine è l’uomo, Edizioni di Comunità, Roma 2018, 25.

[5] Discorso al Consiglio d’Europa, Strasburgo, 25 novembre 2014 BOLLETTINO N. 0556 – 07.07.2024 5

[6] Lett. enc. Fratelli tutti, 110. [7] Ivi, 157. [8] Ibid. [9] Ivi, 180-182. [01149-IT.02] [Testo originale: Ital

7 Luglio 2024Permalink

5 luglio 2024_ lettera aperta al Presidente Mattarella

Oggetto: Lettera aperta al Presidente Mattarella

Egregio Presidente,

Permetta a una vecchia  cittadina  di esprimere il suo grazie per il discorso  da Lei tenuto in apertura della Settimana sociale dei cattolici italiani,  un evento dal titolo suggestivo  “Al  cuore della democrazia” che nelle sue parola ha il suono di una vitale, universale  utopia.
Voglio che questo mio atto  abbia un carattere pubblico , forse sfacciato, se mai qualche quotidiano pubblicherà la lettera aperta che cercherò di diffondere stimolata da quell’espressione che Lei ha usato senza preconcette riserve  « misurarsi con la storia » e  che  così ha descritto: «La democrazia, … , si invera ogni giorno nella vita delle persone e nel mutuo rispetto delle relazioni sociali, in condizioni storiche mutevoli, senza che questo possa indurre ad atteggiamenti remissivi circa la sua qualità».
Non posso ignorare , perché è esperienza di vita, che la quotidianità delle esperienze di ognuno può essere testimonianza non di frange marginali del vivere, ma di quel cuore della democrazia che rende la nostra vita in ogni momento  non solo,  se possibile,  soddisfacente  ma degna.
A tale proposito voglio ora ricordare che nel 1998 la cd legge Turco Napolitano,  prendendo atto della necessità di dare riconosciuta e non occasionale certezza alla presenza degli immigrati non comunitari,  aveva proposto  il permesso di soggiorno  come documento da esibirsi ove fosse necessario testimoniare la legittimità riconosciuta della loro presenza.
Ma aveva anche  sapientemente identificato le occasioni in cui questo documento non dovesse essere esibito e, fra queste, la registrazione degli atti di nascita, al fine di assicurare senza riserve il diritto universale di ogni nato a un’esistenza giuridicamente riconosciuta-
Purtroppo nel 2009 tutto cambiò: bastò un piccolo articolo , uno fra i tanti, in una legge  che  tratta di tutto e di più che , imponendo la presentazione del permesso di soggiorno anche per la registrazione degli atti di nascita , creò le condizioni perchè la paura di esibirsi irregolare  potesse indurre un genitore non comunitario a sottrarsi al diritto dovere di registrare la nascita di un proprio figlio in Italia.
Per chiarezza ricordo il riferimento: “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica” legge 94/2009  art. 1 comma 22 lettera G.
Credo che testimonianze atroci delle modalità di vita dei migranti non comunitari nei ghetti del lavoro nero  consenta di non sprecare parole per testimoniare la prevedibilità di tale paura.
Una  Sua parola , presidente Mattarella, potrebbe finalmente suggerire  al Parlamento la necessità di tornare al dettato della legge Turco Napolitano.
Come Lei ha detto:  « Al cuore della democrazia vi sono le persone, le relazioni e le comunità a cui esse danno vita, le espressioni civili, sociali, economiche che sono frutto della loro libertà, delle loro aspirazioni, della loro umanità: questo è il cardine della nostra Costituzione ».
Rinnovando i ringraziamenti porgo distinti saluti

Augusta De Piero
Udine

Lettera inviata a Messaggero Veneto

5 Luglio 2024Permalink

29 giugno 2024_ Ho un Sogno 275 _ Nel nome di SATNAM SINGH

NEL NOME DI SATNAM SINGH
Satnam Singh è il bracciante indiano, lavoratore in nero a Latina, gravemente  ferito in seguito a un infortunio sul lavoro e lasciato morire dissanguato.
La sua “irregolarità” ha consentito di inquadrarlo come uno sfruttabile e, nel momento del  dramma, è stato trattato come un “guaio”, un oggetto a perdere, non una persona,
cui sono dovute cure.
Il Presidente Mattarella è intervenuto con parole nette e, se ascoltato, potrà aprire uno spiraglio a favore dei tanti Satnam già presenti e in arrivo. Il primo passo
è stato fatto dal questore di Latina, riconoscendo a Sony, la giovane vedova un permesso di soggiorno per motivi di “protezione speciale”, un atto di giustizia, non
di beneficenza, che, vogliamo essere certi, le consentirà anche di farsi parte civile verso i responsabili dell’orrore.
La giustizia riparativa vorrebbe di più: non permettere che accada ancora.
Per questo, accanto alle manifestazioni di sdegno del momento, serve un sussulto  di umanità e giustizia del legislatore che porti al cambio delle norme, proprio a partire da quelle che regolano l’ingresso dei lavoratori stranieri e per un’attenzione  concreta alle condizioni di lavoro di tutte le persone, a prescindere dalla loro  condizione burocratica che oggi è supporto alla loro invisibilità.

Per sollecitare questo cambio, tutti noi abbiamo la possibilità di contribuire.  E ,se vogliamo farci un’idea più chiara, non mancano le fonti recenti e documentate.
Ne citiamo alcune, a partire dal Dossier curato dalla campagna “Ero Straniero”, che da anni fornisce informazioni sui flussi migratori sulla base di dati ufficiali e
proprio il 30 maggio ha presentato il suo ultimo dossier I veri numeri del decreto flussi: un sistema che continua a creare irregolarità” (https://erostraniero.it/
rapportoflussi2024).
E vogliamo citare ancora:

– Il Rapporto agromafie e caporalato dell’osservatorio Placido Rizzotto della Flai-CGIL (www.fondazionerizzotto.it), con il quale ogni due anni viene fotografata
la situazione del lavoro sfruttato nel settore agroalimentare e il recentissimo Rapporto del laboratorio L’altro Diritto/Osservatorio Placido Rizzotto sullo
sfruttamento lavorativo e sulla protezione delle sue vittime.
– Made in Immigritaly: terre, colture, culture è un rapporto nazionale, curato dal  Centro Studi Confronti (https://confronti.net) e commissionato dalla Fai-Cisl (www.
faicisl.it), che analizza l’apporto del lavoro immigrato nel settore agroalimentare italiano, comparto strategico del

30 Giugno 2024Permalink

29 giugno 2024_ Ho un Sogno n. 275- Quando mancano le parole per dirlo

QUANDO MANCANO LE PAROLE PER DIRLO

A volte non abbiamo parole per descrivere la realtà e ancor meno per immaginare una via d’uscita. Questo è capitato anche alla piccola redazione di Ho un sogno nel doloroso frangente del conflitto israelo-palestinese.  Così ci siamo fatti aiutare dalle parole di  David Grossman e Mahmud Darwish,  scrittori capaci di elaborare una riflessione “alta”, che non si lascia sopraffare dal  dolore che vivono e hanno vissuto .

LA GUERRA CHE NON SI PUÒ VINCERE…

Intitolando così un suo libro pubblicato in Italia nel 2005, David Grossman, ci ricorda che nel conflitto israelo-palestinese – quando in qualche modo si concluderà – non ci saranno né vincitori, né vinti perché nessuna vittoria conquistata in guerra può chiamarsi pace. Alla fine di un conflitto armato tutti sono perdenti

Il prezzo della guerra che non si può vincere mai lo avrebbe pagato lo stesso David Grossman nel 2006  con la morte del figlio Uri, soldato di Israele, ucciso in una attività bellica.
Un “Caduto fuori dal tempo”, che lascia il padre con una domanda: «È morto ad agosto, e quando quel mese finisce io immancabilmente penso: come posso passare a settembre mentre lui rimane in agosto? ».
Lo scrittore decide di non farsi vendicatore, rifiuta di pietrificare la sua vita an che nel  tempo infernale, come per altri è diventato il 7 ottobre 2023, quando un gruppo di terroristi di Hamas ha attaccato cittadini inermi, portando morte e sofferenza. Morte e sofferenza che è andata moltiplicandosi per il popolo palestinese nel suo disperato vagare per sfuggire a bombardamenti cinicamente annunciati.

Ora è importante schierarsi da un’unica parte, quella delle vittime, di tutte le vittime.
Come ci ricorda  Luigi Manconi, «questo è un imperativo morale, ma anche politico, perché indica una direzione, seppur impervia e sdrucciolevole, capace di disinnescare questa terribile spirale di morte, nella prospettiva di una futura soluzione fondata sulla pari dignità e sulla pari tutela dei due soggetti oggi in armi».
Una scelta di campo per le vittime che oggi che deve porsi  come primo obiettivo il cessate il fuoco permanente a Gaza.

…E LE COLOMBE DORMONO IN UN CARRO ARMATO ABBANDONATO

Con questa immagine suggestiva e tragica  il poeta palestinese Maḥmūd Darwīsh, ci introduce alla lettura   del “non luogo” cui sono ridotti coloro che sempre e nonostante tutto credono nella vitalità della pace. Ma neppure la devastazione dell’umana dignità  riesce ad annientare la speranza nella solidarietà.

“Mentre prepari la tua colazione, pensa agli altri,
non dimenticare il cibo delle colombe.

Mentre fai le tue guerre, pensa agli altri,
non dimenticare coloro che chiedono la pace.

Mentre paghi la bolletta dell’acqua, pensa agli altri,
coloro che mungono le nuvole.

Mentre stai per tornare a casa, casa tua, pensa agli altri,
non dimenticare i popoli delle tende.

Mentre dormi contando i pianeti , pensa agli altri,
coloro che non trovano un posto dove dormire.

Mentre liberi te stesso con le metafore, pensa agli altri,
coloro che hanno perso il diritto di esprimersi.

Mentre pensi agli altri, quelli lontani, pensa a te stesso,
e di’: magari fossi una candela in mezzo al buio”.

Mahmoud Darwish era nato nel 1941 nel villaggio di al-Birweh.
I suoi genitori , cacciati dal loro villaggio che fu completamente distrutto,  rientrarono illegalmente in Palestina  e Mahmud fin da bambino si trovò nello status legale di “alieno”, cittadino che risiede come “ospite illegale” nel suo stesso paese.

LA GUERRA NON SARA’ PER SEMPRE

Un poesia di Giuseppe Ungaretti “Pellegrinaggio”, inserita quest’anno  tra i temi della maturità, giunge quanto mai opportuna a ricordarci che quanto l’orrore della guerra sia a noi vicino nel tempo e nello spazio.
Carso, in una trincea fangosa dove il poeta visse  la sesta battaglia dell’Isonzo.

In agguato
in queste budella
di macerie
ore e ore
ho strascicato
la mia carcassa
usata dal fango
come una suola
o come un seme
di spinalba

Ungaretti
uomo di pena
ti basta un’illusione
per farti coraggio

Un riflettore
di là
mette un mare
nella nebbia

30 Giugno 2024Permalink

22 giugno 2024 _ Dal Blog di Giancarla Codrignani- .L’orrore nell’informazione quotidiana

Dal  Blog di Giancarla  Codrignani-       newsletter del 22 giugno 2024
Sintesi della G7 del Presidente Mattarella: “Antichi fantasmi sono riapparsi nel mondo: non siamo qui insieme soltanto per un coordinamento economico, ma per trovare valori comuni”.

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Poi l’episodio che annulla ogni illusione e perfino ogni cinismo politico: la disumanità della mente schiavista e indegna che ha commesso un atto molto peggiore dell’omicidio (ma è stato anche omicidio). Non riesco neppure a descrivere l’oltraggio ad un braccio umano. E la fatica ad uscire dal silenzio dei compagni di lavoro sfruttati che diventavano complici per paura di perdere un lavoro nero. Sono migliaia, sotto caporalato…. Davvero parliamo di diritti?

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Questo ho  trascritto su   Facebook

22 Giugno 2024Permalink

16 giugno 2024 _ Ancora il caso Englaro: una sentenza da non dimenticare

 

A più di 15 anni dalla morte di Eluana Englaro, avvenuta il 9 febbraio nel 2009 a 39 anni, 17 dei quali trascorsi in stato vegetativo irreversibile dopo un gravissimo incidente stradale, la Corte dei Conti ha condannato in appello l’ex direttore generale della Sanità della Lombardia Carlo Lucchina a pagare all’erario circa 175 mila euro che la Regione aveva dovuto risarcire al padre, Beppino Englaro, che era stato costretto a trasferire la figlia in una struttura sanitaria in Friuli dove morì.

Fu una «concezione personale ed etica del diritto alla salute», scrive la Corte dei Conti, a spingere Lucchina a impedire che ad Eluana fosse interrotto il trattamento che la manteneva in stato vegetativo. «Non è stata un’obiezione di coscienza, ma sono state applicate le direttive arrivate anche dell’Avvocatura regionale», ha commentato l’ex dg, che valuterà se ricorrere in Cassazione. Beppino Englaro, che si batté anni e anni per rispettare le volontà della figlia, oggi dice all’ANSA che «sapevo di avere un diritto ed era chiaro che lo ostacolavano, tanto che sono dovuto uscire dalla regione. Ora sono problemi loro, io giustizia me la sono dovuta fare da me, sempre nella legalità e nella società, loro hanno commesso qualcosa che non dovevano commettere. Per me era tutto chiaro anche allora, li ho dovuti ignorare e andare per la mia strada».

Nel 2008, l’anno prima della morte di Eluana, suo padre si era visto negare la possibilità di interrompere l’alimentazione artificiale che teneva in vita la figlia dal dg Lucchina, nonostante nel 2007 la Cassazione avesse stabilito che ciascun individuo può rifiutare le cure alle quali è sottoposto se le ritiene insostenibili e degradanti, e nel 2008 la Corte d’appello di Milano aveva autorizzato l’interruzione del trattamento. Quando Beppino Englaro, in qualità di tutore, chiese la sospensione dell’alimentazione per la figlia, il dg firmò una nota che diceva che le strutture sanitarie si occupano della cura dei pazienti, il che comprende la nutrizione, e di conseguenza i sanitari che l’avessero sospesa sarebbero venuti «meno ai loro obblighi professionali».

Englaro si rivolse al Tar che accolse la sua richiesta, ma la Regione non diede corso alla sentenza e un mese dopo Eluana morì in una struttura di Udine. Per Gilda Sportiello, deputata del M5S, è una «condanna emblematica» mentre protesta Fratelli d’Italia: Ignazio Zullo, capogruppo in commissione Sanità di Palazzo Madama, spiega che la condanna di Lucchina «fa orrore» perché «impedì che ad Eluana Englaro fosse interrotto il trattamento che la manteneva in vita, difendendo il sacro diritto a vivere». «Sono passati quindici anni da quella drammatica vicenda e ancora non c’è una legge che regoli il fine vita», nota il capogruppo del Pd in Regione Lombardia Pierfrancesco Majorino

https://www.msn.com/it-it/notizie/italia/eluana-englaro-condannato-ex-direttore-sanit%C3%A0-in-lombardia-la-tenne-in-vita-per-idee-personali/ar-BB1ny9k0?ocid=msedgdhp&pc=ENTPSP&cvid=20db8e8b53344912984407fdfb201678&ei=10

16 Giugno 2024Permalink