16 luglio 2014 – I bambini obiettivi militari,

Uccidere i bambini. Oggi a Gaza, ieri in Cisgiordania e domani?

Devo alla attenzione di Marco Menin di Verona la segnalazione di un articolo pubblicato su Internazionale che riporto per intero.

L’obiettivo di Israele sono i civili  14 luglio 2014

Lo scopo dell’operazione Margine protettivo è riportare la calma. Il mezzo per raggiungerlo è uccidere civili. Lo slogan della mafia è diventato la politica ufficiale di Israele.

Israele crede davvero che, se uccide centinaia di palestinesi nella Striscia di Gaza, regnerà la calma. Distruggere i depositi di armi di Hamas, che ha dimostrato di sapersi riarmare, è inutile. Abbattere il governo di Hamas è un obiettivo irrealistico (e illegittimo) che Israele non vuole raggiungere, ben sapendo che l’alternativa potrebbe essere molto peggiore. Quindi l’unico scopo possibile di questa operazione militare è questo: morte agli arabi, con il plauso delle masse.

L’esercito israeliano ha già una “mappa del dolore”, un’invenzione diabolica che ha preso il posto della non meno diabolica “banca degli obiettivi”, e questa mappa si sta allargando a ritmi nauseanti. Basta guardare le trasmissioni di Al Jazeera in lingua inglese – una tv equilibrata e professionale, a differenza della sua versione araba – per comprendere la portata del successo. La verità non la vedrete negli studi “aperti” di Israele – aperti, come al solito, soltanto alle vittime israeliane – ma la vedrete tutta intera su Al Jazeera, e forse resterete perfino scioccati.

A Gaza si stanno ammucchiando i cadaveri. È il conteggio disperato, e incessantemente aggiornato, delle uccisioni di massa di cui Israele si vanta, e che a mezzogiorno di sabato scorso già comprendeva decine di civili, compresi 24 bambini, più centinaia di feriti che andavano a sommarsi all’orrore e alla devastazione. Sono già stati bombardati una scuola e un ospedale. Lo scopo è colpire case, e nessuna giustificazione al mondo può bastare: è un crimine di guerra, anche se le forze armate israeliane definiscono questi obiettivi “centri di comando e controllo” o “sale riunioni”.

Fin dalla prima guerra del Libano, cioè da più di trent’anni, uccidere arabi è il principale strumento strategico di Israele. L’esercito israeliano non combatte contro altri eserciti: il suo obiettivo primario sono i civili. Tutti sanno che gli arabi nascono solo per uccidere ed essere uccisi: non hanno altro scopo nella vita, e così Israele li uccide.

Naturalmente, non si può non indignarsi per il modus operandi di Hamas. Non solo punta i suoi razzi contro centri abitati da civili in Israele e si posiziona all’interno di centri abitati (forse non ha alternativa, considerato l’affollamento della Striscia di Gaza): Hamas lascia la popolazione civile di Gaza indifesa di fronte ai brutali attacchi israeliani e non predispone sirene antiaeree, rifugi o spazi protetti. È un comportamento criminale. Ma i bombardamenti dell’aviazione israeliana non sono meno criminali, negli effetti e nelle intenzioni.

Nella Striscia di Gaza non c’è un solo edificio in cui non abitino decine di donne e bambini, quindi l’esercito israeliano non può sostenere di non voler colpire civili innocenti. Se la recente demolizione della casa di un terrorista in Cisgiordania ha ancora suscitato qualche protesta, per quanto flebile, in queste ore si stanno distruggendo decine di case, e con esse i loro abitanti.

Generali a riposo e commentatori in servizio attivo fanno a gara per avanzare la proposta più mostruosa: “Se gli ammazziamo i parenti, si spaventeranno”, ha spiegato senza batter ciglio il generale Oren Shachor. “Dobbiamo creare una situazione tale per cui, quando usciranno dalle loro tane non riconosceranno più Gaza”, ha detto qualcun altro. Senza pudore e senza essere messi in discussione, almeno fino alla prossima inchiesta delle Nazioni Unite.

Le guerre senza scopo sono quelle più spregevoli. Prendere deliberatamente di mira i civili è uno dei mezzi più atroci. Ora il terrore regna anche in Israele, ma è improbabile che anche un solo israeliano possa immaginare cosa significa questa parola per il milione e 800mila abitanti di Gaza, la cui vita, già infelice, ormai è assolutamente raccapricciante. La Striscia di Gaza non è “un nido di vespe”, come è stata chiamata, ma una provincia della disperazione umana. Nonostante le sue strategie del terrore, Hamas è tutt’altro che un esercito. Se è vero, come si va dicendo, che a Gaza Hamas ha scavato una rete tanto sofisticata di tunnel, perché non costruisce anche la metropolitana leggera di Tel Aviv?

La soglia delle mille incursioni e delle mille tonnellate di bombe sganciate è stata quasi raggiunta, e Israele aspetta una “foto della vittoria” che è già stata ottenuta: morte agli arabi.

Traduzione di Marina Astrologo

Il ricordo di Kristen Saada

Quando arrivai a Betlemme nel 2003 restai sconvolta dall’immagine e dalla storia della piccola Kristen Saada (Christine). Conobbi la storia del suo omicidio da un  articolo di Gideon Levy e ne scrissi nel mio diario di allora.
Al mio ritorno a Betlemme due anni dopo  ne riparlai su Peace Reporter e più tardi ancora sul mio diariealtro.

Riporto i link.
it.peacereporter.net/articolo/2841/Cartoline+dalla+Palestina+5
diariealtro.it/?p=511

16 Luglio 2014Permalink

8 giugno 2014 – Mentre guardo i giardini vaticani – 1

Dal mio vecchio blog: diariealtro.altervista.org

3 settembre 2010 – Colloqui (forse) di pace e una segnalazione

I colloqui per la pace in Medio Oriente.

Mentre attendevo di sapere qualche cosa sull’avvio dei colloqui israelo palestinesi a Washington (e riascoltavo la voce di un amico che mi diceva in un momento di sconforto: ‘spero solo in Obama, ma..’) è arrivata la doccia fredda: quattro coloni uccisi da palestinesi (brigate al Aqsa o che altro, non so) e poi altri due feriti.
E si è fatta sentire un’altra voce che in Palestina mi sussurrava con tremore, quasi non volesse farsi sentire: ‘Ogni volta che sembra profilarsi una speranza di pace succede qualche cosa che la blocca’.
A questo punto per capire, forse, o almeno cercar di capire, bisogna andare là dove il primo attentato ha avuto luogo, a Hebron o meglio nelle vicinanze della città presso l’insediamento di Kiryat Arba  dove é sepolto Baruch Goldstein colui che nel 1994, un venerdì di Ramadan, entrò nella moschea che sovrasta le Tombe dei Patriarchi e compì una strage ‘per vendicare l’onore del Dio di Israele’ come lasciò scritto e come probabilmente ricordano coloro che ne visitano la tomba in una specie di pellegrinaggio.
Hebron è la città della Cisgiordania dove gli insediamenti dei coloni si trovano all’interno, attigui –anzi sovrastanti- il nucleo dell’antica città araba le cui stradine sono chiuse in alto da una rete: un tentativo di difendersi dalle immondizie di ogni genere che i coloni gettano dalle loro finestre e che, ammucchiate sulla rete ormai sovraccarica, KF2-2206pendono sulla testa di chi passa.
Entrare in una casa può essere sconvolgente. A me è successo di vedere in una nicchia scavata nell’antico muro di pietra le fotografie di due bambini uccisi un giorno che invece di immondizia era stata tirata una granata.

A scuola con la scorta.

I bambini vanno a scuola scortati: la presenza di stranieri può difenderli da chi li beffa, li insulta, li molesta e, forse, anche da fucili di militari dallo sparo facile, e talvolta efficace (“Uccidere i bambini non è più una faccenda tanto importante”, scriveva nel 2004 Gideon Levy e ne abbiamo parlato anche qui [1]).

Ho conosciuto alcune ragazze che li accompagnavano: facevano parte di un’iniziativa promossa dal Consiglio Ecumenico delle Chiese.
Fra loro –tesissime e angustiate- spiccava per la sua serenità Pandora, una sudafricana resa forte dall’esperienza dell’apartheid subita nel suo paese … ma incontrare un Nelson Mandela é quasi impossibile, ovunque.
La cultura che riesce ad identificare la forza con la pace – di cui sa accettare il prezzo a volte amaro – non è diffusa da nessuna parte.
Il 27 gennaio 2007 in un mio vecchio blog (la prima edizione di Diariealtro) avevo tradotto un articolo di Ha’aretz (che si può leggere da qui nel testo inglese [2]) in cui si riportavano le dichiarazioni a Radio Israele di Yosef Lapid, oggi scomparso ma allora presidente dello Yad Vashem.  Lapid, che aveva perso suo padre nel genocidio nazista ed era poi stato Ministro della Giustizia in Israele, era un sopravvissuto all’Olocausto..hebron
Scriveva Ha’aretz il 20 gennaio 2007 che “gli atti di alcuni coloni di hebron gli riportavano alla mente la persecuzione sofferta dagli Ebrei alla vigilia della seconda guerra mondiale, nel suo paese d’origine, la Jugoslavia” e citava: “Non c’erano forni crematori o pogroms che rendessero amara la nostra vita in diaspora prima che cominciassero ad ammazzarci, ma le persecuzioni, le molestie, il lancio delle pietre, le difficoltà di sostentamento, le intimidazioni, gli sputi e il disprezzo  …Avevo paura di andare a scuola perché i piccoli antisemiti erano soliti tenderci agguati lungo la strada e bastonarci.  Che differenza c’è rispetto ai bambini palestinesi di hebron?”
Centinaia di commenti di lettori di Ha’aretz chiosavano con insulti le parole di Lapid.

L’impopolarità della pace

Volere la pace, quella possibile, quella che conviene e non semplicemente quella proclamata come moto del proprio cuore anche dove le parole –belle e alte- si possono sprecare senza preoccuparsi della loro efficacia, é difficile. Se non espone, come capitò a Lapid, allo stigma sociale, espone alla beffa. ‘Tu sogni’ ci si sente dire dimenticando chi come Luther King morì per un sogno che voleva essere, e in parte fu, efficace.
Il 23 gennaio del 2007, mentre mi sforzavo di tradurre Ha’aretz, moriva il grande giornalista e scritto polacco, Ryszard Kapuscinski

Uno di coloro che lo celebravano nei vari blog citò una poesia che secondo me descrive magnficamente le contraddizioni della volontà di pace:
“Filo spinato
Tu scrivi dell’uomo nel lager
io – del lager nell’uomo
per te il filo spinato è all’esterno
per me si aggroviglia in ciascuno di noi
– Pensi che ci sia tanta differenza?
Sono due facce della stessa pena”.

Due facce della stessa pena

Anche se i media italiani non se ne occupano – e poco se ne occupano anche molti di coloro che dicono di volere la pace – qualche tentativo di incontro fra chi vive dalle due parti in lotta in Medio Oriente c’é.
Qui mi limito a ricordare alcuni siti che propongono iniziative di cui ho parlato in passato:
– Parents circle [3] che in un suo sito in italiano [4] così si presenta:

“Siamo un gruppo di genitori in lutto che desidera impegnarsi per portare la pace fra israeliani e palestinesi. Noi, che abbiamo perso i nostri figli nella guerra fra i due popoli, sosteniamo la pace. Noi, madri e padri, vogliamo arrivare a un accordo fra i due popoli, e desideriamo rafforzare i dirigenti di ambo le parti durante i negoziati”.

– Combatants for peace  [5] è un movimento creato congiuntamente da palestinesi e israeliani che sono stato gli uni soldati dell’esercito israeliano (IDF) e gli altri parte della lotta violenta per la libertà della Palestina

– E poi ci sono coloro che rifiutano di far parte dell’esercito israeliano di stanza in Palestina, una forma di diserzione ‘mirata’ diversa dalla obiezione di coscienza come da noi é stata intesa, i gruppi di israeliani che rendono testimonianza ai check point e tanti altri oscurati da una disinformata informazione

Confronti – Una segnalazione.

Io ho avuto la fortuna di conoscere direttamente parecchie di queste realtà attraverso le iniziative culturali e i viaggi organizzati dalla rivista Confronti, il cui numero di settembre ha un carattere monografico ed è dedicato al ‘dialogo in precario equilibrio’.

.Potrete prenderne visione (c’é anche la possibilità di lettura di qualche articolo) andando al sito del mensile : www.confronti.net.



[1]  http://diariealtro.altervista.org/blog/21-agosto-2010-chi-garantisce-il-diritto-di-esistere/

[3] http://www.theparentscircle.com

[4] http://bau.unical.it/Locandine/semidipace%201%20feb%2006_PARENTS%20CIRCLE.htm

[5] http://cfpeace.org/

 

8 Giugno 2014Permalink

8 dicembre 2012 – Avevo sperato in una politica di pace nel Mediterraneo.

Giorni fa avevo sperato che la scelta dell’Italia di votare a favore della risoluzione delle Nazioni Unite per il riconoscimento della Palestina come stato osservatore dell’ONU aprisse finalmente una fase politica di attenzione al Mediterraneo come luogo di scambio e di pace possibile, da costruire ma possibile.
Ora temo che il risorgente cavaliere, con il suo seguito di alleati che si costruirà via via secondo le alleanze che opportunisticamente stipulerà, troverà di nuovo le modalità per imporci scene come quelle che aveva organizzato con il colonnello Gheddafi a copertura di una sciagurata politica estera.
Do per scontata la vittoria di Berlusconi? Forse no ma certamente una sua presenza parlamentare significativa cui faranno da spalla i seguaci di Grillo.
Alla mia ipotesi di un pessimismo totale offrono sostegno alcune telefonate di Prima Pagina, la lettura delle lettere ai giornali e altri segnali che ho raccolto a modo mio che mi fanno disperare della capacità degli italiani di sapersi assicurare e mantenere un governo decente.
Sperando di aver torto riporto alcuni articoli che avevo raccolto nel momento di speranza per la partecipazione positiva alla decisione dell’ONU.

1 novembre  La coerenza di una svolta di Daniel Barenboim  –  Corriere della sera

Il 29 novembre è una data storica. Il 29 novembre 1947 le Nazioni Unite, con il «Piano di partizione della Palestina», stabilirono la suddivisione della regione in un territorio per gli ebrei e uno per i palestinesi. Fino a quel giorno eravamo tutti «palestinesi»: musulmani, cristiani ed ebrei. La ripartizione del 1947 fu accolta con gioia dagli ebrei di tutto il mondo e rifiutata dal mondo arabo, che considerava la Palestina come una terra propria ed esclusiva. Seguì una guerra, cominciata il giorno dopo la dichiarazione d’indipendenza dello Stato d’Israele, il 14 maggio del 1948.

Il 29 novembre 2012, esattamente 65 anni dopo, i palestinesi hanno chiesto e ottenuto a grande maggioranza il riconoscimento dello status di «Stato osservatore» presso le Nazioni Unite. Questi sono semplicemente i fatti. Un’interpretazione potrebbe essere: hanno avuto bisogno di 65 anni per rendersi conto che Israele è divenuta una realtà innegabile e sono dunque pronti ad accettare il principio della ripartizione del territorio palestinese rifiutato nel 1947?

In questo senso diventa chiaro che la decisione presa ieri dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite deve essere un motivo di soddisfazione anche per lo Stato d’Israele. Non voglio dare lezioni di morale o di strategia politica né agli israeliani né ai palestinesi; però desidero ricordare che se questo conflitto non è stato risolto per molti anni, è forse perché né gli uni né gli altri e nemmeno il resto del mondo, ne hanno colto l’essenza profonda. Il conflitto israelo-palestinese non è un’ostilità politica tra due Stati che si possa risolvere con mezzi diplomatici o militari: un dissidio politico tra due nazioni può riguardare problematiche relative ai confini, al controllo dell’acqua, del petrolio o casi simili.

Questo è prima di tutto un conflitto umano tra due popoli che sono profondamente convinti di avere entrambi il diritto di vivere nello stesso piccolo territorio e preferibilmente in maniera esclusiva. È ora, anche se tardi, di riconoscere il fatto che israeliani e palestinesi hanno la possibilità di vivere o insieme, o uno accanto all’altro, ma non negandosi.

La decisione presa ieri da 138 Paesi è forse l’ultima opportunità per dare vita al progetto di due Stati indipendenti, sicuri, ognuno con un proprio territorio continuo e non frammentato. Forse è il destino o la giustizia del tempo che dà oggi ai palestinesi la possibilità di iniziare un processo verso l’indipendenza in maniera identica a quelli che furono gli esordi dello Stato israeliano. È il momento giusto anche per le riconciliazioni interne, essenziali per risolvere la situazione, a partire da quella tra Hamas e Fatah, riconciliazioni necessarie per avere un’unica posizione e direzione politica.

D’altra parte è un errore pensare, come spesso accade, che sia meglio avere di fronte a sé un nemico diviso; per questo, anche per Israele è meglio che i palestinesi siano politicamente uniti. Sono altresì cosciente che i palestinesi non accetteranno mai una soluzione ideologica al conflitto, perché la loro storia è diversa e dovrebbe essere lo Stato d’Israele a cercare una soluzione pragmatica.

Credo infine che gli ebrei abbiano un diritto storico-religioso di vivere nella regione ma non in forma esclusiva. Dopo la crudeltà europea verso il popolo ebraico nel ventesimo secolo ci sarebbe la necessità di aiutarlo ora con i suoi problemi per il futuro e non solo riconoscendo le responsabilità del passato. Sono commosso dalla quantità di nazioni che hanno votato a favore della risoluzione; mentre mi rattrista la posizione assunta dal governo israeliano, che mi sembra poco lungimirante nel non cogliere le opportunità che si offrono per un futuro migliore, e degli Stati Uniti, l’unico Paese in grado di far pesare la propria influenza.

Mi riempie di felicità che l’Italia, dove trascorro diversi mesi l’anno in qualità di Direttore Musicale del Teatro alla Scala, abbia votato a favore di una speranza per tutti i popoli della regione

Altri due articoli
di cui non riporto il testo ma il titolo e il link che permetterà a chi lo desideri di raggiungerli.e a me di conservarne memoria.

La Repubblica 4 dicembre 2012 Il mondo accetterà sempre meno l’occupazione della Palestina
Intervista di Fabio Sciuto a David Grossman  (qui il link)

La Stampa 26 novembre 2012 Abraham B. Yehoshua. Perché serve un accordo con Hamas (qui il link)

8 Dicembre 2012Permalink

21 novembre 2012 – Un druso per la pace

La notizia che trascrivo è stata diffusa da Marco Menin che a Verona fa un ottimo lavoro di promozione di incontri fra giovani israeliani e palestinesi in collegamento con l’iniziativa Fiori di pace. E fa molte altre cose ….

Omar Saad, un giovane musicista di al-Mughar – un villaggio in Galilea – ha ricevuto una lettera di arruolamento nell’esercito israeliano. Sì, perché a differenza degli altri palestinesi, i drusi hanno l’obbligo – pena il carcere – di prestare il servizio militare (dopo che, nel 1956, la legge sulla coscrizione obbligatoria è stata resa applicabile anche a questa categoria di persone). Recenti ricerche hanno dimostrato che circa i due terzi della popolazione drusa in Israele preferirebbe non prendere le armi, se ne avesse la possibilità. Omar è uno di loro; nella lettera seguente, inviata al ministro della Difesa israeliano Ehud Barak, spiega le proprie motivazioni (qui il sito di supporto a Omar). Traduzione di Valerio Evangelista

Gentile Ministro della Difesa di Israele,
Io sono Omar Zahr Al-deen Saad, dal villaggio di al-Maghar, Galilea.
Ho ricevuto l’ordine di presentarmi il prossimo 31 ottobre all’ufficio arruolamento dell’esercito, a norma dell’obbligo di coscrizione per la comunità drusa; a proposito di ciò vorrei chiarire alcune cose:
• Rifiuto di presentarmi all’ufficio arruolamento perché non accetto la legge che prevede l’arruolamento obbligatorio per la comunità drusa;
• Lo rifiuto perché sono un pacifista e odio ogni tipo di violenza e perché credo che questo esercito sia basato sulla violenza fisica e psicologica. Da quando ho ricevuto l’ordine di iniziare le procedure per l’arruolamento la mia vita è cambiata completamente. Sono diventato molto nervoso e con una grande confusione in testa. Mi sono figurato in mente molte situazioni dure e non riesco a immaginarmi con l’uniforme addosso che contribuisco alla repressione che Israele compie verso il popolo palestinese e non combatterò i miei fratelli arabi e le mie sorelle arabe;
• Rifiuto di diventare un soldato israeliano o di andarmi ad arruolare, anche in qualsiasi altro esercito, per ragioni morali e nazionaliste;
• Odio l’ingiustizia, la disuguaglianza, l’occupazione e odio il razzismo e le restrizioni sulla libertà;
• Odio chi arresta bambini, uomini e donne.
Sono un suonatore di viola, ho suonato in molti posti e ho amici musicisti da Ramallah, Gerico, Gerusalemme, Hebron, Nablus, Jenin, Shafa’amr, Elaboun, Roma, Atene, Amman, Beirut, Damasco, Oslo ed tutti noi suoniamo i nostri strumenti per la libertà, umanità e pace. La nostra arma è la musica.
Faccio parte di un gruppo religioso che è stato, e continua a esserlo tutt’ora, oppresso. Quindi… come posso combattere contro la mia famiglia, i miei fratelli e le mie sorelle in Palestina, Siria, Giordania e Libano? Come posso imbracciare un’arma contro i miei fratelli e le mie sorelle in Palestina? Come posso lavorare come soldato al check-point di Qalandiya o in qualsiasi altro posto di blocco? Io sono una di quelle persone che ha subito l’ingiustizia nei check-point e nei posti di blocco. Come posso impedire a un mio fratello di Ramallah di visitare la sua casa a Gerusalemme? Come posso fare la guardia al muro dell’apartheid? Come posso fare da carceriere contro il mio popolo? E so che i detenuti (palestinesi, ndt) nelle carceri israeliane sono combattenti della libertà.
Suono per divertimento, per la libertà e per quella pace giusta che si basa sul fermare gli insediamenti e l’occupazione israeliana della Palestina. Quella pace giusta che si basa sull’istituzione di uno stato palestinese indipendente che abbia Gerusalemme come capitale, sulla scarcerazione dei detenuti e sul il ritorno in patria di tutti i rifugiati.
Molti dei nostri giovani hanno prestato servizio nell’esercito israeliano, ma cosa hanno ottenuto? Sono forse speciali? I nostri villaggi sono quelli più poveri, le nostre terre sono state espropriate e lo sono rimaste tutt’ora; non ci sono mappe strutturate né aree industriali. Il numero di laureati nei nostri villaggi è il più basso della regione e il tasso di disoccupazione tra i più alti.
Per quest’anno ho intenzione di continuare il liceo con la prospettiva di poter andare all’università. Sono certo che lei farà di tutto per fermare la mia umana ambizione, ma l’ho dichiarato a voce alta: “Sono Omar Zahr Al-deen Mohammad Saad, non sarò la benzina che incendierà la sua guerra e non sarò un soldato del vostro esercito”.
Firmato: Omar Saad
http://supportomar.weebly.com/

21 Novembre 2012Permalink

20 novembre 2011 . Occhi e voci di donne

Mentre a Gaza infuria l’orrore voglio segnalare due testi (una lettera e un articolo) pubblicati su facebook da Lucia Cuocci, giornalista che  lavora presso Protestantesimo Raidue.
Per la conoscenza che Lucia ha della situazione israelo palestinese e le sue relazioni con persone nei Territori Palestinesi e nello stato di Israele considero più che affidabile quanto ci segnala e mi piace trasferire i due testi delle donne israeliane che si discostano da molto di ciò che ci viene normalmente offerto dai mezzi di informazione.
 

La lettera di Ruth Garribba 

Grazie a tutti gli amici che ci chiedono come stiamo, che si preoccupano per noi, che ci pensano… Arianna Giorgi, Letizia Tabarrini, Ingeborg Miotti e tanti altri cari amici. Noi stiamo bene, qui nel nord non c’è la guerra, ma vivere in un paese che conosce solo il confronto militare come soluzione dei problemi e’ deprimente, nauseante, terribile. Da molti, troppi anni il processo di pace non viene portato avanti, anzi il governo cerca in tutti i modi di distruggere quel poco che è sopravvissuto di Oslo. Dal 1999 ad oggi ci sono state 5 tornate elettorali – tutte accompagnate pochi mesi prima da un’ impresa militare. Anche questa volta siamo alla vigilia delle elezioni. La destra ci guadagna sempre a fomentare il nazionalismo estremista e l’ odio per il nemico che poi alla fine il nemico è anche chiunque si dichiari contro la guerra, come me.
Come se non bastassero le rivalità politiche della campagna elettorale, ogni “giro” di guerra permette alla violenza (mal repressa) di popoli che vengono alimentati a forza di odio di tirare fuori il peggio di sé, senza nessuna remore – quello che si vede e si sente su facebook, in televisione, sui giornali, è la voce del popolo assetata di sangue. Ovviamente non sono l’ unica a pensarla in un altro modo, e se c’è qualcosa di confortante il questo giro di guerra rispetto ai precedenti, sta nel fatto che anche se flebilmente si sente chi dice che la guerra non risolve nessun problema, che bisogna a tutti costi dialogare, la vera calma si raggiungerà con la pace e non con un confronto armato i cui patti dureranno fino a quando le due parti in conflitto non si saranno armati a sufficienza per dare via al prossimo giro di violenza. Ieri c’è stata una manifestazione di palestinesi e israeliani contro la guerra a Bet Jalla, vicino a Gerusalemme. Anche e Haifa arabi ed ebrei hanno manifestato insieme contro la violenza delle due parti e in solidarietà alle vittime delle due parti. Anche io, per fortuna, posso vivere la solidarietà di arabi ed ebrei contro la guerra e a favore di una soluzione pacifica del conflitto, nel centro in cui lavoro – Il centro di educazione umanistica.
Ghershon Baskin e’ una persona molto seria, non uno di quei pacifisti che non sanno cosa dicono e tanto meno cosa facciano. Ha fondato anni fa un organizzazione di ricerca e di sviluppo di israeliani e palestinesi, che per molti anni ha diretto insieme ad un palestinese. IPCRI si chiama l’ organizzazione, cercateli nel web, si occupano di sviluppo economico, di ricerca, di educazione alla pace. Ghershon Baskin, non li sapevamo, ma ha tenuto i contatti con i dirigenti di Hamas che hanno portato alla liberazione del soldato Ghilad Shalit. Dopo la liberazione di Shalit, ha continuato a mantenere gli stessi contatti, nella speranza di poter promuovere un dialogo che porti ad un accordo tra Hamas e Israele. Baskin era in contatto con Giabari, il capo militare di Hamas che è stato ucciso dall’ esercito israeliano la scorsa settimana, e il giorno in cui e’ stato ucciso aveva ricevuto da Baskin una proposta accordo tra Hamas e Israele. Ovviamente Baskin non lavorava da free- lance, il governo e gli ali ranghi dell’ esercito erano a conoscenza del suo lavoro.
Eppure la logica militare, dalla parte israeliana come da quella palestinese, ha avuto il sopravvento ancora una volta.
C’è sempre più gente che capisce che questa logica soffoca ogni possibilita’ di trattare problemi sociali acuti della societa’ israeliana, che questa logica non da’ vera tranquillità a chi vive vicino a Gaza, che questa logica comporta essenzialmente una deumanizzazione della società in generale, e di chi viene mandato a combattere in particolare. La funzione elettorale di queste guerre e’ ormai chiaro a molti. Ovviamente per ballare questo tango c’e’ bisogno di due ballerini, Hamas e il governo di Netaniahu sono una coppia affiatatissima, spietati nei confronti dei nemici – moltissimi civili – e spietati non meno nei confronti del “loro” popolo.

Un articolo di Manuela Dviri   19 NOVEMBRE 2012

 Se anche i bambini usano le parole di guerra
A Gaza come a Tel Aviv i piccoli stanno imparando parole che non dovrebbero mai conoscere: «allarme», «missile», «rifugio», «stanza sicura»

Un amico con il quale lavoro da anni nell’ambito di un progetto sanitario per la cura di bambini palestinesi, mi telefona da Gaza per sapere se sto bene, se il missile che è esploso a Tel Aviv ha creato danni, se ho preso paura quando ha suonato l’allarme.

Rispondo che per fortuna non ci sono stati danni, che il missile è caduto in mare, intercettato in aria dal sistema di difesa «cupola di ferro», che non ho paura, che sono a casa, che da una settimana sto lavorando a un nuovo libro, un giallo, e che comunque non ho rifugio in cui andare perchè nella mia palazzina Bauhaus, qui a Tel Aviv, il rifugio non c’è.

Lui mi racconta di un’altra palazzina, quella in cui abitava la famiglia Aldalu, a Gaza City. Dice che ne resta solo un enorme cratere. Che delle 13 persone che vi abitavano non è rimasto più niente, tutti uccisi dal missile israeliano che ha centrato in pieno la loro casa. Mi parla delle decine di persone del quartiere che hanno cercato a lungo di scavare tra le macerie nella speranza che fosse rimasto vivo qualcuno e invece hanno trovato solo i corpi senza vita di quattro donne, un uomo anziano e sei bambini. Due intere famiglie.

Non so che dirgli. Non c’è nulla da dire. Tranne che mi dispiace. Che non è giusto. Che non provo quasi più rabbia, solo nausea. Che la violenza mi fa male. Male al cuore, male all’anima, male, male, male. Che mi fa male come israeliana, come ebrea, come donna, come madre di tre figli e nonna di sette nipoti e sopratutto come essere umano.

Che vorrei che le due parti la smettessero di colpirsi come pugili in un ring, entrambi pesti e sanguinanti a tirarsi pugni sperando inutilmente di mettere l’altro k.o. per potere finalmente annunciare la vittoria che mai ci sarà, come Robert De Niro e Sugar Ray Robinson in «Toro Scatenato».

Gli ho raccontato dei miei nipoti, che stanno imparando, per la prima volta nella loro vita, il significato delle parole «allarme», «missile», «rifugio», «stanza sicura». Poi è caduta la linea. Sono tornata al mio giallo. Improvvisamente hanno iniziato a suonare le sirene, sono andata alla finestra per vedere cosa stava succedendo (sarebbe proibitissimo) e ho capito che l’allarme non proveniva da fuori, che era la tivù che mandava in onda un allarme ad Asdod o ad Ashkelon. Dev’essere caduto un razzo nel cortile di una scuola, che per fortuna era chiusa.

Subito dopo hanno ricominciato a parlare i soliti esperti che ormai da una settimana sembrano vivere all’interno degli studi televisivi, tutti maschi, tutti ex (o futuri) capi di Stato Maggiore, generali, colonnelli, capitani. O politici. Ho spento la televisione. E mi son seduta ad attendere il mio missile quotidiano (ieri erano due). Speriamo di no.

(19/11/2012 13:00) 

PROMEMORIA

REGIO DECRETO LEGGE n. 1728 17 Novembre 1938
Provvedimenti per la difesa della razza italiana

REGIO DECRETO LEGGE n. 1779 15 Settembre 1938
Integrazione e coordinamento in testo unico elle norme già emanate per la difesa della razza nella scuola italiana

20 Novembre 2012Permalink

5 novembre 2012 – Jewish for peace

Volevo scrivere una nota ancora a proposito di minori (lo farò nei prossimi giorni): Ora ritengo urgente riportare la notizia che ho tratto dal n. 40 di Adista notizie e che potrete raggiungere anche da qui.

CRISTIANI ED EBREI CONTRO L’ALLEANZA MILITARE USA-ISRAELE: È UN OSTACOLO ALLA PACE

36917. WASHINGTON-ADISTA. Il sostegno militare incondizionato a Israele è l’ostacolo principale a una pace giusta e duratura nella regione e quindi anche alla tanto sbandierata sicurezza di cui il governo di Netanyahu ammanta ogni sua decisione. Ha spiegato così l’organizzazione pacifista ebraica Jewish voice for peace, la decisione di sostenere l’iniziativa dei 15 leader cristiani statunitensi che, in una lettera del 5 ottobre scorso, avevano invitato i membri del Congresso a riconsiderare gli aiuti militari forniti a Israele che, scrivevano, hanno alimentato il conflitto e minato le speranze di sicurezza a lungo termine dell’una come dell’altra parte (v. Adista Notizie n. 39/12).

Un’iniziativa che non era piaciuta a una consistente fetta del mondo ebraico statunitense, al punto da indurre il Jewish Council for Public Affairs e altre sei organizzazioni ebraiche (tra cui l’American Jewish Committee e il Central Conference of American Rabbis) a cancellare l’incontro della tavola rotonda ebraico-cristiana sul dialogo interreligioso – che si tiene dal 2004 – che di lì a poco avrebbe dovuto avere luogo.

«Come i nostri colleghi cristiani – si legge nel documento firmato dal Consiglio rabbinico del Jewish for peace – siamo turbati dalle violazioni dei diritti umani commesse da Israele ai danni dei civili palestinesi, molte delle quali attraverso l’uso improprio di armi statunitensi». «In questa fase di recessione economica, il Congresso ha messo sotto la lente d’ingrandimento tutti i programmi di assistenza nazionale, compresi quelli riguardanti la sicurezza sociale, per assicurarsi che siano a norma di legge. Perché il sostegno militare a Israele deve essere esentato da questo controllo?». «Mentre qualcuno potrebbe pensare che pretendere che l’assistenza a Israele rispetti determinati criteri possa comprometterne la sicurezza, noi crediamo l’esatto opposto. Come primo alleato di Israele, gli Stati Uniti sono in grado di creare la leva che potrebbe indurre Israele a mettere fine a quelle politiche che impediscono una pace giusta tra israeliani e palestinesi».

«Siamo sconvolti dal fatto – prosegue il Jewish voice for peace, invitando a firmare una petizione di solidarietà ai 15 leader cristiani – che diverse organizzazioni ebraiche hanno cinicamente attaccato questo appello» e «siamo profondamente costernati dalla cancellazione dell’incontro ebraico-cristiano. Crediamo che azioni come queste siano contrarie allo spirito e alla missione del dialogo interreligioso. Un vero dialogo deve esserci non solo su questioni sulle cui entrambe le parti sono d’accordo ma proprio là dove c’è disaccordo e divergenza d’opinione».

Ma evidentemente, come ha rilevato il rabbi Brant Rosen (Jewish Telegraphic Agency, 23/10), che figura tra i firmatari del documento, «c’è stato per lungo tempo un patto non scritto tra l’establishment ebraico e i leader cristiani in materia di dialogo interreligioso: “Possiamo parlare di qualsiasi questione religiosa, ma le critiche sulle violazioni dei diritti umani da parte di Israele sono off limits”». «Perché l’establishment ebraico ha reagito così violentemente a un appello relativamente equilibrato? Perché, parlando a partire dalla propria coscienza, questi leader cristiani hanno avuto l’audacia di rompere questo patto non scritto». «Non è compito delle organizzazioni ebraiche stabilire come i loro partner cristiani debbano vivere la propria coscienza o i propri valori, non importa quanto possano essere in disaccordo. Realtà spiacevoli non possono essere scartate solo perché queste organizzazioni considerano tali questioni off limits. Possiamo solo sperare – conclude il Jewish for peace – che questi leader cristiani restino sulle loro posizioni e che questo triste episodio ci conduca verso un nuovo patto interreligioso, basato sulla fiducia e il rispetto». «L’establishment ebraico statunitense sarà all’altezza di questo compito?».

Jewish voice for peace non è l’unica organizzazione statunitense di stampo religioso ad aver preso parola in questi giorni per difendere l’iniziativa dei 15 leader cristiani. Anche il movimento di cristiani Kairos Usa (nato nel solco tracciato dal documento Kairos Palestina, v. Adista Documenti n. 6/10) ha espresso la propria solidarietà ai 15 invitando a sottoscrivere e inviare al proprio rappresentante al Congresso una lettera che sollecita a prendere seriamente in considerazione la proposta di rivedere gli aiuti militari a Israele (www.kairosusa.org). (ingrid colanicchia)

 

5 Novembre 2012Permalink

21 ottobre 2011 – Rileggendo diariealtro

La morte di Gheddafi
Le immagini atroci dell’uomo rifugiato in un scarico fognario, preso e, vivo o morto che fosse, calpestato e trascinato a terra assumono, per me, un forte valore simbolico.
Per quanti amici di Gheddafi, che ora probabilmente si sentiranno rassicurati dalla scomparsa del colonello che forse conosceva anche loro non confessabili segreti, quel buco fetido sarebbe, almeno simbolicamente, un adatto rifugio?
Un ex ambasciatore – ora rispettato editorialista- oggi ha scritto su Il Corriere della sera un articolo con un passaggio molto interessante. Quando il colonnello prese il potere: l’identità nazionale libica era molto più labile delle identità nazionali dell’Egitto, del Marocco, dell’Algeria e della Tunisia. <…>La Libia era una creazione artificiale del colonialismo italiano, uno Stato composto da due territori (la Tripolitania e la Cirenaica) che avevano avuto storie diverse, popolato da tribù che avevano interessi contrastanti, abitato da circa due milioni di persone (tanti erano i libici quando Gheddafi conquistò il potere), sparse su un enorme territorio prevalentemente desertico”.
Una identità artificiale, nata dalla decadenza dell’impero ottomano, costruita contro qualcuno … a me viene in mente la Padania con tutti i nefasti ‘contro’ via via esibiti: meridionali, zingari, stranieri …
Costruire contro è facile. Aiuta a non guardare se stessi, a imprecare o piatire, secondo i gusti, a non costruire nulla e, quando ciò torna utile, a distruggere.
E non si distruggono solo cose ma anche i riferimenti di civiltà faticosamente definiti.
Comunque chi volesse, al di là delle mie elucubrazioni, leggere l’intero articolo di Sergio Romano, può farlo anche da qui.

Il ritorno di Shalit
Quando ho saputo del rientro a seguito di trattativa del soldato Shalit, prigioniero da cinque anni di Hamas a Gaza, mi sono detta che – al di là della gioia per quel ragazzo e per i più di mille palestinesi che tornano a casa- Netanyahu aveva trovato il mezzo – opportunistico e cinico, al di là dell’umanitaria copertura – per umiliare al Fatah e renderlo poco credibile davanti all’occidente e agli stessi palestinesi, dopo che Abu Mazen era riuscito a portare, sia pur per ora senza successo, la questione palestinese alle Nazioni Unite.
Quando ho letto su Repubblica del 19 ottobre un articolo di Lucio Caracciolo intitolato “Lo sconfitto è Abu Mazen” mi sono sentita molto confortata nella mia opinione.
L’articolo è molto circostanziato, merita di essere letto e potete farlo anche da qui.
Però ho poi trovato su Il Manifesto del 20 0ttobre, un articolo di Zwi Schuldiner, un anziano professore universitario e giornalista israeliano che stimo molto.
Scrive problematicamente Schuldiner: Netanyahu si è aggiudicato una vittoria di cui aveva un gran bisogno dentro il paese, in quanto essa farà dimenticare – almeno per un po’ – le proteste sociali e la paralisi dei negoziati con i palestinesi. I pessimisti temono che l’improvvisa popolarità del premier gli consentirà di sferrare un attacco militare all’Iran e questo – un progetto demenziale che metterebbe a rischio il futuro stesso di Israele – sarebbe possibile con il via libera Usa.
Però è possibile anche una versione più ottimista. In Israele si sta levando qualche voce a sostegno della logica dell’accordo che ha portato alla liberazione di Shalit: volente o nolente Netanyahu ha negoziato, sia pure in forma indiretta, con Hamas ed è arrivato il tempo di capire che il movimento islamico può essere un partner per negoziati più generali”.
Lascio anche il testo dell’articolo di Schuldiner alla lettura di chi fosse interessato.

21 Ottobre 2011Permalink

10 agosto 2011 – da La voce degli Ebrei per la pace

 Propongo il testo di una lettera che ho ricevuto e tradotto. Ringrazio Laura N.  per la revisione della mia traduzione e rinvio alle fonti tramite i link inseriti.

Non è troppo tardi. Israeliani e Palestinesi: Due popoli  – un futuro

Questa volta gli Stati Uniti sapranno fare la cosa giusta al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite?
Il governo degli Stati Uniti sosterrà un fondamentale atto di giustizia invece di porre nuovamente il veto al voto delle Nazioni Unite in favore dei diritti umani dei Palestinesi?
I Palestinesi hanno sottoposto il loro caso all’esame delle Nazioni Unite per il prossimo settembre  – non perché vogliano creare immediatamente un possibile stato palestinese o porre fine all’occupazione – ma perché quel voto potrebbe dar forza alla loro richiesta di libertà e uguaglianza.

Ecco parchè il mondo intero aspetterà il prossimo autunno: noi sappiamo che è finalmente giunto il momento.
Gli Stati Uniti hanno già annunciato che si opporranno di nuovo , in coerenza con la loro  tradizione politica, e hanno minacciato di far uso del potere di veto se si dovesse  votare al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
Se dessero seguito alla loro minaccia , sarebbe il 42mo veto in quaranta anni opposto dagli Stati Uniti al sostegno dei diritti umani dei Palestinesi.
E’ per questo che vi chiedo di unirvi a me e a quasi altre 20.000 persone (fino ad ora) per dire al Segretario di Stato Hillary Clinton e all’ambasciatore Rice che è tempo che gli Stati Uniti votino SI’ per l’autodeterminazione dei Palestinesi.

Gli Stati Uniti e Israele dicono invece di volere che i Palestinesi ritornino al tavolo dei negoziati.
Ma tu ed io sappiamo che i colloqui di pace sostenuti dagli Stati Uniti sono a un vicolo cieco e che gli  insediamenti sono  aumentati non diminuiti.
Noi dobbiamo dire agli Stati Uniti che è il momento di realizzare la strada per una  pace duratura sia per gli Israeliani che per i Palestinesi.
Pensiamo che cambieranno e alla fine faranno la cosa giusta? Probabilmente no.
Ma questa volta non possono farlo nascostamente. Non glielo permetteremo
Nei prossimi giorni la campagna statunitense per la fine dell’occupazione, un’ampia coalizione di organizzazioni per la pace e la giustizia consegneranno la tua firma e molte altre al Dipartimento di Stato degli USA.

E’ venuto il tempo di dirigere  il corso della storia verso la giustizia, la libertà e l’uguaglianza.
Quasi tutto il mondo vuole una giusta risoluzione che dia libertà e sicurezza ai Palestinesi e agli Israeliani. Il governo deli Stati Uniti sceglierà la libertà e l’indipendenza per i palestinesi o una ancor maggiore occupazione?

Per la libertà
Cecilie Surasky, Deputy Director della Voce degli Ebrei per la Pace.

Per una più completa spiegazione dell’opinione della Voce degli Ebrei per la Pace (JVP) sul voto di settembre alle Nazioni Unite leggi l’analisi del Prof Joel Beinin dell’Università di Stanford.

Un articolo di David Grossman

Il 6 agosto 2011 Repubblica ha pubblicato un articolo di David Grossman con il titolo C’ è un popolo che scuote le nostre coscienze.
Chi lo volesse leggere può farlo usando il link che ho inserito

Tempo fa ho letto su La Stampa un articolo dello scrittore Yehoshua dello stesso tenore.
Sarebbe molto interessante se le realtà associative che si occupano anche in Italia dello stato di Israele e dei diritti del popolo palestinese sapessero collegarsi alle indicazioni proposte da questi protagonisti della società civile che, pur con non troppo successo d’opinione, sanno considerare una situazione complessa senza manicheismi e con prospettive importanti da conoscere e utili da confrontare.
A Udine purtroppo non trovo alcun luogo in cui ciò sia possibile.

10 Agosto 2011Permalink

17 ottobre 2010 – Un giornalista ebreo, cittadino di Israele.

Israele. Il progetto dello stato «puro»di Zvi Schuldiner – 15/10/2010    

L’intenso dibattito delle ultime settimane sulla ripresa delle costruzioni nelle colonie ebraiche nei territori occupati palestinesi ha coperto i veri problemi che Israele affronta, che tormentano la sua società e mettono in pericolo il suo futuro ben più delle presunte minacce del terrorismo musulmano o palestinese.

Oggi appare chiaro che il governo israeliano non ha un reale interesse in un processo di pace che metta fine al neocolonialismo cominciato nel 1967. Oggi quel colonialismo arriva al culmine con chiari elementi fascisti, antidemocratici e fondamentalisti religiosi. La richiesta israeliana circa il riconoscimento dello «stato ebraico» non si riferisce tanto a Israele, come stato, ma è il frutto di uno disegno razzista che nega la realtà e la presenza di un 20% dei suoi cittadini non ebrei. Non è più una democrazia, nel migliore dei casi sarebbe una etnocrazia.
Le richieste negoziali non fanno che scoprire il vero disegno del governo israeliano: il lebensraum tedesco, il concetto di «territorio vitale» essenziale, la colonizzazione espansionista, sono preferibili a concessioni territoriali. Tutto il dibattito sulla costruzione di colonie è solo la trappola in cui cadono gli attori che mancano di riferimenti chiari.

La pace con Egitto e Giordania è stata una chiara accettazione dell’esistenza dello stato di Israele, e in nessuno dei due casi si discusse del carattere ebraico dello stato, perché tutti, israeliani inclusi, erano coscienti del fatto che Israele non era uno stato confessionale e vi abitavano anche cittadini non ebrei. Ancora di più: prevaleva ancora tra gli israeliani l’idea che il popolo ebraico non è definibile solo in termini religiosi, che essere ebreo – un dibattito non risolto a tutt’oggi neppure tra gli ebrei – non può basarsi solo su determinate concezioni religiose.
A partire dal 1988 i palestinesi hanno annunciato il riconoscimento del diritto all’esistenza di Israele, senza addentrarsi nella «questione ebraica». Quando oggi si agita questa questione, il significato è duplice: sia rendere impossibili i negoziati, sia anche aprire la questione di una «purificazione» necessaria dello stato di Israele.

Il ministro degli esteri Avigdor Lieberman lo ha detto in modo chiaro: è disposto ad accettare la formula dei due stati, con uno scambio di territori – ovvero, che la parte di Israele popolata in maggioranza da palestinese israeliani sia trasferita al futuro stato palestinese in cambio dell’annessione dei territori predominantemente colonizzati dopo il 1967. per dirla ancora più chiaramente: l’idea dell’espulsione dei cittadini palestinesi di Israele non è più solo patrimonio di gruppi neonazisti come quello del defunto rabbino Kahane. Ora è accettabile anche per un partito estremista che è il pivot centrale della coalizione di Benyamin Netaniahu. «Capite, comprendetemi, io Netaniahu sono disponibile ai due stati, ai negoziati, alla pace che tutti noi ebrei vogliamo, ma ho una coalizione che punta i piedi e devo tener conto dei miei associati…». Questo manda a dire il premier israeliano, ma questo è falso: la decisione adottata questa settimana in materia di acquisizione della cittadinanza rivela la verità. Lieberman è l’alibi brutale di ciò che Netaniahu persegue con delicatezza.

Chi sono i candidati ad acquisire la cittadinanza israeliana che dovranno prestare il nuovo giuramento di fedeltà? L’ultranazionalista ministro della giustizia ha proposto che il nuovo giuramento sia destinato a tutti, ma per il momento non è così e l’ipocrisia razzista si svela: i destinatari sono gli arabi (molto pochi, per la verità) che sposino palestinesi israeliani. Sono loro che dovranno giurare fedeltà a Israele come «stato ebraico».

E’ vero che in molti paesi l’acquisizione della cittadinanza è accompagnata da un giuramento di fedeltà allo stato e alle sue leggi. Ma non si tratta di un giuramento riferito a una determinata confessione religiosa. Si giura fedeltà alla Francia o al Canada o agli Stati uniti, non al cattolicesimo o qualunque altra confessione.

Lieberman e i suoi adepti riflettono oggi idee maggioritarie nella società israeliana: il giuramento di fedeltà in fondo è destinato agli infedeli, o chi è sospettato di fedeltà dubbie. Invece di chiedersi se lo stato è fedele ai suoi cittadini – tutti i suoi cittadini – gli israeliani ora cominciano la caccia agli infedeli e i loro soci.

Nell’ultimo anno abbiamo assistito in Israele a una continua aggressione alle norme democratiche. E come succede sempre in questi casi il maccartismo, gli attacchi fascisti non si limitano ai cittadini palestinesi israeliani: l’aggressione alle università libere e alle organizzazioni impegnate nella lotta a favore dei diritti umani e politici è diventata norma accettabile anche per i membri del governo.

Alcuni ministri del Likud si sono pronunciati contro la nuova regolamentazione della cittadinanza. Sono una minoranza che resta fedele a certi concetti liberali che erano parte del patrimonio ideologico della destra. Ma sono una minoranza che oggi si arrende al razzismo fascista che comincia a dominare ampi settori della società israeliana.
Sul piano internazionale, purtroppo il razzismo antimusulmano dominante in Europa aiuta a rendere accettabile il razzismo israeliano, e gli esempi europei non fanno che aiutare gli elementi fascisti e fondamentalisti in Israele.

Un processo di pace reale vorrebbe dire per Israele cancellare le acquisizioni territoriali del 1967: il disegno colonialista quindi ha bisogno di mettere ostacoli a l negoziato, e per continuare su questa linea di uno stato sleale con i suoi cittadini, in particolare palestinesi, aumenta la pressione fascista.
E’ tragico per il popolo ebraico: oggi in nome dell’ebraismo il governo israeliano si lancia in politiche che farebbero l’orgoglio dei peggiori nemici del popolo ebraico. Il giuramento di lealtà è un ulteriore passo su una linea suicida che non farà danno solo ai palestinese ma porterà gli stessi israeliani a svolte tragiche.

P.S.: Non sono riuscita a risalire all’articolo attraverso il sito on line de Il Manifesto. 
     Ho insistito e ho trovato il link utile che trascrivo. http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=35102

16 Ottobre 2010Permalink

21 agosto 2010 – Chi garantisce il diritto di esistere?

Una notizia da Israele.

Il 16 agosto 2010 Lucia Cuocci (di cui ben conosco la conoscenza profonda della realtà israelo-palestinese) ha pubblicato su facebook un articolo del giornalista israeliano Aviad Glickman. Era in lingua inglese e io ho deciso di tradurlo.
Chi comunque volesse leggerlo nell’originale potrebbe farlo da qui. 

Eccone il testo:
“Lunedì il tribunale distrettuale di Gerusalemme ha deciso che lo Stato é responsabile per la morte avvenuta nel 2007 di Abir Aramin, una ragazzina palestinese di 10 anni e risarcirà la sua famiglia.
Il tribunale ha stabilito che la ragazzina è stata uccisa da un proiettile vagante di gomma sparato da un ufficiale della Guardia Confinaria.
Secondo la sentenza lo sparo fu il risultato di una negligenza dello Stato.
Inoltre con procedura civile la famiglia della ragazzina ha presentato appello all’Alta Corte di Giustizia chiedendo che gli sparatori israeliani siano sottoposti a processo dopo che il Pubblico Ministero avrà chiuso la causa intentata contro di loro.
Il giudice Orit Efal-Gabai ha affermato nella sua sentenza che non c’é dubbio che la sparatoria, avvenuta nel villaggio di Anata nella West Bank, ha violato delle regole di ingaggio.
”La sparatoria non aveva come obiettivo dimostranti o lanciatori di pietre. Abir e i suoi amici camminavano luongo una strada da cui non erano state lanciate pietre contro le Guardie confinarie. Secondo la sentenza  “non c’era un apparente motivo per sparare in quella direzione”.
L’azione legale, promossa nel mese di luglio 2007 dall’avvocato di parte civile Lea Tsemel in rappresentanza dei genitori di Abir, ha richiesto un risarcimento per la famiglia.
Per determinare l’ammontare del danno il giudice Efal-Gabai ha stabilito una successiva udienza che si terrà in ottobre. La sentenza si è basata sulle testimonianze degli amici di Abir. “Hanno vissuto un’esperienza veramente pesante e sono stati testimoni del ferimento di Abir ” ha affermato il giudice, aggiungendo che la versione degli eventi data dallo Stato, secondo la quale Abir sarebbe stata ferita da una pietra e non da una pallottola di gomma, era inattendibile.
In seguito alla morte di Abir la famiglia ha presentato un rapporto di un anatomopatologo che stabiliva che era stata colpita da un proiettile sebbene la Polizia Israeliana affermasse che un’autopsia aveva dimostrato che non era stata uccisa da un proiettile di gomma.
Il gruppo per i diritti umani Yesh Din e Bassan Aramin, padre di Abir, hanno presentato una petizione all’Alta Corte contro il procuratore generale e due ufficiali della Guardia Confinaria, chiedendo che gli stessi fossero processati.
A seguito dell’appello il Pubblico Ministero ha annunciato ulteriori indagini sulla morte della ragazzina.”
 

La notizia non è sorprendente: le morti di bambini palestinesi, colpevoli solo di vivere nei Territori Occupati, sono frequenti e non solo a Gaza, terra terribile di strage infinita, ma anche nella West Bank.
  Nel 2003 la fotografia di una bambina uccisa copriva i muri di Betlemme e così ne scriveva un coraggioso giornalista israeliano, Gideon Levy, in un articolo che il quotidiano Ha’aretz pubblicò con il titolo “Uccidere i bambini non è più una faccenda tanto importante” (Domenica 17 ottobre 2004, Cheshvan 2, 5765 secondo il calendario ebraico) : “Kristen Saada era nell’auto dei genitori, di ritorno a casa dopo una visita di famiglia, quando i soldati colpirono la macchina con una raffica di proiettili. Aveva 12 anni al tempo della sua morte … La pubblica indifferenza che accompagna questo seguito di sofferenze ignorate fa di ogni israeliano il complice di un crimine. Persino i genitori, che capiscono che cosa significa l’angoscia per il destino dei figli, si girano dall’altra parte e non vogliono sentir parlare dell’ansietà dei genitori dall’altra parte della barriera. Chi avrebbe creduto che i soldati di Israele avrebbero ucciso centinaia di bambini e che la maggioranza degli israeliani sarebbe rimasta in silenzio? Persino i bambini palestinesi sono diventati parte della campagna di disumanizzazione: uccidere centinaia di loro non è più una faccenda tanto importante”. 

E poco importante é rimasta, tanto che i casi singoli non fanno più notizia.
E invece l’articolo che ho riportato sopra, segnala un fatto di estremo interesse: l’intervento di un tribunale su un caso specifico, la morte di un’altra bambina per cui il padre e Yesh-Din, un gruppo israeliano impegnato nella difesa dei diritti umani, chiedono giustizia.

I diritti dei bambini: giustizia e politica.

La giustizia può agire caso per caso, diventando forse spia di un disagio, la politica potrebbe produrre indicazioni di ordine generale tali da modificare una situazione.
Questo non accade in Israele e non accade in Italia.
Le leggi balorde che vengono votate avviandoci a un democratico precipizio affondano nella stessa pubblica indifferenza di cui scriveva ormai sette anni fa Gideon Levy.
La nostra Costituzione “richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” nel rispetto di quei “diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità” che “la Repubblica riconosce e garantisce”.
Non a caso l’art. 2 usa il termine Repubblica e non Stato ad indicare tutti i livelli dell’ordinamento, ognuno dei quali sembra –fra silenzio e consenso – sfuggire alle proprie responsabilità o violare i principi della Carta.

Paradossalmente gli attivissimi sindaci leghisti non esitano a proclamare oscenità,  pronunciandosi nella consapevolezza del loro ruolo, pur violato e umiliato dalle loro stesse affermazioni, mentre quelli che ancora hanno coscienza della dignità di ogni cittadino e cittadina non osano parlare e delegano il rispetto dei diritti ad associazioni certamente meritevoli ma sempre più implose su se stesse e incapaci di stimolare le istituzioni locali a un esercizio pubblico e trasparente del proprio ruolo.
Sindaci, province, regioni sostengono queste associazioni –sfuggendo alle proprie responsabilità istituzionali e coprendosi dietro l’altrui ‘bontà’ per non urtare direttamente il diffuso razzismo del buon senso- e quel rapporto appare materia di voto di scambio.
Non é una bella deriva.

 Sindaci d’Italia fra abiezione e dignità

Propongo di nuovo la fotografia del manifesto del Sindaco di San Martino dall’Argine, che ho già pubblicato il 26 novembre 2009, sperando che qualcuno mi indichi un documento altrettanto esplicito ma promotore dei diritti dei cittadini, forti o deboli che siano, e non della pratica della caccia all’uomo già cara al Ku Klux Klan. 
Ho il dubbio che non esista nulla di altrettanto esplicito e trasparente ma speculare e opposto.
Le scritto precedente riporta il testo di un’interrogazione parlamentare che chiede la revisione di un punto di una legge intollerabile ma, a proposito della registrazione anagrafica dei figli dei sans papier, particolarmente abietta.
Attendo con curiosità di sapere se vi sia almeno un altro parlamentare –comunque collocato – capace di farsi carico del problema e se i sindaci sono disposti a farsi carico del fatto che la legge impone una umiliazione del loro ruolo. Un loro primario obiettivo dovrebbe essere l’evidenza della popolazione che vive sul loro territorio: gli ostacoli costruiti dal nuovo concetto di sicurezza possono renderlo impraticabile

21 Agosto 2010Permalink