18 marzo 2014 – “Quello che le donne non dicono”.

 

Alcune sere fa in un circolo culturale alla periferia di Udine si è parlato del tema della violenza  sulle donne (e, conseguentemente, sui minori che della violenza in ambiente familiare sono spettatori e spesso anche vittime). Erano impegnati alcuni gruppi particolarmente attenti a questa tematica ed era presente anche il Vicequestore di Udine Massimiliano Ortolan. Titolo dell’incontro “Quello che le donne non dicono”.
Paola Schiratti, presidente del gruppo Le donne resistenti che aveva organizzato la serata insieme al circolo Nuovi orizzonti, ha illustrato i dati elaborati dal servizio “Zero Tolerance” del Comune e il protocollo antiviolenza della Provincia.
A suo tempo Paola Schiratti si è molto spesa per la  predisposizione e per l’approvazione di quel protocollo finalizzato a prevenire e reprimere la violenza domestica e sostenere le vittime in modo coerente fra i vari soggetti che possono intervenire.
Il testo del protocollo si può leggere nel blog di Paola  e anche da qui
La stessa Paola, in un suo commento su facebook ha scritto “fa molto piacere, ascoltando il Vicequestore, cogliere molte considerazioni pienamente condivisibili, capire quanto la Polizia sia preparata e interessata ad affrontare queste situazioni, sentite come un problema culturale e sociale imprescindibile”.

Tutto vero ma io non sono soddisfatta

Infatti quando ho fatto funzionare la mia cartina al tornasole, i problemi dei minori, il Vicequestore non mi è apparso così limpido e lineare né completamente convincente l’impostazione della serata. E’ vero che, sperando di semplificare perché non volevo intervenire nel dibattito in maniera troppo invadente,  ho fatto una domanda relativa alla prostituzione minorile, e il Vicequestore ha colto abilmente l’opportunità per parlare di prostituzione e non di minori.
Stupida io che gli ho offerto la via di fuga?

L’onore
Per spiegarmi devo fare una piccola rivisitazione storica.
E’ stato sottolineato positivamente (questo sì lo riconosco) che la legge sulla violenza sessuale segna una trasformazione culturale di rilievo enorme: la violenza passa da reato contro la morale a reato contro la persona.
Non va certo ad onore dei legislatori italiani e della cultura italiana in generale se solo nel 1996 (e dopo un iter quanto mai tormentato) venne approvata la legge 66, Norme contro la violenza sessuale.
Chi aveva scosso una cultura immobile era stata Franca Viola, una ragazza intelligente,  coraggiosa, consapevole della propria dignità di persona. Fu violentata nel 1965 ma solo nel 1981 l’infamia del ‘matrimonio riparatore’ che le era stato proposto, fu cancellata dalla legge italiana (legge 442 “Abrogazione della rilevanza penale della causa d’onore”).
Eliminato il concetto di ‘matrimonio riparatore’ ne conseguì, almeno nella formalità legislativa, il punto fermo che l’onore della donna non risiede nella verginità biologica.

E’ bene rilevare, data l’importanza nella realtà italiana della tradizione cattolica, che nel 1950 papa Pio XII aveva fatto un gesto forte per pietrificare la dignità della donna nella presunta inflessibilità della biologia; aveva infatti santificato una povera bambina che, per essersi difesa da un’aggressione sessuale, era stata ammazzata.
Ero una ragazzina ma ricordo ancora la violenza petulante con cui quell’immagine ci fu cinicamente propinata.
Concentrato sull’imene il papa non si rendeva conto (o forse sì) che, mentre negava la dignità della persona donna, consolidava l’onore del maschio proprietario di una cosa senza parola.
Poiché si voleva la donna senza parola si manteneva inamovibile anche il significato letterale della espressione paolina: ‘le donne tacciano nell’assemblea’ (1 Cor 14, 34-35) e quindi si avviliva  con una sola mossa la dignità femminile e quella degli studi biblici che solo il Concilio Vaticano II avrebbe successivamente liberato anche nel mondo cattolico.
Senza parola la donna doveva essere  non solo nello spazio religioso ma anche in quello laico. Così voleva la tradizione per le brave ragazze da marito.

La parola e il cambiamento

Passando lentamente dallo stato di oggetti ad uso dell’onore padronale a quello di soggetti, la cui dignità è riconosciuta e affermata, anche le donne possono dire e dirsi.
I cambiamenti che derivarono da questa modifica segnarono un cambiamento epocale e incompiuto. Ma segnarono anche il riconoscimento che l’affermazione di un diritto fondamentale non appartiene alla forza del soggetto che si può imporre ma al riconoscimento sociale e alla solidarietà che si fonda sulla responsabilità collettiva per cui la Repubblica “richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” (art. 2 Cost.).
Ricordo quanto si venne a conoscere del dibattito al processo di Franca Viola e l’evidenza che mi colpì di due situazioni inversamente proporzionali: la dignità di Franca e l’abiezione delle argomentazioni degli avvocati che difendevano lo stupratore, l’assoluta mancanza di forza della ragazza che si tentava di ribaltarle contro e l’assoluta bestialità della forza fisica legittimata dalla tradizione, componente dell’onore maschio-padrone.

Le parole che ancora non  si vogliono dire

E qui si pone il problema dei diritti dei bambini e dei minori in genere che non sono emersi con chiarezza, anzi non sono emersi affatto nella serata da cui ho preso le mosse.
Infatti la violenza contro i bambini è apparsa solo in relazione alla loro presenza nella vita familiare e non come offesa alla loro persona perché questa è violenza che i bambini non possono dire se non con i segni di una sofferenza che li accompagnerà per tutta la vita.
Certamente altri possono dire – e penso alle donne come altre che della negazione di parola per essere state considerate oggetti hanno avuto e hanno un’esperienza che potrebbero trasferire nella solidarietà politica e sociale di cui dice la Costituzione – ma ci  sono casi in cui non lo fanno.
Certamente provano – e manifestano – pietà per il bambino sofferente e violato ma arretrano quando si tratta di riconoscergli i diritti di persona, quelli che Franca Viola, nel silenzio imposto dalla tradizione come un macigno, aveva affermato  per sé e per tutte le donne.
Solo così io riesco a spiegare l’indifferenza diffusa alla violazione del principio di uguaglianza che imporrebbe il certificato di nascita a tutti i minori, a prescindere dallo status dei loro genitori.

Il cerchio si chiude sempre lì.
Se le donne rivisitassero un po’ la loro cultura di genere potrebbero riaprirlo, non perché madri ma forti della loro memoria storica se mai volessero averne

18 Marzo 2014Permalink