MAJDA TRA LE DUE SPONDE
Majda viene dal Marocco, entrata in Italia come studentessa universitaria, si è sposata e ha cresciuto qui tre figli, nati in Italia e ora più che adolescenti; vive a Udine e da tempo è cittadina italiana .
La lunga permanenza nel nostro (e suo) paese assicura un’attenzione consapevole alla realtà che le esperienze lavorative le permettono di guardare con partecipazione ma anche con disincanto: è mediatrice culturale e di comunità (il che le ha consentito di tenere qualche lezione anche in corsi universitari), lavora in associazioni locali, è interprete per il Tribunale.
Ma non ha mai dimenticato la cultura del suo paese che ha accompagnato la sua crescita di bambina e giovane donna. Ora Majda si muove fra due mondi con invidiabile disinvoltura e in questa pluralità cerca ciò che ci unisce: durante la nostra chiacchierata sottolinea la fonte comune ed essenziale delle religioni abramitiche.
‘Le religioni uniscono l’umanità –afferma – e impegnano a un comportamento rispettoso per il prossimo’.
Un sogno? Se tale è Majda lo condivide con molti grandi della cultura europea e non solo.
Porta il velo che non copre il volto, che lei chiama khemar e che a me ricorda l’hijab.
Mi piacerebbe in ogni caso che si smettesse di usare sempre – e per lo più a sproposito – il termine afgano di burqa.
Ma non è il momento di addentraci in un colloquio sulla foggia del velo.
Majda mi spiega di considerarlo segno di sottomissione a Dio e insieme scelta personale e responsabile di una persona adulta. ‘Dio obbliga a studiare per essere consapevoli delle proprie scelte’ precisa.
Non è la prima volta che una donna mussulmana sfata con una battuta il luogo comune della soggezione passiva, che viene loro universalmente attribuita, riportando l’attenzione al tema della conoscenza.
Non posso non pensare alla grande civiltà araba che nel Medio Evo ci ha regalato opere della filosofia greca, prima in Europa ignorate, e tante informazioni sulle scienze matematiche … ma devo frenare le sollecitazioni alla mia curiosità che mi porterebbero troppo lontano per restare al mondo di cui Majda si fa mediatrice anche per me, introducendomi anche alla durezza di una realtà difficile.
E la realtà più dura è, ancora una volta, quella delle donne.
L’Italia, a differenza della Francia, del Belgio, della Gran Bretagna, non attrae emigranti laureati o con un alto livello di scolarizzazione e, specialmente fra coloro che vengono dall’Africa subsahariana, ci sono persone non scolarizzate, anche totalmente analfabete.
Se donne si trovano chiuse in una vita familiare dai cui ristretti legami non possono uscire, sole, disorientate e impaurite come sono.
Conoscere la lingua le aiuterebbe certamente ma come frequentare i corsi relativi (posto che ne sia loro garantita l’informazione) se devono accudire ai figli il cui unico spazio protetto è la casa?
Sarebbe un utile esercizio quando ci capita di percepire la paura dell’autoctono per l’immigrato poterla confrontare con la sua paura speculare, quella dell’immigrato per l’autoctono. Avremmo costruito uno strumento per uscire dal pregiudizio che ci avvelena tutti insieme.