17 ottobre 2010 – Un giornalista ebreo, cittadino di Israele.

Israele. Il progetto dello stato «puro»di Zvi Schuldiner – 15/10/2010    

L’intenso dibattito delle ultime settimane sulla ripresa delle costruzioni nelle colonie ebraiche nei territori occupati palestinesi ha coperto i veri problemi che Israele affronta, che tormentano la sua società e mettono in pericolo il suo futuro ben più delle presunte minacce del terrorismo musulmano o palestinese.

Oggi appare chiaro che il governo israeliano non ha un reale interesse in un processo di pace che metta fine al neocolonialismo cominciato nel 1967. Oggi quel colonialismo arriva al culmine con chiari elementi fascisti, antidemocratici e fondamentalisti religiosi. La richiesta israeliana circa il riconoscimento dello «stato ebraico» non si riferisce tanto a Israele, come stato, ma è il frutto di uno disegno razzista che nega la realtà e la presenza di un 20% dei suoi cittadini non ebrei. Non è più una democrazia, nel migliore dei casi sarebbe una etnocrazia.
Le richieste negoziali non fanno che scoprire il vero disegno del governo israeliano: il lebensraum tedesco, il concetto di «territorio vitale» essenziale, la colonizzazione espansionista, sono preferibili a concessioni territoriali. Tutto il dibattito sulla costruzione di colonie è solo la trappola in cui cadono gli attori che mancano di riferimenti chiari.

La pace con Egitto e Giordania è stata una chiara accettazione dell’esistenza dello stato di Israele, e in nessuno dei due casi si discusse del carattere ebraico dello stato, perché tutti, israeliani inclusi, erano coscienti del fatto che Israele non era uno stato confessionale e vi abitavano anche cittadini non ebrei. Ancora di più: prevaleva ancora tra gli israeliani l’idea che il popolo ebraico non è definibile solo in termini religiosi, che essere ebreo – un dibattito non risolto a tutt’oggi neppure tra gli ebrei – non può basarsi solo su determinate concezioni religiose.
A partire dal 1988 i palestinesi hanno annunciato il riconoscimento del diritto all’esistenza di Israele, senza addentrarsi nella «questione ebraica». Quando oggi si agita questa questione, il significato è duplice: sia rendere impossibili i negoziati, sia anche aprire la questione di una «purificazione» necessaria dello stato di Israele.

Il ministro degli esteri Avigdor Lieberman lo ha detto in modo chiaro: è disposto ad accettare la formula dei due stati, con uno scambio di territori – ovvero, che la parte di Israele popolata in maggioranza da palestinese israeliani sia trasferita al futuro stato palestinese in cambio dell’annessione dei territori predominantemente colonizzati dopo il 1967. per dirla ancora più chiaramente: l’idea dell’espulsione dei cittadini palestinesi di Israele non è più solo patrimonio di gruppi neonazisti come quello del defunto rabbino Kahane. Ora è accettabile anche per un partito estremista che è il pivot centrale della coalizione di Benyamin Netaniahu. «Capite, comprendetemi, io Netaniahu sono disponibile ai due stati, ai negoziati, alla pace che tutti noi ebrei vogliamo, ma ho una coalizione che punta i piedi e devo tener conto dei miei associati…». Questo manda a dire il premier israeliano, ma questo è falso: la decisione adottata questa settimana in materia di acquisizione della cittadinanza rivela la verità. Lieberman è l’alibi brutale di ciò che Netaniahu persegue con delicatezza.

Chi sono i candidati ad acquisire la cittadinanza israeliana che dovranno prestare il nuovo giuramento di fedeltà? L’ultranazionalista ministro della giustizia ha proposto che il nuovo giuramento sia destinato a tutti, ma per il momento non è così e l’ipocrisia razzista si svela: i destinatari sono gli arabi (molto pochi, per la verità) che sposino palestinesi israeliani. Sono loro che dovranno giurare fedeltà a Israele come «stato ebraico».

E’ vero che in molti paesi l’acquisizione della cittadinanza è accompagnata da un giuramento di fedeltà allo stato e alle sue leggi. Ma non si tratta di un giuramento riferito a una determinata confessione religiosa. Si giura fedeltà alla Francia o al Canada o agli Stati uniti, non al cattolicesimo o qualunque altra confessione.

Lieberman e i suoi adepti riflettono oggi idee maggioritarie nella società israeliana: il giuramento di fedeltà in fondo è destinato agli infedeli, o chi è sospettato di fedeltà dubbie. Invece di chiedersi se lo stato è fedele ai suoi cittadini – tutti i suoi cittadini – gli israeliani ora cominciano la caccia agli infedeli e i loro soci.

Nell’ultimo anno abbiamo assistito in Israele a una continua aggressione alle norme democratiche. E come succede sempre in questi casi il maccartismo, gli attacchi fascisti non si limitano ai cittadini palestinesi israeliani: l’aggressione alle università libere e alle organizzazioni impegnate nella lotta a favore dei diritti umani e politici è diventata norma accettabile anche per i membri del governo.

Alcuni ministri del Likud si sono pronunciati contro la nuova regolamentazione della cittadinanza. Sono una minoranza che resta fedele a certi concetti liberali che erano parte del patrimonio ideologico della destra. Ma sono una minoranza che oggi si arrende al razzismo fascista che comincia a dominare ampi settori della società israeliana.
Sul piano internazionale, purtroppo il razzismo antimusulmano dominante in Europa aiuta a rendere accettabile il razzismo israeliano, e gli esempi europei non fanno che aiutare gli elementi fascisti e fondamentalisti in Israele.

Un processo di pace reale vorrebbe dire per Israele cancellare le acquisizioni territoriali del 1967: il disegno colonialista quindi ha bisogno di mettere ostacoli a l negoziato, e per continuare su questa linea di uno stato sleale con i suoi cittadini, in particolare palestinesi, aumenta la pressione fascista.
E’ tragico per il popolo ebraico: oggi in nome dell’ebraismo il governo israeliano si lancia in politiche che farebbero l’orgoglio dei peggiori nemici del popolo ebraico. Il giuramento di lealtà è un ulteriore passo su una linea suicida che non farà danno solo ai palestinese ma porterà gli stessi israeliani a svolte tragiche.

P.S.: Non sono riuscita a risalire all’articolo attraverso il sito on line de Il Manifesto. 
     Ho insistito e ho trovato il link utile che trascrivo. http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=35102

16 Ottobre 2010Permalink

21 agosto 2010 – Chi garantisce il diritto di esistere?

Una notizia da Israele.

Il 16 agosto 2010 Lucia Cuocci (di cui ben conosco la conoscenza profonda della realtà israelo-palestinese) ha pubblicato su facebook un articolo del giornalista israeliano Aviad Glickman. Era in lingua inglese e io ho deciso di tradurlo.
Chi comunque volesse leggerlo nell’originale potrebbe farlo da qui. 

Eccone il testo:
“Lunedì il tribunale distrettuale di Gerusalemme ha deciso che lo Stato é responsabile per la morte avvenuta nel 2007 di Abir Aramin, una ragazzina palestinese di 10 anni e risarcirà la sua famiglia.
Il tribunale ha stabilito che la ragazzina è stata uccisa da un proiettile vagante di gomma sparato da un ufficiale della Guardia Confinaria.
Secondo la sentenza lo sparo fu il risultato di una negligenza dello Stato.
Inoltre con procedura civile la famiglia della ragazzina ha presentato appello all’Alta Corte di Giustizia chiedendo che gli sparatori israeliani siano sottoposti a processo dopo che il Pubblico Ministero avrà chiuso la causa intentata contro di loro.
Il giudice Orit Efal-Gabai ha affermato nella sua sentenza che non c’é dubbio che la sparatoria, avvenuta nel villaggio di Anata nella West Bank, ha violato delle regole di ingaggio.
”La sparatoria non aveva come obiettivo dimostranti o lanciatori di pietre. Abir e i suoi amici camminavano luongo una strada da cui non erano state lanciate pietre contro le Guardie confinarie. Secondo la sentenza  “non c’era un apparente motivo per sparare in quella direzione”.
L’azione legale, promossa nel mese di luglio 2007 dall’avvocato di parte civile Lea Tsemel in rappresentanza dei genitori di Abir, ha richiesto un risarcimento per la famiglia.
Per determinare l’ammontare del danno il giudice Efal-Gabai ha stabilito una successiva udienza che si terrà in ottobre. La sentenza si è basata sulle testimonianze degli amici di Abir. “Hanno vissuto un’esperienza veramente pesante e sono stati testimoni del ferimento di Abir ” ha affermato il giudice, aggiungendo che la versione degli eventi data dallo Stato, secondo la quale Abir sarebbe stata ferita da una pietra e non da una pallottola di gomma, era inattendibile.
In seguito alla morte di Abir la famiglia ha presentato un rapporto di un anatomopatologo che stabiliva che era stata colpita da un proiettile sebbene la Polizia Israeliana affermasse che un’autopsia aveva dimostrato che non era stata uccisa da un proiettile di gomma.
Il gruppo per i diritti umani Yesh Din e Bassan Aramin, padre di Abir, hanno presentato una petizione all’Alta Corte contro il procuratore generale e due ufficiali della Guardia Confinaria, chiedendo che gli stessi fossero processati.
A seguito dell’appello il Pubblico Ministero ha annunciato ulteriori indagini sulla morte della ragazzina.”
 

La notizia non è sorprendente: le morti di bambini palestinesi, colpevoli solo di vivere nei Territori Occupati, sono frequenti e non solo a Gaza, terra terribile di strage infinita, ma anche nella West Bank.
  Nel 2003 la fotografia di una bambina uccisa copriva i muri di Betlemme e così ne scriveva un coraggioso giornalista israeliano, Gideon Levy, in un articolo che il quotidiano Ha’aretz pubblicò con il titolo “Uccidere i bambini non è più una faccenda tanto importante” (Domenica 17 ottobre 2004, Cheshvan 2, 5765 secondo il calendario ebraico) : “Kristen Saada era nell’auto dei genitori, di ritorno a casa dopo una visita di famiglia, quando i soldati colpirono la macchina con una raffica di proiettili. Aveva 12 anni al tempo della sua morte … La pubblica indifferenza che accompagna questo seguito di sofferenze ignorate fa di ogni israeliano il complice di un crimine. Persino i genitori, che capiscono che cosa significa l’angoscia per il destino dei figli, si girano dall’altra parte e non vogliono sentir parlare dell’ansietà dei genitori dall’altra parte della barriera. Chi avrebbe creduto che i soldati di Israele avrebbero ucciso centinaia di bambini e che la maggioranza degli israeliani sarebbe rimasta in silenzio? Persino i bambini palestinesi sono diventati parte della campagna di disumanizzazione: uccidere centinaia di loro non è più una faccenda tanto importante”. 

E poco importante é rimasta, tanto che i casi singoli non fanno più notizia.
E invece l’articolo che ho riportato sopra, segnala un fatto di estremo interesse: l’intervento di un tribunale su un caso specifico, la morte di un’altra bambina per cui il padre e Yesh-Din, un gruppo israeliano impegnato nella difesa dei diritti umani, chiedono giustizia.

I diritti dei bambini: giustizia e politica.

La giustizia può agire caso per caso, diventando forse spia di un disagio, la politica potrebbe produrre indicazioni di ordine generale tali da modificare una situazione.
Questo non accade in Israele e non accade in Italia.
Le leggi balorde che vengono votate avviandoci a un democratico precipizio affondano nella stessa pubblica indifferenza di cui scriveva ormai sette anni fa Gideon Levy.
La nostra Costituzione “richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” nel rispetto di quei “diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità” che “la Repubblica riconosce e garantisce”.
Non a caso l’art. 2 usa il termine Repubblica e non Stato ad indicare tutti i livelli dell’ordinamento, ognuno dei quali sembra –fra silenzio e consenso – sfuggire alle proprie responsabilità o violare i principi della Carta.

Paradossalmente gli attivissimi sindaci leghisti non esitano a proclamare oscenità,  pronunciandosi nella consapevolezza del loro ruolo, pur violato e umiliato dalle loro stesse affermazioni, mentre quelli che ancora hanno coscienza della dignità di ogni cittadino e cittadina non osano parlare e delegano il rispetto dei diritti ad associazioni certamente meritevoli ma sempre più implose su se stesse e incapaci di stimolare le istituzioni locali a un esercizio pubblico e trasparente del proprio ruolo.
Sindaci, province, regioni sostengono queste associazioni –sfuggendo alle proprie responsabilità istituzionali e coprendosi dietro l’altrui ‘bontà’ per non urtare direttamente il diffuso razzismo del buon senso- e quel rapporto appare materia di voto di scambio.
Non é una bella deriva.

 Sindaci d’Italia fra abiezione e dignità

Propongo di nuovo la fotografia del manifesto del Sindaco di San Martino dall’Argine, che ho già pubblicato il 26 novembre 2009, sperando che qualcuno mi indichi un documento altrettanto esplicito ma promotore dei diritti dei cittadini, forti o deboli che siano, e non della pratica della caccia all’uomo già cara al Ku Klux Klan. 
Ho il dubbio che non esista nulla di altrettanto esplicito e trasparente ma speculare e opposto.
Le scritto precedente riporta il testo di un’interrogazione parlamentare che chiede la revisione di un punto di una legge intollerabile ma, a proposito della registrazione anagrafica dei figli dei sans papier, particolarmente abietta.
Attendo con curiosità di sapere se vi sia almeno un altro parlamentare –comunque collocato – capace di farsi carico del problema e se i sindaci sono disposti a farsi carico del fatto che la legge impone una umiliazione del loro ruolo. Un loro primario obiettivo dovrebbe essere l’evidenza della popolazione che vive sul loro territorio: gli ostacoli costruiti dal nuovo concetto di sicurezza possono renderlo impraticabile

21 Agosto 2010Permalink

17 agosto 2010 – Verdini, Obama e il mio blog.

Le ragioni di un titolo stravagante

Il titolo stravagante che propongo mi è venuto in mente da sé, senza sforzo e ora cerco di spiegarmene le ragioni.
Comincio da Verdini. Scrive nel sito on line del Corriere della Sera (15 agosto) il giornalista Massimo Muchetti: “ … fin d’ora si può dire che la vicenda Verdini fa riemergere la cattiva abitudine dell’uso privatistico della cosa comune. Una cooperativa creditizia è un soggetto economico privato. E tuttavia, quando è a mutualità prevalente come sono il Credito Cooperativo Fiorentino e le altre 400 e passa banche di credito cooperativo italiane, l’interesse del socio viene perseguito nel quadro dell’interesse generale della compagine sociale, a sua volta legata alla comunità locale. Non a caso queste banche hanno un regime speciale che ne lega l’attività al territorio, limita la remunerazione, l’emissione e la compravendita delle azioni e, al tempo stesso, detassa ampiamente gli utili portati a riserva. Le Bcc sono una grande e positiva espressione dell’autogoverno delle comunità locali. Non perseguono il profitto, ma servono valori. Non speculano, non concentrano il rischio a favore dei soliti noti, possono perdere durante le crisi con artigiani, commercianti, agricoltori, ma non con gli amici degli amici.”
Ma i giornali proni al governo difendono Verdini. Perché?
Forse é meglio porre diversamente la domanda.
Chi governa deve comperare il consenso funzionale al mantenimento di posizioni in qualsivoglia modo acquisite o costruirlo attorno ai principi che fondano la vita di uno stato e che  ne costituiscono la base?
Il presidente degli Stati Uniti, riferendosi alla costruzione di una moschea a New York nei pressi di ground zero, ha detto:  “Con la massima chiarezza in quanto cittadino, in quanto presidente, sono convinto che i musulmani abbiano lo stesso diritto di praticare la propria religione come qualsiasi altra persone in questo paese. Ciò comprende il diritto di costruire un luogo di culto e un centro per la comunità su una proprietà privata a Lower Manhattan, nel rispetto delle leggi e delle ordinanze locali”. E ancora: “questa è l’America, e il nostro impegno per la libertà religiosa deve essere incrollabile. Il principio in base al quale i popoli di tutte le fedi sono benvenuti in questo paese, e che non verranno trattati in maniera diversa dal loro governo, è essenziale per quello che siamo. La volontà dei nostri Fondatori deve essere rispettata”.
E’ abbastanza evidente che nella dialettica della vita di una società organizzata c’é chi ritrova nella convinta chiarezza dei propri principi e nella propria forza contrattuale la capacità di difesa propria e per chi di quella difesa ha bisogno ed è a questo punto che diritti e consenso si intrecciano e, quando invece il consenso si può mercanteggiare con qualsiasi moneta, i diritti dei deboli sono i primi a venir calpestati.
E chi é più debole di un bambino?
Ho scritto tante volte nel mio blog della questione della registrazione anagrafica dei figli degli immigrati irregolari. Il mio blog è fornito di un indice analitico –chiamato tag (non mi piace ma funzione così). Evidenziando nell’elenco della colonna a destra le parole ‘anagrafe’ o ‘bambini’ (o la parola ‘minori’ nell’elenco delle categorie della stessa colonna) ne esce abbondante materiale con l’indicazione delle varie fonti.
Io suggerisco, prima di passare ad altro, l’articolo del 10 novembre 2009.

Di analogia in analogia

Il caso della banca di Credito Cooperativo Fiorentino mi ha fatto venire in mente un mio –fallito – tentativo di dialogo con l’ Unicoop Firenze, cooperativa che aderisce all’ Associazione Nazionale Cooperative di Consumatori  della Lega delle Cooperative.
Nel 2005 mi trovavo a Betlemme e osservavo con interesse (era uno degli scopi che mi ero prefissa) il sistema scolastico. Una delle scuole più stimate era –ed é -la scuola di Terrasanta, gestita dai francescani, che comprende anche una scuola dell’infanzia, rigorosamente allora (oggi non so) solo maschile eppure –e ciò va a onore soprattutto delle scuole protestanti – in Palestina ci sono anche scuole miste.
Quella scuola, un vero gioiello finanziato dall’Italia, così veniva e viene ancora presentata dall’Ufficio stampa dell’Unicoopo (uno dei finanziatori del progetto)
”L’intento di tutti e’ quello di offrire ai bambini e alle bambine di Betlemme un ambiente accogliente per far crescere una speranza di pace e normalità”.
Una frottola che inutilmente provai a segnalare, inviando numerosi messaggi ai politici che avevano partecipato all’inaugurazione della scuola (fra cui l’on. Bindi) e all’ufficio stampa dell’Unicoop  senza mai ricevere risposta).
Evidentemente l’obiettivo era soddisfare il rispetto delle pari opportunità – che si presumeva presente nei donatori – e insieme l’opportunismo della scelta che prevalse a Betlemme.
Sia stata sciatteria o consapevole doppio gioco, mi resta la domanda “è più grave rubare consenso con i quattrini o con l’ostentazione di buoni sentimenti fondati su un falso, in quel caso le bambine di Betlemme, ancora una volta beffate e tradite, abusate quali esche per un consenso evidentemente utile?”

Una scultura che mi ha dato una scossa.

Ieri ho visitato la mostra dedicata ai fratelli Basaldella   La statuetta di cui propongo l’immagine   è un lavoro di Mirko (1930). Si intitola la strage degli innocenti.
Quel bambino aggrappato, come se ne volesse ricavare sicurezza, alla gamba di chi lo massacrerà (sembra che anche il dr. Mengele ad Auschswitz sapesse suscitare fiducia nei piccoli che avrebbe torturato e massacrato) mi ha fatto tornare in mente troppe cose.
Se segnalare la responsabilità di chi compera il consenso altrui è doveroso è insieme opportuno ignorare la responsabilità di chi –con quattrini o sollecitazioni sentimentali – si lascia comperare?
Qual è il confine fra l’essere vittime e l’essere complici?
Purtroppo per molti funziona non il criterio della conoscenza ma quello dell’appartenenza acriticamente accettata.

P. S.: Chi volesse saperne di più sulla scuola dell’infanzia di Terrasanta può andare, sempre attraverso la colonna destra a blog precedenti – diari e altro – 14 agosto 2005 e 30 gennaio 2007

17 Agosto 2010Permalink

08 febbraio 2009 – Dopo l’inferno di Gaza, quale futuro?

Il dramma di Gaza, con annessi e connessi, ha scosso e scuote le nostre coscienze, di tutte e tutti noi «occidentali». Infatti, se quegli eventi hanno ovviamente colpito il mondo intero, anche nel Sud del pianeta, essi hanno pesato, e pesano, soprattutto sul Nord del mondo – sull’Occidente, in sostanza. E questo perché la vicenda storica del popolo ebraico l’antisemitismo e l’antigiudaismo cristiano, l’illuminismo, la modernità, il colonialismo, il comunismo, il nazismo, la Shoah, il rapporto con l’islam, la necessità «nostra» del petrolio del Medio Oriente in mano a regimi a vario titolo ed intensità proclamantisi musulmani… formano un amalgama intricatissimo e incombente che penetra fino alle fibre più profonde del nostro essere, personale e collettivo, e sprigiona passioni fortissime. Di fronte alla tragedia di Gaza, in controluce – almeno a noi sembra – sta tutto questo intricato ed ineliminabile background.

Negli ultimi anni, per fermarci a questi, sono avvenute nel mondo vicende che hanno provocato infinitamente più vittime (in Conga e in Ruanda quattro milioni!), uccise in modo crudelissimo, che non quante sarebbero morte secondo fonte palestinese – tra le 1300 e le 1400 – a Gaza e ai suoi confini in Israele, dal 27 dicembre al 18 gennaio. Ci siamo commossi anche per le tragedie africane, ed altre, del pianeta; ma senza esagerare e senza inquietarci troppo. Quali masse hanno infatti percorso le strade delle nostre città per gridare contro gli eccidi nel cuore del continente nero? Invece, ora, si sono moltiplicate, qui da noi, le manifestazioni pro o contro Israele per il dramma di Gaza. Perché – questa la nostra ipotesi – in quest’ultima vicenda noi sentiamo, oscuramente forse, che siamo in gioco in prima persona, come Occidente.

Proprio perché siamo così coinvolti, inevitabile che sulla vicenda di Gaza siamo uniti da eguale passione, ma anche, spesso, divergenti sull’analisi dei fatti, nel loro contesto storico immediato o lontano, e sulle prospettive per uscire dalla crisi. Specchio di tali divergenze sono le dichiarazioni dei leader europei, o di personalità occidentali che – semplificando – hanno individuato la causa del dramma in Hamas che lancia razzi sulla popolazione civile d’Israele o in questo che bombarda indiscriminatamente la Striscia e che da oltre quarant’anni occupa i Territori.

In quanto Confronti, come rivista siamo – volenti o nolenti – inseriti in questo quadro, ed a maggior ragione perché, nel nostro piccolo (infinitamente piccolo di fronte alla vastità immensa dei problemi), cerchiamo di favorire il dialogo tra ebrei, cristiani, musulmani e «laici», e portare la nostra minuscola tessera per creare il grande mosaico della pace in Medio Oriente, che preveda la pace nella giustizia (non la pace di Brenno del «Guai ai vinti!») e, cioè, due Stati per due popoli: Israele (ma Stato per gli ebrei, o Stato per tutti i cittadini che lo abitano?), che c’è, e deve esserci, ed una Palestina che non c’è, e che va creata come realtà vivibile e non semplice fantoccio o «bantustan» – l’ipotesi poi, o il sogno, che i due Stati decidano di unirsi in confederazione sarà, forse, un tema obbligato del lontano futuro. Consapevoli dell’estrema complessità della situazione, tentiamo dunque di riflettere su tali problemi senza la pretesa di avere la verità in tasca e, anzi, desiderosi che voci variegate ci aiutino, su queste pagine, a vedere le molteplici sfaccettature della tragedia, e i numerosi fili della matassa.

Perché – proviamo ad addentrarci nella cronaca – il governo di Ehud Olmert, leader del partito Kadima, il 27 dicembre ha avviato la micidiale operazione «Piombo fuso» contro Gaza? Ci sembra che in quel momento, e in quella proporzione, il premier abbia così scelto per tre motivi. Intanto, per la consapevolezza che la popolazione israeliana era stremata, con crisi economica e città in via di sviluppo mai sviluppatesi. Poi per rafforzare le fortune del suo partito alle elezioni politiche anticipate del 10 febbraio. Va infatti ricordato che, quello in carica, è un governo degli affari correnti, perché Olmert, accusato di corruzione, è stato costretto a dimettersi in settembre. Il suo ministro degli Esteri, la signora Tzipi Livni, aveva tentato in ottobre di formare un nuovo governo ma, non essendoci riuscita, il presidente di Israele, Shimon Peres, ha indetto le elezioni anticipate per la Knesset (il parlamento). Olmert e Livni, insieme al ministro della Difesa, ed ex premier laburista, Ehud Barak, decidendo «Piombo fuso» hanno probabilmente pensato – si vedrà con quale risultato – di rovesciare i pronostici elettorali che, fino al 27 dicembre, davano per vincitore il leader del Likud, Benyamin Netanyahu, colui che da sempre propugna il pugno di ferro contro i palestinesi.

Ma il motivo forse più pressante per attuare a fine anno l’attacco contro Gaza è stato l’interregno del partner decisivo e dello sponsor fondamentale di Israele, il presidente degli Stati Uniti d’America. Barack Obama, infatti, eletto il 4 novembre ma in carica solo dal 20 gennaio, non poteva intervenire, essendo ancora al comando George W. Bush. Era scontato l’o.k. di questi alla decisione di Olmert, e il segretario di Stato Condoleezza Rice si era affrettata a dire che quella di Israele era una legittima scelta di autodifesa da un’aggressione; ma anche se, per ipotesi, la Casa Bianca fosse stata contraria, è ben possibile che Olmert avrebbe proceduto lo stesso, essendo ormai Bush un’«anatra zoppa». In ogni caso Obama non era in carica e, da presidente, adesso si ritrova con un’inattesa patata bollente in mano. Quello che egli farà concretamente, lo vedremo, e per giudicare occorre attendere.

Il governo d’Israele afferma che Hamas ha violato la tregua di sei mesi stipulata in giugno e che scadeva il 19 dicembre. Ma, appunto, la tregua era scaduta, e quindi non è stata violata. Essa poteva comunque almeno essere rinegoziata, senza ignorare i pericoli che avrebbe corso la popolazione civile di Gaza, i bambini primi fra tutti, a fronte di una reazione israeliana. Altro e differente problema è valutare la decisione di Hamas. Molti ritengono che, riprendendo in grande stile il lancio di razzi contro le città israeliane prossime alla Striscia, esso abbia offerto su di un piatto d’argento il pretesto ad Olmert per far partire «Piombo fuso» (altro problema ancora è quanto sull’operazione abbia pesato il governo e quanto, seppure non formalmente, il vertice delle Idf – Tsahal –, le forze di difesa israeliane). Hamas sottolinea che, durante la cosiddetta tregua, in realtà Israele ha continuato le esecuzioni mirate e, soprattutto, ha continuato a chiudere, a sua inappellabile discrezione, i passaggi tra Israele (o dal Mediterraneo) e Gaza. È vero infatti che nel 2005 il premier Ariel Sharon aveva costretto gli ottomila coloni ebrei ad abbandonare i 21 insediamenti della Striscia, ma aveva mantenuto le chiavi di essa, rendendola una grande prigione a cielo aperto, dove i beni essenziali, dai viveri alle medicine all’energia, entrano solo se Israele lo consente, e si arrestano quando sbarra le porte. L’obiettivo, sicuramente fallito, di tali chiusure, era bloccare l’entrata di armi nella Striscia, ma esse sono arrivate in abbondanza (soprattutto attraverso i tunnel «artigianali» scavati sotto il confine tra la Striscia e l’Egitto).

Bisogna anche ricordare che lo sgombero israeliano della Striscia era stato deciso da Sharon senza alcuna concertazione con il presidente palestinese ed esponente di al-Fatah Abu Mazen (il 9 gennaio 2005 eletto dal popolo come successore di Yasser Arafat, morto due mesi prima). Il premier sosteneva di non avere un partner con cui trattare ma, escludendolo come inesistente, ha umiliato Abu Mazen, reso ridicolo agli occhi di molti palestinesi, e favorendo così proprio Hamas. Che, infatti, alle elezioni legislative del 25 gennaio 2006 ha ottenuto la maggioranza assoluta nel parlamento. Una vittoria assicurata, naturalmente, da diversi fattori, tra i quali una diffusa corruzione nell’Autorità palestinese controllata da al-Fatah, resasi così insopportabile agli occhi della popolazione. Il tentativo, poi, di condominio tra al-Fatah ed Hamas nel governo con un premier, Ismail Haniyeh, indicato dal Movimento di resistenza islamico, è fallito. E nel giugno 2007 con un colpo di mano (compiuto, afferma, per prevenirne uno analogo di Abu Mazen per debellarlo), e lasciando per le strade morti del confronto fratricida, Hamas ha preso da sola il potere a Gaza. Per cui da allora vige un potere bicefalo intra-palestinese: Hamas a Gaza, al-Fahah in Cisgiordania.

Il mandato di Abu Mazen scadeva il 9 gennaio 2009 ma, sostenuto da al-Fatah, ha deciso di prolungarlo; decisione considerata anticostituzionale da Hamas. Così che ora sono in carica un presidente la cui legittimità è dubbia, e un premier di Hamas, rifiutato da Israele e dall’Occidente, seppur frutto di elezioni democratiche.

Perché Hamas ha deciso di provocare Israele lanciando razzi contro la popolazione civile? Che il numero di morti israeliani sia stato limitatissimo – tredici persone, in maggioranza militari caduti durante l’operazione «Piombo fuso», e alcuni di essi uccisi da «fuoco amico» – non cancella il furore che questi lanci hanno provocato nell’opinione pubblica del paese? Intanto, vanno segnalate le tensioni alla testa del Movimento, tra l’ala politica e l’ala militare e, soprattutto, tra chi opera a Gaza e chi, come il leader Khaled Meshaal, è riparato a Damasco: gli uni al fronte, gli altri al sicuro in Siria. Infine, comunque, una decisione fu presa, e forse Hamas ha agito per conto dell’Iran, ritenendo, a Gaza o a Teheran, che mille o duemila morti palestinesi, e un disastro materiale immane provocati dai prevedibili bombardamenti israeliani, servissero alla «causa». E diversi regimi arabi – dalla Giordania, all’Arabia Saudita, all’Egitto anch’esso con in mano una delle chiavi di accesso alla Striscia – pur verbalmente condannando la scelta d’Israele, hanno visto con sollievo il lavoro sporco fatto dalle Idf per decapitare Hamas, ritenuto la longa manus dell’Iran per esportare idee e scelte tali da far traballare i loro regimi. Pur essendo sciita, l’Iran aiuta strumentalmente il sunnita Hamas. Ma la vera posta in gioco è la leadership del mondo musulmano e il contrasto tra le potenze musulmane per ottenerla.

Perché Israele ha risposto ad Hamas con tale potenza di fuoco – usando, pare, anche bombe Dime e al fosforo bianco – da provocare, a quanto sappiamo il 21 gennaio, mentre scriviamo, tra i 1300 e i 1400 morti, di cui quasi un terzo bambini – e cioè più di cento palestinesi morti per ogni israeliano ucciso dai razzi o durante l’attacco a Gaza – senza contare i più di cinquemila feriti, e le tremende distruzioni di case e infrastrutture, ospedali compresi? Sembra che Olmert abbia voluto applicare a Gaza la «dottrina Dahiya» che il generale Gadi Eisenkot, comandante del Comando settentrionale di Israele, aveva così espresso in ottobre in un’intervista al quotidiano Yedioth Ahronoth: «Useremo una forza sproporzionata contro ogni villaggio da cui saranno sparati colpi contro Israele e provocheremo immensi danni e distruzioni». Il riferimento era a Dahiya, un sobborgo di Beirut raso al suolo dagli aerei israeliani durante la guerra dell’estate 2006 per stroncare i guerriglieri filo-sciiti Hezbollah. Il governo Olmert avrebbe dunque applicato all’intera Striscia controllata da Hamas la punizione inferta al villaggio libanese che ospitava i miliziani. Senza tenere in alcun conto i terribili «effetti collaterali», l’uccisione di centinaia di donne e bambini e, perfino, la distruzione di edifici dell’Unrwa (il Servizio dell’Onu per i rifugiati palestinesi), duramente criticata dal segretario dell’Onu, Ban Ki-moon.

La tragedia di Gaza ha mostrato, una volta di più, la pochezza delle Nazioni Unite e dell’Unione europea. Ma, pensando al futuro, come ipotizzare una pace, dopo tanto sangue, e partendo dalla tregua (fragilissima) proclamata unilateralmente da Israele e da Hamas il 18 gennaio? Il programma politico-ideologico del Movimento di resistenza islamico fa paura, perché in sostanza prevede uno Stato rigidamente teocratico dove viga la sharia (legge islamica interpretata nel modo più rigido), e dove la «laicità» che innervava larga parte dell’Olp viene cancellata. Esso è dunque non solo contro l’Occidente, ma anche contro quello che pensano molti palestinesi. E però è stato massicciamente da questi votato, perché delusissimi dall’appoggio acritico degli Usa e dell’Unione europea alla politica israeliana. E adesso?

Adesso Israele avrebbe tutto l’interesse a favorire al più presto, senza furbe dilazioni, la nascita di uno Stato palestinese, trattando con tutte le parti interessate – tutte, nessuna esclusa. Una giusta soluzione comporta la fine dell’occupazione militare e coloniale dei Territori che dura intollerabilmente da oltre quarant’anni, la condivisione di Gerusalemme come capitale di due Stati (la Palestina formata da Striscia e Cisgiordania non amputata), un accordo onesto su possibili scambi territoriali tenendo però come base i confini israeliani del 1967, una soluzione concordata del problema dei profughi. Ora che Hamas sembra indebolito (ma, dopo un periodo di «convalescenza», forse diventerà ancora più forte, perché bisognerà vedere come si orienteranno, crescendo, quelle migliaia e migliaia di bambini che hanno visto gli orrori di «Piombo fuso»), che farà l’attuale e il futuro governo israeliano? I palestinesi dovranno ancora mendicare giustizia? Le risoluzioni dell’Onu saranno finalmente applicate, o sempre svuotate? Obama sarà un mediatore efficace ed autorevole, o semplice portavoce del governo israeliano e di chi lo sostiene, anche negli States? Nel suo discorso del 20 gennaio, parlando del Medio Oriente il neo-presidente ha nominato esplicitamente l’Iraq («responsabilmente lasceremo il paese alla sua gente») ma non ha citato né Israele né Gaza: un silenzio singolare! Tuttavia ha precisato: «Al mondo musulmano dico che cerchiamo una nuova via di uscita basata sugli interessi reciproci e sul reciproco rispetto… A quanti [nel mondo] rimangono attaccati al potere con la corruzione, la menzogna e soffocando il dissenso, dico che stanno dalla parte sbagliata della storia, ma che tenderemo loro la mano se si dimostreranno disposti ad un segno di pace».

Lo slogan riassuntivo per sciogliere veramente ed onestamente il nodo gordiano israelo-palestinese non può essere (come abbiamo sentito in Italia): «Salviamo Israele per salvare la pace»; ma: «Salviamo Israele e Palestina per salvare la pace». Perché salvare solo uno è impossibile, se si vuole una pace degna di questo nome.

la redazione di Confronti

8 Febbraio 2009Permalink

01 febbraio 2009 – Medio Oriente. Prima, durante e dopo una tragedia annunciata – da Confronti – febbraio 2009

  

La tragedia di Gaza ha naturalmente sconvolto anche ciascuna e ciascuno di noi di Confronti, e  quante e quanti seguono il nostro lavoro, le nostre iniziative, e ci onorano della loro fiducia. Un dramma tremendo che pesa sul nostro cuore, e lacera le nostre coscienze. Mille le domande che si siamo fatti, e continuiamo a farci: che possiamo fare, che possiamo dire per dare il nostro – infinitesimale, ma sincero – contributo ad una pace giusta? In questo numero, dall’editoriale alle pagine che seguono, riportiamo voci variegate per tentare una qualche analisi, porre domande a noi stessi, arrischiare brandelli di risposte. Un «confronto» che naturalmente non può esaurirsi in questo numero, e che continuerà a lungo, arricchito, vogliamo sperare, da interventi di commento, di critica, di sostegno, di analisi da parte di chi ci legge, e che noi caldamente invitiamo ad entrare in questa arena – non per combatterci ma, nel rispetto delle diverse ed appassionate opinioni, per aiutarci tutti a capire e ad aiutare la pace. 

Ma, intanto cominciamo qui a fare la cronaca del nostro viaggio a Gerusalemme e dintorni, programmato attorno a Capodanno, perché esso si è intrecciato proprio con gli imprevisti eventi di Gaza. Partiamo lo stesso? Annulliamo? Domande angosciose, che ci siamo scambiati tra noi, e con ciascuna delle persone – provenienti da varie regioni italiane – che si erano iscritte al nostro ennesimo viaggio di studio là dove la pace è più difficile, e che dal 28 dicembre al 5 gennaio ci avrebbe portati in Israele e in Cisgiordania. L’attacco israeliano è iniziato laggiù alle 11,30 del 27 dicembre – era sabato ma, abbiamo appreso poi, il rabbinato aveva dato il suo consenso al lavoro dell’operazione «Piombo fuso» in quanto considerata una necessaria misura difensiva contro l’aggressione di Hamas. Dopo molte consultazioni e telefonate, abbiamo deciso di partire, anche perché su 31 iscritti solo una persona, già per diversi motivi, aveva dovuto disdire il viaggio. Naturalmente, il nostro itinerario – preparato accuratamente da molte settimane – avrebbe subìto variazioni, da valutarsi in rapporto alla situazione in loco e sentite anche le autorità diplomatiche italiane. Di fatto, siamo stati costretti ad annullare i previsti incontri con le autorità di Sderot, la città israeliana, quasi confinante con la Striscia, e bersaglio da mesi di razzi lanciati da Hamas; e cancellare la visita alla città di Jenin – al nord della Cisgiordania occupata – dove tra l’altro ci attendevano impazienti le ragazze e i ragazzi che nel giugno scorso erano stati da noi invitati in Italia, nell’àmbito dell’iniziativa Fiori di pace, insieme a coetanei ebrei israeliani. La cancellazione della tappa di Jenin ci ha privati di testimonianze importanti. 

Da «Parents circle» a «Breaking the silence» 

A Gerusalemme abbiamo incontrato Rami Elhanan, ebreo, uno dei leader di Parents circle in Israele; impedito dalla situazione politica e militare, all’appuntamento non è però arrivato un rappresentante palestinese dell’organizzazione bipartisan che raccoglie circa cinquecento famiglie di ebrei israeliani e di palestinesi che, gli uni a causa dei kamikaze, gli altri a causa dei bombardamenti o degli attacchi delle Idf-Tshal (Forze di difesa israeliane), hanno perso un familiare e che, da questo dramma, non vogliono trarre motivi di vendetta ma motivi per non spargere altro sangue e ricavare dalla rispettiva tragedia il coraggio di riconciliarsi con il nemico e lavorare insieme per una pace giusta. Il nostro amico Rami (che, con il suo «collega» palestinese, avevamo incontrato varie altre volte in precedenti viaggi), oltre a raccontare la sua vicenda – una figlia morta in un attentato kamikaze – e la scelta di Parents circle, ha anche raccontato quello che certamente avrebbe detto l’amico palestinese. 

A proposito di Gaza, Rami, giudicando una tragedia la scelta del governo d’Israele, si è chiesto che cosa sarebbe avvenuto quando tutto fosse finito, se Israele sarebbe stato più al sicuro e la pace giusta più vicina. Più o meno lo stesso interrogativo se lo è posto Mikhael Manekin, uno degli esponenti di Breaking the silence, un’organizzazione che raccoglie un piccolissimo gruppo di soldati israeliani che hanno prestato servizio nei check-point della Cisgiordania occupata e che, proprio partendo dalla loro concreta esperienza, hanno deciso appunto di «spezzare il silenzio» raccontando all’opinione pubblica israeliana le ingiustizie inevitabilmente collegate con gli stessi passaggi di controllo disseminati ovunque in Cisgiordania, che sono decine e decine. Senza voler giudicare nessuno, ma parlando di sé o di ciò che lui ha personalmente constatato, ha ricordato che moltissimi soldati vigilano ai check-point senza sapere una parola di arabo, il che comporta quasi automaticamente incomprensioni con i palestinesi che cercano di passare, e spesso innescano brutalità perché la gente, non comprendendoli, magari disobbedisce a certi ordini. «Sono un ebreo israeliano, amo Israele, soffro per Israele. Proprio perché amo il mio paese ritengo giusto parlare delle cose che non vanno, per cercare di correggerle». 

Hand in Hand. Wolfson Center. Ministero israeliano degli Affari sociali. Caritas Baby Hospital 

In Israele vi è un’organizzazione, Hand in Hand (mano nella mano) che gestisce quattro scuole – che vanno dalle elementari alla scuola media (14 anni) – nelle quali gli insegnanti parlano in ebraico o in arabo, e gli alunni imparano le due lingue. Queste scuole seguono i normali programmi del Ministero dell’Istruzione, che dunque paga i docenti. Ma il governo paga un solo docente per materia, e quindi l’altro deve essere pagato dall’organizzazione che è dunque impegnata a raccogliere fondi ad hoc sia in patria che all’estero. Anche i presidi delle scuole Hand in Hand sono due, un ebreo israeliano e un arabo israeliano: Orna Eylat e Taghreed Khatib sono le due presidi della scuola Galil da noi visitata. Anche nel nostro incontro alla scuola Galil non poteva non irrompere la tragedia di Gaza. Molto onestamente, Orna e Taghreed ci hanno detto di non aver direttamente toccato la tematica con i bambini più piccoli, ma di averla invece affrontata con i ragazzi più grandi. I quali, così, hanno potuto sentire due punti di vista: l’uno che sostanzialmente ritiene inevitabile la ferma risposta delle Idf ai lanci di razzi da parte di Hamas, l’altra che ritiene tale risposta, così come attuata, immorale e anche, politicamente parlando, in prospettiva deleteria per Israele. 

Le ripercussioni della tragedia di Gaza sulla coraggiosa iniziativa di Hand in Hand hanno toccato anche gli insegnanti e le famiglie della scuola Galil e di Jenin da dove, finora, sono venuti la maggior parte dei ragazzi israeliani e palestinesi coinvolti in Fiori di pace. Noi non sappiamo, ora, se e come potremo portare avanti la nostra iniziativa, che prevedeva una nuova puntata proprio alla metà del prossimo marzo: infatti, se alcune famiglie (di qua e di là del «fronte»), a quanto finora abbiamo potuto apprendere, sono ancor più motivate a continuare l’esperienza iniziata, altre invece pensano che, dopo il dramma di Gaza, non abbia più senso un tale dialogo. 

Ma un particolare tipo di dialogo – se possiamo denominarlo così – continua in una singolare esperienza, che per la prima volta abbiamo avvicinato nei nostri viaggi: Save a child’s heart (Sch, Salva il cuore di un bambino). Iniziata nel 1996 per opera del dottor Ami Cohen presso il Wolfson Center, un ospedale di Holon – periferia di Tel Aviv – Sch è specializzato per curare bambini con malattie cardiache. Il che non è nulla di speciale, naturalmente: la particolarità è che tali bambini provengono da paesi «in via di sviluppo» e, in particolare – un terzo – dai Territori palestinesi occupati e dall’Iraq. I piccoli degenti sono ospitati gratuitamente, insieme ai genitori che li accompagnano, e tutte le spese sono coperte da Sch, che si finanzia con donazioni di privati in Israele e nel mondo (per informazioni: www.saveachildshearth.org). In tredici anni di lavoro Sch ha curato più di duemila bambini, provenienti da trenta paesi asiatici ed africani. Ci dice il dottor Sion Houri – ebreo di origine tunisina e tra i fondatori di Sch– che lavora al Wolfson Center: «Non guardiamo al colore della pelle, né al paese di provenienza. Curiamo tutti i bambini che, nei limiti delle nostre possibilità, riusciamo ad ospitare. Siamo tutti di una sola razza: umana». 

Ancora sul versante israeliano, al Ministero degli Affari sociali incontriamo il dottor Avraham Lavine, direttore del Dipartimento degli affari internazionali del Ministero, che ci illustra quello che il suo dicastero ha fatto per i Territori palestinesi fino a che (nel 1994, come applicazione degli accordi di Oslo) la sanità e gli affari sociali sono stati presi in mano dall’Autorità palestinese. Secondo Lavine Israele aveva messo in piedi, in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza occupate nel 1967, un’ampia e solida rete che stava dando i suoi frutti e che Israele sperava si sarebbe ulteriormente sviluppata una volta affidata totalmente ai palestinesi. Purtroppo però – questa la tesi di Lavine – così non è accaduto, e molte delle infrastrutture messe in piedi sono state smantellate o si sono esaurite. Ad esempio, precisa Lavine, quando Israele aveva il controllo dei Territori vi erano solo cinque Ong (organizzazioni non governative) che davano un contributo per il welfare; ma, poi, sotto il governo palestinese esse sono diventate un centinaio. 

Sempre nel campo dell’assistenza sanitaria, a Betlemme torniamo a salutare il Caritas Baby Hospital (Cbh), l’unica struttura pediatrica della Cisgiordania: struttura fondata nel 1952 dal sacerdote svizzero Ernst Schnydrig, e dove lavorano da anni anche alcune suore italiane (le elisabettiane di Padova) che danno un apporto preziosissimo per la formazione del personale (tutto palestinese, in maggioranza musulmano) e per la gestione complessiva dell’ospedale – che, anch’esso, vive di donazioni provenienti dall’estero (per informazioni: info@cbh.beth.org). Suor Donatella, veneta, ci descrive con passione il «suo» ospedale: ci parla delle difficoltà oggettive (molti bambini, in Cisgiordania, nascono con gravi problemi perché spesso i genitori sono tra loro cugini, il che favorisce malattie genetiche; e molte donne subiscono un maschilismo atavico). Naturalmente, le difficoltà che pesano sulla Cisgiordania occupata incombono anche sul Cbh. Il Muro – che Israele ha iniziato a costruire nel 2002 allo scopo dichiarato di impedire il passaggio di kamikaze; Muro il cui tracciato, quasi sempre in territorio palestinese, nel 2004 è stato dichiarato illegale dalla Corte internazionale dell’Aja – si erge per un tratto proprio di fronte al Cbh: «Che possiamo fare? Per dire la nostra silenziosa protesta, e la nostra solidarietà a chi soffre – ci dice suor Donatella – ogni venerdì ci raccogliamo presso il Muro a pregare. Speriamo che Dio ci doni la desiderata, e tanto necessaria, pace nella giustizia». 

Arabi israeliani/palestinesi di Israele. Il vescovo melkita Elias Chacour 

La popolazione complessiva di Israele è di oltre sette milioni di abitanti, in maggioranza ebrei; ma vi è una forte minoranza di arabi israeliani (ma essi più volentieri si chiamano palestinesi di Israele) di 1,2 milioni di persone circa; vi sono poi centomila drusi e altre piccole comunità. Gli arabi israeliani/palestinesi di Israele sono in gran parte musulmani (il 16% sul totale della popolazione israeliana), ma (e lo stesso accade nei Territori) vi è tra loro un 2% di cristiani, di varie Chiese. 

«Dove vuole arrivare, il governo d’Israele, con «Piombo fuso», un’operazione che inevitabilmente comporta e comporterà un altissimo numero di vittime civili, soprattutto di bambini? Nella Striscia, una delle zone del mondo a più alta densità di popolazione, è impossibile distinguere bersagli militari da bersagli civili. Inoltre, tutte queste vittime indeboliranno Hamas – movimento, preciso, con la cui visione politica io sono in disaccordo – o non finiranno piuttosto per rafforzarlo?». A parlarci, a Nazareth, è Mustafa Qossoqsi, arabo israeliano, psicoterapeuta che lavora anche a Jenin, e con il quale abbiamo lavorato insieme fruttuosamente nell’ambito di Semi di pace e Fiori di pace. 

Ad Haifa ci riceve monsignor Elias Chacour, da tre anni vescovo melkita (greco-cattolico) di Akko. Parlando di Gaza, egli ci invita a situare l’attuale dramma in un più ampio contesto storico. Egli sottolinea (per il testo integrale, si veda Adista 8/09) che la costituzione, nel 1948, dello Stato di Israele, in quella vicenda che gli ebrei israeliani considerano la loro vittoriosa guerra di indipendenza, e gli arabi palestinesi la naqba, la catastrofe, «la maggioranza dei palestinesi subì una pulizia etnica: sono stati deportati, cacciati da case e villaggi, 460 villaggi palestinesi sono stati completamente svuotati e distrutti, compreso il mio villaggio natale… L’inizio della tragedia palestinese è stata la miopia degli ebrei di non voler vedere che la Palestina non era vuota, ma abitata dagli arabi palestinesi». 

Monsignor Chacour ribadisce: «Dio dice chiaramente: Non uccidere! Non dice: non uccidere l’ebreo o il palestinese; dice solo: Non uccidere. Ebrei e palestinesi gridano: “La terra è nostra, la terra ci appartiene”. Hanno dimenticato che la terra non può appartenere né agli ebrei né ai palestinesi, la terra appartiene a Dio, e palestinesi ed ebrei devono imparare che essi appartengono a questa terra e finché non si accetta di appartenere alla terra, finché si vuole controllare la terra esclusivamente, non ci sarà né pace né giustizia». Infine: «Noi palestinesi abbiamo bisogno della vostra solidarietà; ma chi vi dice che l’amicizia verso di noi debba diventare automaticamente inimicizia verso gli ebrei? Se prendete parte per l’uno contro l’altro, vi riducete ad essere un nemico in più, e oggi non abbiamo bisogno di un nemico in più. Abbiamo bisogno, invece, di un amico comune e perciò io mendico in tutto il mondo per trovare un amico comune. Solo nell’amicizia potremo risolvere i problemi, ma non sarà facile. Del resto non c’è niente di prezioso che può essere raggiunto facilmente. E che c’è di più prezioso della riconciliazione fra ebrei e palestinesi?». 

Lucia Cuocci e David Gabrielli 

1 Febbraio 2009Permalink