12 febbraio 2015 – Due donne contro il razzismo e l’esclusione

All’Onorevole Cécile Kyenge

Desidero unirmi a tutti quei cittadini e cittadine italiani che Le hanno espresso e continuano ad esprimerLe la più viva e sentita solidarietà, di fronte ai gravi ed insensati insulti che Le sono stati rivolti dal Senatore Roberto Calderoli, esponente di spicco della Lega Nord, che in più momenti non ha esitato a manifestare atteggiamenti e comportamenti razzisti.
Ma Le assicuro di aver provato rinnovati e forti sentimenti di indignazione anche quando, alcuni giorni orsono, la Giunta Senatoriale delle Elezioni e delle Immunità parlamentari ha ritenuto il ” non luogo a procedere” nei confronti di Calderoli, che invece dovrebbe essere tenuto a rispondere, assumendosene la piena responsabilità, di quanto ha detto in sede pubblica ed ufficiale.
Purtroppo tra i dodici componenti la Giunta c’erano anche quattro membri del Partito Democratico, cosa che mi ha suscitato ancor più rabbia e grande amarezza.
Sappia comunque che moltissimi cittadini italiani hanno apprezzato e continuano ad apprezzare tutte le Sue attività volte ad un’accoglienza migliore possibile ed all’integrazione di tutti coloro che, provenienti da diverse parti del pianeta, raggiungono il nostro paese alla ricerca del riconoscimento di diritti fondamentali come il diritto ad una casa, ad un lavoro, all’istruzione, al ricongiungimento familiare, ecc insomma, ad un’inclusione sociale a tutti gli effetti.
Le rinnovo la mia solidarietà e Le porgo distinti saluti,
Adriana Libanetti

Gent.ma Adriana,
La ringrazio infinitamente per il suo messaggio di vicinanza e solidarietà dal quale traggo nuova forza nella mia lotta quotidiana contro ogni forma di discriminazione.
Il suo sostegno è la testimonianza che siamo in molti a difendere i valori costituzionali, a partire dal primato e dalla dignità della persona, qualunque sia il colore della sua pelle e il suo credo.
Con affetto, Cécile Kyenge

NOTA MIA:
Esco finalmente dal silenzio cui un’irresponsabile politica della Telecom mi aveva condannato (ne scriverò anche per far conoscere ad altri la metodologia dell’intervento che mi ha causato il disagio).
Ora c’è un problema più importante. Anch’io avevo scritto a Cécile Kyenge ricevendone risposta, ma la lettera di Adriana è così ben articolata che spero pubblicandola di darne diffusione

12 Febbraio 2015Permalink

4 febbraio 2015 -Rossana Rossanda – una donna che non voglio dimenticare

Anniversario: 4 febbraio 1913 nasce Rosa Parks

Intervista di Antonio Gnoli la Repubblica – 1 febbraio 2015
Nella sua casa di Parigi la fondatrice del manifesto ricorda incontri e incomprensioni, amici ed avversari, delusioni e grandi sogni vissuti con il partito comunista Sommersi come siamo dai luoghi comuni sulla vecchiaia non riusciamo più a distinguere una carrozzella da un tapis roulant. Lo stereotipo della vecchiaia sorridente che corre e fa ginnastica ha finito con l’avere il sopravvento sull’immagine ben più mesta di una decadenza che provoca dolore e tristezza. Guardo Rossana Rossanda, il suo inconfondibile neo. La guardo mentre i polsi esili sfiorano i braccioli della sedia con le ruote. La guardo immersa nella grande stanza al piano terra di un bel palazzo sul lungo Senna. La guardo in quel concentrato di passato importante e di presente incerto che rappresenta la sua vita. Da qualche parte Philip Roth ha scritto che la vecchiaia non è una battaglia, ma un massacro. La guardo con la tenerezza con cui si amano le cose fragili che si perdono. La guardo pensando che sia una figura importante della nostra storia comune. Legata al partito comunista, fu radiata nel 1969 e insieme, tra gli altri, a Pintor, Parlato, Magri, Natoli e Castellina, contribuì a fondare Il manifesto. Mi guarda un po’ rassegnata e un po’ incuriosita. Qualche mese fa ha perso il compagno K. S. Karol. «Per una donna come me, che ha avuto la fortuna di vivere anni interessanti, l’amore è stato un’esperienza particolare. Non avevo modelli. Non mi ero consegnata alle aspirazioni delle zie e della mamma. Non volevo essere come loro. Con Karol siamo stati assieme a lungo. Io a Roma e lui a Parigi. Poi ci siamo riuniti. Quando ha perso la vista mi sono trasferita definitivamente a Parigi. Siamo diventati come due vecchi coniugi con il loro alfabeto privato », dice. Quando vi siete conosciuti esattamente? «Nel 1964. Venne a una riunione del partito comunista italiano come giornalista del Nouvel Observateur. Quell’anno morì Togliatti. Lasciò un memorandum che Luigi Longo mi consegnò e che a mia volta diedi al giornale Le Monde, suscitando la collera del partito comunista francese». Collera perché? «Era un partito chiuso, ortodosso, ligio ai rituali sovietici. Louis Aragon si lamentò con me del fatto che avrei dovuto dare a lui quello scritto. Lui si sarebbe fatto carico di una bella discussione in seno al partito. Per poi non concludere nulla. Era tipico». Cosa? «Vedere questi personaggi autorevoli, certo, ma alla fine capaci di pensare solo ai propri interessi». Ma non era comunista? «Era prima di tutto insopportabile. Rivestito della fatua certezza di essere “Louis Aragon”! Ne conservo un ricordo fastidioso. La casa stupenda in rue Varenne. I ritratti di Matisse e Picasso che lo omaggiavano come un principe rinascimentale. Che dire? Provavo sgomento. E fastidio». Lei come è diventata comunista? «Scegliendo di esserlo. La Resistenza ha avuto un peso. Come lo ha avuto il mio professore di estetica e filosofia Antonio Banfi. Andai da lui, giuliva e incosciente. Mi dicono che lei è comunista, gli dissi. Mi osservò, incuriosito. E allarmato. Era il 1943. Poi mi suggerì una lista di libri da leggere. Tra cui Stato e rivoluzione di Lenin. Divenni comunista all’insaputa dei miei, soprattutto di mio padre. Quando lo scoprì si rivolse a me con durezza. Gli dissi che l’avrei rifatto cento volte. Avevo un tono cattivo, provocatorio. Mi guardò con stupore. Replicò freddamente: fino a quando non sarai indipendente dimentica il comunismo ». E lei? «Mi laureai in fretta. Poi cominciai a lavorare da Hoepli. Nella casa editrice, non lontano da San Babila, svolgevo lavoro redazionale, la sera frequentavo il partito». Tra gli anni Quaranta e i Cinquanta era forte il richiamo allo stalinismo. Lei come lo visse? «Oggi parliamo di stalinismo. Allora non c’era questo riferimento. Il partito aveva una struttura verticale. E non è che si faceva quello che si voleva. Ma ero abbastanza libera. Sposai Rodolfo, il figlio di Banfi. Ho fatto la gavetta nel partito. Fino a quando nel 1956 entrai nella segreteria. Mi fu affidato il compito di rimettere in piedi la casa della cultura». Lei è stata tra gli artefici di quella egemonia culturale oggi rimproverata ai comunisti. «Quale egemonia? Nelle università non ci facevano entrare». Ma avevate le case editrici, il cinema, il teatro. «Avevamo soprattutto dei rapporti personali». Ma anche una linea da osservare. «Togliatti era mentalmente molto più libero di quanto non si sia poi detto. A me il realismo sovietico faceva orrore. Cosa posso dirle? Non credo di essere stata mai stalinista. Non ho mai calpestato il prossimo. A volte ci sono stati rapporti complicati. Ma fanno parte della vita». Con chi si è complicata la vita? «Con Anna Maria Ortese, per esempio. L’aiutai a realizzare un viaggio in Unione Sovietica. Tornando descrisse un paese povero e malandato. Non ne fui contenta. Pensai che non avesse capito che il prezzo di una rivoluzione a volte è alto. Glielo dissi. Avvertii la sua delusione. Come un senso di infelicità che le mie parole le avevano provocato. Poi, improvvisamente, ci abbracciammo scoppiando a piangere». Pensava di essere nel giusto? «Pensavo che l’Urss fosse un paese giusto. Solo nel 1956 scoprii che non era quello che avevo immaginato ». Quell’anno alcuni restituirono la tessera. «E altri restarono. Anche se in posizione critica. La mia libertà non fu mai seriamente minacciata né oppressa. Il che non significa che non ci fossero scontri o critiche pesanti. Scrissi nel 1965 un articolo per Rinascita su Togliatti. Lo paragonavo al protagonista de Le mani sporche di Sartre. Quando il pezzo uscì Giorgio Amendola mi fece a pezzi. Come ti sei permessa di scrivere una cosa così? Tra i giovani era davvero il più intollerante». Citava Sartre. Era molto vicino ai comunisti italiani. «Per un periodo lo fu. In realtà era un movimentista. Con Simone De Beauvoir venivano tutti gli anni in Italia. A Roma alloggiavano all’Hotel Nazionale. Lo vedevo regolarmente. Una sera ci si incontrò a cena anche con Togliatti». Dove? «In una trattoria romana. Era il 1963. Togliatti era incuriosito dalla fama di Sartre e quest’ultimo guardava al capo dei comunisti italiani come a una risorsa politica. Certamente più interessante dei comunisti francesi. Però non si impressionarono l’un l’altro. La sola che parlava di tutto, ma senza molta emotività, era Simone. Quanto a Sartre era molto alla mano. Mi sorpresi solo quando gli nominai Michel Foucault. Reagì con durezza». Foucault aveva sparato a zero contro l’esistenzialismo. Si poteva capire la reazione di Sartre. «Avevano due visioni opposte. E Sartre avvertiva che tanto Foucault quanto lo strutturalismo gli stavano tagliando, come si dice, l’erba sotto i piedi». Ha conosciuto Foucault personalmente? «Benissimo: un uomo di una dolcezza rara. Studiava spesso alla Biblioteca Mazarine. E certi pomeriggi veniva a prendere il tè nella casa non distante che abitavamo con Karol sul Quai Voltaire. Era un’intelligenza di primordine e uno scrittore meraviglioso. Quando scoprì di avere l’Aids, mi commosse la sua difesa nei riguardi del giovane compagno». Un altro destino tragico fu quello di Louis Althusser. «Ero a Parigi quando uccise la moglie. La conoscevo bene. E ci si vedeva spesso. Un’amica comune mi chiamò. Disse che Helene, la moglie, era morta di infarto e lui ricoverato. Naturalmente le cose erano andate in tutt’altro modo». Le cronache dicono che la strangolò. Non si è mai capita la ragione vera di quel gesto. «Helene venne qualche giorno prima da me. Era disperata. Disse che aveva capito a quale stadio era giunta la malattia di Louis». Quale malattia? «Althusser soffriva di una depressione orribile e violenta. E penso che per lui fosse diventata qualcosa di insostenibile. Non credo che volesse uccidere Helene. Penso piuttosto all’incidente. Alla confusione mentale, generata dai farmaci». Era stato uno dei grandi innovatori del marxismo. «Alcuni suoi libri furono fondamentali. Non le ultime cose che uscirono dopo la sua morte. Non si può pubblicare tutto». A proposito di depressione vorrei chiederle di Lucio Magri che qualche anno fa, era il 2011, scelse di morire. Lei ebbe un ruolo in questa vicenda. Come la ricorda oggi? «Lucio non era affatto un depresso. Era spaventosamente infelice. Aveva di fronte a sé un fallimento politico e pensava di aver sbagliato tutto. O meglio: di aver ragione, ma anche di aver perso. Dopo aver litigato tante volte con lui, lo accompagnai a morire in Svizzera. Non mi pento di quel gesto. E credo anzi che sia stata una delle scelte più difficili, ma anche profondamente umane». Tra le figure importanti nella sua vita c’è stata anche quella di Luigi Pintor. «Lui, ma anche Aldo Natoli e Lucio Magri. Tre uomini fondamentali per me. Non si sopportavano tra di loro. Cucii un filo esile che provò a tenerli insieme». Parlava di fallimento politico. Come ha vissuto il suo? «Con la stessa intensa drammaticità di Lucio. Quello che mi ha salvato è stata la grande curiosità per il mondo e per la cultura. Quando Karol era bloccato dalla malattia, mi capitava di prendere un treno la mattina e fermarmi per visitare certi posti meravigliosi della provincia e della campagna e tornare la sera. Godevo della bellezza dei luoghi che diversamente dall’Italia non sono stati rovinati». Se non avesse fatto la funzionaria comunista e la giornalista cosa avrebbe voluto fare? «Ho una certa invidia per le mie amiche — come Margarethe von Trotta — che hanno fatto cinema. In fondo i buoni film come i buoni libri restano. Il mio lavoro, ammesso che sia stato buono, è sparito. In ogni caso, quando si fa una cosa non se ne fa un’altra». Il suo esser comunista avrebbe potuto convivere con qualche forma di fede? «Non ho più un’idea di Dio dall’età di 15 anni. Ma le religioni sono una grande cosa. Il cristianesimo è una grande cosa. Paolo o Agostino sono pensatori assoluti. Ho amato Dietrich Bonhoeffer. Straordinario il suo magistero. E il suo sacrificio». Si accetta più facilmente la disciplina di un maestro o quella di un padre? «I maestri li scegli, o ti scelgono. I padri no». Il rapporto con suo padre come è stato? «Era un uomo all’antica. Parlava greco e latino. Si laureò a Vienna. C’era molta apprensione economica in famiglia. La crisi del 1929 colpì anche noi che eravamo parte dell’impero austro-ungarico. Il nostro rapporto, bello, lo rovinai con parole inutili. Con mia madre, più giovane di vent’anni, eravamo in sintonia. Sembravamo quasi sorelle. Si scappava in bicicletta per le stradine di Pola». Dove lei è nata? «Sì, siamo gente di confine. Gente istriana, un po’ strana». Si riconosce un lato romantico? «Se c’è si ha paura di tirarlo fuori. Non c’è donna che non senta forte la passione. Dai 17 anni in poi ho spesso avvertito la necessità dell’innamoramento. E poi ho avuto la fortuna di sposare due mariti, passabilmente spiritosi, che non si sono mai sognati di dirmi cosa fare. Ho condiviso parecchie cose con loro. Poi i casi della vita a volte remano contro». Come vive il presente, questo presente? «Come vuole che lo viva? Metà del mio corpo non risponde. E allora ne scopri le miserie. Provo a non essere insopportabile con chi mi sta vicino e penso che in ogni caso fino a 88 anni sono stata bene. Il bilancio, da questo punto di vista, è positivo. Mi dispiacerebbe morire per i libri che non avrò letto e i luoghi che non avrò visitato. Ma le confesso che non ho più nessun attaccamento alla vita». Ha mai pensato di tornare in Italia? «No. Qui in Francia non mi dispiace non essere più nessuna. In Italia la cosa mi infastidirebbe». È l’orgoglio che glielo impedisce? «È una componente. Ma poi che Paese siamo? Boh». E le sue radici: Pola? L’Istria? «Cosa vuole che siano le radici. Non ci penso. La vera identità uno la sceglie, il resto è caso. Non vado più a Pola da una quantità di anni che non riesco neppure a contarli. Ricordo il mare istriano. Alcuni isolotti con i narcisi e i conigli selvaggi. Mi manca quel mare: nuotare e perdermi nel sole del Mediterraneo. Ma non è nostalgia. Nessuna nostalgia è così forte da non poter essere sostituita dalla memoria. Ogni tanto mi capita di guardare qualche foto di quel mondo. Di mio padre e di mia madre. E penso di essere nonostante tutto una parte di loro come loro sono una parte di me».
pubblicata su la Repubblica di domenica 1 febbraio 2015 –
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4 Febbraio 2015Permalink

1 febbraio 2015 – Calendario

1     1945 – Pubblicazione sulla GU del d.lgs n. 23 che estende alle donne il diritto di voto.
1     1979 – L’ayatollah Khomeini torna in Iran dopo l’esilio
3     1985 – Sudafrica. Desmond Tutu è il primo vescovo anglicano nero.
4     1913 – Nasce Rosa Parks
4     1945 – Si apre a Yalta la Conferenza tra Roosvelt, Churchill e Stalin
4     1906 – Nasce Dietrich Bonhoeffer
5     1848 – Processo a Marx ed Engels per attività sovversiva
5     2014 – Il presidente del senato Grasso decide la costituzione in parte civile del
Senato stesso nel processo in cui Berlusconi è imputato per la
compravendita di senatori.
6    1992 – Muore David Maria Turoldo
6                Giornata mondiale contro le Mutilazioni Genitali Femminili
7    1986 –  Il dittatore Marcos fugge dalla Filippine, Duvalier da Haiti
10  1990 –  Sud Africa: De Klerk annuncia la liberazione di Mandela
11  1929 –  Firma dei patti Lateranensi
11   2011-  Dimissioni di Mubarak
11   2013 – Dimissioni del pontefice Benedetto XVI
12  1904 –  Primo numero de L’Unità
12  1938 –  Anschluss: le truppe tedesche entrano in Austria
13              Giornata mondiale contro l’uso dei minori in guerra
13  1960 –  La Francia testa la sua prima atomica nel Sahara
13  2014  – Dimissioni Letta – domani al Quirinale
14  1989  – Iran: Khomeini emette una fatwa contro Salman Ruschdie
15  1564  – Nascita di Galileo
15  1945  – Bombardamento USA di Dresda
15  1967 –  Uccisione Camillo Torres
17  1600 –  Roma – Rogo di Giordano Bruno, condannato per eresia
17  1848 –  Lettere Patenti, decreto con cui il re Carlo Alberto, concedeva i diritti civili ai valdesi e, successivamente, agli ebrei.
18  1564 –  Morte di Michelangelo
18  1943 –  Monaco – arresto fratelli Scholl e altri membri della Rosa Bianca
18  1984 –  Firma del Nuovo Concordato fra Italia e Santa Sede
19  1937 –  Giorno dei martiri etiopici * (vedi link in calce)
20  1958 –  Approvazione della legge Merlin
21  2015 –  Caduta governo Letta
21  1965 –  A New York viene ucciso Malcom X
22  1943 –  Esecuzione capitale dei membri della ‘rosa bianca’
23  1903 –  Cuba affitta ‘in perpetuo’ agli USA la baia di Guantanamo
24  1990 –  Morte di Sandro Pertini
25  2014 –  Fiducia al governo Renzi  -Ieri al senato oggi alla camera
26  1991 –  Si scioglie il patto di Varsavia
27  1933 –  Incendio del Reichstag
28  1986 –  Assassinio del primo ministro svedese Olaf Palme
28  2013 – Abdicazione papa Benedetto XVI

* NOTA: A seguito di un attentato al maresciallo Graziani le truppe italiane in Etiopia perpetrarono una delle tante stragi che caratterizzarono quella occupazione. Per qualche informazione:
http://www.anpi.it/media/uploads/patria/2006/6/09-13_DE_PAOLIS.pdf http://www.rastafari-regna.com/sezioni/giornomartiri2010.html

1 Febbraio 2015Permalink

28 gennaio 2015 – Equivoci ad Auschwitz

Ad Auschwitz c’è  qualche confusione.

Anni fa – mescolando malamente l’identità di Edith Stein ebrea suora carmelitana – volevano costruirvi un convento di clausura come se Edit Stein fosse stata deportata ed internata perché suora e non perché ebrea cui il suo ordine aveva rifiutato protezione. Oggi hanno chiuso dentro il presidente della comunità ebraica di Roma.

Pacifici arrestato ad Auschwitz

E’ stata risolta la vicenda di Riccardo Pacifici, presidente della Comunità ebraica di Roma, e David Parenzo, inviato di Matrix, che erano stati fermati questa notte ad Auschwitz per diverse ore. Il fermo, che ha riguardato anche altre tre persone della troupe di Matrix, è stata risolto – secondo quanto appreso – con l’intervento dell’ambasciata d’Italia e della Farnesina. La vicenda – Pacifici e Parenzo erano stati fermati nella notte ad Auschwitz. Anche la troupe di Matrix, altre tre persone, era stata messa in stato di fermo. I cinque, dopo un collegamento in diretta da Auschwitz, si sono trovati bloccati all’interno del campo e non ricevendo alcun aiuto hanno aperto una finestra. Scattato l’allarme, sono stati fermati dalla polizia criminale polacca. Pacifici e Parenzo, che avevano l’autorizzazione per collegarsi in diretta dal campo di Auschwitz, sono stati poi portati nel commissariato locale, insieme a Fabio Perugia, portavoce della Comunità ebraica di Roma, Gaetano Mazzarella e Matteo Raimondi, della troupe di Matrix. E’ dovuto intervenire il consolato, l’ambasciata ed anche l’unità di crisi della Farnesina per risolvere una vicenda dai contorni surreali. Pacifici e Parenzo hanno definito la vicenda kafkiana. “Certamente non si tratta di un’azione antisemita ma piuttosto – ha spiegato Pacifici all’ANSA – di una falla nel campo. Chiaramente la struttura non è protetta, come dimostrano le finestre aperte”. I cinque italiani sono stati di fatto accusati di effrazione ma stanno già facendo rientro a Roma dopo la brutta nottata. “Non è stato un episodio piacevole – ha detto ancora Pacifici – anche perché accaduto nel luogo in cui sono morti mio nonno e mia nonna. Mi ha dato fastidio emotivamente tanto che ho detto ai poliziotti: ‘O mi arrestate o mi lasciate libero perché sono profondamente turbato’. Una storia surreale”. Sulla stessa lunghezza d’onda David Parenzo che ha mostrato le autorizzazioni per girare in diretta dall’interno del campo nel quale sono poi rimasti chiusi per ore, a partire dalle 23.

 

28 Gennaio 2015Permalink

7 gennaio 2015 – Giornata della memoria

Ho un sogno n.234
L’altro olocausto. Il genocidio nazista degli zingari .
«La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, “Giorno della Memoria”, al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati
».
Così dice l’art. 1 della legge 211 del 2000 lasciando intravedere la specificità, oltre agli ebrei, di altre vittime di persecuzioni e genocidi, senza elencarne l’identità che però è necessario ricordare soprattutto quando l’assenza di testimonianze scritte può disperderne definitivamente  la memoria. Porrajmos o Porajmos (grande divoramento o devastazione) è il termine romani comune a Rom e Sinti. Indica lo sterminio in Europa di più di mezzo milione di persone di cui venne data frettolosa testimonianza anche durante il processo di Norimberga (1945-1946), dove furono citati come gypsies (gitani). Anche in Italia, pur non esistendo alcun termine riferito agli ‘zingari’ nelle leggi razziali del 1938, non è possibile ignorare la persecuzione e il conseguente sterminio di rom e sinti, costantemente presenti nelle circolari dei prefetti e nei provvedimenti di polizia soprattutto dopo l’invasione italiana della Jugoslavia che aumentò il numero dei fuggiaschi dai territori di Slovenia e Croazia, ‘zingari  stranieri’ nei documenti ufficiali. Era una definizione che consentiva controlli, persecuzioni, espulsioni  e internamento in appositi campi fino alla deportazione. Su 25.000 zingari, stimati presenti in Italia prima del 1938, si calcola un migliaio di deportati nei campi di sterminio. A tutto questo non era estraneo il motivo ‘razziale’  identificabile nella ‘diversità’ che imponeva di assicurare la ‘sicurezza’ della popolazione. Già nel 1921, in un discorso al congresso del partito fascista, Mussolini aveva affermato che  «i fascisti devono preoccuparsi della salute della razza con la quale si fa la storia».
Anche in Germania l’equivoco richiamo alla ‘asocialità’ degli zingari come motivo dell’internamento nei lager fece sì che soltanto alla fine del 1979, il Parlamento della Germania Occidentale riconoscesse ufficialmente che la persecuzione dei Rom ad opera dei nazisti era stata motivata dal pregiudizio razziale, aprendo anche per loro (ma quanti erano sopravvissuti?) la possibilità di fare domanda di risarcimento per le sofferenze e le perdite subite.

Prima di tutto vennero a prendere gli zingari
e fui contento, perché rubacchiavano.
Poi vennero a prendere gli ebrei
e stetti zitto, perché mi stavano antipatici.
Poi vennero a prendere gli omosessuali,
e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi.
Poi vennero a prendere i comunisti,
ed io non dissi niente, perché non ero comunista.
Un giorno vennero a prendere me,
e non c’era rimasto nessuno a protestare.

Questi versi che ricordano la persecuzione degli zingari sono probabilmente opera del pastore Martin Niemöller (prima simpatizzate del nazionalsocialismo e poi oppositore tanto da essere internato) ma sono stati attribuiti anche a Bertol Brecht.

27 Gennaio 2015Permalink

26 gennaio 2015 – Yehoshua: “Sostenete lo Stato palestinese, è l’unica via per arrivare alla pace”

Idee per pensare il 27 gennaio – L’articolo che trascrivo è stato pubblicato il 23

Intervista allo scrittore israeliano. “I palestinesi vogliono solo il diritto di essere cittadini della propria patria. Questo dobbiamo concederlo, ormai anche il 50-60% degli israeliani è d’accordo” dal nostro corrispondente FABIO SCUTO

Gerusalemme. “I PALESTINESI non vogliono un califfato islamico e non hanno obiettivi religiosi estremi. Ciò che in definitiva chiedono è ciò a cui ha diritto ogni persona al mondo: essere cittadini della propria patria. Questo dobbiamo darglielo, come chiede la maggioranza degli israeliani. Il problema è come realizzarlo”. Va subito al nocciolo della questione lo scrittore israeliano Avraham B. Yehoshua: il riconoscimento dello Stato palestinese. Professore emerito dell’Università di Haifa e “visiting professor” a Harvard, Oxford, Princeton e Chicago, Yehoshua appartiene ai molti israeliani che negli ultimi anni hanno fortemente criticato le posizioni del governo di Benjamin Netanyahu che hanno contribuito al fallimento della trattativa di pace. Il Parlamento italiano  –  dopo Gran Bretagna, Francia, Spagna, Irlanda e Portogallo  –  si appresta a votare il riconoscimento della Palestina. Yehoshua è uno dei primi firmatari israeliani di un appello per questo riconoscimento, cosa che il governo israeliano giudica un’assurdità.

Perché è importante il riconoscimento dello Stato palestinese da parte dei parlamenti europei? “L’assenza di una trattativa, le lungaggini, la guerra a Gaza, l’ampliamento incontrollato degli insediamenti, tutto ciò crea una situazione in cui, i palestinesi, quelli moderati, coloro che vogliono vivere in pace su quello che è un quarto della Palestina storica hanno bisogno di un incoraggiamento, dopo che gli Stati Uniti hanno tirato per le lunghe e non sono riusciti ad avere un solo successo, non sono riusciti a fare “smantellare” nemmeno un insediamento in Cisgiordania. Non sto parlando delle trattative vere e proprie, che sono una questione complessa, in cui sono presenti molti elementi quali il “Diritto al Ritorno”, che senza dubbio presenta molti problemi, ma almeno bloccare la costruzione di insediamenti, che è l’azione più elementare che Israele dovrebbe compiere, per non creare situazioni irreversibili”.

Siamo al punto di non-ritorno? È finita la soluzione “due Stati per due popoli”? “Spero davvero che non siamo ancora arrivati a questo punto, perché uno Stato bi-nazionale sarebbe una catastrofe per entrambi i popoli. Vediamo che cosa sta accadendo oggi negli stati bi-nazionali: un caos atroce negli stati arabi. Per questo, proprio i palestinesi che ancora credono in una trattativa e ancora credono in uno Stato palestinese sono quelli che hanno bisogno di un incoraggiamento più concreto dagli europei, di un riconoscimento dello Stato Palestinese “.

Quindi lei è d’accordo sul fatto che la comunità internazionale, l’Europa e l’Italia, continuino a dedicare attenzione a quanto avviene nel Medio Oriente? “Ma certamente. Guardi che cosa succede in Siria, cose terribili, e lì è praticamente impossibile fare qualcosa. Ma la questione palestinese, che è una delle ragioni del caos medioorientale, non unica ma una delle tante che infiammano gli estremismi, è invece risolvibile. Naturalmente l’Europa non può creare lo Stato Palestinese, che può essere costituito solo tramite una trattativa fra Israele e i palestinesi, con condizioni che garantiscano la sicurezza di Israele, ma può incoraggiare questo processo con un atto simbolico di riconoscimento”.

La soluzione del conflitto fra Israele ed i palestinesi può offrire una maggiore possibilità di confrontarsi con gli altri conflitti che travagliano il Medio Oriente, come quelli con l’Is o Al Qaeda? “Non lo so. Sembra che nemmeno coloro che combattono sappiano su che cosa verta il conflitto. Chi sa veramente che cosa vogliono l’Is ed Al Qaeda? Sono conflitti molto complessi, in cui non è chiaro dove stia il bene e dove il male, né in Iraq né in Siria, dove non è possibile sapere che cosa accade. Quello che si sa, però, è quello che vogliono i palestinesi: non vogliono un califfato islamico, non hanno obiettivi religiosi estremi. Ciò che vogliono in definitiva è ciò a cui ha diritto ogni persona al mondo: essere cittadino nella propria patria. Questo dobbiamo darglielo e le dirò di più: il 50-60% degli israeliani sono d’accordo, il problema è come realizzarlo”.

Se è vero ciò che lei dice che cosa ne impedisce la realizzazione? “La paura che possa succedere quello che è successo con il ritiro da Gaza. Allora ci fu un ritiro israeliano dalla Striscia incondizionato (che ha portato a tre successive operazioni militari in nove anni, ndr), mentre ora stiamo parlando di un ritiro con garanzie, con contingenti israeliani che rimarrebbero sul posto: il coordinamento fra l’esercito israeliano e le forze di sicurezza palestinesi ha dato ottime prove da anni. Non vi è terrorismo, e se ci sono episodi, si tratta di casi sporadici occorsi soprattutto nei Territori palestinesi che sono ancora sotto il dominio israeliano. Abbiamo visto Abu Mazen che è andato a Parigi per esprimere la sua solidarietà e ha marciato a fianco del primo ministro di Israele. Il terrorismo non è nel suo ordine del giorno, non combatte gli ebrei ovunque siano e non rappresenta l’estremismo islamico. Ha un obiettivo chiaro e preciso: ottenere il suo piccolo Stato “.

A due mesi da un voto politico decisivo Israele si trova sull’orlo della pace o su quello della guerra? “Israele si trova sull’orlo di un cambiamento, sull’orlo della fine del ricatto dei coloni estremisti di destra, sull’orlo della possibilità di cambiare registro, di ritornare al dialogo che vi è stato in passato. Non siamo più all’epoca in cui nessuno nel mondo arabo voleva parlare con noi, abbiamo sul tavolo la proposta della Lega Araba: bisogna soltanto superare l’ostacolo del “Diritto al Ritorno”, che per noi è impossibile accettare (il ritorno dei profughi arabi nel territorio di Israele, ndr).

In cambio della rinuncia dei profughi palestinesi al ritorno, lei sarebbe disposto a rinunciare alla Legge del Ritorno per gli ebrei? “No, perché si tratta di due cose che non hanno nulla in comune, la Legge del Ritorno non ha alcun collegamento con gli arabi. Noi abbiamo bisogno della Legge del Ritorno, perché solo così possiamo assicurare la possibilità di accogliere tutti gli ebrei che ne hanno necessità: guardi quello che succede in questo momento in Francia. Il Diritto al Ritorno dei palestinesi non può essere esteso al ritorno dei profughi in Israele, ma per quanto riguarda il ritorno entro i confini dello Stato Palestinese, lì avranno ogni diritto di ritornare, lì sarà applicata la loro legge del ritorno”.

http://www.repubblica.it/esteri/2015/01/23/news/yehoshua_sostenete_lo_stato_palestinese_l_unica_via_per_arrivare_alla_pace-105562033/

26 Gennaio 2015Permalink

25 gennaio 2015 – Documento GrIS-SIMM.

logo grisSono 107.917 i cittadini stranieri residenti in regione di cui 56.532 donne, secondo i dati Istat 2014: anche nella nostra regione, le dinamiche della immigrazione sono venute modificandosi in questi ultimi anni: rispetto al periodo antecedente la crisi,  i flussi d’ingresso di nuovi lavoratori  sono diminuiti e la  crescita della popolazione straniera è legata principalmente ai ricongiungimenti familiari e alle nuove nascite: i nuovi nati, che conservano la  cittadinanza straniera dei loro genitori, negli ultimi anni sono oltre 1500 ogni anno. E’ in questo contesto che il costante arrivo di stranieri richiedenti protezione internazionale è stato descritto come “emergenza profughi”  soprattutto in alcuni momenti che apparivano di maggior criticità sociale, anche se in realtà la nostra regione fin dai tempi delle guerre balcaniche non è nuova a questi fenomeni.

E’ ben noto che nella nostra regione sono due le vie di ingresso da parte dei richiedenti una protezione internazionale:

  1. Richiedenti asilo arrivati in Italia attraverso il Mediterraneo (operazione Mare Nostrum, poi Triton) e sbarcati sulle coste siciliane, quindi trasferiti nelle varie regioni italiane tra cui anche il FVG, secondo indicazioni ministeriali;
  2. Richiedenti asilo che fanno ingresso in Italia via terra, provenienti principalmente dall’Afganistan e in minor misura dal Pakistan, dopo viaggi altrettanto lunghi e pericolosi; in questi casi l’ingresso in area Shengen avviene evidentemente in altro paese europeo e spesso la situazione giuridica può essere più complessa.

Il GrIS Fvg non può non evidenziare come le modalità di accoglienza per richiedenti asilo differiscano secondo le porte di ingresso:

  1. I primi vengono giustamente soccorsi già in mare e qui ricevono una prima assistenza sanitaria a cui fa seguito un successivo controllo all’arrivo sulla terra ferma e un altro ancora all’arrivo in regione (area di emergenza dell’ospedale di Palmanova); infine, all’interno dei progetti di accoglienza e con la  collaborazione degli operatori degli enti gestori, nelle provincie di Udine e Trieste, i Dipartimenti di Prevenzione si fanno carico degli accertamenti e dei percorsi sanitari, secondo protocolli condivisi e collaudati  da molti anni che comprendono l’affidamento ai medici di medicina generale.
  2. I secondi entrano in regione  solitamente dall’Austria, singolarmente o a piccoli gruppi; e non possono usufruire di nessun percorso predefinito e così ripetutamente si ricade nella logica dell’emergenza.  Dalle zone di confine (dove magari, se individuati,  ricevono un foglio di via) raggiungono comunque in breve tempo le città  capoluogo sede di questura e quindi luogo di potenziale avvio della procedura di riconoscimento, probabilmente richiamati dal passaparola. A Trieste esiste  un percorso  accettabile di primissima accoglienza: non così  a Gorizia, a Udine  e a Pordenone, dove con l’arrivo in città inizia un periodo di durata indeterminata (dalle settimane, al mese o più) di sopravvivenza con mezzi di fortuna, in luoghi assolutamente inidonei ad accogliere chichessia (fabbriche o case abbandonate, improbabili tende o baracche, pensiline o stazioni), privi di servizi igienici, con sovraffollamento e condizioni di vita inaccettabili e che inevitabilmente possono favorire anche l’insorgere e il diffondersi di malattie sociali. Quando i numeri e la conseguente visibilità  fanno scattare l’allarme sociale allora viene attivato un piano di emergenza per trovare collocazione più adeguata a queste persone, che fino a quel momento hanno potuto contare solo sul sostegno spontaneo dei cittadini.

Il GrIS Fvg sottolinea che queste situazioni sono inaccettabili e insostenibili anche dal punto di vista sanitario:  è fondamentale  ridurre al minimo la fase del disagio sociale, quella più a rischio anche per la salute; è indispensabile che le persone possano accedere da subito, senza pregiudiziali,  ad un’accoglienza minima ma dignitosa, che fornisca loro un letto e servizi igienici , in attesa di un’accoglienza più strutturata.

Il GrIS Fvg ribadisce che questa primissima accoglienza  richiede logisticamente di individuare per ogni area territoriale (ad esempio per ogni azienda sanitaria) un luogo spartano ma dignitoso: un tetto, un letto, una doccia, un pasto sono prerequisiti irrinunciabili per la tutela della salute dei “profughi” e la sicurezza di tutta la popolazione. Gli operatori addetti a questa primissima accoglienza valuteranno la eventuale necessità di un intervento infermieristico e/o medico:  è fondamentale che  sia garantito e facilitato  l’accesso ai servizi sanitari, superando anche le barriere burocratiche e amministrative sia attraverso l’assegnazione in prima istanza del codice STP sia accelerando i tempi per il rilascio della documentazione necessaria per  l’iscrizione al Servizio Sanitario Regionale così come previsto dalle normative vigenti.

I problemi  più frequenti (come dimostrano i dati derivanti dall’esperienza locale ma non solo),  strettamente dipendenti dalle condizioni di vita, sono rappresentati da infezioni respiratorie intercorrenti, dolori osteoarticolari, disturbi psicosomatici. Poi c’è la scabbia:  patologia  dovuta proprio alle cattive condizioni igieniche che si evita avendo a disposizione una doccia, vestiti e letto puliti.   Durante questa fase transitoria che non dovrebbe superare un paio di settimane, l’assistenza sanitaria potrebbe essere garantita dalla disponibilità di un supporto infermieristico territoriale e/o  da un medico convenzionato con l’ASS territorialmente competente (un medico di medicina generale o di continuità assistenziale) oppure  da un infermiere o un medico volontario di  una associazione coinvolta nei programmi di accoglienza, che garantiscano la reperibilità diurna/notturna con visite all’interno del centro, in analogia con quanto già avviene, ad esempio, nei centri di accoglienza per minori non accompagnati.
Secondo il GrIS Fvg è opportuna una adeguata attività di informazione e formazione sulle questioni sanitarie ed è necessario definire percorsi chiari e condivisi qualora sia necessario ricorrere alle strutture sanitarie per una valutazione  dello stato di salute in presenza di segni o sintomi di malattie acute o di situazioni di rischio per gli operatori o per l’immigrato stesso: tempi, modi, orari, accessi, operatori di riferimento dei centri di accoglienza e delle strutture sanitarie sia ospedaliere per il pronto soccorso sia territoriali per successive prese in carico ma anche per una valutazione di eventuali misure preventive o  solo di una rapida consulenza telefonica.

Superata questa fase transitoria di primissima accoglienza, il GrIS Fvg condivide le proposte di una accoglienza diffusa secondo il modello dello SPRAR che coinvolga enti e comunità locali e che permetta attività di inclusione sociale, civile e culturale. Con l’ingresso nei programmi di accoglienza  strutturati è possibile realizzare appropriati  percorsi di  accoglienza sanitaria  con una gestione ordinaria e non emergenziale, in un’ottica multidisciplinare, in rete con il territorio, con interventi di prevenzione secondaria e con azioni finalizzate a “prendersi cura” della salute dei migranti, degli operatori e della collettività.
Grazie anche al lavoro del GrIS Fvg, degli enti dello SPRAR della rete “voikrucigo/crocicchio”, delle Caritas diocesane,  e dei Centri di accoglienza, coinvolgendo Dipartimenti di Prevenzione e Distretti Sanitari  e MMG, da molti anni questi percorsi sono concretamente realizzatti nei diversi contesti territoriali, contribuendo prevenire accessi inappropriati ai Pronto Soccorso, a evitare allarmismi, incomprensioni ed eccesso di prestazioni, migliorando serenità e sicurezza delle comunità, capacità relazionali degli operatori, appropriatezza delle scelte cliniche e modalità di accesso ai servizi sanitari, superando  barriere burocratiche e culturali, stereotipi, paure e pregiudizi.

Il GrIS Fvg ha deciso di  indirizzare  alle autorità competenti proposte concrete e  formali  richieste di intervento affinché:.

  • in ogni area territoriale dei cinque enti del servizio sanitario regionale, sia previsto l’allestimento in tempi brevi di  una idonea struttura deputata alla “primissima accoglienza”, dotata di servizi igienici e gestita da operatori in grado di riconoscere i bisogni primari e di lavorare in rete, come prerequisito essenziale per la tutela della salute e della sicurezza
  • sia garantito un costante coinvolgimento degli enti locali per una accoglienza diffusa e inclusiva, condivisa con le comunità ampliando i posti disponibili nel modello SPRAR
  • la  Direzione centrale Salute della Regione  emani  direttive chiare per le modalità di fruizione del diritto alla salute, previsto dalle normative in vigore, dei richiedenti protezione internazionale, onde evitare disomogeneità territoriali e  difficoltà per gli operatori
  • l’Assessorato regionale alla Salute ribadisca l’opportunità di applicare diffusamente e omogeneamente, seppur con modalità operative differenti a seconda delle diverse organizzazioni territoriali, i  protocolli regionali per  percorsi sanitari di screening e di accoglienza sanitaria, a tutela della salute del singolo e della comunità, sperimentati fin dall’avvio del progetto Codroipolis  e ulteriormente   condivisi e consolidati nelle circolari regionali nel 2011 in occasione della cosiddetta emergenza nord-Africa
  • venga riattivato quanto prima presso la Direzione centrale Salute e Protezione sociale un Gruppo di Lavoro Tecnico per la salute dei migranti  a cui partecipino operatori socio-sanitari che in questi anni hanno maturato esperienza sul campo, designati da ciascun ente del Servizio sanitario regionale  e che rilevi e analizzi le diverse problematiche proponendo soluzioni pratiche derivanti anche dalle buone pratiche già in atto, ascoltando anche associazioni ed enti competenti sulla tutela e la promozione della salute dei migranti.
  • in attesa  di conoscere i tempi dell’iter della nuova legge regionale sull’immigrazione, presso l’Assessorato regionale competente  venga comunque attivato subito, senza indugi un tavolo permanente sulla Protezione internazionale e umanitaria   costituito dai rappresentanti degli Enti Locali, delle Prefetture, delle Questure,  delle Aziende Sanitarie, degli enti gestori del Sistema SPRAR e delle associazioni aventi pluriennale e comprovata esperienza nella gestione dei servizi di tutela, accoglienza e mediazione culturale  dei richiedenti asilo e  dei rifugiati.

Il Consiglio Direttivo del Gruppo Immigrazione Salute della Società Italiana di Medicina delle Migrazioni  –  Friuli Venezia Giulia

Zugliano di Pozzuolo del Friuli, 22 gennaio 2015

 

25 Gennaio 2015Permalink

19 gennaio 2015 – Da Joseph Heller al pacchetto sicurezza, immortalità del paradosso del comma 22

Mostrami il documento che non  hai e, se non ci riesci, tuo figlio non esiste,

Mentre vedo sconsolatamente che si allontana la possibilità di far modificare la norma che – inserita nel ‘pacchetto sicurezza’ – impone la presentazione del permesso di soggiorno per la registrazione delle nascite, sento la necessità di tornate alle fonti.
2009-2015 – sono sei anni che mi misuro con la norma che ha imposto agli immigrati che non hanno il permesso di soggiorno di presentarlo per poter registrare la nascita dei figli (ovviamente quando avvenga in Italia).
Da qualche anno ho anche la certezza che mi è stata assicurata dal gruppo Convention on the Rights of the Child (si veda la descrizione più recente del gruppo nel mio blog in data 7 dicembre 2014 ) che ci sono donne che partoriscono di nascosto e bambini conseguentemente nascosti per ‘sicurezza’ (movimenti di donne, organizzazioni finalizzate alla tutela dell’infanzia, se ci siete battete un colpettino). Non voglio elencare le decine e decine di citazioni che ne ho proposto, mi limito a suggerire (a chi le voglia leggere) la citazione che ne ho fatto alla Garante Regionale per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza.

E torno alle prime fonti

Poco dopo l’approvazione del pacchetto sicurezza i portatori della cultura razzista si sentirono rassicurati e alzarono la testa. Alcuni episodi furono segnalati anche dalla stampa nazionale e ne identificai due in particolare, riportandoli nel mio blog.

san martinoNel primo (22 novembre 2009), il comune di Coccaglio (BS) apriva una campagna  all’insegna del ‘bianco Natale’, trasformato in Natale per bianchi, invitando la popolazione a farsi parte attiva nella cacciata dei clandestini.

L’altro – San Martino dall’argine (Mn) – rafforzava l’idea con un manifesto che ho conservato -e ricopio -ad almeno mia futura memoria (nascere ogni mattina è faticoso, meglio una solida continuità.

 

 

Fra beneficenza e legalità

Nella mia fissazione che le realtà debba essere osservata – e conoscendo i limiti della mia sfera d’osservazione ( non sono una funzionaria delle Nazioni Unite) – ho cominciato a guardarmi attorno e ho via via constatato e riconstatato che

  • l’aspetto legale delle registrazione di nascita non interessa quasi a nessuno salvo a singole persone che, pur appartenendo ad organizzazioni varie, non riescono a coinvolgerle. Per correttezza segnalo come eccezioni le raccomandazioni della SIMM a conclusione dell’ultimo congresso e le considerazioni che si trovano nel sito della Associazioni Studi Giuridici Immigrazione in data 26 agosto 2014. Aggiungo che l’unico organo di stampa che ha riportato a livello locale le relative informazioni è il mensile Ho un sogno. C’è stato poi un articolo nel sito del CIDI e del MoVi e in precedenza un intervento dei giornalisti Canetta e  Pruneddu (tutto in rete) I materiali si trovano – e sono reperibili – nel blog.
  • molte persone (anche con responsabilità politiche e nell’amministrazione locale) confondono la certificazione anagrafica con la cittadinanza e quindi ritengono che, quando passeremo dallo ius sanguinis allo ius soli (cosa che guardano con serena faciloneria) la questione sarà risolta. La mia sconcertata domanda: “Ma dove scrivere e scriverete la cittadinanza, quale che sia e sarà?”, non ha mai avuto risposta.
  • il richiamo alla legge dà fastidio e a quello viene contrapposta una beneficenza operante, spesso presentata come il ‘fare’ contro la mia chiacchiera. Indubbiamente ci sono iniziative positive e rispettabili (ma mi sforzo di non pensare all’uso che si può fare dei ‘senza diritti’ come hanno dimostrato recenti scandali relativi a cooperative) ma il diritto alla registrazione anagrafica appartiene alle persone non è la coloritura del buonismo di chi si chini pietosamente su coloro che ne sono stati  privati

Il punto di partenza -Un articolo di legge beffato  legge 176/1991 – art. 7

1. Il fanciullo è registrato immediatamente al momento della sua nascita e da allora ha diritto ad un nome, ad acquisire una cittadinanza e, nella misura del possibile, a conoscere i suoi genitori ed a essere allevato da essi.

2. Gli Stati parti vigilano affinché questi diritti siano attuati in conformità con la loro legislazione nazionale e con gli obblighi che sono imposti loro dagli strumenti internazionali applicabili in materia, in particolare nei casi in cui se ciò non fosse fatto, il fanciullo verrebbe a trovarsi apolide.

Di recente a Milano c’è stato un convegno sulla famiglia (presente il governatore della regione che nel 2009 aveva voluto l’approvazione del ‘pacchetto sicurezza’). Cerchiamo almeno di essere consapevoli che quella ‘famiglia’ – pur nel sul falsificato modello a una sola tradizionale direzione – è per legge mutilata della presenza di nuovi nati cui l’esserne parte è negato.
E‘ molto significativo il titolo di quel convegno: «Difendere la famiglia per difendere la comunità» dove la difesa dell’istituzione va in parallelo con la negazione (ignorata ma reale) di alcuni figli della medesima famiglia, più soggetta a epurazione che a difesa..
Mi sembra perfettamente in linea con le origini della vicenda, quando il sindaco di un centro lombardo stravolgeva il bianco Natale in natale per bianchi con caccia all’uomo per strada.

Codicillo
Aggiungo il link a un articolo di Repubblica che dà una significativa immagine del clima culturale del convegno lombardo  http://milano.repubblica.it/cronaca/2015/01/19/news/prete_pedofilo_al_convegno_anti_gay_maroni_prende_le_distanze_presenza_inopportuna-105288666/?ref=HREC1-1

19 Gennaio 2015Permalink

13 gennaio 2015 – Attrezzi per ragionare

A quanto avevo scritto il 9 gennaio aggiungo un nuovo link

9 gennaio 2015 – Tiziano Terzani scriveva a Oriana Fallaci

http://commonware.org/index.php/cloe/542-je-suis-ouest

http://claudiavago.me/blog/2015/01/12/nous-sommes-charlie-ma-siamo-anche-i-genitori-degli-assassini/

Non è facile, in questi giorni in cui i tamburi dei media battono con insistenza a ritmo la storia delle libertà occidentali – prima fra tutte quella d’espressione – colpite dal terrorismo islamico, ascoltare voci dubbiose, incerte, che provano ad articolare una melodia di ragioni e non si accontentano di un’unica nota, battuta ancora e ancora, voci non auto assolutorie e auto consolanti.

Questa lettera che ho tradotto, scritta da quattro insegnanti di Seine-Saint-Denis, la periferia di Parigi di cui sentiamo parlare solo quando la disperazione brucia le automobili, apre uno squarcio di luce e ci impone interrogativi, anche a noi che non siamo francesi e non siamo stati direttamente colpiti dall’attacco a Charlie Hebdo.

Siamo professori di Seine-Saint-Denis. Intellettuali, scienziati, adulti, libertari, abbiamo imparato a fare a meno di Dio e a detestare il potere e il suo godimento perverso. Non abbiamo altro maestro all’infuori del sapere. Questo discorso ci rassicura, a causa della sua ipotetica coerenza razionale, e il nostro status sociale lo legittima. Quelli di Charlie Hebdo ci facevano ridere; condividevamo i loro valori. In questo, l’attentato ci colpisce. Anche se alcuni di noi non hanno mai avuto il coraggio di tanta insolenza, noi siamo feriti. Noi siamo Charlie per questo.

Ma facciamo lo sforzo di un cambio di punto di vista, e proviamo a guardarci come ci guardano i nostri studenti. Siamo ben vestiti, ben curati, indossiamo scarpe comode, siamo al di là di quelle contingenze materiali che fanno sì che noi non sbaviamo sugli oggetti di consumo che fanno sognare i nostri studenti: se non li possediamo è forse anche perché potremmo avere i mezzi per possederli. Andiamo in vacanza, viviamo in mezzo ai libri, frequentiamo persone cortesi e raffinate, eleganti e colte. Consideriamo un dato acquisito che La libertà che guida il popolo e Candido fanno parte del patrimonio dell’umanità. Ci direte che l’universale è di diritto e non di fatto e che molti abitanti del pianeta non conoscono Voltaire? Che banda di ignoranti… E’ tempo che entrino nella Storia: il discorso di Dakar ha già spiegato loro. Per quanto riguarda coloro che vengono da altrove e vivono tra noi, che tacciano e obbediscano.

Se i crimini perpetrati da questi assassini sono odiosi, ciò che è terribile è che essi parlano francese, con l’accento dei giovani di periferia. Questi due assassini sono come i nostri studenti. Il trauma, per noi, sta anche nel sentire quella voce, quell’accento, quelle parole. Ecco cosa ci ha fatti sentire responsabili. Ovviamente, non noi personalmente: ecco cosa diranno i nostri amici che ammirano il nostro impegno quotidiano. Ma che nessuno qui venga a dirci che con tutto quello che facciamo siamo sdoganati da questa responsabilità. Noi, cioè i funzionari di uno Stato inadempiente, noi, i professori di una scuola che ha lasciato quei due e molti altri ai lati della strada dei valori repubblicani, noi, cittadini francesi che passiamo il tempo a lamentarci dell’aumento delle tasse, noi contribuenti che approfittiamo di ogni scudo fiscale quando possiamo, noi che abbiamo lasciato l’individuo vincere sul collettivo, noi che non facciamo politica o prendiamo in giro coloro che la fanno, ecc. : noi siamo responsabili di questa situazione.

Quelli di Charlie Hebdo erano i nostri fratelli: li piangiamo come tali. I loro assassini erano orfani, in affidamento: pupilli della nazione, figli di Francia. I nostri figli hanno quindi ucciso i nostri fratelli. Tragedia. In qualsiasi cultura questo provoca quel sentimento che non è mai evocato da qualche giorno: la vergogna.

Allora, noi diciamo la nostra vergogna. Vergogna e collera: ecco una situazione psicologica ben più scomoda che il dolore e la rabbia. Se proviamo dolore e rabbia possiamo accusare gli altri. Ma come fare quando si prova vergogna e si è in collera verso gli assassini, ma anche verso se stessi?

Nessuno, nei media, parla di questa vergogna. Nessuno sembra volersene assumere la responsabilità. Quella di uno Stato che lascia degli imbecilli e degli psicotici marcire in prigione e diventare il giocattolo di manipolatori perversi, quella di una scuola che viene privata di mezzi e di sostegno, . Quella di una politica urbanistica che rinchiude gli schiavi (senza documenti, senza tessera elettorale, senza nome, senza denti) in cloache di periferia. Quella di una classe politica che non ha capito che la virtù si insegna solo attraverso l’esempio.

Intellettuali, pensatori, universitari, artisti, giornalisti: abbiamo visto morire uomini che erano dei nostri. Quelli che li hanno uccisi sono figli della Francia. Allora, apriamo gli occhi sulla situazione, per capire come siamo arrivati qua, per agire e costruire una società laica e colta, più giusta, più libera, più uguale, più fraterna.

« Nous sommes Charlie », possiamo appuntarci sul risvolto della giacca. Ma affermare solidarietà alle vittime non ci esenterà della responsabilità collettiva di questo delitto. Noi siamo anche i genitori dei tre assassini.

Catherine Robert, Isabelle Richer, Valérie Louys et Damien Boussard

 

 

13 Gennaio 2015Permalink

11 gennaio 2015 – A proposito di Charlie

La strage al settimanale Charlie Hebdo è una tragedia dalle molte facce che rischia di fare troppe vittime. Le prime sono i giornalisti, i vignettisti e i poliziotti caduti sotto il fuoco della follia integralista degli attentatori. Poi i familiari, che piangono i loro parenti uccisi brutalmente. Poi i musulmani di tutto il mondo, che sull’onda dello sdegno e della paura che sta montando, rischiano in quanto tali di essere assurdamente equiparati ai terroristi e di farne le spese ingiustamente. Infine, ultime vittime ma non meno importanti, ci sono la ragionevolezza, l’arte delle distinzioni, la tolleranza, lo spirito del dialogo e la libertà religiosa, che sono tra le più grandi conquiste storiche della nostra civiltà.

Come giornalisti di testate di diversa ispirazione religiosa, portiamo il lutto per la morte dei nostri colleghi francesi: la loro resistenza alle minacce degli intolleranti e la loro testimonianza di libertà ci devono essere di esempio. Lo spirito critico è il sale del giornalismo. E la satira ne è una delle sue espressioni. Anche se non sempre si è d’accordo con le sue provocazioni. Una società democratica si riconosce dalla capacità di difendere la possibilità d’espressione anche delle voci più taglienti.

La questione che si pone oggi è di enorme rilevanza, perché l’attacco terroristico a Charlie Hebdo non ha inteso ferire a morte soltanto un gruppo di coraggiosi vignettisti, né soltanto aggredire società laiche e liberali come quella francese; ha inteso sottomettere, intimidire e piegare tutti i credenti in un Dio diverso da quello violento e totalitario propagandato dagli integralisti.

Portiamo il lutto perché, in questo clima sociale, lo spirito di dialogo e di convivenza tra diverse culture e religioni rischia di farsi più difficile. Su un punto, perciò, occorre essere chiari: chi dice di voler difendere Dio usando la violenza, sta bestemmiando il suo Santo Nome.

Per questo non possiamo dimenticare anche la terribile strage compiuta nel Nord della Nigeria.

L’ironia e la satira non sono nemiche dei credenti. Anzi, possono aiutarli a liberarsi dalla presunzione di “possedere” l’Altissimo, giocando così una funzione anti-idolatrica. Saper ridere di se stessi e rispettare la propria coscienza di credenti è dunque un modo per sconfiggere la follia assolutista di chi vorrebbe imporre con la forza della paura una caricatura impazzita e mortifera del Divino.

Forse una risata non salverà il mondo. Ma almeno ci impedirà di trasformare Dio in un simbolo dell’odio.

Jesus (mensile della Periodici San Paolo) Il Regno (edizioni Dehoniane) Riforma (quotidiano on line e settimanale delle Chiese valdesi metodiste e battiste in Italia) Nev (agenzia di stampa della Federazione delle Chiese evangeliche in Italia – Fcei) RBE (Radio Beckwith Evangelica) Confronti (mensile di dialogo ecumenico e interreligioso) Qol (rivista di dialogo cristiano-ebraico) CEM Mondialità (mensile di interculturalità) Yalla Italia (blog delle “seconde generazioni”)

11 Gennaio 2015Permalink