10 novembre 2009 – I sans papier d’Italia e i corollari della sicurezza.

Dalla newsletter Notam

28 ottobre 2009

Vivere gomito a gomito con gli altri non è sempre agevole e anche con i vicini nostrani non è sempre possibile evitare beghe e ripicche di eterogenea rilevanza, figuriamoci poi se il coinquilino viene da lontano con usi odori e pelle esoticamente insoliti. Così oggettive difficoltà, regole nebulose per gli stessi autoctoni già poco inclini alla legalità per antico retaggio, nonché flussi oscillanti tra necessità e respingimento hanno alzato barriere di diffidenza, trasformata da un’abile orchestrazione politica in paura. In questo terreno germoglia e ramifica il cosiddetto Pacchetto sicurezza, codificato in legge dello Stato come Disposizioni in materia di sicurezza pubblica (L 94 del 15/7/09), un testo che introduce significative novità in materia di migrazione clandestina, criminalità diffusa e organizzata, sicurezza stradale e decoro urbano, ronde comprese. Contenuti a parte, chi volesse darsi alla consultazione, per civile impegno conoscitivo, si troverebbe però davanti a un insieme di correzioni ad altre norme da collazionare e variare tanto da rendere ardue lettura e comprensione, in barba a ogni ventilata semplificazione legislativa, per la quale esiste addirittura un ministero.
Ma, si sa, nell’incalzare degli eventi, gli Italiani sono ormai in grado di ingoiare senza pudore e senza indignazione il peggio per la degradata e lacera solidarietà socialnazionale! Soltanto per l’impegno civile di medici e operatori sanitari operanti sul campo è stato possibile mantenere l’obbligatorietà del segreto sanitario per i migranti che si rivolgono alle strutture pubbliche e conservare l’accesso a servizi sanitari essenziali, come la tutela della maternità o le vaccinazioni… Fra l’altro, anche solo per egoistica lungimiranza, si può capire che un malato senza cure non giova a nessuno. Microbi e batteri non fanno discriminazioni e lo star bene personale dipende anche dallo star bene degli altri, extra compresi, piaccia o non piaccia. Collettivamente metabolizzato, dunque, il reato di immigrazione clandestina e digerite, nei TG all’ora dei pasti, le immagini filtrate dei respingimenti, si delineano, però, alcuni effetti collaterali come la questione di colf e badanti, subito sanata da un sollecito articolo bis dedicato alla Dichiarazione di attività di assistenza e di sostegno alle famiglie. «Una formula -come dice Il Sole 24ore- per indicare il varo di una sanatoria per quei cittadini, soprattutto extra Ue, che prestano la loro attività in famiglia e che, con l’entrata in vigore della legge sulla sicurezza, si troverebbero in gravi difficoltà. E con loro le tante famiglie nelle quali prestano l’attività di assistenza a familiari o di lavoro domestico». Ovviamente famiglie di elettori che, eventualmente, chissà, potrebbero diversamente orientarsi. E si tenga conto, a margine, che il fenomeno badanti, è frutto quasi esclusivo del faidate italico, per vacanza di adeguate formule di assistenza strutturale per anziani e disabili.
Tra le pieghe del discorso, c’è poi un altro corollario: la questione dei neonati figli di immigrati senza permesso di soggiorno. Una voce senza peso elettorale e perciò questa volta accantonabile senza troppi riguardi. Infatti, gli unici a alzare la voce per loro potrebbero essere i genitori, quelli in flagranza di reato per immigrazione illegale e, quindi, privi del diritto di invocare giustizia per i propri figli.
E qui occorre addentrarsi nella questione. Prima dell’entrata in vigore della legge 94, per gli atti di stato civile -cioè per sposarsi registrare una nascita o presentare una dichiarazione di morte- non occorreva aggiungere ai documenti il permesso di soggiorno, dopo, invece, tale documento diventa necessario (vedi art.1, comma 22, lettera g). Quindi, in maniera linguisticamente un po’ tortuosa, gli atti di stato civile sarebbero spariti dall’elenco di quelli per cui era consentito di non presentare il permesso di soggiorno. Così, se i genitori non possono esibire il permesso di soggiorno per la registrazione anagrafica del neonato, questa non può avvenire e il minore resta formalmente inesistente, privo di identità, senza genitori dichiarati; viene a trovarsi in stato di abbandono, diventando adottabile, se non vendibile, privo di qualsiasi diritto, comprese le cure essenziali e l’istruzione obbligatoria. Il che sarebbe sfacciatamente contrario alle norme internazionali e alla Costituzione italiana, ancora vigente nonostante le vigorose recenti spallate.
Comunque, per ragioni che non contemplano, of course, la mobilitazione nazionale né di popolo né di opposizione, qualcuno, nella pur minimizzante maggioranza, deve aver notato l’enormità della cosa, tanto da intervenire, nella canicola agostana, con una circolare di precisazione, la n. 19 del Ministero dell’interno: «Per lo svolgimento delle attività riguardanti le dichiarazioni di nascita e di riconoscimento di filiazione (registro di nascita – dello stato civile) non devono essere esibiti documenti inerenti al soggiorno trattandosi di dichiarazioni rese, anche a tutela del minore, nell’interesse pubblico della certezza delle situazioni di fatto». Sembrerebbe, a questo punto, che il cittadino straniero possa registrare, senza permesso di soggiorno e senza complicazioni, la nascita del figlio e il suo rapporto genitoriale. In seguito potrà richiedere in comune un estratto di nascita, dimostrare il suo rapporto di filiazione, ottenere documenti per lasciare l’Italia con il figlio e via dicendo nel rispetto della legalità.
Eppure i rischi sono dietro l’angolo, perché a un qualunque e zelante ufficiale di stato civile potrebbe girare la voglia di richiedere il permesso di soggiorno a un incerto straniero non consapevole o senza prontezza di risposta che si troverebbe, in tal modo, con un figlio registrato, ma con una denuncia di irregolarità completa di nome e cognome. Infatti, chiunque e per qualunque motivo mostra il proprio stato di clandestino dichiara ipso facto un reato per il quale la legge ora vigente impone l’obbligo della denuncia, determinando una correità per chi lo omette. Va ricordato che il rischio non sussiste nel caso in cui la dichiarazione di nascita sia fatta in ospedale, perché, come già evidenziato, per tutto il personale operante presso una struttura sanitaria continua a valere il divieto di denuncia. Ma che succede se la madre non è in grado di riconoscere il bimbo partorito? Quali diritti può accampare il padre? In ogni caso, potrebbe succedere -e succede- che, nel dubbio sul permesso di soggiorno sì o no, il sans papier d’Italia decida di non registrare il proprio nato, per non essere denunciato e, di conseguenza, espulso, ma facendo del figlio, come si è detto sopra, un apolide senza diritti. E occorre ancora aggiungere che un clandestino non è tale solo per essere entrato nel territorio nazionale in violazione a norme precise, ma tale può essere diventato per la perdita del posto di lavoro, per non essergli stato assicurato il diritto a presentare istanza di rifugio politico o altro motivo non dipendente dalla sua volontà.
E non è finita qui in quanto, dal punto di vista giuridico, una circolare è inferiore a una legge. I contorni delle tutele si profilano labili e i margini di incertezza possono rendere cavillose e disomogenee interpretazioni e applicazioni tanto da arrivare a dover richiedere per favore quello che dovrebbe essere garantito come diritto.
Quando poi i figli extra rientrano nell’età scolastica, il citato art.1, comma 22, lettera g della legge sicurezza ha qualcosa in serbo anche per loro, ma di questo si parlerà nella prossima puntata.
Enrica Brunetti

segue 10 novembre – I SANS PAPIER D’ITALIA E I COROLLARI DELLA SICUREZZA – 2

Si scriveva nella prima parte (Notam 338) di come la legge 94/09, Disposizioni in materia di sicurezza pubblica, abbia determinato nei confronti dei cittadini stranieri senza permesso di soggiorno una serie di effetti collaterali che vanno, fra l’altro, a colpire i loro figli, non per diretta chiamata in causa, ma per una sorta di arcaico ripristino di ricaduta delle colpe dei padri. Infatti, si è detto della possibilità di espulsione per un sans papier che vada all’anagrafe per registrare la nascita di un figlio quando non sia informato del non obbligo di presentare il permesso di soggiorno in tale circostanza; del rischio di fare del piccolo un apolide senza diritti, nel caso prevalesse la paura di accostare l’ufficio pubblico. Ma andiamo avanti.
Quando poi i figli extra rientrano nell’età scolastica, il citato art. 1, comma 22, lettera g della legge sicurezza ha qualcosa in serbo anche per loro: l’inesistenza dell’obbligo di mostrare il permesso di soggiorno vale solo per le prestazioni scolastiche obbligatorie (la cosiddetta scuola dell’obbligo) e non per garantire, una volta eventualmente ottenuta l’iscrizione (l’obbligo scolastico è di 10 anni, legge 296/2006), la possibilità di concludere il percorso di studi nelle scuole di ogni ordine e grado, al compimento del diciottesimo anno di età. Per intenderci, l’esame di maturità non rientra nella definizione di scuola dell’obbligo e neppure il diploma professionale; mentre il ragazzo che compie 18 anni non è più un minore, non è più sottratto all’obbligo di presentare il permesso di soggiorno e si trasforma in clandestino, fuorilegge da espellere. E la scuola per l’infanzia, non obbligatoria, potrebbe rientrare nell’obbligo di esibizione del permesso di soggiorno? E quali possibilità di accoglienza negli asili nido, già insufficienti e di arduo accesso per i nostrani? Se il tutto così fosse, si potrebbe leggervi una perfida vendetta nei confronti dei figli di cittadini irregolari.
Ma forse si tratta di letture troppo restrittive, peraltro insite in aspettative diffuse e spregevoli. L’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione, con uno studio specifico (I minori stranieri extracomunitari e il diritto all’istruzione dopo l’entrata in vigore della legge 94/2009, www.asgi.it), tende, invece, a superare queste trappole cavillose attraverso una lettura globale della normativa ancora esistente post legem, come la legge delega 53/2003 (quella della riforma Moratti della scuola) e i successivi passi applicativi. Così facendo, si può argomentare in tutt’altro modo e arrivare addirittura a conclusioni opposte, di tutela piuttosto che di esclusione, ma siamo al duello giuridico dai contendenti incerti. Gli interessati sono l’anello debole della storia e quindi chi, nella quotidianità di una remota scuola, raccoglierà mai il guanto di sfida? Si potrà contare su dirigenti e operatori della scuola usualmente ammollati nel pantano delle ristrettezze normative e finanziarie? Di sicuro ci sarà chi provvederà a intorbidare le acque o ad accendere polemica nei casi di scantonament dalle attese più ignobili.
Comunque, rifacendosi come l’ASGI alle norme sopravvissute, si può sostenere che l’esenzione dall’obbligo di esibizione del permesso di soggiorno vale dall’inizio al completamento dell’intero percorso scolastico/formativo, compreso il 18esimo anno di età, e comunque fino al conseguimento di un titolo di studio di scuola secondaria superiore o di una qualifica professionale.
Questo perché in quella legge 53 si viene a ridefinire l’intero sistema educativo di istruzione e formazione, si uniscono concettualmente obbligo scolastico e obbligo formativo, mentre si precisa la sua articolazione a partire dalla scuola dell’infanzia (non obbligatoria, ma in continuità educativa con il complesso dei servizi all’infanzia e con la scuola primaria) arrivando al sistema dei licei nonché dell’istruzione e della formazione professionale.
L’obbligo di istruzione del 2006, sopra ricordato, sarebbe decennale, tuttavia nella legge 53, del 2003 ma non finora soppressa, si parla di diritto all’istruzione e alla formazione per almeno dodici anni; cosa coerentemente sostenuta nelle disposizioni emanate successivamente da quel Ministero dell’Istruzione a cui non è ben chiaro se applicare l’aggettivo di Pubblica. In questa prospettiva la soglia dei 16 anni, andrebbe interpretata come età legale di accesso al lavoro e non come termine ultimo del diritto all’istruzione obbligatoria. Tale diritto potrebbe, invece, protrarsi oltre i 18 anni di età, qualora fosse necessario per completare il percorso scolastico e formativo e conseguire il titolo di studio: non ha senso perdere un diritto prima di aver raggiunto la meta!
E l’ASGI si spinge anche più in là, affermando che ai ragazzi stranieri che accedono al sistema scolastico “si applicano tutte le disposizioni vigenti in materia di diritto all’istruzione, di accesso ai servizi educativi, di partecipazione alla vita della comunità scolastica. Ne consegue che, oltre alle istituzioni scolastiche, anche gli Enti Locali sono tenuti ad erogare ai minori stranieri tutte le prestazioni relative al diritto allo studio previste per gli italiani (come i servizi educativi complementari, di sostegno o linguistici, refezione scolastica, trasporti…) e che non potranno pretendere l’esibizione del titolo di soggiorno non solo dai minori stranieri ma neppure dai genitori perché se così fosse si aggirerebbe la tutela prevista dal legislatore, anche dalla legge 94 (quella della sicurezza in questione), di garantire l’effettività dell’istruzione a tutti”.
In sostanza, però, si torna al campo di battaglia dell’interpretazione e alle infinite questioni che non invitano certo alla frequenza scolastica. Eppure non dovrebbe essere difficile da capire che, se la presenza di giovani stranieri in aula rappresenta un indubbio problema, è altrettanto vero che giovani stranieri formati nelle scuole italiane saranno più facilmente inseriti nel sistema paese con vantaggio di tutti.
Per concludere, mi chiedo: se l’opposizione non è interessata a rivolgere le proprie energie, già stentate per la sopravvivenza, a interessi elettoralmente poco produttivi e di scarso consenso come questi, dov’è la voce della chiesa? I cattolici d’Italia, tanto bravi a mobilitarsi su altri versanti, dove sono? Al solito, con poche sporadiche eccezioni, non si preoccupano delle battaglie civili: troppo laiche. Meglio, dunque, la buona assistenza tradizionale: vieni, poverino che ti aiuto io, di persona o in associazione, che forse risolve -e ben venga in assenza di alternative- problemi hic et nunc, ma non produce legalità. La coscienza è a posto, l’anima è salva e le alleanze politiche pure!
Enrica Brunetti

Nota di Augusta
Ringrazio Enrica Brunetti per la sua competente attenzione e ne apprezzo molto il preciso riferimento alla questione di colf e badanti, subito sanata da un sollecito articolo bis dedicato alla Dichiarazione di attività di assistenza e di sostegno alle famiglie.
Così mi sono resa conto che io avevo parlato della questione senza citare la fonte. Ora rimedio
Si tratta della Legge 3 agosto 2009, n. 102. “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 1º luglio 2009, n. 78, recante provvedimenti anticrisi, nonchè proroga di termini e della partecipazione italiana a missioni internazionali” – art. 1 ter

10 Novembre 2009Permalink

07 novembre 2009 – Chiara e le scatole cinesi

No al crocefisso in classe La battaglia su un simbolo di Stefano Rodotà, Repubblica, 4 novembre 2009

Ancora una volta una sentenza prevedibile, ben argomentata giuridicamente, non suscita le riflessioni che meritano le difficili questioni affrontate, ma induce a proteste sopra le righe, annunci di barricate, ambigue sottovalutazioni.

Dovremmo ricordare che le precedenti decisioni italiane, che avevano ritenuto legittima la presenza del crocifisso nelle aule, erano state assai criticate per la debolezza del ragionamento giuridico, per il ricorso ad argomenti che nulla avevano a che fare con la legittimità costituzionale. E, considerando il fatto che la nostra Corte costituzionale aveva ritenuto inammissibile per ragioni formali un ricorso in materia, s´era parlato addirittura di una “fuga della Corte”, nelle cui sentenze si potevano ritrovare molte indicazioni nel senso della illegittimità della esposizione del crocifisso.

Nella decisione della Corte europea dei diritti dell´uomo di Strasburgo, che ha ritenuto quella esposizione in contrasto con quanto disposto dalla Convenzione europea dei diritti dell´uomo, non v´è traccia alcuna di sottovalutazione della rilevanza della religione, della quale, al contrario, si mette in evidenza l´importanza addirittura determinante per quanto riguarda il diritto dei genitori di educare i figli secondo le loro convinzioni e la libertà religiosa degli alunni. La sentenza, infatti, sottolinea come la scuola sia un luogo dove convivono presenze diverse, caratterizzate da molteplici credenze religiose o dal non professare alcuna religione. Si tratta, allora, di evitare che la presenza di un “segno esteriore forte” della religione cattolica, quale certamente è il crocifisso, “possa essere perturbante dal punto di vista emozionale per gli studenti di altre religioni o che non ne professano alcuna”.

Inoltre, il rispetto delle convinzioni religiose di alcuni genitori non può prescindere dalle convinzioni degli altri genitori. È in questo crocevia che si colloca la decisione dei giudici di Strasburgo che, in ossequio al loro mandato, devono garantire equilibri difficili, evitare ingiustificate prevaricazioni, assicurare la tutela d´ogni diritto.

Non si può ricorrere, infatti, all´argomento maggioritario, come incautamente aveva fatto il Tar del Veneto, che per primo aveva respinto la richiesta di togliere il crocifisso dalle aule, ricorrendo ai risultati di un sondaggio che sottolineava come la grande maggioranza degli interpellati fosse a favore del mantenimento di quel simbolo.

Un grande teorico del diritto, Ronald Dworkin, ha ricordato che «l´istituzione dei diritti è cruciale perché rappresenta la promessa della maggioranza alla minoranza che la sua dignità ed eguaglianza saranno rispettate. Quando le divisioni tra i gruppi sono molto violente, allora questa promessa, se si vuole far funzionare il diritto, dev´essere ancor più sincera». La garanzia del diritto, fosse pure quella di uno solo, è sempre un essenziale punto di riferimento per misurare proprio la tenuta di uno Stato costituzionale.

Guai a considerare la sentenza di ieri come un documento che apre un insanabile conflitto, che nega l´identità europea, che è “sintomo di una dittatura del relativismo”, addirittura “un colpo mortale all´Europa dei valori e dei diritti”. Soprattutto da chi ha responsabilità di governo sarebbe lecito attendersi un linguaggio più sorvegliato. Non vorrei che, abbandonandosi a queste invettive e parlando di una “corte europea ideologizzata”, si volesse trasferire in Europa lo stereotipo devastante dei giudici “rossi”, che tanti guai sta procurando al nostro paese. Allo stesso modo sarebbe sbagliato se il fronte “laicista” cavalcasse il pronunciamento per rilanciare una battaglia anti-cristiana.

Mantenendo lucidità di giudizio, si dovrebbe piuttosto concludere che la sentenza della Corte europea vuole sottrarre il crocifisso a ogni contesa. In questo è la sua superiore laicità. Viviamo tempi in cui la difesa della libertà religiosa non può essere disgiunta dal rispetto del pluralismo, da una riflessione più profonda sulla convivenza tra diversi. L´ossessione identitaria, manifestata anche in questa occasione e che percorre pericolosamente i territori dell´Unione europea, era lontanissima dai pensieri e dalla consapevolezza che ispirarono i padri fondatori dell´Europa, tra i quali i cattolici Alcide De Gasperi e Konrad Adenauer, che proprio quando si scrisse la Convenzione sui diritti dell´uomo nel 1950, quella sulla quale è fondata la sentenza di ieri, mai cedettero alla tentazione di ancorarla a “radici cristiane”, che avrebbero introdotto un elemento di divisione nel momento in cui si voleva unificare l´Europa, anche intorno all´eguale diritto di tutti e di ciascuno. Dobbiamo rimpiangere quella lungimiranza?

Questa sentenza ci porta verso un´Europa più ricca, verso un´Italia in cui si rafforzano le condizioni della convivenza tra diversi, dove acquista pienezza quel diritto all´educazione dei genitori che i cattolici rivendicano, ma che deve valere per tutti. Libera anche il mondo cattolico da argomentazioni strumentali che, pur di salvare quella presenza sui muri delle scuole, riducevano il simbolo drammatico della morte di Cristo a una icona culturale, ad una mediocre concessione compromissoria ai partiti d´ispirazione cristiana (così è scritto nella memoria presentata a Strasburgo della nostra Avvocatura dello Stato). L´Europa ci guarda e, con il voto unanime dei suoi giudici, ci aiuta.

(4 novembre 2009)

La Croce nelle mani di Gasparri e Calderoli – 05-11-2009 di Raniero La Valle

Vorrei dire il mio sentimento riguardo alla sentenza della Corte europea sul crocefisso nelle scuole. La sentenza è ineccepibile: una volta investita del caso, la Corte non poteva che decidere così; infatti in discussione non c’era l’utilità, l’opportunità, il significato, religioso o civile, del crocefisso, la percezione positiva o negativa che dei minori, per lo più ignari del cristianesimo, possono avere di un uomo “appeso nudo alla croce” e, così umiliato e ucciso, esposto alla vista di tutti. Non su questo verteva il giudizio e non su questo dovrebbe svilupparsi il dibattito sulla sentenza, in odio alle ragioni degli uni o degli altri, come ho visto fare anche in giornali amici. Il giudizio verteva sull’obbligo, imposto dallo Stato, di mettere il crocefisso nelle aule scolastiche; come dice la Corte di Strasburgo “sull’esposizione obbligatoria di un simbolo di una data confessione religiosa” nel contesto di una funzione pubblica gestita dal governo. È evidente che a quest’obbligo, derivante da decreti reali e da circolari fasciste che imponevano insieme al crocefisso il ritratto del re, si oppongono tutti i principi del moderno Stato di diritto, le norme della Costituzione, la Convenzione europea e forse anche la Dichiarazione conciliare “Dignitatis humane” sulla libertà religiosa.
Nondimeno vorrei dire il mio sentimento di dolore per ciò che è accaduto e ancor più per ciò che può accadere.
Inzitutto mi dispiace che ad attivare il procedimento nelle sue diverse fasi, con innegabile tenacia, sia stata una madre di due bambini che è anche socia dell’Unione Atei e Agnostici Razionalisti (UAAR), il che fa pensare che oltre alla difesa dei due figli da indesiderate interferenze religiose, tra i motivi del ricorso ci fosse un più generale interesse ideologico.
Mi dispiace anche che la giurisdizione amministrativa italiana e il governo siano stati così miopi, sia nella sostanza che nelle motivazioni, nel respingere le ragioni della ricorrente (mentre per darle ragione sarebbe bastata la Costituzione), da provocare l’appello alla Corte di Strasburgo e da chiamare perciò in causa addirittura la Convenzione dei diritti dell’uomo; testo normativo certo pertinente, ma alquanto sproporzionato se si pensa a quali e quanti diritti umani sono impunemente e atrocemente violati in tutto il mondo, e alla compressione vicino allo zero che per contro la presenza del crocefisso nelle aule scolastiche infligge ai diritti umani dei fanciulli che sono costretti a vederlo.
Inoltre mi dispiace che l’Italia, in una sede significativa come la Corte di Strasburgo, abbia mostrato il grado infimo a cui la considerazione del diritto è arrivata nel governo del nostro Paese, mettendo tra le motivazione della sua memoria difensiva “la necessità di trovare un compromesso con i partiti di ispirazione cristiana”, che nella migliore delle ipotesi è una ragione inerente alla politica politicante, cioè al potere, e non al diritto.
Ma soprattutto mi dispiace che, riconoscendosi da parte di tutti che non c’è più una religione di Stato, e che non si può imporre a tutti la rappresentazione simbolica di una sola confessione, ci sia una gara per dire che il crocefisso andrebbe mantenuto perché avrebbe cessato di essere un simbolo religioso, e sarebbe invece “un simbolo dello Stato italiano”, “un simbolo della storia e della cultura italiane”, un segno “dell’identità italiana”, “una bandiera della Chiesa cattolica, l’unica – ha osservato il tribunale amministrativo di Venezia – a essere nominata nella Costituzione italiana”; anzi, secondo il Consiglio di Stato, la croce sarebbe diventata un valore laico della Costituzione e rappresenterebbe i valori della vita civile. Come dice giustamente un terzo intervenuto nel giudizio di Strasburgo (un’organizzazione per l’attuazione dei principi di Helsinki), questa posizione “è offensiva per la Chiesa”.
Questa posizione è infatti atea, ma è devota, e tende a lucrare i benefici della religione come religione civile. E io dico la verità: se il Crocefisso diventasse la bandiera di un’identità, di un nazionalismo, di un razzismo, di una lotta religiosa, e se la sua difesa dovesse essere messa nelle mani di Gasparri, di Calderoli o di Pera, della Lega o di Villa Certosa, e cessasse di essere la memoria di un Dio che si è fatto uomo, per rendere gli uomini divini, e che “avendo amato i suoi fino alla fine” ha accettato dai suoi carnefici la sorte delle vittime, e continua a salire su tutti i patiboli innalzati dal potere, dal danaro e dalla guerra, allora io non vorrei più vedere un crocefisso in vita mia.
E mi dispiace infine che questa controversia abbia preso il via da una regolamentazione giudiziaria, norma contro norma, obbligazione contro abolizione. Il diritto non può che operare così, e quello che era obbligatorio prima può rendere illegittimo oggi. Ma io penso che non c’è solo il diritto scritto; ci sono le consuetudini, c’è una cultura comune, che pian piano muta, che ieri era “cristiana”, oggi è agnostica, domani sarà laica; si possono far crescere i processi, senza imposizioni e senza strozzature, accompagnando col variare delle proposte educative, dei mondi vitali, delle culture diffuse, delle etnie compresenti, il variare delle forme e dei simboli mediante i quali una società rappresenta se stessa. E non è detto che tutto il cambiamento debba avvenire tutto in una volta e in tutto il Paese, come quando a un solo segnale vennero rovesciati i ritratti del re e i simboli del fascismo.
Non credo che quello che oggi manca in Italia sia il riaccendersi di un conflitto religioso, di una guerra ideologica. Certo al governo piacerebbe, perché sarebbe ancora un altro modo per dirottare l’attenzione, per restare esente dal giudizio sul disastro prodotto dalle sue politiche reali.
Se dovessi dire come procedere, direi che lo Stato smetta di imporre alle scuole il crocefisso, e non impugni Strasburgo; che la Chiesa non ne rivendichi l’obbligo, tanto meno come simbolo d’identità e di radici, piuttosto che come simbolo di salvezza, e per ottenerlo non corra nelle braccia del governo; e che con buon senso, secondo le tradizioni e le esigenze dei luoghi, si trovi un consenso tra genitori, alunni e maestri, sul lasciare o togliere la croce. L’ultima cosa che vorrebbe quel Dio schiavo che vi si trova appeso, è di portare l’inquietudine, l’inimicizia e lo scontro nei luoghi dove una generazione sta scegliendo, e forse solo subendo, il suo futuro.

Raniero La Valle ha diretto, a soli 30 anni, L’Avvenire d’Italia, il più importante giornale cattolico nel quale ha seguito e raccontato le novità e le aperture del Concilio Vaticano II. Se ne va dopo il Concilio (1967) quando inizia la normalizzazione che emargina le tendenze progressiste del cardinale Lercaro. La Valle gira il mondo per la Rai, reportages e documentari, sempre impegnato sui temi della pace: Vietnam, Cambogia, America Latina. Con Linda Bimbi scrive un libro straordinario, vita e assassinio di Marianela Garcia Villas (“Marianela e i suoi fratelli”), avvocato salvadoregno che provava a tutelare i diritti umani violati dalle squadre della morte. Prima al mondo, aveva denunciato le bombe al fosforo, regalo del governo Reagan alla dittatura militare: bruciavano i contadini che pretendevano una normale giustizia sociale. Nel 1976 La Valle entra in parlamento con Sinistra Indipendente; si occupa della riforma della legge sull’obiezione di coscienza. Altri libri “Dalla parte di Abele”, “Pacem in Terris, l’enciclica della liberazione”, “Prima che l’anno finisca”, “Agonia e vocazione dell’Occidente”. Nel 2008 ha pubblicato “Se questo è un Dio”. Nel 2008 è stato promotore del “Manifesto per la sinistra cristiana” nel quale propone il rilancio della partecipazione politica e dei valori del patto costituzionale del ’48 e la critica della democrazia maggioritaria.

7 Novembre 2009Permalink

03 novembre 2009 – Non è questione di crocifissi ma di ignoranza.

La Corte europea dei diritti dell’uomo, accogliendo il ricorso di una madre relativa all’esibizione del crocifisso nelle aule scolastiche, ha affermato che l’esposizione di un simbolo religioso di natura confessionale nelle scuole rette dallo Stato limita il diritto dei genitori di educare i figli secondo le proprie convinzioni religiose o filosofiche e la libertà degli alunni di credere o di non credere.
Il parere, indubbiamente interessante, ha assicurato l’esibizione di un’ignoranza sconvolgente, indicando un atteggiamento che finalmente unifica maggioranza e opposizione parlamentare: i signori confondono cristianesimo e cattolicesimo usando i termini in maniera disinvoltamente intercambiabile.
Onorevoli presidenti delle camere avete fondi sufficienti per prendere in considerazione qualche lezioncina di storia europea?

Qui i l testo di un articolo da Repubblica on line e il testo della sentenza europea.

3 Novembre 2009Permalink

01 novembre 2009 – Mi ha convinto l’on Binetti.

Domenica scorsa ho votato per l’elezione del segretario del Pd, eppure avevo deciso di non farlo. E allora perché? Mi ha convinto l’on Binetti.

A mia futura memoria

Per spiegare a me stessa la mia evoluzione (sperando che eventi futuri non mi costringano a considerarla involuzione) provo a ricostruire il mio itinerario.

Dal 13 ottobre 1975 l’Italia si è dotata di una legge (n. 654) che vieta “ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”.

La legge si intitola ‘ratifica ed esecuzione della Convenzione Internazionale sulla eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale.
Ci tengo a precisare questo titolo perché sono irritata dal fatto che le Convenzioni Internazionali proposte dalle Nazioni Unite siano regolarmente adoperate come pretesto per istituire giornate varie di celebrazione di questo o di quello, mentre vengono ignorate le azioni positive che ne dovrebbero conseguire.

Una norma successiva alla legge 654 (la cd Legge Mancino del 25/6/93, n. 205) stabiliva che per “i reati punibili con pena diversa da quella dell’ergastolo, commessi per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso, ovvero al fine di agevolare l’attività di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi che hanno tra i loro scopi le medesime finalità, la pena è aumentata fino alla metà”.
Una recente proposta di legge, approvata in commissione giustizia, aggiungeva alla parola ’religioso’ la dizione ‘fondati sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere’, estendendo quindi l’ambito degli scopi da prendere in considerazione nel valutare la gravità delle aggressioni in relazione all’intento degli aggressori.
La norma, approvata in commissione giustizia, veniva bocciata in aula con i voti di una maggioranza non compatta, cui si aggiungeva quello della on. Binetti del Pd.
L’on. Binetti non è nuova a queste gesta che le consentono di unire con inopportuna disinvoltura i suoi rigori morali alle minacce alla nostra dignità di cittadini/e. L’elenco delle gesta della signora in questione sarebbe lungo. Mi limito a ricordare la sua opposizione alle norme che avrebbero riconosciuto i diritti delle coppie di fatto se, anche per merito della sua scelta, non fosse caduto il governo Prodi.

Le responsabilità del Pd
E’ noto, e a me provoca disagio e sofferenza, che nessun deputato o senatore è eletto dalle cittadine e dai cittadini italiani ma dalle segreterie dei partiti che provvedono a un elenco blindato dove l’ordine degli eleggibili è determinante per il loro successo (proporzionalmente ai voti ottenuti dal partito, naturalmente).
Quindi l’on Binetti è eletta dalla ‘vecchia’ segreteria del Pd che dovrebbe assumersi le proprie responsabilità in proposito.
Ma c’è una nuova segreteria: come si presenta?
A mio parere i primi segnali sono negativi.
Ho sentito infatti una persona di successo (e che pur non essendo nel gruppo di Bersani sarà segretaria regionale) fare delle dichiarazioni deprimenti.
Non ne ho il testo e mi affido al ricordo.

Obiezione di coscienza e obiezioni di incoscienza.
L’on. Serracchiani –perché di lei si tratta- si è detta, nel sostenere la positività della presenza Binetti, convinta che il Pd debba essere pluralista.
La cosa potrebbe anche essere accettabile se scegliessimo chi ci rappresenta in parlamento ma, poiché così non è, la presenza vincente della signora Binetti è una scelta di linea della segreteria del Pd, dettata non da trasparente cultura di governo, da rispetto della Costituzione, da rispetto delle convenzioni internazionali ma dal peso del pacchetto di voti che la sullodata si porta appresso.
E non mi si dica, senza un doveroso distinguo, che sono voti ‘cattolici’. Per quanto emarginati siano i non conformisti nel mondo cattolico c’è pluralità di opinioni e c’è ancora chi sceglie di pensare e dire in scienza e coscienza (si veda il testo di Notam pubblicato nella mia rubrica ‘Una sola sicurezza l’infamia’, ancora illustrata in prima pagina).

Spesso però la scelta del non conformismo si paga perché è scelta che si avvicina all’obiezione di coscienza. Purtroppo anche il voto Binetti é stato interpretato come obiezione di coscienza ma tale non è. L’obiezione di coscienza è la scelta di mettersi al di fuori di una linea maggioritaria pagando di persona, mentre la posizione Binetti appartiene al pacchetto di quelle scelte che vogliono far pagare la propria ‘libertà’ ad altri (forse ispirandosi alla neo cultura della sicurezza?).
E qui non ci sto.
In un momento storico in cui l’omofobia è il fondamento delle più aggiornate espressioni di razzismo, per cui una persona è punita (e ormai con ferocia quasi quotidiana anche fisicamente) per ciò che è e non per reati che eventualmente compia, l’indicazione della omofobia in legge, viene negata con più disinvolta distrazione di quanto accadrebbe se si trattasse di una specie floreale rara a rischio scomparsa. E ciò avviene nel quadro proposto dell’indicazione di ‘orientamento sessuale e della parità di genere’ (ma dove sono finite le consigliere di pari opportunità?. Occorre ricordare anche a loro che le scelte sessuali compiute senza violenza fra maggiorenni non sono reato, mentre lo è la violenza che le ‘punisce’?).
Quando ho sentito quel triste, povero intervento di una parlamentare europea ho pensato a un recente caso di obiezione di coscienza: un macchinista, responsabile per la sicurezza, che aveva denunciato l’insicurezza dei treni eurostar, un anno fa è stato licenziato e ora, a seguito di un processo, riassunto. Si chiama Dante De Angelis.
Penso che anche quel macchinista avesse buoni motivi per considerare l’obiezione di coscienza che lo ha indotto a parlare in un contesto di priorità, che mi sembrano molto più urgenti di un pacchetto di voti: se non ha una famiglia da mantenere dovrà mantenere almeno se stesso. Eppure ha parlato . senza la certezza dell’esito del processo
Molti politici non rischiano e si adagiano nel consenso utile e spesso soporifero.

Neonati e puerpere non vanno in piazza.
Considerando che la posizione Binetti e di chi la sostiene in nome del pluralismo (trovate una parola con significati meno nobili per favore!) ho pensato che si possa ancora tentar di dar forza a voci diverse all’interno del Pd (il conformismo appartiene anche alle altre forze che si dichiarano di sinistra ed è inutile cercar di pescare in un altrove ancor più discutibile).
E poiché il pluralismo è frutto della storia di un’Europa laica ho deciso che fra i tre candidati alla segreteria del Pd chi aveva mostrato concretamente più rispetto degli altri per la laicità era stato Marino. E così ho votato per la sua lista .
Non occorre vincere per far sentire la propria voce.
Se mi sentirò tradita anche dai ‘marinisti’ so già che la prossima volta non potrò votare e la mia scheda sarà vuota come la mia capacità di sperare.
Una mia personale cartina al tornasole sarà la posizione che prenderanno –se ne prenderanno una- nella questione del riconoscimento anagrafico dei figli di sans papier: non credevo di dover assistere a un conflitto politico che identificasse come nemici i neonati. Invece è accaduto e i silenzi sono troppi per essere sostenibili.
Credo che questo problema peserà anche quando si arriverà –se si arriverà- a definire il diritto al voto degli immigrati: avremo nati in Italia esclusi per la condizione burocratica dei loro genitori di cui nessuno si occupa.
Siamo sempre allo stesso punto. Neonati e puerpere non vanno in piazza.

1 Novembre 2009Permalink

14 ottobre 2009 – Quando le parole sono pietre e i silenzi pure

Pro mia futura memoria
Volevo scrivere di tante cose in questo mio sito.
Da tempo non scrivo nulla sul problema israelo-palestinese (e la marcia già Perugia-Assisi, ora trasferita a Gerusalemme amaramente mi ricorda la nascita della mia avventura sul web nel 2003. testimoniata nella homepage alla voce betlemme), ho interrotto il diario del viaggio di aprile in Iran (che riprenderò), nemmeno immagino di poter fare un diario del recente viaggio in Egitto. Per tutta l’estate ho seguito lo svolgersi della vicenda collegata a un articolo del pacchetto-sicurezza, quello riguardante la registrazione anagrafica dei neonati prima con meraviglia, poi con indignazione, infine con molto dolore.
Pur inorridita dalla constatazione che un diffuso senso comune è ormai asservito alla cultura leghista, al malgoverno di marca berlusconiana, all’inettitudine dell’opposizione politica, alla sordida pigrizia di una società che in altri momenti ho creduto civile … non immaginavo che tanto orrore cadesse nell’indifferenza.

Tento una sintesi ad, almeno mia, futura memoria.
Nel 2008 inizia il suo cammino parlamentare quello che avremmo poi chiamato ‘pacchetto sicurezza’ e nel dossier n. 69 del mese di novembre dell’Ufficio studi del Senato della Repubblica se ne può leggere un’illustrazione, articolo per articolo, significativa della volontà del legislatore.
Certamente un legislatore pigro, capace solo di immaginarsi modifiche a leggi già esistenti, incapace di costruire un progetto organico ma comunque garantito nei suoi frammentati interventi da un filo rosso in cui razzismo, pregiudizio, ignoranza si intrecciano in una forma che lascerà il segno nella nostra società per molto tempo.
A fronte del Testo Unico sull’immigrazione (decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286) che prevedeva per gli immigrati privi di permesso di soggiorno la possibilità di registrare gli atti di stato civile senza la presentazione di quel documento, che –per definizione- non possiedono, il nuovo provvedimento ne prevedeva (e ne prevede) la presentazione. Nel dossier del senato si può leggere la volontà del legislatore, espressa senza pudore, per cui l’articolo “in esame elimina dalle eccezioni all’obbligo di esibizione gli atti di stato civile”.
Con questa premessa, e fra varie indecenze più o meno pubblicizzate, la legge percorreva il suo iter, fino all’approvazione il 15 luglio (legge n. 94. Disposizioni in materia di sicurezza pubblica) .

Corpi utili e inutili
Chi non si era dimenticato che in Italia non c’è sistema che garantisca adeguatamente la popolazione bisognosa di assistenza, in maggio aveva levato la sua voce per affermare che «Nell’introduzione del reato di immigrazione clandestina, ha detto Mantovano, il Governo ha ‘saggiamente consegnato’ questa ipotesi di reato nelle mani del Parlamento, che sarà chiamato a valutare la congruità dello strumento con il fine da raggiungere. La disposizione, comunque, colpirà i clandestini che giungeranno nel Belpaese dopo l’entrata in vigore della norma e non chi è già qui. No, dunque, a un giro di vite sulle badanti …».
Così Il sole 24 ore del 23 maggio riportava, con deferente sollecitudine, la dichiarazione Mantovano e, a poca distanza di tempo, il governo si sarebbe inventato la pseudo sanatoria per le badanti e le colf che servono e possono essere utilizzate.

Non voglio però dimenticare che in conseguenza di una lunga, dignitosa campagna della società civile facente capo a medici e operatori sanitari (si veda in proposito il sito della Società Italiana di Medicina delle Migrazioni) era scomparso l’obbligo di denuncia del sans papier che si presentasse ad un servizio sanitario pubblico, obbligo inizialmente previsto dal diligente legislatore.

Nulla invece veniva detto sui neonati figli di sans papier, soggetti di scarso interesse, privi di voce capace di urlo di piazza (che tale non è il pianto di un neonato affamato), quella voce che viene invece utilizzata, quando non strumentalizzata, se é segno di presenza di eventuali sostenitori.
E l’urlo di piazza – sempre più confuso con l’impegno nelle istituzioni e la verifica del loro operato- non appartiene nemmeno ai poveri genitori di quei piccoli che si ritengono protetti solo dal silenzio e dal nascondimento.
Ma evidentemente qualcuno si era accorto dell’enormità della faccenda e, con uno strano ma provvidenziale giro di parole, il 7 agosto scorso il Ministero dell’Interno (Circolare del Ministero dell’Interno n. 19 che ho illustrato anche nel mio articolo del 12 agosto) precisava che “Le dichiarazioni di nascita e di riconoscimento di filiazione (registro di nascita – dello stato civile) non richiedono l’esibizione di documenti inerenti al soggiorno trattandosi di dichiarazioni rese, anche a tutela del minore, nell’interesse pubblico della certezza delle situazioni di fatto”.
Così ora abbiamo la garanzia di una circolare che prevale sulla legge o, quanto meno, sull’iniziale volontà del legislatore. Da un punto di vista del corretto modo di legiferare mi sembra un pasticcio ma, in ogni caso, è una garanzia?
E’ sufficiente a superare la paura che domina i sans papier?
Certamente no, se coloro che detengono i registri di stato civile –i comuni- tacciono, ignorano il dovere di trasparenza e informazione e, quando fanno qualche cosa, si affidano ad iniziative ignote e ignorate (e rinvio ancora ai miei articoli del 12 agosto e del 4 e 14 settembre).

Quando si cominciano a violare i diritti umani
la deriva è inarrestabile.
Gli esempi sarebbero numerosi e significativi. Mi limito a quello che è successo ieri in parlamento dove è stato bocciato il Ddl 1658 che prevedeva “all’articolo 61 del codice penale è aggiunto, in fine, il seguente numero: «11-quater) l’avere, nei delitti non colposi contro la vita e l’incolumità individuale, contro la personalità individuale, contro la libertà personale e contro la libertà morale, commesso il fatto per finalità inerenti all’orientamento o alla discriminazione sessuale della persona offesa dal reato».
Una parlamentare ormai famosa per intemperanze che la rendono capace anche di calpestare i diritti umani, l’on. Binetti, ha votato insieme alla maggioranza per non riconoscere aggravanti a chi compia atti di violenza con finalità omofobe,
Ricordo a chi nel Pd protesta per il suo voto che la deputata, come ogni altro parlamentare, non è stata eletta dal popolo italiano ma dalla segreteria del partito che forma le liste elettorali secondo il peso dei voti che costoro portano con sé.
Deve dimettersi la Binetti? Sarebbe meglio ma, prima di tutto, bisognerebbe adoperarsi per far dismettere un costume indecente e per costruire le liste degli eleggibili cercando di non avere a primo, se non unico, criterio la quantità che per sé non fa qualità.
Vorrei però ricordare a tutti i sindaci, assessori, consiglieri comunali e regionali del Pd – soprattutto a quelli con cui ho parlato e che mi hanno risposto con il silenzio, l’indifferenza e persino con l’insulto – che agli adulti consapevoli é riconosciuto il diritto a esprimersi, oltre che con il voto, con la protesta e che è dovere prestare attenzione alle loro parole, sia a livelli di istituzioni che di solidarietà politica.
Poiché ieri sono stati beffate le legittime attese degli omosessuali mi riferisco alla loro situazione per ricordare i tempi non lontanissimi (io ne ho memoria anche per le testimonianze ricevute allora da amici) in cui era loro impossibile dirsi.
Ora che possono farlo, il ‘dirsi’ da momento di liberazione diventa rischio.

Quando i silenzi sono pietre da lapidazione.
Quello che è accaduto ieri in parlamento segna una regressione spaventosa che meglio fa comprendere lo stato dei neonati che possono affidarsi solo alle altrui parole, parole che chiedono di essere pronunciate ma non lo sono.
Particolarmente doloroso per me il silenzio delle consigliere di pari opportunità, indifferenti al fatto della disparità che colpisce alcune mamme per la loro situazione burocratica. Avevo ingenuamente riconosciuto alle donne la capacità di praticare uno spazio politico più ampio di quello tradizionalmente definito e caro agli uomini.
Mi sono definitivamente ricreduta.
In contrastante parallelo con l’on. Binetti voglio segnalare (perché anche questa è notizia di oggi che la contemporaneità rende particolarmente significativa) una senatrice statunitense, Olympia Snowe, che ieri ha votato in favore del progetto di riforma sanitaria proposto dal presidente Obama dichiarando che: “When history calls, history calls”.
Anche l’Europa ha una storia, una lunga storia che ci dovrebbe chiamare ad una coerente, non occulta, responsabilità.
Dice una costituzione beffata e ignorata: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.
Cosa significa per la signora Binetti solidarietà politica?
E cosa significa per tanti altri che pur votano allineati ma non la praticano?

14 Ottobre 2009Permalink

02 ottobre 2009 – Nazioni Unite.giornata mondiale della nonviolenza.

da Giancarla Codrignani

Le date simboliche mi appassionano fino a un certo punto, anche perché ne siamo inflazionati fino a perderne il senso. Tuttavia alcuni simboli hanno un valore innegabile: ci richiamano a pensare alla necessità di portare avanti la storia anche nella fatica e nei disinganni perché non possiamo essere incoerenti se confidiamo in qualche principio. I principi non sono astrazioni che basta nominare perché qualcuno – magari non noi – li applichi. Sono mete lontane, che tuttavia motivano il vivere; che, di per sé, non sarebbe gran cosa.
Il 2 ottobre è la giornata mondiale (voluta dalle Nazioni unite) della nonviolenza. Il correttore elettronico ancora censura la parola sullo schermo del computer e, forse, saranno molti quelli che, quando la leggono, credono che manchi la separazione per errore di stampa.
In realtà la parola nuova è uno di quei segnali linguistici che fanno comprendere che il motore della storia può non essere abbandonato al caso, ma pilotato, almeno simbolicamente, verso progressivi perfezionamenti sociali. Quindi “celebriamo”. E rendiamoci conto di quanto sia modesto il procedere verso la pur conclamata pace universale e quanto la violenza abiti ancora le coscienze umane.
Ho conosciuto direttamente in anni non lontani l’odissea degli obiettori di coscienza e la resistenza che era non solo nelle fila dell’esercito, ma nella mentalità comune a non ritenerli dei renitenti per viltà, per comodo individualistico, per rifiuto di quella disciplina militare che fa diventare uomini. Oggi i cappellani militari non sarebbero più sostenitori di negatività e i tribunali non condannerebbero più don Milani e padre Balducci. Tuttavia la “violenza” non fa riferimento solo ad armi e guerre, che ormai non sono più idealizzate secondo quell’onore che permetteva alla violenza ritenuta “necessaria” dagli stati di avere i ministeri “della guerra” e non della difesa, anche se si dirà che non è cambiato molto, se tutti i patriottismi, anche quelli religiosi e ideologici, non sanno comporre civilmente i conflitti. Ma almeno da quando Freud ha richiamato alle pulsioni originarie e all’analogia tra il pene e l’arma, la nonviolenza dovrebbe guidare tutti i comportamenti sociali, a partire da quelli interpersonali e familiari ancor oggi crudeli fino all’assassinio delle persone care e inermi.
Il disconoscimento della nonviolenza è uno scacco delle religioni. Il buddismo non è diventato cultura universale di nonviolenza, anche se ne aveva tutti i presupposti. Il Cristianesimo, che da sempre conteneva i principi del rifiuto di ogni violenza, privata e tanto più pubblica, non riesce a recuperare nemmeno nominalmente questo valore. Ci sono testimoni della nonviolenza nel vissuto delle confessioni cristiane del secolo più violento che ha visto nascere il fascismo e il nazismo e ha subito due guerre mondiali; ma non conosco approfondimenti teologici che valorizzino questa virtù come interna alle ragioni di fede. Infatti, come virtù, nasce laica.
Ma se è difficile per le religioni farsi nonviolente, non è facile neppure per le organizzazioni della società civile. Un mondo che idolatra il successo facile, il consumismo, la competizione non si apre al primo requisito nonviolento che è il riconoscimento dell’uguaglianza degli esseri umani e della stoltezza del principio di forza in qualunque modo applicato. La sola forza degli umani è quella morale, dell’ingegno e dello spirito; per il resto, come diceva Lucrezio, siamo gli esseri più deboli della natura, quelli che nascono nudi piangendo il male che potranno vivere. Eppure stiamo tradendo libertà, giustizia, diritti, diseducando i figli e noi stessi, non solo nei confronti degli immigrati o dei disabili, ma scivolando nel baratro dell’ignoranza, proprio mentre l’ingegno e lo studio degli scienziati è in grado di darci macchine più raffinate delle nostre capacità di capire e prospettive di modificazioni della natura, anche umana, rischiose se affidate ad esseri ignoranti e irresponsabili. Quindi violenti.

E’ la seconda lettera di Giancarla Codrignani che pubblico a poca distanza dalla prima.
In passato ne ho condiviso attività. Oggi faccio mia la sua parola e la ringrazio.
Giancarla segnala che il correttore ortografico non riconosce la parola ‘nonviolenza’.
Posso testimoniare che non molto tempo fa non solo non riconosceva, ma trasformava automaticamente, la parola matriarche in patriarche.

 

2 Ottobre 2009Permalink

22 settembre 2009 – Giornata mondiale dell’ONU per la pace

da Giancarla Codrignani

Il 21 settembre sarebbe il giorno che l’ONU dedica al disarmo. In Italia hanno ricevuto le onoranze funebri i sei militari uccisi in Afganistan.
Della prima ricorrenza nessuno sa nulla e un pacifista che ha gridato “pace subito” (e neppure ha detto “ritiratevi”) sembra – lo troviamo su you tube – essere stato trattenuto dall’assistenza come se fosse matto. Il lutto nazionale secondo la televisione ha emozionato la massa degli utenti con strumenti orientati a una compassione patriottica che turbava poco le coscienze.
Il mondo militare è cambiato, se è vero che nessuno nomina più la guerra senza aggiungere un aggettivo che la esorcizzi: anche i capi degli eserciti sanno che la guerra non ha più onore e che la sua realtà è solo quella della morte. Anche se preventiva o umanitaria la guerra uccide: non solo i nostri sei soldati, non solo ile centinaia della Nato e degli Stati uniti, ma anche le tante migliaia di civili, che non possono accettare questa prevenzione e questa umanità.
Infatti restiamo nella vecchia logica della risposta violenta: per estendere la democrazia dove ci sono dei confitti mandiamo in ritardo i soldati e non preventivamente i cooperanti e i maestri.
Le Nazioni unite non hanno potuto realizzare quella polizia internazionale capace di fare interposizione nei casi di gravi tensioni. Oggi autorizzano missioni che dovrebbero aprire le vie della pace e invece producono guai più gravi. In Afganistan un minimo di prudenza avrebbe indotto a riflettere sulle sconfitte inferte da parte dei talebani agli inglesi nel secolo XIX e ai russi nel 1989.
Ma vale la pena di riflettere su questi funerali. Tutti amiamo il paese che chiamiamo patria come tutti i popoli chiamano patria la terra dove sono nati e dove non sempre riescono ad avere i diritti di cittadinanza. Ma dovremmo insegnare a noi stessi e alle nuove generazioni a costruire, in tutte le patrie, la vita e non la morte. La morte, che può entrare anche nella volontà di bene, non deve diventare esemplare e suggerire che è dovere ripetere le gesta dei padri e vendicare i morti della nostra parte. A quei funerali la televisione ha evidenziato da protagonisti dei bambini. E altri bambini e ragazzi hanno seguito i telegiornali, non senza sentirne qualche suggestione. I piccoli rimasti senza il babbo (che era evidente che capivano che cosa veramente accadeva nella loro vita) sono stati indotti a ripetere, mentre echeggiavano le grida cupe dei parà, comportamenti impropri per l’elaborazione di un lutto così difficile per loro: il berretto della Folgore non è adatto a un bambino. E tanto meno un’educazione che riproponga a noi tutti la morte come dovere. Non possiamo non ricordare, neppure nelle strette della dura necessità, il monito di papa Giovanni: “la guerra è roba da matti” (alienum a ratione).

22 Settembre 2009Permalink

14 settembre 2009 – Una lettera civile dal Presidente del Tribunale dei minorenni di Genova.

Devo ringraziare ancora una volta il sito ildialogo.org per aver pubblicato un documento importante che potete reperire da qui, nell’edizione in pdf. Arriverete al settore Osservatorio sul Razzismo e sulle migrazioni, dove potrete cercare il documento in data 11 settembre.

Per comodità di chi legge però ho anche ricopiato la lettera, cui faccio seguire alcuni degli articoli di norme internazionali cui il presidente Adriano Sansa fa riferimento.
Il mio commento è il grassetto.

La lettera è intestata: TRIBUNALE PER I MINORENNI DI GENOVA
Viale IV novembre, 4. 16 121 GENOVA e porta il numero di protocollo 878/09

Genova, li 4.09.2009

Al Signor
Comandante della Regione Liguria dei Carabinieri
Viale Brigata Salerno 19
16 147 GENOVA

Al Signor
Comandante del Comando Regionale della Liguria
della Guardia di Finanza
Via Nizza 28
16145 GENOVA

Ai Signori Questori di
GENOVA – SAVONA – LA SPEZIA- IMPERIA- MASSA

Ai Signori Comandanti della Capitaneria di Porto
GENOVA – SAVONA – LA SPEZIA- IMPERIA
Di fronte ai drammatici avvenimenti riguardanti l’immigrazione e i tentativi di ingresso in Italia lungo le coste, sento la necessità, per quanto riguarda questo Tribunale che ha competenza da Ventimiglia a Massa, di ribadire la preminenza della tutela dei minori su ogni altra istanza. Non solo la civiltà e l’onore, ai quali Codesti Corpi da sempre usano attenersi, ma le Leggi nazionali e le Convenzioni Internazionali impongono, anche in presenza di eventuali diverse disposizioni, di salvaguardare l’interesse dei minori, accertando la loro identità e la presenza di genitori o altre persone esercenti la patria potestà, assicurando comunque quando occorra l’asilo o lo status di rifugiato, anche sulla base della Convenzione di Ginevra del 1951, e informando il Tribunale dei Minorenni per ogni intervento di sua competenza.
La considerazione che l’interesse del minore è superiore a ogni altro elemento viene sottolineata dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo adottata a New York il 20.10.1989, ratificata dall’Italia il 27.05.1991 con la legge 176, dalla Convenzione di Strasburgo sull’esercizio dei Diritti del fanciullo adottata il 25.01.1996, ratificata il 4.07.2003 e dalla Convenzione dell’Aja del 29.05.1993 per la tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozioni internazionali ratificata con Legge 31.12.1998 n. 476.
In particolare l’art. 3 della Convenzione di New York stabilisce che “in tutte le azioni relative ai fanciulli di competenza … delle Autorità Amministrative … l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente ..”.
Grato se le SS. LL. vorranno comunicare la presente ai dipendenti Servizi, ringrazio per la collaborazione e invio distinti saluti.

La lettera è firmata Il Presidente
ALCUNI DIRITTI dei MINORI – COSTITUZIONE e NORME INTERNAZIONALI

Art. 3 Costituzione
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Articolo primo. legge 176/1991 ( LEGGE 27 maggio 1991, n.176 Ratifica ed esecuzione della convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989).
Ai sensi della presente Convenzione si intende per fanciullo ogni essere umano avente un’età’ inferiore a diciott’anni, salvo se abbia raggiunto prima la maturità in virtù della legislazione applicabile.

Articolo 3 legge 176/1991
1. In tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza sia delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente.
2. Gli Stati parti si impegnano ad assicurare al fanciullo la protezione e le cure necessarie al suo benessere, in considerazione dei diritti e dei dover dei sui genitori, dei suoi tutori o di altre persone che hanno la sua responsabilità legale, ed a tal fine essi adottano tutti i provvedimenti legislativi ed amministrativi appropriati.
3. Gli Stati parti vigilano affinché il funzionamento delle istituzioni, servizi ed istituti che hanno la responsabilità dei fanciulli e che provvedono alla loro protezione sia conforme alle norme stabilite dalle Autorità competenti in particolare nell’ambito della sicurezza e della salute e per quanto riguarda il numero e la competenza del loro personale nonché l’esistenza di un adeguato controllo.

Articolo 7 legge 176/1991
1. Il fanciullo è registrato immediatamente al momento della sua nascita e da allora ha diritto ad un nome, ad acquisire una cittadinanza e, nella misura del possibile, a conoscere i suoi genitori ed a essere allevato da essi.
2. Gli Stati parti vigilano affinché questi diritti siano attuati in conformità con la loro legislazione nazionale e con gli obblighi che sono imposti loro dagli strumenti internazionali applicabili in materia, in particolare nei casi in cui se ciò non fosse fatto, il fanciullo verrebbe a trovarsi apolide.

Articolo 8 legge 176/1991
1. Gli Stati parti si impegnano a rispettare il diritto del fanciullo a perseverare la propria identità, ivi compresa la sua nazionalità, il suo nome e le sue relazioni famigliari, così come sono riconosciute dalla legge, senza ingerenze illegali.
2. Se un fanciullo è illegalmente privato degli elementi costitutivi della sua identità o di alcuni di essi, gli Stati parti devono concedergli adeguata assistenza e protezione affinché la sua identità sia ristabilita il più rapidamente possibile.

Articolo 9 legge 176/1991
1. Gli Stati parti vigilano affinché il fanciullo non sia separato dai suoi genitori contro la loro volontà a meno che le autorità competenti non decidano, sotto riserva di revisione giudiziaria e conformemente con le leggi di procedura applicabili, che questa separazione è necessaria nell’interesse preminente del fanciullo.

14 Settembre 2009Permalink

04 settembre 2009 – Ancora sulla registrazione dei neonati figli di migranti senza permesso di soggiorno – 11

Premessa
Ho ricevuto una preziosa memoria da parte di persona competente il cui ruolo non consente di farsi fonte di informazioni ufficiali.
Neppure io posso dare ufficialità a queste informazioni, ma il mio sito può assicurarne la trasparenza e la diffusione.
Comunque trascrivo la nota che mi è stata trasmessa e faccio mio l’appello conclusivo nella tristissima consapevolezza che ciò che si può proporre rappresenta uno schermo fragile e non una certezza per il contenimento della barbarie. Ma ai nuovi nati penalizzati dallo status giuridico dei genitori non possiamo offrire di più.
Alla fine, per chi lo volesse, non mi negherò lo spazio per qualche commento.

Il testo ricevuto

Procedura normale …
– il genitore può dichiarare la nascita del figlio e l’eventuale riconoscimento di paternità/maternità entro tre giorni dalla nascita presso la direzione sanitaria dell’ospedale/casa di cura in cui la nascita è avvenuta (tali dichiarazioni vengono trasmesse, ai fini della trascrizione, dal direttore sanitario all’ufficiale dello stato civile del Comune nel cui territorio è avvenuto il parto, se nessuno dei genitori ha residenza in un comune del territorio italiano, oppure all’ufficiale dello stato civile del Comune di residenza di entrambi i genitori o, se questi hanno residenza diversa, del Comune di residenza della madre); in alternativa sono i genitori stessi a potersi recare, entro 10 giorni dalla nascita, presso l’ufficio di stato civile. In entrambi i casi è necessario esibire, come è avvenuto finora, il solo documento di riconoscimento. Se il genitore non possiede documento di riconoscimento la sua identità viene registrata così come egli stesso la dichiara a voce;

– l’ufficiale di stato civile verifica se i genitori sono iscritti in anagrafe: in questo caso inserisce il figlio nella scheda anagrafica familiare, altrimenti si limita a registrare nascita, maternità e/o paternità (il che attesta che il bambino esiste, che ha quella madre e/o padre ed esclude lo stato di abbandono);

– i genitori possono chiedere in qualunque momento un estratto di nascita da cui risulta appunto il rapporto di filiazione; l’estratto di nascita permette ai genitori di lasciare l’Italia con il figlio, se l’estratto viene legalizzato in prefettura a questo scopo

Gli ufficiali di stato civile, cui il mio interlocutore si è rivolto, hanno assicurato che la circolare (così come l’indicazione sintetica presente sul sito del Ministero Interno e il rinvio presente sul sito dell’Anusca, Associazione Nazionale Ufficiali di Stato Civile ed Anagrafe) non lascia discrezionalità alcuna, e che qualunque ufficiale di stato civile che a partire dall’8 agosto 2009 chieda il permesso di soggiorno o anche solo il passaporto dei genitori per registrare la nascita e la dichiarazione di maternità/paternità si macchia di omissione d’atti d’ufficio.

… e il reato di clandestinità
Quindi l’ufficiale di stato civile non deve chiedere il permesso di soggiorno dei genitori per registrare il figlio
Se comunque, contravvenendo ai suoi doveri, chiede il permesso di soggiorno ai genitori e si rende conto che non ce l’hanno, scopre un reato (il reato di presenza non autorizzata sul territorio nazionale, previsto dall’art. 10 bis T.U. immigrazione così come modificato dalla l. 94/2009)
Gli articoli 361 e 362 del codice penale e 331 del codice di procedura penale affermano l’obbligo di denuncia solo se il pubblico ufficiale scopre il reato nell’esercizio delle sue funzioni, fra cui non si colloca la funzione di registrazione della nascita per cui non deve essere richiesto il permesso di soggiorno. In sintesi scoprire il reato durante la registrazione di nascita non fa sorgere l’obbligo di denuncia in capo al pubblico ufficiale.
Ma se l’ufficiale di stato civile – come pubblico ufficiale – non è obbligato a fare denuncia, come cittadino ne ha la facoltà e l’autorità di pubblica sicurezza deve ricevere ogni notizia di reato, pur proveniente da chi non era obbligato a farla.

Questo significa amaramente che ogni straniero non in regola col permesso di soggiorno, se scoperto, è oggi esposto ad una denuncia di reato, da parte di chiunque.
Nel caso ipotizzato, se denunciato e quindi espulso, il cittadino straniero potrà far ricorso contro il decreto di espulsione dicendo che la sua irregolarità è stata scoperta da un ufficiale di stato civile che l’ha ingannato e, abusando del suo ruolo, gli ha fatto credere che fosse necessario esibire il permesso di soggiorno. Il giudice potrà anche dargli ragione su questo punto, condannando il pubblico ufficiale e in questo modo ammonendo tutti i suoi colleghi. Ma nessuna sentenza potrà sanare l’irregolarità del soggiorno dello straniero.
Il soggiorno è regolare solo e soltanto in presenza di determinati requisiti da parte dello straniero.

L’unica reale difesa, per il cittadino straniero che voglia registrare il suo bambino, è quella di sapere bene in quali casi è obbligato ad esibire il permesso (lo è, ad esempio, per chiedere il bonus bebè, o per firmare un contratto di locazione, …) e in quali casi la regolarità o irregolarità del suo soggiorno è totalmente irrilevante (lo è, ad esempio, per iscrivere i figli alla scuola dell’obbligo, o per essere ospitato da altre persone in case private). Perciò prima di chiedere dei servizi, rilasciare dichiarazioni, concludere atti privati, deve informarsi.
E il comune –che abbia a cuore la regolarità della registrazione delle nascite anche nel rispetto del proprio ruolo di governo di un territorio e delle convenzioni internazionali di cui l’Italia è firmataria- non può esimersi dal produrre un chiaro e pubblico regolamento.

Il rischio di denuncia non sussiste comunque nel caso in cui la dichiarazione di nascita venga resa al Direttore Sanitario dell’ospedale, in quanto il divieto a tradire il segreto sanitario non è stato abrogato e da sempre è pacificamente interpretato come avente a destinatari non solo i medici ma tutto il personale operante presso una struttura sanitaria
Leggiamo ancora una volta il comma 5 dell’art. 35 del decreto legislativo 25 luglio 1998 n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) – tuttora in vigore- che recita: “L’accesso alle strutture sanitarie da parte dello straniero non in regola con le norme sul soggiorno non può comportare alcun tipo di segnalazione all’autorità’, salvo i casi in cui sia obbligatorio il referto, a parità di condizioni con il cittadino italiano”.

Rifiutiamo la paura?
Certo nella pratica, anche a causa della poca chiarezza sulla questione, i genitori possono temere di rivolgersi alle istituzioni, credendo di dover presentare il permesso di soggiorno per registrare il figlio e temendo che la mancata esibizione del titolo di soggiorno comporti non solo il mancato ricevimento della dichiarazione di nascita e filiazione ma anche la denuncia per il reato di presenza non autorizzata sul territorio italiano previsto dall’art. 10 bis del T.U. così come modificato dalla legge sicurezza 94/2009 in vigore dall’8 agosto.

È dunque necessario ora adoperarsi in tutti i modi per rimuovere le condizioni che determinano il timore dei genitori privi di permesso di soggiorno, anche sollecitando la nostra Regione a imitare chi si è già mosso a diffondere presso enti locali, ASL, Aziende ospedaliere e strutture sanitarie pubbliche e private operanti sul territorio come centri di nascita, ma anche presso uffici pubblici, scuole, associazioni, … una comunicazione ufficiale che:
– accolga e ribadisca la circolare del 7 agosto, per quanto riguarda le nascite;
– ricordi che il divieto di segnalazione di cui all’art. 35 comma 5, è ancora pienamente valido e, facendo riferimento alla nozione di “accesso alle strutture sanitarie” è ritenuto pacificamente vincolante non solo nei confronti del personale sanitario ma anche nei confronti di tutto il personale amministrativo;
– chiarisca a tutti, cittadini “zelanti”, pubblici ufficiali, incaricati di pubblico servizio, i limiti ben precisi delle norme che prevedono la denuncia di reato.

Commenti non essenziali

Spero che le associazioni che hanno voce forte nella società civile trovino in questo scritto – che volutamente non ha cancellato le perplessità generate da una legge pessima anche nella sua formulazione- un sostegno per chiedere ai comuni un regolamento relativo alle dichiarazioni di nascita, conforme alla circolare ministeriale n. 19 del 7 agosto.
Vorrei poter avere altrettanta speranza negli eletti e nelle elette presenti nelle istituzioni, ad ogni livello dell’ordinamento repubblicano, dai comuni al parlamento italiano ed europeo. I contatti che ho avuto con molti e molte di loro in questi mesi non mi consentono ottimismo, anzi…
Certamente accogliere questo appello non sarà un mezzo per modificare l’impianto generale della legge 94, ma potrà aiutare a contenere (l’onestà intellettuale non mi consente di scrivere evitare, come vorrei) un rischio terribile, che si proietterà anche nel futuro di non pochi esseri umani, quello di rendere inesistenti neonati a seguito dello status giuridico dei loro genitori o di lacerare il legame fondante madre-figlio, padre-figlio.
Non sono più i tempi in cui possiamo dire –con la speranza che sia efficace a cambiare la realtà in cui viviamo- la propria condivisibile indignazione. Occorre ricostruire pezzo a pezzo una civiltà devastata: riconoscere il diritto all’esistenza di neonati altrimenti discriminati, garantirne il diritto ad avere dei genitori può essere uno di questi passi.
E’ l’unico ‘pezzo’ di cui sono riuscita a identificare le tracce possibili: mi ha chiesto mesi di lavoro.
Certamente se a livello di istituzioni e società civile avessi trovato disponibilità al dialogo (come l’ha trovata chi si occupa di assicurarsi la presenza di badanti) avrei potuto fare di più.
Ma i neonati e le loro povere mamme ‘irregolari’ non servono a nessuno.
Se qualcuno vorrà scrivermi argomentazioni contrarie all’ipotesi che di percorso che sono stata aiutata a costruire ben venga. Pubblicherò solo argomentazioni non secchi rifiuti dell’esistenza del problema che già mi sono stati grossolanamente comunicati.

4 Settembre 2009Permalink

01 settembre 2009 – Logica e modelli – 10

Una poesia e i suoi effetti

Una bufera
di notte ha strappato tutte le foglie dell’albero
tranne una fogliolina
lasciata
a dondolarsi in un a solo sul ramo nudo.

Con questo esempio
la Violenza dimostra
che certo –
a volte le piace scherzare un po’.

(Wislawa Szymborska. La gioia di scrivere. Tutte le poesie (1945-2009), Adelphi, Milano 2009, p. 713 – Testo diffuso dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo).

Non è giusto commentare la poesia, ma questa di Wislawa Szymborska, poetessa polacca premio Nobel per la letteratura, mi è stata di stimolo a rivedere ricordi e considerazioni.

Ricordi perché?
Ciò che oggi accade ha precedenti di regola ignorati che fanno parte anche della mia memoria e che mi sono d’aiuto a capire.
Solo a me? Non lo so perché nel luogo in cui vivo trionfa l’abitudine di sottrarsi al dialogo; i colloqui avvengono solo fra persone che si ritengono simili non per modalità di ragionamento e condivisioni di obiettivi ma per appartenenze, … e allora mi limito a scrivere.
Se il tempo che corre mi porterà alla perdita della memoria non voglio trovarmi inchiodata a un presente che ora giudico insensato e che la memoria e il ragionamento mi aiutano ancora a comprendere e giudicare.

Un po’ di storia
Non è la prima volta che in Italia arrivano fuggiaschi: l’arrivo in massa iniziò negli anni ’90 con la fuga degli albanesi. Poco dopo però cominciò la crisi balcanica e l’arrivo degli “sfollati delle Repubbliche sorte nei territori della ex Jugoslavia”, come li chiamò, non senza dibattiti e difficoltà nella scelta dei vocaboli, la legge 390 del 1992.
Quella legge aveva un titolo estremamente lungo che di per sé indica la fatica di comprendere situazioni che era inopportuno dissociare: “Interventi straordinari di carattere umanitario a favore degli sfollati delle repubbliche sorte nei territori della ex Jugoslavia, nonché misure urgenti in materia di rapporti internazionali e di italiani all’estero”.
Nel 1990 la cosiddetta legge Martelli aveva ribadito la convenzione di Ginevra sul rifugio politico negando contestualmente la validità della ‘riserva geografica’ che –fino ad allora- aveva limitato il riconoscimento possibile del rifugio politico a chi venisse dai territorio dell’Unione Sovietica.
Ma –per ragioni che non sto qui ad analizzare- quel rifugio non era estensibile a chi fuggiva minacciato ‘solo’ dalla guerra.
Di qui quel termine vago di ‘sfollati’ in cui, una società civile in rapporto con alcuni validi parlamentari, riuscì a far aggiungere nella legge 390 (e anche questa non fu un’operazione facile, ma funzionò) l’art. 2-bis: “La Repubblica italiana è impegnata a garantire comunque l’ingresso e l’ospitalità ai giovani cittadini delle Repubbliche ex- jugoslave che siano in età di leva o richiamati alle armi, che risultino disertori o obiettori di coscienza”.
Oggi il dibattito sulle possibili conseguenze operative della Convenzione di Ginevra appare devastato e degradato: i barconi vengono cacciati senza porre in atto le operazioni per verificare la possibilità di chiedere e concedere il rifugio politico e la terminologia di quella povera vecchia leggina, così precaria e così voluta, è scomparsa anche dal linguaggio della società civile.
Già perché molte associazioni, allora determinate nella costruzione della pace, sono diventate attente solo alle proprie iniziative che, anche se positive, si propongono come del tutto estranee a un qualsiasi interesse per le istituzioni. In particolare hanno dimenticato che le istituzioni della Repubblica cooperano, secondo il proprio ruolo e nei limiti delle loro funzioni, al raggiungimento della finalità fondamentali che la Costituzione indica.

Neonati e circolari ministeriali
Chi legge le mie segnalazioni avrà già visto in quel settore le informazioni che trascrivo di seguito perché le ritengo di estrema importanza e voglio quindi sottrarle alla volatilità che caratterizza le segnalazioni stesse.
In una sua nota sintetica del 7 agosto il Ministero dell’Interno, a proposito della registrazione anagrafica, precisa che:
“Le dichiarazioni di nascita e di riconoscimento di filiazione (registro di nascita – dello stato civile) non richiedono l’esibizione di documenti inerenti al soggiorno trattandosi di dichiarazioni rese, anche a tutela del minore, nell’interesse pubblico della certezza delle situazioni di fatto”.
Mi sembra che – con una ‘virtuosa’ interpretazione della lettera g del comma 22 dell’art. 1 della legge 94/2009 – la nota sintetica, riprendendo la circolare n. 19 del 7 agosto – apra la strada per la garanzia della pubblica evidenza del rapporto di filiazione di modo che il minore non possa venir sottratto ai suoi genitori non identificati come tali.

I luoghi in cui far chiarezza ad assicurare quanto al minore è dovuto sono, evidentemente, i comuni che possono quindi farsi sedi per il rispetto delle convenzioni internazionali non attraverso occasionali ammucchiate di piazza per protestare contro il governo e il pacchetto sicurezza globalmente inteso (e probabilmente ignoto anche ai protestatari) ma per realizzare al meglio le proprie funzioni.
Nel caso specifico i comuni, regolamentando adeguatamente la circolare che concede –in non definite situazioni di sicurezza- la dichiarazione di nascita dei figli di immigrati privi di permesso di soggiorno, realizzerebbero l’articolo 7 della Convenzione di New York che afferma: “Il fanciullo è registrato immediatamente al momento della sua nascita e da allora ha diritto ad un nome, ad acquisire una cittadinanza e, nella misura del possibile, a conoscere i suoi genitori ed a essere allevato da essi”. (Si veda, tra l’altro, il mio articolo del 26 luglio)

Badanti e nuovi nati
Mi è già capitato, in una disperata ricerca di informazioni presso autorità comunali sulle modalità di riconoscimento dei nuovi nati, figli di immigrati irregolari, di riceverne silenzio quando non insulti.
Appena avrò, se ne avrò, informazioni attendibili in merito a proposte competenti e ragionevoli ne scriverò.
Voglio però segnalare che la circolare che consente l’emersione delle badanti e colf ha un regolamento attuativo, diffuso anche dai maggiori organi di stampa, del tutto assente invece per ciò che concerne il riconoscimento anagrafico dei neonati figli di immigrati senza permesso di soggiorno. (sono le foglioline di Wislawa Szymborska. Ne ho scritto nel mio articolo del 1 giugno).
Per ora mi limito a ragionare su un caso esemplare che le cronache internazionali ci offrono a proposito di bambine nate ma inesistenti.

Modelli d’oltre oceano
I modelli sono sempre stati importanti nel fornire il supporto dell’analogia alla conoscenza tramite la trasmissione di indirizzi di comportamento d’altri, ritenuti degni d’essere imitati e perciò rassicuranti. (Proprio in questi giorni ne abbiamo un esempio illustre: l’operazione Feltri anti quotidiano vescovi, speculare all’operazione Repubblica anti costumi sessuali berlusconiani. L’esempio si conclude qui perché non mi piace rimestare nel pattume da qualsiasi parte prodotto).

Per la questione della possibile mancata registrazione di nascita per i nati da genitori privi di permesso di soggiorno un recente significativo modello viene dagli Stati Uniti.

Diciotto anni fa, in California, un uomo ha rapito una bambina. L’ha tenuta in stato di schiavitù con la complicità della moglie, l’ha messa incinta facendola partorire due volte di nascosto e evitando quindi alle nuove nate la registrazione anagrafica, comunque si chiami oltre Atlantico.
Le figlie – che oggi hanno 15 e 11 anni – non sono mai andate a scuola, evidentemente non sono mai state visitate da un medico (a meno che non si trattasse di complice del signore di cui sopra), nessuno – né vicini di casa, né autorità locali – le ha mai viste.
Per maggiori informazioni indico alcuni link, dalla BBC e dal Corriere della sera
Se i sindaci italiani, sceriffi, organizzatori di ronde, – o semplicemente sciattoni che ignorano il loro ruolo di garanti della popolazione del territorio di cui sono responsabili- hanno nel Far West un modello, ora possono aggiungere ai loro riferimenti internazionali anche la eventuale mancata registrazione dei neonati, se a tanto arriveranno.

NOTA: Forse questa parte del mio scritto subirà qualche modifica e integrazione se riuscirò ad avere le informazioni che sto cercando sulla registrazione anagrafica e l’obbligo scolastico in California. Per ora mi limito a segnalare ciò che so.

1 Settembre 2009Permalink