27 ottobre 2015 – Giornata del dialogo cristiano islamico

Appello per la XIV Giornata ecumenica del dialogo cristiano islamico

Cristiani e musulmani, lo diciamo da sempre, hanno profonde radici comuni. Già lo scorso anno ne abbiamo indicato due, quelli della misericordia e della compassione. Islam e cristianesimo, di più, sono religioni di pace. E per costruire un mondo di pace c’è bisogno che le due religioni mondiali maggioritarie, che sono l’islam ed il cristianesimo,  sappiano riscoprire le comuni radici di pace in tutte le loro molteplici declinazioni, fra cui quest’anno vogliamo indicare alle comunità cristiane e musulmane, come tema per la quattordicesima giornata ecumenica del dialogo cristiano islamico del 27 ottobre 2015, quelle dell’accoglienza dello straniero, del rifugiato, dell’aiuto ai poveri, agli ultimi della società, per costruire la convivenza pacifica, che abbiamo sintetizzato in : «Cristiani e musulmani: dall’accoglienza alla convivenza pacifica». I nostri rispettivi testi sacri dicono parole chiare su tale aspetto, checché ne dicano coloro che vorrebbero piegare sia l’islam che il cristianesimo alla logica della guerra.  Questo crediamo possa essere la strada per costruire una società libera dal terrore della guerra nucleare, dalla paura continua di qualsiasi essere umano diverso da noi, riscoprendo la comune umanità, il comune bisogno di accoglienza e di vivere pacificamente, come figli e figlie dell’unica Madre Terra che ci ospita. La ricca e opulenta Europa ed il cosiddetto “occidente”, non potranno assolversi dalle proprie gravissime colpe nei confronti dei popoli che hanno depredato delle loro risorse e che hanno costretto a subire la guerra e poi a fuggire e a divenire profughi, se non fermando la vendita degli armamenti, che sostengono la guerra e producono milioni di profughi, e ponendo fine alla depredazione delle risorse dei popoli africani, asiatici o sudamericani. Chi vuole pace per se dovrà imparare a dare pace agli altri. E questo lo si potrà fare riscoprendo le vere radici comuni alle religioni monoteiste, ad islam, cristianesimo ed ebraismo, che sono l’accoglienza, l’ospitalità, la misericordia, la pace, perché “la terrà è di Dio” e nessuno ha il diritto di dichiararla propria e sfruttarla a proprio uso e consumo. Uomini e donne di pace cercasi. Con un fraterno augurio di shalom, salaam, pace Il Comitato Organizzatore

Roma, 25 giugno 2015

Per informazioni www.ildialogo.org

Fra i vari messaggi di adesione trascrivo: L’Amicizia Ebraico Cristiana di Napoli, …, fermamente convinta che la Pace si ottiene con la conoscenza e l’accoglienza dell’altro fa proprio l’Appello per la XIV Giornata del Dialogo Cristiano Islamico

Inserisco per ora (riservandomi di trascriverli a mia futura memoria) due link ad articoli di Grossman e Yehoshua che contengono anche valutazioni delle dichiarazioni di Netanyahu

DAVID GROSSMAN. Fra Storia e finzione le ossessioni di Bibi tengono in trappola il popolo israeliano

http://www.lastampa.it/2015/10/27/esteri/yehoshua-alla-pace-non-crede-pi-nessuno-lora-che-leuropa-agisca-vYmXUUejV3Cj9kfZUunk3N/pagina.html

aggiungo questa nota di Gad Lerner

Scandalo dell’Israelitico di Roma: emerge l’uso strumentale dell’accusa di antisemitismo

27 Ottobre 2015Permalink

23 ottobre 2015 – Un vecchio, ma sempre valido, articolo di Moni Ovadia

“Oltre alle ragioni che lo definiscono, il conflitto israelo-palestinese è importante perché evoca ripetutamente, nella dimensione fantasmatica, lo spettro dell’antisemitismo, quello del suo esito catastrofico, la Shoah, ma anche quello del suo doppio negativo, la vittima che diventa carnefice. I processi di permanente vittimizzazione che si sinergizzano con i complessi di colpa occidentali, legittimano un’’industria dell’Olocausto’. Questa, a mio parere, è una delle derive più allarmanti e ciniche della memoria”

Il conflitto israelo-palestinese è uno dei problemi centrali del nostro tempo sul piano reale ma ancor di più sul piano della percezione simbolica, anche se tutto sommato riguarda un numero limitato di persone rispetto alle moltitudini dei grandi scacchieri incandescenti. Perché è tanto importante? A mio parere perché, oltre alle ragioni fattuali che lo definiscono, evoca ripetutamente nella dimensione fantasmatica, lo spettro dell’antisemitismo, quello del suo esito catastrofico, la Shoah, ma anche quello del suo doppio negativo, la vittima che diventa carnefice. La Shoah non solo ha espresso in sé il male assoluto, ma ha cambiato definitivamente la nostra visione antropologica del mondo e ha sconvolto le categorie del pensiero e del linguaggio. Oggi, la memoria della Shoah entra nel conflitto sul piano dell’immaginario producendo rebound psicopatologici che mettono in scacco non solo il dialogo fra posizioni diverse, ma la possibilità stessa di elaborare un approccio critico senza provocare reazioni isteriche o furiose.

Molti ebrei in Israele e nella diaspora, reagiscono psicologicamente a ogni riflessione severa come se, invece di vivere a Tel Aviv o a Parigi nel 2014, vivessero a Berlino nel 1935. Ora, essendo ebreo anch’io, per dovere di onestà intellettuale è giusto che dichiari la mia posizione perché essa è tutt’altro che neutrale. Sostengo con piena adesione i diritti del popolo Palestinese, non contro Israele, ma perché il loro riconoscimento è, a mio parere, precondizione per ogni trattativa che porti alla pace. Ritengo che la responsabilità principale (non unica) dell’attuale disastro, abbia origine nella cinquantennale occupazione da parte dell’esercito e dell’Autorità israeliana e la relativa illegittima colonizzazione delle terre che appartengono ai palestinesi secondo i decreti della legalità internazionale. Su Gaza, l’“occupazione” è esercitata sempre da parte dell’autorità civile e militare di Israele con un ininterrotto assedio e comporta il totale controllo dell’entrata e uscita delle merci e delle persone, dello spazio aereo, marittimo, delle risorse idriche, energetiche e persino dell’anagrafe. I tunnel, in qualche misura, sono una risposta a questo stato di cose. I missili lanciati contro la popolazione civile di Israele sono atto di guerra illegale secondo le convenzioni internazionali, ma non si può far finta di dimenticare che un assedio è esso stesso atto di guerra.

È stata pratica sistematica degli ultimi governi israeliani il mantenimento dello status quo attraverso la politica dei fatti compiuti e il mantenimento dello status quo impedisce, de facto, ogni altro sbocco come quello della trattativa. Lo dimostra il reiterato nulla di fatto con Abu Mazen che, in cambio della sua super disponibilità a trattare, ha ricevuto solo umiliazioni anche dal finto mediatore statunitense. Ora, la politica dello status quo significa contestualmente il suo peggioramento e l’ineludibile scoppio dei ciclici conflitti con Hamas che terminano con la devastazione di Gaza, una micidiale conta di vittime civili palestinesi e, fortunatamente sul piano umanitario, un esiguo numero di vittime israeliane, soprattutto militari. Ciò non significa che non siano vittime e che la loro morte non sia un lutto.

Gli zeloti pro israeliani quando ascoltano o leggono queste mie opinioni critiche, reagiscono immancabilmente con insulti, maledizioni e invettive. Il genere è: “Sei un rinnegato, nemico del popolo ebraico, ebreo antisemita o ebreo che odia se stesso”. La critica da parte di un ebreo della diaspora alla politica di governi israeliani può essere considerata tradimento, antisemitismo od odio verso se stessi solo se collocata nel quadro di un’identificazione nazionalista di ebreo, israeliano, popolo ebraico, popolo d’Israele, Stato d’Israele, suo governo e “terra promessa”. Ma se qualcuno osa fare notare, da posizioni critiche, tale pericolosa identificazione, ecco arrivare addosso all’incauto le accuse infamanti di antisemita o antisionista, che, per molti “amici di Israele” – anche persone di indiscutibile livello culturale –, sono la stessa cosa. Il carattere fantasmatico della percezione della critica come minaccia innesca irrazionali reazioni furiose che producono alluvioni di tweet, di email rivolte agli organi di stampa e di esternazioni su Facebook dove il diritto all’incontinenza mentale è garantita dell’indipendenza della Rete.

L’ossessione della nuova Shoah dietro la porta scatena processi di permanente vittimizzazione che si sinergizzano con i complessi di colpa occidentali, legittimando un’“industria dell’Olocausto” che fa un uso strumentale e ricattatorio della memoria dell’immane catastrofe per fini di propaganda, come bene spiega un saggio fondamentale di Norman Finkielstein, uno scrittore ebreo statunitense. Questa, a mio parere, è una delle derive più allarmanti e ciniche della memoria stessa a cui si prestano non pochi politici europei reazionari o ex-post fascisti, magari facendosi intervistare all’uscita da una visita al memoriale di un lager nazista per dichiarare: “Mi sento israeliano!”. Questo è un modo per trarre “profitto” dall’orrore a vantaggio degli eredi delle classi politiche europee che non si opposero allora al nazismo e all’antisemitismo e oggi lasciano sguazzare indisturbati, nell’Europa comunitaria, neonazisti di ogni risma. L’infame Europa del mainstream delle sue classi dirigenti conservatrici allora stette a guardare lo sporco lavoro dei nazisti collaborando o, nel migliore dei casi, rimanendo indifferenti. Dopo la guerra questi signori hanno progressivamente trattato “il problema ebraico” “esportandolo” con piglio colonialista in medioriente. Oggi cercano credibilità e verginità israelianizzando tout court l’ebreo con una mortificante omologazione.

A questa operazione si prestano purtroppo le dirigenze della gran parte delle istituzioni ebraiche, come ha dimostrato il caso della cantante Noa. L’artista israeliana doveva tenere un concerto a Milano organizzato dall’Adei Wizo, un’organizzazione femminile ebraica. Ma Noa, per il solo fatto di avere espresso l’opinione che la colpa dell’ultimo conflitto di Gaza era degli estremisti delle due parti, si è vista cancellare il concerto. Questo episodio dimostra che neppure una dichiarazione equilibrata, neanche se fatta da una cittadina israeliana, sia accettabile per chi vuole omologare l’ebreo all’israeliano, salvo poi infuriarsi indignato con chi smaschera l’intento. Dall’altra parte, ultras “filopalestinesi” si esercitano nella gratificante impresa di fare di Auschwitz, del nazismo e della svastica, oggetti contundenti da scagliare contro l’ebreo in Israele e spesso contro l’ebreo tout court, ma soprattutto contro il vagheggiato ebreo onnipotente della mitica lobby ebraica. L’intento è quello di dimostrare che Israele è come la Germania di Hitler e che ebrei si comportano come SS. Sotto sotto c’è la vocazione impossibile e sconcia di pareggiare i conti per neutralizzare il deterrente della Memoria. Ma questa sottocultura pseudopolitica, prima di scandalizzare, colpisce per la sua deprimente rozzezza. Sarebbe facile dimostrare l’assurdità di simili farneticazioni, inoltre finisce sempre per rivelarsi una sorta di boomerang che danneggia la causa palestinese. Tutto ciò poco interessa a chi deve placare il proprio narcisismo militante, inoltre, questo tipo di militanza che si esprime con slogan di “estrema sinistra” e di roghi di bandiere ha inquietanti punti di contatto con quella dei neonazisti che, pur di soddisfare la loro inestinguibile sete di antisemitismo, si iscrivono fra gli ultras filopalestinesi. Per denunciare l’oppressione del popolo palestinese ci sono un linguaggio puntuale e concetti giuridici elaborati dal diritto internazionale. È dissennato proiettare l’immaginario della memoria della Shoah in paragoni inaccettabili. Anche i proclami di antisionismo sono poco sensati, poco centrati e non tengono conto delle articolazioni del fenomeno.

A mio parere, il sionismo in quanto tale si è estinto da un pezzo. Anche di esso sono rimaste proiezioni fantasmatiche mentre nella realtà l’ideologia della destra reazionaria dominante in Israele è un ultranazionalismo del “grande Israele” compromesso con il fanatismo religioso. Del sionismo è rimasto lo spirito dell’equivoco slogan delle origini: “Un popolo senza terra per una terra senza popolo”. Ancora oggi, a distanza di più di un secolo, la destra reazionaria di Netanyahu ha re-imbracciato quella miopia militante che vorrebbe cancellare nei palestinesi lo status di nazione e di popolo. Ma in questi ultimi giorni perfino il falco Bibi, mettendo la mordacchia ai più falchi di lui nel suo governo, ha intuito che nella sanguinosa polveriera mediorientale una tregua “duratura e permanente” con Hamas è più auspicabile che far scempio di civili innocenti. Secondo me, ciò di cui c’è vitale bisogno in Israele è che la sua classe dirigente si armi di coscienza critica e di lungimirante pragmatismo per dismettere vittimizzazione e propaganda e ascoltare anche le critiche più dure come un contributo e non come un pericolo. Certo, una tregua non fa primavera né la fa una manifestazione della fragile opposizione che in giorni recenti è coraggiosamente tornata a mostrarsi in piazza Rabin per fare ascoltare una lingua diversa da quella dello sciovinismo militare. Ma sono barlumi di una possibile alternativa all’asfissia della guerra. di Moni Ovadia 

Da Il Fatto Quotidiano del 29 Agosto 2014

http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/08/29/gaza-moni-ovadia-io-ebreo-sostengo-i-diritti-palestinesi-ecco-perche/1102601/

 

 

23 Ottobre 2015Permalink

16 maggio 2015 – Il Vaticano apre a rapporti con la Palestina

La notizia cui di seguito si fa riferimento si trova sull’Osservatore Romano del 13 maggio ed è leggibile da qui

Bruno Segre

Il giorno successivo Bruno Segre ha inviato la lettera che pubblico di seguito ai componenti della sua mailing list.
L’ho ringraziato subito e ricordo una precedente lettera che ha girato e ho pubblicato il 7 settembre 2009 e così inizia: Una lettera aperta agli ebrei americani

Siamo un gruppo di israeliani viventi attualmente negli Stati Uniti.  Ci rivolgiamo a voi in quanto ci opponiamo agli atti compiuti dal governo israeliano nel contesto dell’operazione “Margine di protezione”.

Si può leggere anche da qui    https://diariealtro.it/?p=3317

 Milano, 14 maggio 2015

Al reverendo
Don Cristiano Bettega,
Ufficio CEI per l’Ecumenismo e il Dialogo interreligioso,
Roma

Caro Don Cristiano,

ti è possibile far arrivare al Pontefice la voce di un vecchio ebreo italiano che da decenni persegue con impegno totalmente laico rapporti di  fraterno dialogo con amici cristiani nelle sedi più diverse: dai Colloqui di Camaldoli alle sessioni estive del S.A.E.?

Ebbene, se hai tale possibilità, ti prego di esprimergli la mia  più profonda gratitudine per l’annuncio odierno del riconoscimento da parte del Vaticano dello Stato di Palestina. Si tratta di un passo fondamentale in direzione della pace nel Vicino Oriente, pace che non si materializzerà mai fino a quando in quella regione non vi siano due Stati, Israele e Palestina.

Con questa storica decisione, Papa Francesco si erge quale autentico leader del mondo libero, dimostrandosi capace di operare per la promozione della giustizia in tutte le sue declinazioni. Ne fa fede, oltre alla sua caparbia volontà di riconciliazione tra i popoli e tra le fedi, il suo reiterato impegno nel combattere le troppe sacche di miseria presenti un po’ ovunque nel mondo, e nell’esigere da tutti i politici misure più consapevoli di protezione dell’ambiente globale.

Ti ringrazio per l’attenzione.
Di cuore, shalom.
Bruno Segre

Mons Sabbah  –  Giovedì 14 Maggio 2015

Ho poi trovato queste considerazioni di mons Sabbah, patriarca latino emerito di Gerusalemme.

09:05 – TERRA SANTA: SABBAH (PATRIARCA EMERITO), “POTENZE MONDO SFRUTTANO ESTREMISMO ISLAMICO”

(dall’inviato Sir a Betlemme) – “La ricerca della pace in Medio Oriente è anche una lotta contro i poteri politici del mondo e i loro piani per creare un nuovo Medio Oriente. Poteri che sfruttano l’estremismo religioso per raggiungere questo scopo”. Lo ha detto al Sir il patriarca emerito di Gerusalemme, Michel Sabbah, ieri sera a Betlemme, a margine della cerimonia inaugurale di “Pilgrims on the path to peace” (Pellegrini sul sentiero verso la pace), che celebra il 70° anniversario di Pax Christi international. “Coloro che uccidono oggi in questa regione – è la denuncia di Sabbah – sono due, l’estremismo islamico e le potenze mondiali che fingono di combatterlo, ma in realtà lo usano e gli danno spazio perché uccida. L’estremismo è nelle mani dell’Occidente”. Come sta avvenendo in Siria e in Iraq. (segue)

09:06 – TERRA SANTA: SABBAH (PATRIARCA EMERITO), “POTENZE MONDO SFRUTTANO ESTREMISMO ISLAMICO” (2)

Situazione preoccupante anche in Israele e Palestina dove “non c’è nessuna speranza per un cambiamento che offra almeno stabilità: “Gli israeliani hanno paura anche se sono forti e potenti, non vivono nella pace ma nell’insicurezza. Dal canto loro i palestinesi aspettano chiedendo pace”. Il ruolo dei leader religiosi, in questo contesto, è significativo ed “è quello di liberare la religione e i fedeli in modo che essi vedano nell’altro una creatura di Dio da amare. I leader religiosi devono essere educati perché possano educare i fedeli a diventare costruttori di pace e non feroci assassini”. Vanno per questo apprezzate e sostenute le azioni di pace di molte associazioni di dialogo e di difesa dei diritti umani. “Veri segni di speranza” le ha definite Sabbah, che in passato è stato anche presidente di Pax Christi International. Il patriarca emerito ha poi commentato al Sir l’accordo tra la Santa Sede e lo Stato di Palestina, a conclusione della plenaria della Commissione bilaterale. “Si tratta di un passo verso la speranza – ha spiegato – che sancisce gli ottimi rapporti della Chiesa con l’Autorità palestinese. Sarà un segno per tutto il mondo arabo e forse anche per Israele per fare lo stesso passo”.

fonte:

http://www.agensir.it/pls/sir/v4_s2doc_b.stampa_quotidiani_cons?id_oggetto=312651

16 Maggio 2015Permalink

3 marzo 2015 – Cinque minuti di Palestina

Il 27 febbraio la camera ha approvato due mozioni relative al riconoscimento dello stato di Palestina ma fra loro in parte divergenti ed entrambe accolte dal governo.palestina - laStampa
Inserisco il link a un articolo de La stampa che alla fine propone una mappa che può essere più utile di tante parole.

http://www.lastampa.it/2015/02/27/esteri/palestina-gentiloni-governo-favorevole-al-riconoscimento-ZZtoZpI3UdyfmdafNOZ7iO/pagina.html

Moni Ovadia

Di seguito il link a un intervento di Moni Ovadia che precede di qualche giorno il dibattito parlamentare ma contiene considerazioni che aiutano a ragionare.

Pubblicato il 13 feb 2015 Intervista a Moni Ovadia a cura di Massimo Annibale Rossi, presidente di Vento di Terra ONG Moni Ovadia sostiene la campagna SCP – Società Civile per la Palestina e ci spiega perché è importante che l’occidente riconosca la Palestina quale stato indipendente.

https://www.youtube.com/watch?v=ogYEzXTC7Wk

 

 

3 Marzo 2015Permalink

17 febbraio 2015 – Moni Ovadia e lo stato di Palestina

Moni Ovadia per il riconoscimento dello stato di Palestina Pubblicato il 13 feb 2015

Intervista a Moni Ovadia a cura di Massimo Annibale Rossi, presidente di Vento di Terra ONG Moni Ovadia sostiene la campagna SCP – Società Civile per la Palestina e ci spiega perché è importante che l’occidente riconosca la Palestina quale stato indipendente

https://www.youtube.com/watch?v=ogYEzXTC7Wk

17 Febbraio 2015Permalink

26 gennaio 2015 – Yehoshua: “Sostenete lo Stato palestinese, è l’unica via per arrivare alla pace”

Idee per pensare il 27 gennaio – L’articolo che trascrivo è stato pubblicato il 23

Intervista allo scrittore israeliano. “I palestinesi vogliono solo il diritto di essere cittadini della propria patria. Questo dobbiamo concederlo, ormai anche il 50-60% degli israeliani è d’accordo” dal nostro corrispondente FABIO SCUTO

Gerusalemme. “I PALESTINESI non vogliono un califfato islamico e non hanno obiettivi religiosi estremi. Ciò che in definitiva chiedono è ciò a cui ha diritto ogni persona al mondo: essere cittadini della propria patria. Questo dobbiamo darglielo, come chiede la maggioranza degli israeliani. Il problema è come realizzarlo”. Va subito al nocciolo della questione lo scrittore israeliano Avraham B. Yehoshua: il riconoscimento dello Stato palestinese. Professore emerito dell’Università di Haifa e “visiting professor” a Harvard, Oxford, Princeton e Chicago, Yehoshua appartiene ai molti israeliani che negli ultimi anni hanno fortemente criticato le posizioni del governo di Benjamin Netanyahu che hanno contribuito al fallimento della trattativa di pace. Il Parlamento italiano  –  dopo Gran Bretagna, Francia, Spagna, Irlanda e Portogallo  –  si appresta a votare il riconoscimento della Palestina. Yehoshua è uno dei primi firmatari israeliani di un appello per questo riconoscimento, cosa che il governo israeliano giudica un’assurdità.

Perché è importante il riconoscimento dello Stato palestinese da parte dei parlamenti europei? “L’assenza di una trattativa, le lungaggini, la guerra a Gaza, l’ampliamento incontrollato degli insediamenti, tutto ciò crea una situazione in cui, i palestinesi, quelli moderati, coloro che vogliono vivere in pace su quello che è un quarto della Palestina storica hanno bisogno di un incoraggiamento, dopo che gli Stati Uniti hanno tirato per le lunghe e non sono riusciti ad avere un solo successo, non sono riusciti a fare “smantellare” nemmeno un insediamento in Cisgiordania. Non sto parlando delle trattative vere e proprie, che sono una questione complessa, in cui sono presenti molti elementi quali il “Diritto al Ritorno”, che senza dubbio presenta molti problemi, ma almeno bloccare la costruzione di insediamenti, che è l’azione più elementare che Israele dovrebbe compiere, per non creare situazioni irreversibili”.

Siamo al punto di non-ritorno? È finita la soluzione “due Stati per due popoli”? “Spero davvero che non siamo ancora arrivati a questo punto, perché uno Stato bi-nazionale sarebbe una catastrofe per entrambi i popoli. Vediamo che cosa sta accadendo oggi negli stati bi-nazionali: un caos atroce negli stati arabi. Per questo, proprio i palestinesi che ancora credono in una trattativa e ancora credono in uno Stato palestinese sono quelli che hanno bisogno di un incoraggiamento più concreto dagli europei, di un riconoscimento dello Stato Palestinese “.

Quindi lei è d’accordo sul fatto che la comunità internazionale, l’Europa e l’Italia, continuino a dedicare attenzione a quanto avviene nel Medio Oriente? “Ma certamente. Guardi che cosa succede in Siria, cose terribili, e lì è praticamente impossibile fare qualcosa. Ma la questione palestinese, che è una delle ragioni del caos medioorientale, non unica ma una delle tante che infiammano gli estremismi, è invece risolvibile. Naturalmente l’Europa non può creare lo Stato Palestinese, che può essere costituito solo tramite una trattativa fra Israele e i palestinesi, con condizioni che garantiscano la sicurezza di Israele, ma può incoraggiare questo processo con un atto simbolico di riconoscimento”.

La soluzione del conflitto fra Israele ed i palestinesi può offrire una maggiore possibilità di confrontarsi con gli altri conflitti che travagliano il Medio Oriente, come quelli con l’Is o Al Qaeda? “Non lo so. Sembra che nemmeno coloro che combattono sappiano su che cosa verta il conflitto. Chi sa veramente che cosa vogliono l’Is ed Al Qaeda? Sono conflitti molto complessi, in cui non è chiaro dove stia il bene e dove il male, né in Iraq né in Siria, dove non è possibile sapere che cosa accade. Quello che si sa, però, è quello che vogliono i palestinesi: non vogliono un califfato islamico, non hanno obiettivi religiosi estremi. Ciò che vogliono in definitiva è ciò a cui ha diritto ogni persona al mondo: essere cittadino nella propria patria. Questo dobbiamo darglielo e le dirò di più: il 50-60% degli israeliani sono d’accordo, il problema è come realizzarlo”.

Se è vero ciò che lei dice che cosa ne impedisce la realizzazione? “La paura che possa succedere quello che è successo con il ritiro da Gaza. Allora ci fu un ritiro israeliano dalla Striscia incondizionato (che ha portato a tre successive operazioni militari in nove anni, ndr), mentre ora stiamo parlando di un ritiro con garanzie, con contingenti israeliani che rimarrebbero sul posto: il coordinamento fra l’esercito israeliano e le forze di sicurezza palestinesi ha dato ottime prove da anni. Non vi è terrorismo, e se ci sono episodi, si tratta di casi sporadici occorsi soprattutto nei Territori palestinesi che sono ancora sotto il dominio israeliano. Abbiamo visto Abu Mazen che è andato a Parigi per esprimere la sua solidarietà e ha marciato a fianco del primo ministro di Israele. Il terrorismo non è nel suo ordine del giorno, non combatte gli ebrei ovunque siano e non rappresenta l’estremismo islamico. Ha un obiettivo chiaro e preciso: ottenere il suo piccolo Stato “.

A due mesi da un voto politico decisivo Israele si trova sull’orlo della pace o su quello della guerra? “Israele si trova sull’orlo di un cambiamento, sull’orlo della fine del ricatto dei coloni estremisti di destra, sull’orlo della possibilità di cambiare registro, di ritornare al dialogo che vi è stato in passato. Non siamo più all’epoca in cui nessuno nel mondo arabo voleva parlare con noi, abbiamo sul tavolo la proposta della Lega Araba: bisogna soltanto superare l’ostacolo del “Diritto al Ritorno”, che per noi è impossibile accettare (il ritorno dei profughi arabi nel territorio di Israele, ndr).

In cambio della rinuncia dei profughi palestinesi al ritorno, lei sarebbe disposto a rinunciare alla Legge del Ritorno per gli ebrei? “No, perché si tratta di due cose che non hanno nulla in comune, la Legge del Ritorno non ha alcun collegamento con gli arabi. Noi abbiamo bisogno della Legge del Ritorno, perché solo così possiamo assicurare la possibilità di accogliere tutti gli ebrei che ne hanno necessità: guardi quello che succede in questo momento in Francia. Il Diritto al Ritorno dei palestinesi non può essere esteso al ritorno dei profughi in Israele, ma per quanto riguarda il ritorno entro i confini dello Stato Palestinese, lì avranno ogni diritto di ritornare, lì sarà applicata la loro legge del ritorno”.

http://www.repubblica.it/esteri/2015/01/23/news/yehoshua_sostenete_lo_stato_palestinese_l_unica_via_per_arrivare_alla_pace-105562033/

26 Gennaio 2015Permalink

1 gennaio 2015 – L’Italia riconosca lo stato di Palestina

Ricopio dalla newsletter di ‘Bocche scucite”.
In Palestina, se ben ricordo, ci sono tre patriarchi : cattolico, ortodosso e armeno. Poiché il patriarca cattolico dipende dalla Santa Sede questa dichiarazione mi sembra di rilevante significato. Forse sarebbe ancor più rilevante una posizione unitaria delle chiese cristiane, comprese quelle protestanti.

IN ESCLUSIVA per il lancio dell’Appello “ANCHE L’ITALIA AFFRETTI LA PACE”, il PATRIARCA DI GERUSALEMME dichiara il suo appoggio alla richiesta al parlamento italiano per il riconoscimento dello Stato di Palestina:

Riconoscere lo Stato di Palestina incoraggia i palestinesi a credere nel dialogo che dovrà seguire a questo riconoscimento. Non capisco perché l’Italia, che é stata sempre vicina a noi, tarda a riconoscere lo Stato di Palestina. Se l’Italia riconoscerà questo Stato dopo tanti altri Stati, non avrà, in realtà, molto merito. Ma se lo fa adesso, sarà un gesto profetico e coraggioso, e avrà il rispetto di un miliardo di musulmani nel mondo. D’altra parte, va ricordato a tutti che lo Stato di Palestina è già nato! La storia può tardare oppure affrettare i tempi, ma deve registrare che il nostro Stato di Palestina é già nato.

Appoggio il vostro Appello “Anche l’Italia affretti la pace” e vi ringrazio di cuore per il vostro impegno. Buon anno nuovo, pieno di coraggio, di buona salute e di buone sorprese! Amen.

Mons. FOUAD TWAL  Patriarca Latino di Gerusalemme, 25 dicembre 2014

vedi anche: http://www.bocchescucite.org/anche-litalia-affretti-la-pace/

 

1 Gennaio 2015Permalink

21 dicembre 2014 – Frottole tosco-francescane per discriminare le bambine di Betlemme.

Si parla di francescani inguaiati per un affare finanziario ‘poco chiaro’ (diciamo così) Nel 2005 sono stata testimone di una affare a quanto ne so non  finanziario ma decisamente oscuro., Mi trovato a Betlemme per un periodo abbastanza lungo per consentirmi di guardare attorno e avevo avuto modo di visitare l’edificio della bellissima scuola dell’infanzia, costruita dall’Italia (e vedremo fra poco chi sostenne l’iniziativa) nel compound della Scuola di terra Santa dei Francescani. Sapevo con certezza che era frequentata solo da maschi ma mi turbava il vago ricordo di una campagna finalizzata alla raccolta di fondi finalizzati a un  regalo per “i bambini e le bambine di Betlemme”.

Rovistando nei miei appunti ho trovato il testo di un comunicato stampa d’epoca, di cui purtroppo non ho conservato il link. Lo ricopio lo stesso perché alla fine ci sarà la prova del fatto che segnalo da fonte diversa del mio diario 

2004 – Il vecchio comunicato  ”Giorgio La Pira”, una scuola per la pace

Domenica 24 ottobre, è stata inaugurata la scuola materna Giorgio La Pira del Terra Santa college di Betlemme.  Erano presenti Claudio Martini, presidente della Regione Toscana, mons. Luciano Giovannetti, vescovo di Fiesole, mons. Rodolfo Cetoloni, vescovo di Montepulciano, Chiusi e Pienza, Mario Primicerio, presidente Fondazione La Pira, Turiddo Campaini, presidente di Unicoop Firenze e alcuni primi cittadini della Toscana. Presente anche l’on. Rosi Bindi. La costruzione della Scuola materna del Terra Santa college di Betlemme è un progetto che ha visto la convergenza di tanti: da Unicoop Firenze, alle diocesi toscane, dall’Antoniano di Bologna, ai comuni gemellati con Betlemme e molte altre istituzioni. L’intento di tutti é quello di offrire ai bambini e alle bambine di Betlemme un ambiente accogliente per far crescere una speranza di pace e normalità. E’ stata chiamata Giorgio la Pira, in omaggio ad una grande personalità fiorentina, nel centenario della sua nascita. La scuola Terra Santa offre a oltre duemila alunni, maschi e femmine, sostegno materiale e possibilità di studiare: dalla materna alle superiori. E’ aperta a palestinesi cristiani e musulmani che fanno esperienza vera di convivenza e collaborazione, ed è una possibilità unica di aggregazione e vita civile. Essa rappresenta uno strumento fondamentale di qualificazione delle nuove generazioni: di formazione e di apertura alla speranza. Alla realizzazione della nuova scuola materna Unicoop Firenze ha destinato 100 mila euro

Dopo il 14 agosto 2005 (quando avevo registrato la prima notizia) scrissi più volte all’Ufficio stampa Unicoop (e ne ho dato resoconto nel mio blog) sempre senza risposta. Allora avevo questi riferimenti che non so se siano ancora validi ma li trascrivo nel caso incuriosissero qualcuno
Claudio Vanni – Ufficio stampa Unicoop Firenze Tel. 0554780316
E-mail: c.vanni@coopfirenze.it

20017  -Un amico giornalista ottiene risposta

Nel 2007 un amico giornalista (che collaborava alla rivista Diario) si occupò della questione e ne trasse l’articolo che riporto.

Da Diario nr. 1/2007   Un asilo a Betlemme: peccato sia solo per maschi

Dalla coop ai comuni in tanti avevano dato i soldi: ma le bambine nella scuola non possono entrare.  di Max Mauro

Una scuola materna per i bambini e le bambine di Betlemme. Per questo obiettivo nel Natale del 2002 venne avviata una raccolta di fondi con protagonisti Unicoop Firenze, le diocesi toscane, l’Antoniano di Bologna e vari comuni gemellati con la città. Venne reperita la somma di un milione e duecentomila dollari, necessaria alla costruzione dell’edificio all’interno del Terra Santa College, gestito da frati francescani. La scuola materna è stata inaugurata il 24 ottobre 2004 alla presenza del presidente della regione Toscana Claudio Martini e dell’allora deputata o oggi ministro Rosi Bindi. Un successo della solidarietà internazionale, quindi? Non proprio, perché in quella scuola ci vanno solo bambini, bambini maschi s’intende, in barba alla propagandata intenzione “di offrire ai bambini e alle bambine di Betlemme un ambiente accogliente per far crescere una speranza di pace e normalità”, come si può leggere in un comunicato di Unicoop.

A denunciare il fatto è Augusta De Piero, una pensionata che dopo una vita divisa tra la politica – è stata vicepresidente del consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia, eletta col Pci – e l’insegnamento, ha deciso di dedicare parte del suo tempo al volontariato. Trascorre alcuni mesi all’anno in Palestina ed è durante uno di questi viaggi che ha avuto modo di visitare il Terra Santa College. “La realtà è ben diversa da come hanno voluto far credere i promotori”, dice. “Quella scuola è frequentata solo da maschi. All’interno del Terra Santa College non esiste un’esperienza di integrazione tra bambini e bambine, quale invece si può trovare alla scuola Dar Al Khalima, gestita da luterani”. La risposta di Unicoop cela qualche imbarazzo. “Noi siamo solo dei sostenitori del progetto”, dice Claudio Vanni dell’ufficio stampa, “abbiamo raccolto 100mila euro per acquistare gli arredi. E’ vero, là maschi e femmine sono separati,  una cosa che io personalmente non condivido, ma è la loro cultura e va rispettata”. Per avere maggiori informazioni Vanni ci rimanda a Angelo Rossi, collaboratore della Conferenza Episcopale Italiana e uno dei promotori del progetto. “Sappiamo di questo problema” dice, “ma i fondi sono stati indirizzati in quella struttura perché c’era il terreno disponibile e un progetto, ora si vorrebbe proseguire, magari aiutando una scuola materna dell’Autorità Palestinese. Farne una per le femmine? E’ difficile raccogliere di nuovo tutti quei soldi”.

Conclusione irrinunciabilmente mia

Io non posso mettere ostacoli ad alcuno che voglia costruire una scuola monosex. Che però lo faccia in ambiente dove la condizione della donna andrebbe sostenuta e promossa e racconti frottole ai sottoscrittori questo mi infastidisce. Io non ho contribuito a quel progetto ma se lo avessi fatto – per fare un regalo a bambini e bambine – e poi avessi scoperto che le bambine erano state usate come esca per essere poi cancellate – e di conseguenza io sarei stata presa in giro – non gliela avrei fatta passare liscia se mai fossi riuscita a disturbare quei muri silenti e impermeabili. Secondo il mio ordine di valori quello che esce da questa notizia segnala un fatto non meno grave di un ipotetico pastrocchio finanziario.

21 Dicembre 2014Permalink

7 dicembre 2014 – Notizie da Israele

Limes_4-12-2014Lo scorso 3 dicembre avevo copiato un articolo dello scrittore arabo israeliano Sayed Kashua sull’incendio provocato alla scuola bilingue Hand in Hand a Gerusalemme. Ora trovo i link a due articoli di Limes del 4 dicembre che si riferiscono al disegno di legge fondamentale approvato il 23 novembre dal Consiglio dei ministri di Israele col titolo  “Israele, Stato nazionale del popolo ebraico”. A seguito di quell’approvazione Netanyahu ha estromesso dal governo i ministri Yair Lapid e Tzipi Livni che vi si erano opposti.

http://temi.repubblica.it/limes/israele-lo-stato-nazione-del-popolo-ebraico-e-lodio-di-se/67526

http://temi.repubblica.it/limes/la-scelta-di-netanyahu-elezioni-sullidea-stessa-di-israele/67524

Intanto Amos Oz, David Grossman e Abraham Yehoshua  hanno sottoscritto un appello ad alcuni Parlamenti europei per il riconoscimento dello stato palestinese. Insieme a loro hanno firmato altri  800 cittadini dello Stato di Israele  tra i quali il Nobel Daniel Kahneman. “Un atto di incoraggiamento soprattutto per il negoziato”

http://www.repubblica.it/esteri/2014/12/07/news/israele_oz_grossman_yehoshua_palestina-102347383/

Trovo anche notizia di un convegno organizzato in una università israeliana a vent’anni dal genocidio del Ruanda. Il commento di Corriere.tv è breve ma introduce un argomento importante. |

http://video.corriere.it/israele-si-frantuma-tabu/f383449a-7922-11e4-abc3-1c132dc377f5

 

7 Dicembre 2014Permalink

3 dicembre 2014 – Hanno bruciato un luogo in cui mi ero concessa una speranza

 

Un articolo di Sayed Kashua, scrittore arabo israeliano

Apro la Repubblica e trovo un articolo di Sayed Kashua. Parla di una scuola bruciata e scopro che è proprio quella in cui sono stata e di cui avevo scritto nel 2009. Ritrovo il mio vecchio post che si può leggere anche da qui e provo a scaricare l’articolo di Kashua.  Non si può. E allora decido di copiarlo perché è molto bello anche se tristissimo.

La scuola simbolo bruciata da fanatici contro la pace

Lo scorso sabato sera è andata a fuoco la scuola arabo ebraica “Mano nella Mano”, a Gerusalemme. Due aule di prima elementare sono state completamente distrutte. Ho visto scheletri di seggioline dove bambini ebrei e arabi stavano seduti l’uno accanto all’altro (e dove anche i miei figli erano stati seduti quando frequentavano quella scuola), cappotti semicarbonizzati lasciati in classe dai bambini e libri bruciati in arabo e in  ebraico. «Morte agli arabi» era scritto fra le altre cose sui muri della scuola, «Basta con l’assimilazione» e «Con un cancro non si convive». Chi ha appiccato il fuoco non riesce ad accettare l’idea che alunni arabi ed ebrei possano sedere gli uni di fianco agli altri nella stessa classe, senza distinzioni. Per la prima volta, da quando mi sono trasferito con la mia famiglia in Illinois per una anno sabbatico, mi sono rammaricato di non essere a Gerusalemme. Di non poter insistere, nonostante tutto (e forse proprio a causa di questo incendio) a mandare i miei figli a quella scuola insieme ad altri genitori. Mi sono rammaricato di non essere accanto agli insegnanti nell’accogliere i bambini con un rassicurante sorriso e la promessa che andrà tutto bene, che un giorno lo slogan appeso alle pareti delle aule dopo la guerra di Gaza – «Arabi ed ebrei rifiutano di essere nemici» – diventerà realtà e che, come viene insegnato loro, l’uguaglianza e la convivenza saranno possibili. Ma sarà davvero così? E’ moralmente giusto dare ai nostri figli l’illusione che arabi ed ebrei possano convivere su un piano di parità? Posso davvero guardare miei figli negli occhi e dire loro che un giorno saranno cittadini di Israele a pieno titolo? Era difficile, se non addirittura impossibile, garantire ai nostri figli l’uguaglianza a livello giuridico anche prima della proposta di legge del governo che decreta che Israele è lo Stato della nazione ebraica. Israele, sin dalla sua creazione, si è posto al servizio esclusivo degli ebrei che vi vivono e, di fatto, anche di quelli che non vi vivono. Viceversa lo Stato di Israele non  ha mai voluto essere il mio Paese, non è stato creato per me o per la mia famiglia né per i cittadini arabi che detengono il suo solo passaporto. Io e i miei figli facciamo parte dell’oltre milione e mezzo di cittadini arabi israeliani (da non confondere con i palestinesi di Gerusalemme, della Cisgiordania e della Striscia di Gaza occupate nel 1967) che vive entro la Linea Verde fin  dalla sua fondazione nel 1948, costituisce circa il 20 per cento della popolazione, è discriminato rispetto agli ebrei in tutti i settori della vita e deve sopportare enormi disparità. Nessun nuovo insediamento arabo è sorto dopo la creazione di Israele, a fronte di circa 700 ebraici, e l’area di competenza delle municipalità arabe rappresenta meno del tre per cento dell’intero territorio. L’attuale disegno di legge che stabilisce che “Israele è lo Stato della nazione ebraica” è diretto a garantire che, in caso di conflitto tra il carattere ebraico dello Stato e il principio di uguaglianza, il primo avrà la meglio sul secondo. Dio non voglia che la democrazia garantisca una qualche parità di diritti fra ebrei e non ebrei. «Ancorare per legge» è l’espressione usata dal governo israeliano in riferimento al decerato legge e sta a significare quanto segue: se le cose stanno in ogni caso così, perché non sancirle a livello giuridico? La discriminazione fra arabi ed ebrei in tutti i settori esiste comunque, tanto vale renderla legale. Molti palestinesi con cittadinanza israeliana sono felici di questa proposta di legge. Semplicemente perché, una volta che la legge sarà approvata, l’ineguaglianza non sarà celata dietro alla cortina di fumo di una cosiddetta “democrazia”. Molti pensano che questa legge metterà a nudo “l’etnocrazia” israeliana ( una democrazia solo se sei ebreo). E’ possibile che la fondazione di uno Stato ebraico fosse indispensabile considerata la terribile storia degli ebrei. Ma è davvero necessario che questo rifugio trasformi milioni di persone in rifugiati indifesi, ostaggi del governo israeliano? Che sia solo ed esclusivamente riservato agli ebrei? Che esseri umani vivano in esso separati a causa delle loro etnia? Che scuole che credono nella convivenza vengano bruciate? Avrei voluto moltissimo essere all’ingresso della scuola bilingue di Gerusalemme questa settimana, accanto ad altri genitori arabi ed ebrei che credono nell’uguaglianza. Avrei voluto moltissimo dire ai miei figli che gli autori di questo gesto sono solo un piccolo gruppo di stupidi criminali e che un giorno, vedrete, saremo un  popolo libero e voi potrete vivere e studiare dove vorrete. Ma non posso farlo. Il primo ministro e le sue leggi razziali mi negano la capacità di sognare un futuro migliore.
(traduzione di Alessandra Shomroni)

Nota aggiuntiva  – 5 dicembre

Appena pubblicato questo pezzo ho saputo delle modifiche imposte dal primo ministro di Israele, Benjamin Netanyahu alla composizione del proprio governo. Uno dei due ministri rimossi è Yair Lapid.
Di suo padre, fuggito dall’Europa razzista già prima dell’occupazione nazista avevo scritto il 3 settembre 2010 in un post che si può leggere da qui.
https://diariealtro.it/?p=3096

3 Dicembre 2014Permalink