28 settembre 2016 – Scuola in partenza : Quale diritto all’educazione per i figli di genitori irregolari?

Inizio con una mia MIA DOMANDA  la cui ratio è chiarita dal documento che segue:

Scrive l’Associazione Studi Giuridici Immigrazione: “recente la notizia di un nuovo rifiuto di iscrizione alla scuola per l’infanzia di un minore straniero a causa del mancato possesso del permesso di soggiorno da parte della madre”.

CHIEDO: Perché l’ASGI giustamente sottolinea la ‘discriminazione infondata’ del bambino rifiutato dalla scuola dell’infanzia per la mancanza del permesso di soggiorno della madre e non si occupa dei bambini cui è negata l’esistenza – con il radicale rifiuto del certificato di nascita?


DOCUMENTO

Dal sito della ’Associazione Studi Giuridici Immigrazione   –   15/09/2016    

Accade spesso che i minori stranieri paghino il prezzo del mancato diritto di soggiorno dei propri genitori in Italia, incontrando ostacoli nell’accesso ai diritti fondamentali, tra cui l’istruzione pubblica. Che cosa dicono la normativa e gli indirizzi ministeriali?

I minori stranieri presenti sul territorio, indipendentemente dalla regolarità della posizione in ordine al loro soggiorno, sono soggetti all’obbligo scolastico e hanno diritto all’istruzione, nelle forme e nei modi previsti per i cittadini italiani, nelle scuole di ogni ordine e grado.

Sebbene le Convenzione Internazionale sui diritti dell’infanzia e dell’adolscenza, l’ordinamento comunitario e la Costituzione italiana garantiscano il diritto del minore all’istruzione e alla formazione, senza discriminazioni fondate sulla cittadinanza, sulla regolarità del soggiorno o su qualsiasi altra circostanza, accade spesso che i minori stranieri paghino il prezzo del mancato diritto di soggiorno dei propri genitori in Italia, incontrando ostacoli nell’accesso ai diritti fondamentali.

Ci sembra opportuno e utile riportare questo articolo che abbiamo realizzato per il sito Sesamo didattica interculturale .

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Cronache di ordinaria ingiustizia

È recente la notizia di un nuovo rifiuto di iscrizione alla scuola per l’infanzia di un minore straniero a causa del mancato possesso del permesso di soggiorno da parte della madre.

Sebbene le Convenzione Internazionale sui diritti dell’infanzia e dell’adolscenza, l’ordinamento comunitario e la Costituzione italiana garantiscano il diritto del minore all’istruzione e alla formazione, senza discriminazioni fondate sulla cittadinanza, sulla regolarità del soggiorno o su qualsiasi altra circostanza, accade spesso che i minori stranieri paghino il prezzo del mancato diritto di soggiorno dei propri genitori in Italia, incontrando ostacoli nell’accesso ai diritti fondamentali.

La scuola non è in effetti l’unico ambito in cui i minori stranieri figli di irregolari non possono godere della parità con i loro coetanei i cui genitori sono regolarmente presenti sul territorio. È solo di un paio di anni fa il tentativo della Regione Lombardia, poi fallito grazie all’intervento di alcune associazioni che tutelano il diritto degli stranieri, di non riconoscere l’accesso al pediatra di base ai minori figli di genitori irregolari.

E ancora è frutto di una recente modifica normativa, peraltro ancora non sempre correttamente applicata, il riconoscimento della possibilità ai neo diciottenni figli di irregolari di ottenere la cittadinanza italiana anche in mancanza di iscrizione anagrafica e permesso di soggiorno, qualora dimostrino con qualsiasi mezzo la permanenza stabile e continuativa sul territorio dal momento della nascita.

La normativa

Eppure come negli ambiti sopra descritti anche in materia di istruzione la normativa nazionale–e gli indirizzi dei vari ministeri – sono chiari sul punto. Infatti l’art 38 del d.lgs. 286/1998 (TU Immigrazione) e l’art 45 comma 1 del DPR 394/1999 (Regolamento attuativo TU Immigrazione) prevedono che i minori stranieri presenti sul territorio, indipendentemente dalla regolarità della posizione in ordine al loro soggiorno, sono soggetti all’obbligo scolastico e hanno diritto all’istruzione, nelle forme e nei modi previsti per i cittadini italiani, nelle scuole di ogni ordine e grado.

L’art. 6 comma 2 del regolamento citato esclude poi esplicitamente dall’onere di esibizione del permesso di soggiorno le iscrizioni e gli altri provvedimenti riguardanti le prestazioni scolastiche obbligatorie nella quale non vi è dubbio che vi rientri anche la scuola dell’infanzia facendo parte del sistema educativo di istruzione e formazione (L 53/03 art.2 comma 1) e concorrendo allo sviluppo del minore. Il Ministero dell’Interno ha confermato con nota 2589 del 13 aprile 2010 che non vi è necessità “di esibire i documenti attestanti la regolarità del soggiorno per iscrivere un minore straniero al servizio di asilo nido” e anche il Ministero dell’istruzione ha fornito specifiche indicazioni in materia con la circolare n. 375 del 25 gennaio 2013 ricordando che “l’obbligo scolastico integrato nel più ampio concetto di diritto- dovere all’istruzione e alla formazione, concerne anche i minori stranieri presenti sul territorio nazionale, indipendentemente dalla regolarità della posizione in ordine al soggiorno in Italia e che in mancanza dei documenti prescritti la scola iscrive comunque il minore straniero”.

Tali affermazioni risultano peraltro coerenti con quanto previsto dallo stesso TU Immigrazione laddove l’art. 19 comma 2 let a) e l’art. 28 del regolamento attuativo citato prevedono che il minore – in quanto inespellibile – non sia mai irregolare ed abbia sempre e comunque diritto, sino al raggiungimento della maggiore età, ad un permesso di soggiorno.

Non solo ma la questione è stata già oggetto anche di un’azione giudiziale; il Tribunale di Milano (est. Marangioni, ordinanza del 11.2.2008) ha infatti ritenuto discriminatorio il comportamento del comune di Milano che subordinava l’iscrizione alla scuola dell’infanzia di un minore straniero al possesso del permesso di soggiorno della madre.

Discriminazioni infondate

Appare dunque inspiegabile che, nonostante la normativa e gli indirizzi ministeriali siano estremamente chiari sul punto e riconoscano senza dubbio la possibilità di iscrizione alcune istituzioni pubbliche ancora continuino a discriminare e violare il diritto all’istruzione dei minori figli di stranieri irregolari.

Anna Baracchi

Per saperne di più

Il diritto dei minori stranieri privi di permesso di soggiorno all’istruzione, alla formazione e all’accesso ai servizi socio-educativi, di Elena Rozzi

Il diritto dei minori stranieri privi di permesso di soggiorno all’istruzione, alla formazione e all’accesso ai servizi socio-educativi – GIUNTI

La sezione del sito Sesamo didattica interculturale con gli articoli curati da ASGI

FONTE http://www.asgi.it/famiglia-minori/scuola-diritto-educazione-figli-stranieri-genitori-irregolari/

28 Settembre 2016Permalink

27 settembre 2016 – La grammatica della generatività

Un articolo di Lidia Maggi (pubblicato in Riforma del 26 settembre 2016)

Mia madre mi ha partorita quando aveva 27 anni. Prima di me, per quanto ho potuto ricostruire, altri tre figli, di cui il primo riconosciuto dal padre minorenne, ma non da lei, che lo aveva messo al mondo.

Mia madre, nonostante il disagio sociale e le condizioni di vita difficili, è stata una donna molto fertile, forse troppo fertile; e solo per gli ultimi due, dei numerosi figli che ha partorito, è riuscita ad essere, in qualche modo, madre. Per tutti gli altri, hanno sopperito le istituzioni o le adozioni.

Se non posso dire, a pieno titolo, di avere avuto dei genitori, riconosco che la mia vita è stata attraversata da figure genitoriali, mentori, persone che mi hanno accudito, accompagnato, corretto e aperto il futuro. Queste figure non coincidono con la fertilità dei miei genitori biologici eppure è anche a loro che devo la mia gratitudine per avermi partorito a nuove possibilità di vita. Sono un caso estremo?

Dopo anni di esperienza pastorale, non mi convince più l’idea che la mia vicenda familiare lo sia. Ascolto troppe storie di ferite affettive, causate da violenze domestiche e abusi; e constato che le famiglie più propense a fare figli sono spesso quelle dove il disagio sociale è più alto. Ma, anche questa non è una regola. Conosco famiglie numerose sane, con incastri complessi e creativi. Grandi funamboli quei genitori capaci, nonostante i pochi aiuti sociali, di tenere assieme una gestione familiare faticosa.

Certo, in Italia ci sono coppie che non fanno figli. È un dato di fatto. Ma ridurlo a puro dato medico, senza inserire la questione in un quadro necessariamente complesso suona offensivo, e non solo per le coppie che non riescono ad avere un figlio, ma anche per chi, come me, dovrà per tutta la vita fare i conti con una fertilità biologica che non è coincisa con una vocazione alla genitorialità.

E se questo non bastasse, cosa dire delle donne che, dopo lunghi percorsi di liberazione sono arrivate a poter controllare il proprio processo produttivo attraverso una sessualità consapevole? L’indignazione più grande però, per questo modo banale e superficiale di affrontare il tema della crescita, la sento nei confronti di tutti quei bambini nati, educati e cresciuti nel nostro paese a cui viene negata la cittadinanza solo perché figli di immigrati. Bambini, adolescenti che non hanno diritto di sentirsi, a pieno titolo, parte del paese in cui nascono e crescono. Sono così tanti quei bambini e quelle bambine madrelingua italiani, che, se fossero riconosciuti nella loro piena dignità di cittadini, invertirebbero le statistiche catastrofiche e allarmistiche sull’invecchiamento della popolazione. Ma loro non contano, hanno la pelle troppo scura, anche se parlano perfettamente il nostro dialetto e faticano con la lingua d’origine dei loro genitori.

Insomma, parlare di sterilità o fertilità per affrontare il tema del rapporto tra generazioni è riduttivo. Persino nella Bibbia, quando si parla della sterilità delle matriarche, non ci si limita ad affrontare un problema fisiologico, ma si allude al complesso rapporto con il futuro, con le generazioni che verranno. Dietro la sterilità delle matriarche, c’è la consapevolezza biblica che il futuro non arriva mai per inerzia: bisogna continuamente rinegoziarlo. Ogni generazione è chiamata ad aprire una nuova breccia ed occorre tutta la creatività divina e umana per aprire al nuovo. Del resto, per le Scritture, la storia della salvezza non è un assunto astratto: passa attraverso il rapporto tra le generazioni. È storia partorita, non ideologia gridata.

Per aprire al futuro, non basta parlare di sterilità e isolare un aspetto, quello biologico. Solo una politica cieca, settoriale, arriva a ridurre la progettualità verso le generazioni future al «Fertility day». Occorre riscoprire, invece, una grammatica della generatività che affronti la complessità della questione per arrivare, al di là della propaganda, a garantire politiche che favoriscano il fluire della vita, anche in tempi di crisi. Non è solo un problema biologico e non riguarda soltanto le giovani coppie che decidono o non possono o non desiderano avere figli. Riguarda tutti noi. C’è tutta una società che deve uscire dalla sterilità del lamento, per riscoprire linguaggi generativi. È prioritario articolare una grammatica della generatività. Poi, sulla base di quella grammatica potranno prendere forma una pluralità di discorsi, anche opposti. E il dibattito pubblico sarà arricchito dalla molteplicità delle narrazioni. A patto, però, che i differenti discorsi seguano le regole grammaticali. Mi sembra che il discorso della ministra della Salute, Beatrice Lorenzin, proprio perché non tiene conto di questa complessità, risulti sgrammaticato. Chi non conosce coppie sterili «generative» e coppie fertili che non lo sono? Generare un figlio, una figlia richiede tempi lunghi, impegno, cura, dedizione, responsabilità, progettualità, fiducia nel futuro, sostegno economico ed educativo. Niente a che vedere con questa campagna pubblicitaria del Ministero della salute. Un’iniziativa ideologica e irresponsabile. Sterile.

Chi è Lidia Maggi:

Lidia Maggi, teologa, è pastora battista in servizio a Varese. Oltre alla cura delle chiese a lei affidate, si occupa di formazione e di dialogo ecumenico. E’ responsabile della rivista “La Scuola domenicale”. Collabora con diverse riviste cattoliche (Rocca, Mosaico di pace, matrimonio…) e protestanti su temi biblici e di dialogo ecumenico ed interreligioso.

Riforma, il periodico su cui è stato pubblicato l’articolo ricopiato in questo post, è il settimanale delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi.

27 Settembre 2016Permalink

25 settembre 2016 – La guerra del panino e i suoi effetti collaterali.

Scuole che hanno dichiarato guerra ai bambini con l’arma della fame.

Non so come altrimenti riassumere questa notizia sorprendente di cui porto alcune testimonianze fra quelle che ho raccolto e che cito punto per punto con la data degli articoli che ho ricopiato e trascritto di seguito  perché, scrivendo, dubito anche di me. Il costo delle mense scolastiche per alcuni genitori è insostenibile e quindi hanno pensato di rimediare inserendo nello zainetto dei figli un panino confezionato a casa. Altri hanno fornito il panino perché insoddisfatti del cibo della mensa. Ma restiamo ai primi.

Varie scuole hanno quindi aperto la guerra al panino infiltrato (il danno imposto ai bambini come in ogni evento militare che si rispetti rappresenta un effetto collaterale evidentemente irrilevante) con considerazioni igienico-sanitarie e altre finezze burocratiche che testimoniano se non altro il tempo  di cui dispongono alcuni dirigenti scolastici perché per certe elaborazioni ci vuole attenzione a ogni virgola delle circolari e non solo. Una preside, particolarmente meditativa, teorizza ad esempio la ‘ filosofia del pasto’ (23 settembre)

9 settembre – A Torino è intervenuto un ‘verdetto del tribunale’ a sostegno non è chiaro se di alcuni o di tutti i bambini al cibo. Condividendo e radicalizzando la meditata perplessità tribunalizia alcune scuole hanno pensato di allontanare dalla mensa i digiunatori, altre scuole invece hanno promosso il digiuno in mensa.

25 settembre, In Liguria  “i genitori si sono organizzati e hanno inviato diffide ai dirigenti per consentire ai propri figli di portare il cibo da casa” il diritto al panino è stato concesso ma, si precisa, si tratta di una “Una “concessione” che rischia, di far saltare gli equilibri legati ai costi”.

Le colpe dei padri ricadano sui figli
Tuo padre e tua madre non guadagnano abbastanza per pagarti la mensa, quindi …

21 settembre Milano Scoppia il caso: una bimba finisce in lacrime perché isolata, come un bambino in un altro istituto cittadino

22 settembre   –  In  Friuli Venezia Giulia un bambino resta a digiuno (non è chiaro se in mensa o in locale adibito all’assenza di pasto), ad Aosta invece digiunano in quattro nel locale della mensa (24 settembre)

Come ti cresco il figlio del ‘padrone’

Se il danno morale oltre che materiale per i bambini costretti al digiuno (e in taluni casi costretti a digiunare davanti ai mangiatori) è evidente, non voglio che ignorare anche quello dei bambini costretti a mangiare davanti ai digiunatori. Penso si possano dividere in due categorie: quelli educati alla solidarietà, che avranno provato un disagio non piccolo in una situazione a dir poco surreale, e quelli, educati a perseguire il successo e a riconoscerne come prova la ricchezza, che potrebbero aver gioito dell’umiliazione inferta ai loro compagni. Capita … anche nella buona scuola.

Testo degli articoli citati

9 settembre  –  A scuola con il panino portato da casa, dal tribunale un verdetto decisivo
I giudici si pronunciano sul ricorso del Miur che ha esteso a tutti il diritto di mangiare in classe il cibo della mamma  di JACOPO RICCA

Attesa per la nuova sentenza sul pasto cucinato a casa e mangiato a scuola. Questa mattina in tribunale a Torino si sono discussi i reclami del ministero dell’Istruzione contro l’ordinanza di agosto che estende ad altre famiglie oltre alle 58 che a giugno si sono viste dare ragione dalla corte d’Appello. L’Avvocatura dello Stato ha presentato la posizione del ministero, mentre le famiglie sono difese dagli avvocati Roberto e Giorgio Vecchione. La discussione è avvenuta davanti allo stesso giudice che già ad agosto aveva dato ragione ad alcune famiglie, ma anche a quella che invece più di anno fa aveva respinto la prima richiesta delle 58 famiglie, ribaltata poi dalla sentenza d’appello. Se verranno riconosciute le ragioni del ministero si torna indietro a giugno quando la Corte d’Appello sentenzio l’obbligo di poter consumare il panino in classe solo per i figli dei 58 genitori che avevano presentato ricorso. Se, invece, il ricorso del ministero viene cassato, passa il principio che il diritto vale per tutti e quindi tutte le scuole dovranno organizzarsi, pur tra le polemiche dei presidi.

23 settembre –  Tutti i presidi d’accordo, niente panino in classe

Genova – I pasti preparati a casa non entreranno in classe, tanto meno a mensa. Alla fine sono i presidi a chiudere con un secco no la partita del panino a scuola a Genova.  «Attualmente non ci sono le condizioni per consentire il consumo di pasti portati da casa», si legge nel documento diramato dopo l’incontro di ieri al Matitone, dai dirigenti scolastici della Conferenza cittadina di Genova. In pratica tutti i presidi degli istituti comprensivi della città. E, questo, per una serie di motivi, su tutti la mancanza di norme e regolamenti per organizzare il servizio. Nel documento, i presidi elencano i rischi sotto il profilo igienico – sanitario, con la presenza a scuola di bambini allergici e a rischio di shock anafilattico. Poi la modalità di conservazione e somministrazione dei cibi. E, ancora, sul piano logistico e organizzativo, la necessità di adeguare i locali e dedicare personale alla somministrazione.

«Va rispettata anche la filosofia di fondo del pasto uguale per tutti – dice Iris Alemanno, dirigente del Comprensivo di Pegli – la ristorazione può certamente essere migliorata, deve esserlo ma, questa campagna per il panino per com’è stata condotta e per quello che chiede, non fa altro e non farebbe altro che togliere risorse a tanti altri settori della scuola». La preside Alemanno non si ferma qui e aggiunge: «Dobbiamo aggiustare i soffitti, incrementare l’utilizzo dei supporti informatici e tecnologici che, certo, non sostituiranno i libri ma devono essere sempre più presenti come strumento didattico. Dobbiamo migliorare anche la didattica, i livelli di apprendimento. Basta dire che siamo alle prese con la mancata copertura degli insegnanti di sostegno, e dobbiamo perdere tempo per mettere in discussione il sistema della mensa, messo a punto negli anni, quando oltretutto la legge è chiara e dice che non si può?».

La presa di posizione di fronte alle prime richieste di rinuncia delle famiglie alla mensa comunale era già nell’aria, ma ieri è stata formalizzata nel corso dell’incontro al Matitone. Il documento, approvato all’unanimità da tutti i dirigenti, cita anche la sentenza di Torino, il grimaldello utilizzato dalla Rete per fare entrare in tutte le scuole d’Italia quel che le famiglie reputano sia meglio dar da mangiare ai propri figli. «La sentenza della Corte d’Appello di Torino non modifica gli ordinamenti e ha competenza limitata alla circoscrizione di riferimento», si legge ancora nella nota. Che si chiude con un appello: «I dirigenti auspicano che una comune riflessione eviti derive conflittuali dannose per la serenità della comunità scolastica, in particolare degli studenti». Prosegui la lettura nell’edizione cartacea o in edicola digitale

21 settembre Mense scolastiche, “a Milano bimbi allontanati dai compagni perché muniti di pasto da casa”. Scontro Comune-Regione

Dopo il via libera alla ‘schiscetta’ dei giudici torinesi, anche alcune famiglie lombarde decidono di rinunciare al servizio mensa. Ma scoppia il caso: una bimba finisce in lacrime perché isolata, come un bambino in un altro istituto cittadino. Palazzo Marino: “Non si può pretendere di consumare un pasto portato da casa all’interno dei locali della refezione”. L’assessore regionale Aprea: “Il Comune chieda scusa” di F. Q. |

Isolati a scuola e fuori dal refettorio perché hanno portato il pranzo da casa. Succede a Milano, in due elementari: alle Pirelli in zona Niguarda e a quelle in via Palermo. Dopo la sentenza di Torino che ha respinto il reclamo del Miur e dato il via libera al panino, anche alcuni genitori in Lombardia hanno deciso di rinunciare alla refezione per i loro bambini. Una scelta sfociata nell’esclusione dei piccoli. In una delle due scuole una bimba munita di cibo da casa, scrive il Corriere, “il primo giorno entra in mensa, il secondo la mandano in un’aula con la bidella, il terzo la preside la porta in mensa ma in un tavolo separato. Poi interviene il Comune e niente più refettorio”. Quindi mangia da sola e finisce in lacrime. Nell’altro caso, anche il bimbo è stato allontanato dai compagni. La conseguenza spiegata dai genitori: “Non ha toccato cibo e si è sentito male”.

Una procedura che deriva dalla comunicazione netta inviata venerdì dal Comune di Milano a tutti i presidi: “Nessuno a Milano può pretendere di consumare un pasto portato da casa all’interno dei locali della refezione“. Dunque, se i bimbi vengono isolati dai compagni all’ora di pranzo come è accaduto in questi giorni, non c’è nulla di strano. Ma l’opinione della Regione è diametralmente opposta. “Il Comune chieda scusa”, è stato il commento oggi dell’assessore all’Istruzione della Regione Lombardia Valentina Aprea. “L’ordinanza del tribunale di Torino del 9 settembre con cui è stato riconosciuto il diritto di consumare un pasto portato da casa – ha aggiunto – non vale solo per le 58 famiglie che hanno intrapreso l’azione legale avverso il ministero a Torino, ma per tutte le famiglie che dovessero decidere di non avvalersi più del servizio mensa”.

Ma per il vice sindaco di Milano Anna Scavuzzo non è così: “L’ordinanza del tribunale di Torino non è resa nell’ambito di un giudizio a cognizione piena, quindi non ha l’efficacia di una sentenza passata in giudicato, comunque valida solo per i ricorrenti – replica il vice sindaco e assessore all’Educazione del Comune di Milano Anna Scavuzzo – Insomma, nessuno a Milano può pretendere di consumare un qualsiasi pasto portato da casa all’interno dei locali adibiti alla refezione scolastica”. E mentre Comune e Regione continuano a scontrarsi, la Aprea ha annunciato un tavolo per stabilire le regole sulla schiscetta il prossimo 4 ottobre.

22 settembre  –  Panino a scuola, bimbo resta a digiuno

Vietato l’ingresso nell’aula di refezione. L’istituto si scusa. Il dirigente regionale: allo studio nuove regole per chi porta cibo da casa   di Michela Zanutto

UDINE. Non può mangiare a scuola il cibo portato da casa. E così uno studente di 10 anni resta digiuno fino al termine delle lezioni. È successo in una scuola del Friuli, dove l’insegnante che aveva il compito di sorvegliare il momento del pranzo, ha impedito al bambino di consumare il panino con la cotoletta preparato dalla mamma. Il motivo? Avrebbe potuto contaminare il pasto dei suoi compagni.

A stabilire la regola è la scuola. E così il bambino è rimasto a stomaco vuoto fino alle 16, quando i genitori sono andati a riprenderlo. «Mamma non preoccuparti, mi ha brontolato la pancia soltanto un paio di volte», ha poi raccontato ai genitori. Per fortuna un insegnante che ha fatto lezione nel pomeriggio aveva con sé un pacchetto di cracker che ha dato al bambino in attesa del ritorno a casa.

22 settembre   A Sacile liberalizzato il pasto della mamma

Da oggi consentito portarselo da casa. Una scelta legata anche alla crisi economica

«Sai mamma, mentre i miei compagni mangiavano, io sono andato a sedermi in un tavolino isolato perché avevo un po’ di acquolina».

E il disappunto dei genitori non si è fatto attendere: «Questo digiuno mi sta indigesto – attacca la mamma -. La mensa non è obbligatoria, pertanto deve essere concesso a mio figlio di portare il pasto da casa. Visto quanto accaduto d’ora in poi andrò a prenderlo al termine delle lezioni del mattino e lo riporterò nel pomeriggio. Ma non credo sia giusto.

Mio figlio ha un rapporto particolare con il cibo e non posso pretendere che la scuola vada incontro alle sue esigenze, cerco di sopperire io. Ma non mi sarei mai aspettata un comportamento simile: lasciare digiuno un bambino mentre i suoi compagni pranzano tutt’intorno».

La scuola ammette l’errore: «L’insegnante avrebbe dovuto contattare la dirigenza che a sua volta avrebbe convocato i genitori – spiegano dall’istituto friulano -. Perché al momento, sebbene il servizio mensa non sia obbligatorio per i bambini, non sia obbligatorio per i bambini, non è possibile consumare pasti portati da casa. E la mamma sapeva che doveva chiedere il consenso della dirigenza, ha forzato di proposito la procedura. In questa fase stiamo ragionando sulla sentenza di Torino e cerchiamo di capire come andrà a finire, ma bisogna stare un pochino attenti».

Il regolamento che vieta di portare cibi diversi da quelli forniti dal servizio mensa punta a garantire la salubrità dei pasti. «È un divieto sacrosanto – sottolinea il coordinatore dell’Ufficio scolastico regionale, Pietro Biasiol -. L’insegnante non avrebbe mai potuto autorizzare il bimbo a magiare in mensa.

In questa fase stiamo predisponendo una commissione per affrontare la faccenda perché le richieste di portare il cibo da casa sono molte. Abbiamo pregato le persone di non forzare il regolamento anche perché le mense rispondono in modo puntuale a tutte le esigenze presentate dalle famiglie. Ma vorrei capire se in questo caso la responsabilità è dell’insegnante che applica una norma a tutela della collettività o della mamma che vuole forzare la regola».

24 settembre  –  Aosta, quattro bambini lasciati a digiuno nella mensa della scuola

Li hanno fatto sedere nel refettorio ma senza pasto. Il motivo? I genitori non erano in regola con il pagamento e l’iscrizione.  Quattro bambini della scuola elementare  di Gignod , in provincia di Aosta sono stati lasciati a digiuno dal servizio di mensa scolastica. La vicenda risale al primo giorno di scuola in Val d’Aosta.  Pare che la causa sia legati a problemi di iscrizione al servizio. Così gli assistenti hanno deciso di lasciare i piccoli senza pasto, in attesa della ripresa delle lezione del pomeriggio.  I quattro bambini, due della classe seconda e due della quarta, sono stati fatti sedere nel refettorio e lasciati a digiuno mentre gli altri alunni consumavano regolarmente il pranzo. Al ritorno in aula, le insegnanti hanno dato da mangiare ai bimbi.  Anche ad altri due bambini è stato negato il pranzo, ma i loro genitori hanno fatto in tempo ad andarli a prendere e a portarli a casa.  L’appalto per il servizio di mensa scolastica nella scuola di Gignod è affidato alla cooperativa Noi e gli Altri di Aosta.  Pare che le famiglie dei quattro bambini non avessero ancora regolarizzato l’iscrizione alla mensa, una situazione  che per il Comune di Aosta non sarebbe stata un problema: “Chiunque viene in refezione è preso in carico dalla ditta che gestisce il servizio, poi in qualche modo si cerca di sanare l’iscrizione”, sottolinea l’assessore Paron.  “I nostri uffici avevano fornito tutta la documentazione, non si è capito chi ha dato l’ordine di non far mangiare i bambini. Mi sembra una misura un pò rigida”, commenta l’assessore comunale di Aosta

25 settembre  – Mense, dirigenti scolastici contro la libertà di portare il cibo da casa. Contrari anche alcuni deputati PD  di redazione

Secondo quanto scrive il Secolo XIX di oggi, alcuni dirigenti scolastici hanno firmato una petizione a favore del cibo da mensa. La petizione è stata lanciata su internet dai genitori favorevoli alle mense che temono un aumento dei costi a seguito della sentenza che ha decretato la possibilità per le famiglie di preparare il pasto da portare a scuola. La sentenza è stata emanata dal Tar Piemonte e sta influenzando tutto il Nord Italia, dalla Lombardia alla Liguria. In quest’ultima regione, i genitori si sono organizzati e hanno inviato diffide ai dirigenti per consentire ai propri figli di portare il cibo da casa. Una “concessione” che rischia, però, di far saltare gli equilibri legati ai costi. Anche la politica si è mossa in contrapposizione alla libertà concessa ai genitori dai tribunali. Così, ad esempio, la parlamentare del PD Mara Carocci ha chiesto al Ministero di prendere iniziative per consentire ai dirigenti di intervenire e addirittura di legiferare per impedire alle famiglie di far portare il panino da casa ai propri figli.

FONTI

9 settembre – verdetto tribunale di Torino http://torino.repubblica.it/cronaca/2016/09/09/news/a_scuola_con_il_panino_portato_da_casa_dal_tribunale_un_verdetto_decisivo-147448365/

23 settembre  – posizione unanime presidi di Genova http://www.ilsecoloxix.it/p/genova/2016/09/23/AS9XaSQE-niente_presidi_accordo.shtml

21 settembre Milano – scolari a digiuno http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/09/21/mense-scolastiche-a-milano-bimbi-allontanati-dai-compagni-perche-muniti-di-pasto-da-casa-scontro-tra-comune-e-regione/3047285/

22 settembre Messaggero Veneto: uno scolaro a digiuno http://messaggeroveneto.gelocal.it/udine/cronaca/2016/09/22/news/panino-a-scuola-bimbo-resta-a-digiuno-1.14132692

http://messaggeroveneto.gelocal.it/udine/cronaca/2016/09/22/news/a-sacile-liberalizzato-il-pasto-della-mamma-1.14132701

24 settembre – Aosta quattro scolari a digiuno http://torino.repubblica.it/cronaca/2016/09/24/news/aosta_quattro_bambini_lasciati_a_a_digiuno_nella_mensa_della_scuola-148445470/?ref=HREC1-18

25 settembre – A digiuno con sostegno deputati PD http://www.orizzontescuola.it/mense-dirigenti-scolastici-contro-la-liberta-di-portare-il-cibo-da-casa-contrari-anche-alcuni-deputati-pd/

25 Settembre 2016Permalink

21 settembre 2016 – Bauman: «Parliamoci. È vera rivoluzione culturale»

20 settembre   –   Intervista Stefania Falasca

«Le guerre di religione? Solo una delle offerte del mercato ». Zygmunt Bauman, il più acuto studioso della società postmoderna che ha raccontato in pagine memorabili l’angoscia dell’uomo contemporaneo – lo incontriamo ad Assisi prima del suo intervento – ci parla della sfida del dialogo.

Professore, la sua intuizione sulla postmodernità liquida continua a offrire uno sguardo lucido sul tempo presente. Ma in questa liquidità si registra un esplosione di nazionalismi, identitarismi religiosi. Come si spiegano?

Cominciamo dal problema della guerra. ll nostro mondo contemporaneo non vive una guerra organica ma frammentata. Guerre d’interessi, per denaro, per le risorse, per governare sulle nazioni. Non la chiamo guerra di religione, sono altri che vogliono sia una guerra di religione. Non appartengo a chi vuole far credere che sia una guerra tra religioni. Non la chiamo neppure così. Bisogna stare attenti a non seguire la mentalità corrente. In particolare la mentalità introdotta dal politologo di turno, dai media, da coloro che vogliono raccogliere il consenso, dicendo ciò che loro volevano ascoltare. Lei sa bene che in un mondo permeato dalla paura, questa penetra la società. La paura ha le sue radici nelle ansietà delle persone e anche se abbiamo delle situazioni di grande benessere, viviamo in una grande paura. La paura di perdere posizioni. Le persone hanno paura di avere paura, anche senza darsi una spiegazione del motivo. E questa paura così mobile, inespressa, che non spiega la sua sorgente, è un ottimo capitale per tutti coloro che la vogliono utilizzare per motivi politici o commerciali. Parlare così di guerre e di guerre di religioni è solo una delle offerte del mercato.

Al panico delle guerre di religione si unisce quello delle migrazioni. Già anni fa Umberto Eco diceva che per chi voleva capitalizzare la paura delle persone, il problema dell’emigrazione era arrivato come un dono dal cielo.…

Sì è così. Guerre di religione e immigrazione sono nomi differenti dati oggi per sfruttare questa paura vaga incerta, male espressa e mal compresa. Stiamo però qui facendo un errore esistenziale, confondendo due fenomeni differenti: uno è il fenomeno delle migrazioni e l’altro il fenomeno dell’immigrazione, come ha fatto osservare Umberto Eco. Non sono un fenomeno, sono due differenti fenomeni. L’immigrazione è un compagno della storia moderna, lo Stato moderno, la formazione dello Stato è anche una storia di immigrazione. Il capitale ha bisogno del lavoro il lavoro ha bisogno del capitale. Le migrazioni sono invece qualcosa di diverso è un processo naturale che non può essere controllato, che va per la sua strada.

Come pensa si possa trovare un equilibrio per questi fenomeni? La soluzione offerta dai governi è quella di stringere sempre più il cordone delle possibilità di immigrazione. Ma la nostra società è ormai irreversibilmente cosmopolita, multiculturale e multireligiosa. Il sociologo Ulrich Beck dice che viviamo in una condizione cosmopolita di interdipendenza e scambio a livello planetario ma non abbiamo neppure iniziato a svilupparne la consapevolezza. E gestiamo questo momento con gli strumenti dei nostri antenati… è una trappola, una sfida da affrontare. Noi non possiamo tornare indietro e sottrarci dal vivere insieme.

Come integrarci senza aumentare l’ostilità, senza separare i popoli? È la domanda fondamentale della nostra epoca. Non si può neppure negare che siamo in uno stato di guerra e probabilmente sarà anche lunga questa guerra. Ma il nostro futuro non è costruito da quelli che si presentano come ‘uomini forti’, che offrono e suggeriscono apparenti soluzioni istantanee, come costruire muri ad esempio. La sola personalità contemporanea che porta avanti queste questioni con realismo e che le fa arrivare ad ogni persona, è papa Francesco. Nel suo discorso all’Europa parla di dialogo per ricostruire la tessitura della società, dell’equa distribuzione dei frutti della terra e del lavoro che non rappresentano una pura carità, ma un obbligo morale. Passare dall’economia liquida ad una posizione che permetta l’accesso alla terra col lavoro. Di una cultura che privilegi il dialogo come parte integrante dell’educazione. Si faccia attenzione, lo ripete: dialogo-educazione.

Perché secondo lei il Papa è convinto che sia la parola che non ci dobbiamo stancare di ripetere? Alla fine il dialogo cos’è? Insegnare a imparare. L’opposto delle conversazioni ordinarie che dividono le persone: quelle nel giusto e quelle nell’errore. Entrare in dialogo significa superare la soglia dello specchio, insegnare a imparare ad arricchirsi della diversità dell’altro. A differenza dei seminari accademici, dei dibattiti pubblici o delle chiacchiere partigiane, nel dialogo non ci sono perdenti, ma solo vincitori. Si tratta di una rivoluzione culturale rispetto al mondo in cui si invecchia e si muore prima ancora di crescere. È la vera rivoluzione culturale rispetto a quanto siamo abituati a fare ed è ciò che permette di ripensare la nostra epoca. L’acquisizione di questa cultura non permette ricette o facili scappatoie, esige e passa attraverso l’educazione che richiede investimenti a lungo termine. Noi dobbiamo concentraci sugli obiettivi a lungo termine. E questo è il pensiero di papa Francesco, il dialogo non è un caffè istantaneo, non dà effetti immediati, perché è pazienza, perseveranza, profondità. Al percorso che lui indica aggiungerei una sola parola: così sia, amen.

Fonte

http://www.avvenire.it/Chiesa/Pagine/Parliamoci-vera-rivoluzione-culturale-.aspx?utm_content=bufferc114f&utm_medium=social&utm_source=twitter.com&utm_campaign=buffer

21 Settembre 2016Permalink

17 settembre 2016 – Qualcuno mi vuole spiegare perché la dimensione del costume da bagno costituisce un atto di culto?

Il culto nel sito dell’Associazione Studi Giuridici Immigrazione – sezione di Trieste                                                                                     untitled
‘’Burkini’’, ASGI: si rispetti la libertà di culto 23/08/2016
Burkini sul lungomare, polemiche a Trieste .

L’ASGI interviene ricordando che la nostra Costituzione e la Carta europea per i Diritti dell’Uomo garantiscono la libertà di culto. Una decisione che andasse in direzione contraria sarebbe discriminatoria e costituirebbe una grave violazione dei principi costituzionali e comunitari .

A seguito delle polemiche sviluppatesi a seguito della presenza, nelle spiagge di Trieste, di alcune donne vestite con il costume da bagno, comunemente noto come “burkini”, la sezione ASGI (Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione) del FVG, ha inviato una breve nota con la quale si chiariscono i profili giuridici .

L’ASGI – associazione di giuristi che ha, nel tempo, contribuito con propri documenti all’elaborazione dei testi normativi statali e comunitari in materia di immigrazione, anti-discriminazione, asilo e cittadinanza e che opera nell’ambito della tutela dei diritti dei cittadini stranieri ed apolidi – interviene sulla questione che ha acceso il dibattito cittadino nelle ultime settimane in merito alla questione del ‘’burkini’’, al fine di sottolineare alcuni fondamentali principi di diritto.

Innanzitutto si ricorda che l’art. 8 della Costituzione italiana garantisce la libertà di culto e tutela di conseguenza la possibilità da parte dell’individuo di manifestare liberamente il proprio credo.

Anche la CEDU (Carta Europea dei diritti dell’Uomo) garantisce la libertà di culto e all’art. 9 stabilisce che: “. Ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include (…) la libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti”.

Il fatto di indossare il ‘’burkini’’ rientra nella pratica religiosa ed a tale proposito sempre l’art. 9 della CEDU specifica che: “La libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla pubblica sicurezza, alla protezione dell’ordine, della salute o della morale pubblica, o alla protezione dei diritti e della libertà altrui.”

Solo la legge può imporre delle limitazioni alle pratiche religiose, ma solo allorché si debbano tutelare altri diritti fondamentali, quali la sicurezza pubblica, la protezione dell’ordine, la salute o la morale pubblica, o la protezione dei diritti e della libertà altrui e soltanto se la restrizione della libertà di manifestare il proprio credo rappresenta l’unico strumento idoneo a garantire gli altri interessi.

Una donna che indossa il costume da bagno integrale sceglie di manifestare il proprio credo attraverso l’uso di abiti propri della propria religione; in altre parole chi indossa il ‘’burkini’’ lo fa nella convinzione di rispondere a un precetto religioso e quindi lo considera “pratica religiosa”.

Una decisione del Comune di Trieste o di qualunque altra amministrazione che andasse in direzione contraria, costituirebbe una grave violazione dei principi costituzionali e comunitari citati, oltreché una discriminazione diretta, perché porrebbe in una condizione di svantaggio determinati soggetti (tra l’altro tutti appartenenti al genere femminile!) in ragione o a causa delle loro convinzioni religiose.

Avv. Dora Zappia – referente ASGI-FVG

Il precedente

Si ricorda la precedente azione legale dell’ASGI che portò all’ ordinanza del 14 aprile 2014 del giudice del Tribunale civile di Torino con cui venne dichiarato discriminatorio il comportamento del Comune di Varallo (Vercelli) : con l’ordinanza n. 99/09, tale Amministrazione comunale aveva disposto il divieto (con previsione di relativa sanzione amministrativa in caso di violazione) di indossare il “burkini” su tutto il territorio comunale “nelle strutture finalizzate alla balneazione”, nonché il divieto “di abbigliamento che possa impedire o rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, quale a titolo esemplificativo caschi motociclistici al di fuori di quanto previsto dal codice della strada e qualunque altro copricapo che nasconda integralmente il volto”.

Secondo il giudice di Torino l’ordinanza comunale “discriminava l’utilizzo di un costume da bagno, sostanzialmente corrispondente (tranne per il materiale da fabbricazione) ad una muta da subacqueo (certamente mai vietata nelle strutture finalizzate alla balneazione), adottato espressamente da alcune credenti di religiose islamica”. “I cartelli originari oggetto del ricorso introduttivo poi, così come descritti sopra, – prosegue l’ordinanza del giudice di Torino – erano certamente (e fortemente) discriminatori perché il divieto che dal cartello promanava veniva radicato tramite focalizzazione del messaggio (tra l’altro, dai forti contenuti anche nelle immagini figurative) soprattutto sulle minoranze femminili ed islamiche; divieto reso ancor più tagliente dall’utilizzo improprio del simbolo del divieto di sosta (riferito a tutte le condotte vietate) che l’art. 158 del Codice della Strada prevede per i veicoli e non per gli esseri  umani                                                          (link in calce)

Cerco la sicurezza nei vocabolari – la parola CULTO   untitled_blu

Lo strano concetto di culto che l’ASGI mi propone (ma non bastava tutelare la libertà di abbigliamento?) suscita irresistibilmente il mio senso dell’ironia. L’ironia è una difesa ma può anche essere un’arma e, poiché ho l’impressione di muovermi da orso in una cristalleria piena di oggetti inutili ma amati, cerco di darmi una ragione del culto ammesso in assenza di burkini. Comincio con i vocabolari che mi assicurino qualche certezza per delimitare il terreno su cui mi muovo e in cui vorrei indicazioni capaci di orientare il mio cammino.

  1. Grande dizionario della lingua italiana moderna 2000
    Culto L’ossequi religioso reso alla divinità; gli atti con cui esso si manifesta: rito, liturgia, credenza religiosa
  2. Lo Zingarelli 2002
    Complesso delle usanze e degli atti per mezzo dei quali si esprime il sentimento religioso b Nella teologia cattolica, complesso degli atti e dei riti e degli usi mediante i quali si rende onore a Dio c Religione o confessione religiosa come oggetto di amministrazione e legislazione pubblica (affari del culto; spese del culto)
  3. Da vocabolari Treccani on line
    Culto. s . m. [dal lat. cultus -us, der. di colĕre «coltivare, venerare», part. pass. cultus].
    Manifestazione interiore o esteriore del sentimento religioso, come ossequio individuale o collettivo reso alla divinità: il c. di Dio, della Madonna, dei santi. In partic., nella dottrina cattolica: c. di latrìa, quello esclusivo reso a Dio, c. di dulìa, reso ai santi, c. di iperdulìa, reso alla Madonna; c. assoluto, che si rivolge alle persone (Dio, Vergine, Santi); c. relativo, che si rivolge alle cose connesse con le persone sante (reliquie, immagini, ecc.). b. Il complesso degli atti rituali, interni ed esterni, di una religione: essere osservante del c.; ministro del c., il sacerdote; spese del culto. c. Religione, fede religiosa: c. cattolico, protestante; libertà di culto; c. acattolici, quelli, cristiani e non cristiani, diversi dalla religione cattolicaculto In generale, la manifestazione del sentimento con cui l’uomo, riconoscendo l’eccellenza di un altro essere, lo onora. Si distingue in c. profano e c. religioso. Quest’ultimo è il più comune e include le nozioni di manifestazione esterna del sentimento religioso, adorazione del divino e relazione con il sacro.

Sembra che i vocabolari mi diano conforto e passo ai commenti

Primo commento – Dalla enciclopedia Treccani on line

L’ordinamento costituzionale italiano riconosce e garantisce non soltanto la libertà religiosa individuale, quale diritto fondamentale e inviolabile dell’uomo, ma anche la libertà di culto nelle sue manifestazioni sociali. L’art. 19 della Costituzione stabilisce infatti che «tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume». Inoltre «il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di c. di una associazione o di una istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative, né di speciali gravami fiscali per la loro costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività» (art. 20). In particolare, se i rapporti tra lo Stato e la Chiesa cattolica sono oggetto di specifica regolamentazione (art. 7), la Costituzione attribuisce a tutti i c. acattolici un potere di autodeterminazione sottratto all’ingerenza degli organi dello Stato: l’art. 8, norma inserita tra i principi fondamentali, dispone che «tutte le confessioni religiose sono ugualmente libere davanti alla legge» e che quelle «diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano. I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze». Secondo l’accordo di modificazione del Concordato lateranense (1984), in armonia con i principi costituzionali, si considera non più in vigore il principio della religione cattolica come sola religione dello Stato.                                                             (Link in calce)

Secondo commento che affido alla memoria del blog

18 agosto – La riga nella calza 18 (preciso che era stato scritto e pubblicato prima del testo dell’Asgi; non è polemica, solo opinione.                                     (Link in calce)

Una scelta comunque opportuna – Dare un nome alle cose

Vorrei chiedere ai giornalisti di usare un linguaggio appropriato e chiamare gli abiti con i loro nomi.

Hijab è il velo islamico che copre la testa e il collo, nascondendo i capelli così ossessivi nelle culture del medio oriente (pensa alle donne ebree ortodosse rapate, con la testa coperta da cappelli o da parrucche!). Non capisco perché, se a una va di coprirsi i capelli, non possa farlo anche se l’hijab può essere una ‘identificazione’. Di che?

Niqab è il velo integrale che copre anche il volto, acconciato in modo da lasciare una fessura orizzontale per gli occhi

Burqa è il mantello con una griglia di tessuto che consente di vedere (non so quanto).

Chador è il mantellone nero in cui si avvolgono le donne iraniane trattenendone i lembi con una mano.

Ciò premesso il neologismo burkini è un’abile bestialità perché non copre il volto (e quindi nulla ha a che fare con il burqa) ma quando viene pronunciato richiama il volto coperto dalla divisa imposta in Afghanistan dai talebani al loro arrivo su cui non mi trattengo.

Il ‘burkini’ è un hijab unito a una tunica che copre il corpo.

Potrebbe chiamarsi hijabino!

belle-epoquePosso dire ‘povere donne’ ma ricordo che la frequentazione delle spiagge da parte delle signore bene italiane (le popolane non andavano al mare) che si è evoluta fino al bikini, un secolo fa si realizzava con ridicoli cappelloni, mutandoni e corpetti molto coprenti. Oggi non è più così e non dimentico che fra i mutandoni di un tempo e il bikini di oggi c’è stato il voto alle donne, che non fu un grazioso regalo!

FONTI:
Il culto nel sito dell’ASGI
http://www.asgi.it/discriminazioni/burkini-trieste-liberta-culto-discriminazione/

Vocabolario Treccani on line
http://www.treccani.it/vocabolario/culto2/

Primo commento – Dalla enciclopedia Treccani on line http://www.treccani.it/enciclopedia/culto/

Secondo commento che affido alla memoria del blog https://diariealtro.it/?p=4545

17 Settembre 2016Permalink

16 settembre 2016 – Appello agli ebrei del mondo

SISO –     SALVA ISRAELE, FERMA L’OCCUPAZIONE

Appello   agli ebrei del mondo

Se amate Israele, il silenzio non è più un’opzione possibile

Con l’avvicinarsi del 2017 che segna il cinquantesimo anno dell’occupazione israeliana di territori palestinesi.   Israele è ad un punto di svolta. La situazione attuale è disastrosa. Il protrarsi dell’occupazione opprime i palestinesi e alimenta un ciclo ininterrotto di spargimento di sangue. Corrompe le fondamenta morali e democratiche dello Stato di Israele e danneggia la sua posizione nella comunità delle nazioni . La nostra migliore speranza per il futuro – il tragitto più sicuro verso la sicurezza, la prosperità e la pace – risiede in una soluzione negoziata del conflitto israelo-palestinese che conduca alla creazione di uno stato palestinese indipendente accanto e in rapporti di buon vicinato con lo Stato di Israele. Facciamo appello agli ebrei nel mondo intero perché si uniscano a noi israeliani in un’azione coordinata per porre fine all’occupazione e costruire un futuro nuovo per la salvezza dello Stato di Israele e delle generazioni future.

Sottoscritto da oltre 500 israeliani, fra cui :

David Grossman, Amos Oz, Achinoam Nini (Noa), David Broza, Avishai Margalit, Avraham Burg, Edward Edy Kaufman, Ohad Naharin, Orly Castel Bloom, Ilan Baruch, Alon Liel, Elie Barnavi, Alice Shalvi, -Shakhar, David Harel, David Tartakover, David Rubinger, David Shulman, , Dani Karavan, Daniel Bar-Tal, Daniel Kahneman, Zeev Sternhell, Chaim Oron (Jumes), Haim Ben-Shahar, Chaim Yavin, Yair Tzaban, Yehuda Bauer, Judith Katzir, Joshua Sobol, , Yoram Bilu, Yael Dayan, Iftach Spector, Yitzhak Frankenthal, Mossi Raz, Michael Benyair, Micha Ullman, Menahem Yaari, Moshe Gershuni, Noga Alon, Nahum Tevet, Naomi Chazan, Nathan Sharony, Savyon Liebrecht, Sami Michael, Sammy Smooha, Edit Doron, Amos Gitai, Amram Mitzna, Anat Maor, ‏‏ Colette Avital, Ronit Matalon,   Shaul Arieli, Shimon Shamir,  Akiva Eldaron,  Aharon Shabtai, Eva Illouz .

FONTE:
Ho ricevuto da Bruno Segre. Pubblico subito con profonda gratitudine

 

16 Settembre 2016Permalink

8 settembre 2016 – Quando gli sgherri dell’ultimo papa re eseguirono l’ordine di rapire un bambino ebreo.

Il mio implacabile calendario (che di regola pubblico il primo giorno del mese) ogni 23 giugno recita
“1858 – Papa Pio IX fa rapire il bambino ebreo Edgardo Mortara”.

Pensavo che così avrei continuato di anno in anno a ricordare una data insignificante per molti ma per me importantissima perché il crimine di cui faccio memoria avvenne in un’Europa che si avviava alla modernità, che conosceva almeno alcuni termini di una politica moderna nel bene e nel male, anche in quello assoluto di strappare un bambino alla sua famiglia per ragioni religiose.

Il piccolo Edgardo Mortara, di famiglia ebraica bolognese, era stato battezzato di nascosto da una cameriera cristiana e tanto bastò a Gaetano Feletti, rappresentante del Sant’Uffizio e inquisitore della città, per ordinarne il rapimento secondo le leggi dello stato pontificio di cui Bologna faceva parte. Il confessore della povera cameriera l’aveva attivato violando il segreto confessionale. Regnava l’ultimo papa re che non si mosse a pietà per quel bambino e si rifiutò di accogliere le richieste di giustizia che venivano da parecchi politici europei.

Sottolineo la data: 1858. Nella maggioranza degli stati europei la schiavitù, per cui le persone erano merci da compravendita, era stata abolita e dal 1815 ne era stata vietata la tratta che aveva avuto (anche legalmente) il suo mercato più significativo negli Stati Uniti dove il XIII emendamento della Costituzione, che aboliva la schiavitù, sarebbe stato approvato nel 1865.

Il contesto quindi lascia intendere una diffusa cognizione di alcuni diritti fondamentali della persona, fra cui certamente l’appartenenza a una famiglia ma, nello stato pontificio, l’appartenenza religiosa attraverso battesimo negò ogni altro legame ‘naturale’ (ancora così viene definito) e prevalse la spietatezza.

La storia resta lì come un macigno su cui sarebbe bene ragionasse almeno chi ne è capace

Spero ne sia capace il regista Steven Spielberg che girerà “Il rapimento di Edgardo Mortara”. La notizia è stata ufficialmente confermata alla Mostra del cinema di Venezia da Raffaella Leone della Leone Film Group: ha annunciato che la sua società entra con Amblin Entertainment Studios nella produzione del film sulla storia del piccolo Edgardo.

Questa notizia mi ha stimolato a rivisitare le mie memorie. Avevo conosciuto il caso Mortara da un articolo del mensile Confronti (firma David Gabrielli) del 2000 e dopo il 2009 lo avevo collocato in una continuità fra lo storico esempio religioso risalente al 1858 e la nuova abiezione proclamata dal pacchetto sicurezza (di cui tante volte ho scritto). Trovo la mia prima nota sulla conformità fra abiezione religiosa e laica già in una pagina del 6 luglio 2009).
Ed è proprio di questo che voglio ragionare.

Se nel 1858 un papa si fece responsabile (attraverso il rapimento di un bambino) della distruzione di un rapporto familiare sovrapponendovi ragioni ‘religiose’, nel 2009 – in Italia – il parlamento si fece responsabile della stessa negazione, riferita a una precisa categoria di persone e realizzata in forma preventiva, quindi senza la necessità di sistemare la situazione con un successivo uso di aggiornati sgherri rapitori.
E’ esattamente questo che dice la legge 2009 n. 94 (art. 1 comma 22 lettera g): i figli dei sans papier che nascono in Italia non possono avere famiglia riconosciuta legalmente per il semplice motivo che per legge non devono esistere.

Non mi sembra ci sia molta differenza: se nella Bologna del 1858 necessitavano gli sgherri pontifici oggi basta un impiegato che allo sportello del comune non sia messo in grado di assolvere al suo compito e non ci sarà un Cavour a protestare come un secolo e mezzo fa o poco più. Anzi il Cavour dei giorni nostri è l’autore dello sfregio dato che la legge fu voluta dall’allora  ministro dell’interno on. Maroni e passò con voto di fiducia.

In sette anni non è stata modificata in una continuità dal papa di allora (beatificato dal suo successore Giovanni Paolo II) ai governanti di oggi, forti della maggioranza parlamentare ‘beatificata’ dal consenso per lo più silente ma massiccio dell’opinione pubblica.

Il Sinodo della chiesa cattolica nega l’uguaglianza dei neonati

So che molti (se leggeranno quanto ho scritto) ne saranno irritati o si limiteranno a compassionarmi come una fissata e allora aggiungo la constatazione di una omissione appartenente alla chiesa cattolica che non credo si possa negare.

Evidentemente nessuno dei padri e madri sinodali, partecipi del Sinodo sulla famiglia conclusosi lo scorso anno, seppe o volle cogliere la storica connessione fra l’orrore di un bambino strappato alla sua famiglia da una cattolica sharia e quello che la legge italiana impone dal 2009 ai figli dei migranti irregolari. A loro la famiglia viene preventivamente strappata dato che non è possibile registrarne la dichiarazione di nascita e quindi assicurare a questi piccoli, come dovuto, il certificato di nascita.

Così fra le varie situazioni critiche nelle famiglie note a quei padri e madri sinodali e puntualmente elencate, questa è sfuggita. Solo uno di loro, mons Forte, se ne è ricordato ma ne ha scritto con dignitosa competenza, su Il Sole 24 ore non su pubblicazioni appartenenti alla chiesa cattolica.
Ne ho riportato il testo dell’articolo nel mio blog del 29 giugno 2015.

L’indifferenza sinodale accompagna fedelmente quella del parlamento italiano che, con ampio conforto dell’opinione pubblica, non sa o non  vuole modificare la legge che tanto ha previsto sette anni fa nel quadro etico-culturale del quarto governo Berlusconi.

Fonti:

Per meglio conoscere il caso Mortara si veda

http://www.treccani.it/enciclopedia/edgardo-mortara_(Dizionario-Biografico)/

A proposito del prossimo film si può leggere:

http://bologna.repubblica.it/cronaca/2016/09/08/news/spielberg_e_il_film_a_bologna_edgardo_mortara_leone_febbraio-147358428/

Per leggere l’articolo  di mons.  Forte

https://diariealtro.it/?p=3863

Per leggere la – Relazione Finale del Sinodo dei Vescovi al Santo Padre Francesco (24 ottobre 2015):

https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2015/10/24/0816/01825.html

8 Settembre 2016Permalink

6 settembre 2016 – Il crocifisso come arma impropria

Purtroppo ancora una volta viene riproposto all’attenzione generale il crocifisso da usarsi come arma impropria.
Lo fanno gli esponenti della Lega Nord ed è facile presumere che i cristiani, zitti da sette anni insieme ai laici più o meno devoti, davanti allo scempio di civiltà di una legge che vuole bambini senza nome, discriminati per razza, ignoreranno in silenzio anche la nuova proposta blasfema francis bacon crocifissioneche, strumentalizzandole per finalità ignobili, accomuna le vittime, a partire da Gesù Cristo.
E la voce di quelli che parleranno sarà affogata nel silenzio dei più.

A lato: Francis Bacon. Crocifissione

 

06 settembre 2016 Lega: ‘Crocifisso obbligatorio per legge a scuola e nei seggi’

Ma anche negli ospedali e nelle carceri. Nei porti e nelle stazioni. E per chi trasgredisce una multa fino a mille euro. L’idea di un gruppo di onorevoli del Carroccio  di Giovanni Manca 

A non esporre il Crocifisso nelle scuole si potrebbe incappare in multe fino a 1000 euro. E’ questa l’idea di un gruppo di parlamentari della Lega, che, tanto per non lesinare benzina sul fuoco, ha presentato un progetto di legge per renderne obbligatoria l’affissione.

L’ultima volta che ci si è occupati di legiferare sul punto è stato col fascismo, che con un Regio Decreto del 1924 stabilì che « Ogni istituto ha la bandiera nazionale; ogni aula, l’immagine del crocifisso e il ritratto del Re. ».

Ma all’onorevole geometra Roberto Simonetti, primo firmatario della proposta leghista, questo non pare bastare visto che il simbolo non finirebbe solo nelle aule scolastiche ma “negli stabilimenti di detenzione e pena, negli uffici giudiziari e nei reparti delle aziende sanitarie e ospedaliere, nelle stazioni e nelle autostazioni, nei porti e negli aeroporti, nelle sedi diplomatiche e consolari”, persino nei seggi elettorali, tanto per dar nuova giovinezza ai manifesti della Dc: “Nelle urne Stalin non ti vede, Dio sì”.

Inutile tentare di cavarsela piazzando il simbolo in un angolo perché, decreta la proposta di legge, “è fatto obbligo di esporre in luogo elevato e ben visibile l’immagine del Crocifisso”; diversamente si andrebbe a sbattere sulle sanzioni (articolo 4) per cui “chiunque rimuove in odio ad esso l’emblema della Croce (…) dal pubblico ufficio nel quale sia esposto o lo vilipende, è punito con l’ammenda da 500 a 1000 euro”, la stessa sorte che toccherebbe al bidello distratto, per dire, perché rivolto, pure, a chi “ometta di ottemperare all’obbligo di vigilare affinché il predetto emblema sia esposto”.

Tanta acribia non sembra disgiunta da un qualche grado di partecipazione alla realtà, come il fatto che la revisione ai Patti Lateranensi riconosce, da più di trent’anni, che il cattolicesimo non è religione di Stato, rompendo di fatto lo storico principio di confessionalità. Il rischio è un altro, scrivono i proponenti nella relazione di presentazione al progetto di legge: “Risulterebbe inaccettabile per la storia e per la tradizione dei nostri popoli, se la decantata laicità della Costituzione repubblicana fosse malamente interpretata nel senso di introdurre un obbligo giacobino di rimozione del Crocifisso; esso, al contrario, rimane per migliaia (sic) di cittadini, famiglie e lavoratori il simbolo della storia condivisa di un intero popolo”.

Insomma, una normativa preventiva, fosse mai che a qualcuno venisse in mente di far votare una legge diversa nel segno di Robespierre, decapitato fatalmente nel mese di termidoro, lo stesso identico giorno (28 luglio) della proposta sottoscritta dalle camicie verdi.

chagall_crocifissione bianca

Diariealtro -Precedenti interventi sulle crociate in verde bottiglia

03 novembre 2009 – Non è questione di crocifissi ma di ignoranza.

07 novembre 2009 – Chiara e le scatole cinesi Da Repubblica e Arcoiris due articoli di Rodotà e La Valle sulla questione del crocifisso.

30 novembre 2009 – L’evoluzione del crocifisso
Sospesa da tempo la riflessione sul significato della croce -sia dentro
che fuori le chiese – lo si riscopre                    Sopra: Chagall. Crocifissione bianca
e, brandito  come arma impropria,
diventa un complemento d’arredo.

Tralascio la blasfemia riguardante il presepio dove Lega e centri commerciali assicurano una sgradevole sinfonia.

Fonte:

http://espresso.repubblica.it/palazzo/2016/09/06/news/lega-crocifisso-obbligatorio-per-legge-nei-luoghi-pubblici-1.282041?ref=HRBZ-1

 

6 Settembre 2016Permalink

4 settembre 2016 – Alla ricerca di parole chiare per pensieri puliti

In un arruffarsi di argomenti, o meglio di un vociare passato per argomentazione, sento sempre più il bisogno di parole chiare, dette e scritte per esprimere riflessioni che, pur muovendo dall’attualità, non si avviluppino negli indumenti aggrappandosi persino a Bibbia e Corano per uscire dal soffocamento che tessuti e pregiudizio possono provocare. Il 1 settembre avevo trovato, a mio conforto, un testo di Amos Luzzatto del 2004 e ora ho recuperato un  testo di Manconi, che avevo inserito su facebook un anno fa e mi è stato  riproposto. Lo trascrivo qui perché mi ha fatto bene rileggerlo e mi ha fatto bene anche ritrovare, in questo blog, un pezzo dello stesso Manconi, riportato il 14 settembre 2015.

settembre 2015 – Il linguaggio dell’odio e il razzismo   Luigi Manconi, parlamentare

La campagna d’estate della Lega nord e di alcuni organi di informazione è stata una mobilitazione di odio. Mi chiedo: perché?

E non si tratta di una domanda ingenua. In altre parole, perché mai la critica più radicale alle politiche del governo italiano e a quelle dell’Unione europea in materia d’immigrazione e asilo e la proposta di strategie totalmente alternative devono comportare la degradazione della persona del migrante e del profugo?

Questo è, infatti, il contenuto profondo e la forma linguistica del messaggio xenofobo: non un’argomentazione politica, bensì uno sfregio morale che deve –proprio per potersi efficacemente realizzare – richiamare un fondamento razzistico.

Sembra, cioè, che l’agitazione della Lega in materia d’immigrazione non possa non fondarsi su una “politica del disgusto”: un’opera di svilimento, che mira a sfigurare il proprio bersaglio, come premessa per così dire morale a un’attività di esclusione e discriminazione.

La classificazione gerarchica degli esseri umani emerge ancora e con violenza

Una politica che si fonda necessariamente su una concezione gerarchica degli uomini, dei popoli e delle etnie e su una inevitabile classificazione di essi secondo i tradizionali criteri di “superiorità” e “inferiorità”.

Questa concezione che costituisce il fondamento del razzismo e che essa sola giustifica il ricorso a un termine così gravemente denotativo – razzista, appunto – raramente oggi viene così esplicitamente teorizzata e adottata.

Infatti, il razzismo nelle società democratiche è tuttora soggetto a interdizione morale e politica, fino a rappresentare un residuale tabù. Un tabù fragile e precario, e tuttavia ancora attivo: sia perché i valori universalistici degli stati democratici negano qualsiasi legittimità alle teorie razzistiche, sia perché permangono in quegli stati – come in Italia, per esempio – consistenti tracce delle culture solidaristiche, di matrice egualitaria: religiosa o laica.

Il deprezzamento della vita

Dunque non può darsi – come ispirazione per le politiche per l’immigrazione – una classificazione degli esseri umani quali titolari o meno di dignità e meritevoli o meno di protezione in base alla nascita, alla provenienza geografica, all’appartenenza a un’etnia o a una classe sociale o a un sistema di cittadinanza.

Ma quella stessa classificazione gerarchica, formalmente interdetta, emerge ancora e con violenza, sia pure in maniera indiretta e mediata. E si rivela grazie a un indicatore inequivocabile: ovvero il deprezzamento della vita di una parte degli esseri umani nella percezione di un’altra parte di esseri umani.

È questo che rende il ragionamento sul razzismo particolarmente delicato.

L’indifferenza di tutti verso i morti nel Mediterraneo spiega l’odio di pochi verso i sopravvissuti

Aver accettato – come tutti abbiamo accettato – che appena al di là dei confini nazionali, nell’ultimo quarto di secolo si consumasse una strage ininterrotta di migranti e profughi, affogati nel Mediterraneo, costituisce un efficace metro di valutazione della tenuta dei principi ai quali diciamo di ispirarci.

Dà la misura, cioè, di quale sia nei fatti il valore reale che attribuiamo alla vita di quegli esseri umani. Un valore che, certamente, non è lo stesso che assegniamo alla vita dei membri della nostra comunità.

In altri termini, per sopportare il perpetuarsi di quell’ecatombe nel canale di Sicilia, è stato necessario accettare di considerare quei morti come sottouomini. E non è forse questa la base morale di un razzismo non solo non dichiarato, ma – anzi – esplicitamente rifiutato? E non è forse quella stessa base morale così diffusa presso tutti o molti a legittimare che presso pochi, singoli o gruppi o partiti, si manifestasse un’ostilità nutrita di odio?

Intendo dire che quella concezione gerarchica degli esseri umani che consente la degradazione degli “inferiori” e che motiva le politiche dell’esclusione, trova la sua giustificazione nel fatto che la svalutazione della vita di quegli “inferiori” sia diventata senso comune e mentalità condivisa. Anche quando tutto ciò resta implicito o viene addirittura negato con sdegno.

Insomma, l’indifferenza di tutti verso i morti nel Mediterraneo può arrivare a spiegare l’odio di pochi verso i sopravvissuti ai naufragi. Non a caso, i sommersi vengono definiti vittime, i salvati sono etichettati come “clandestini”.

http://www.internazionale.it/opinione/luigi-manconi/2015/09/02/razzismo-migranti

 

3 Settembre 2016Permalink

1 settembre 2016 – Premessa al calendario

Trovo necessario presentare il solito calendario del primo del mese.
Inizia l’anno scolastico per chi può andare a scuola

A giorni comincerà l’anno scolastico, diversamente scandito nelle varie regioni.
Non so come si comporterà la scuola italiana di fronte ai bambini che la legge vuole invisibili, fantasmi abusati per penalizzare i loro genitori se migranti non comunitari senza permesso di soggiorno. Per registrarne la nascita infatti devono presentare il documento che, per definizione, non hanno (legge 94/2009 art. 1, comma 22, lettera g).
Ha funzionato la circolare che, a garanzia dei nuovi nati, afferma il contrario della legge? I genitori, minacciati dalla loro piccola spia di carne, sanno di potersi giovare della circolare per fare di quella creatura condannata all’inesistenza legale il loro figlio riconosciuto e non solo partorito? E non potrebbe accadere che qualche sindaco garantista dei suoi indumenti verdi rifiuti la registrazione dei figli dei sans papier appellandosi alla legge?
Non si sa. Infatti, pur essendo dopo le elezioni del 2013 cambiati governo e maggioranza, la piccola norma che, condannando nuovi nati a non esistere, ci infanga tutti, non viene modificata da un parlamento che si adegua all’offesa alla Costituzione, confortato da un’opinione pubblica amante delle brevi, intense emozioni che le immagini ci offrono in irrimediabile sequenza e indifferente a ciò che non si vede: in fondo gli invisibili sono solo figli di poveracci stranieri.
Nell’overdose di tenerume che i media ci assicureranno celebrando il primo giorno di scuola in parola scritta, detta e in video, il mio piccolo calendario mensile scopre ricorrenze significative. Inizia con il ricordo della strage di Beslan (1 settembre 2004) e pochi giorni dopo celebra il Regio Decreto Legge 5 settembre 1938-XVI, n. 1390, Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista.

Giotto- la stage degli innocenti
Giotto- la stage degli innocenti

Le leggi organiche antiebraiche sarebbero venute più tardi ma, con la sensibilità imperante nel regime di allora, si decise di cominciare dalla scuola per cacciare anche i bambini. Più radicalmente ora li cacciamo dall’esistenza: abbiamo creato i fantasmi senza nome, senza identità, senza famiglia mentre una ministra inconsapevole esalta la fertilità in giovane età. Considerando il permanere della norma che ho ricordato sopra neppure i soggetti fertili sono tutti uguali.

http://www.limesonline.com/rubrica/il-cremlino-mente-sulla-strage-di-beslan

http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/strage-degli-angeli-di-beslan-10-anni-dopo-ombre-e-dolore-432cd2cf-9817-4b30-a195-0072a426cdfc.html

http://www.treccani.it/enciclopedia/strage-di-beslan_(Lessico-del-XXI-Secolo)/

Una considerazione esemplare di Amos Luzzatto

Ho aggiunto, a quanto ho scritto su facebook e riportato sopra, i link che collegano a informazioni sulla strage di Beslan e di seguito trascrivo un passo di Amos Luzzatto (firmato come Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane) che ricopio dal catalogo della mostra ‘Dalle leggi antiebraiche alla Shoah’ del 2004 (ed. Shira).

«Nel 1938 la legislazione razziale in Italia discriminava e puniva soltanto gli ebrei, anche se , trattandosi ufficialmente della “difesa della razza ariana” , a lume di logica avrebbe dovuto individuare e punire tutti coloro che “ariani” non erano. Nella fase culminante della persecuzione in Europa, la quasi totalità dei colpiti (se si fa eccezione per gli zingari) erano ebrei. Il bilancio degli scomparsi, alla fine della guerra, riguardava in schiacciante maggioranza gli ebrei. Può sorgere una domanda: se la guerra fosse durata qualche altro anno, se la sconfitta dell’Asse fosse stata ritardata, se i nazisti e i loro alleati avessero avuto il tempo di completare l’uccisione di tutti gli ebrei viventi, allora, in Europa, si sarebbe per questo esaurito il razzismo? O vi sarebbe stato un altro gruppo umano da eleminare, un altro genocidio da eseguire, altri milioni di individui da sopprimere? La storia ci ha dato una risposta, presentandoci nuovi massacri e nuovi genocidi, da quello dei tutsi a quello dei cambogiani, a quello più vicino a noi avvenuto nella ex Jugoslavia.   Ma che cosa li collega alla Shoah, a parte la scontata malvagità umana? Io credo che, tragicamente, la Shoah, sia stata un punto di svolta, uno spartiacque, avendo dimostrato che lo sterminio di una popolazione per il solo fatto di essere quello che è, di avere caratteristiche fisiche o solo una tradizione culturale diversa da quella di coloro che detengono gli strumenti della forza bruta, sia possibile senza generare in coloro che osservano o che ne ricevono notizia una reazione solidale, una reazione di rivolta, una reazione che fermi la mano dei carnefici. La prova è stata fatta con il sangue degli ebrei, ma non per questo la ferocia è stata saziata. Sei milioni di vittime ebraiche hanno dimostrato a proprie spese che la loro Shoah era fattibile: si aperta un’epoca buia nella quale ciò può accadere di nuovo.»

1 Settembre 2016Permalink