21 MAGGIO 2011 — VESCOVI, MATRIMONI E BATTESIMI

Nel parlare, come da anni faccio, della questione del diritto degli immigrati privi di permesso di soggiorno ad accedere la registrazione degli atti di stato civile, non ero entrata nelle questione interne ai comportamenti della chiesa cattolica perché ritengo che i nostri doveri di solidarietà verso gli altri, quelli che la Costituzione della Repubblica prevede,  siano prima di tutto da affermarsi sul piano civile (laici siamo tutti, atei e credenti di qualsivoglia religione) e poi perché la chiesa come istituzione non ha detto nulla sul diritto a sposarsi dei sans papier e sui diritti dei loro figli.
Ma ora mons. Arcivescovo di Trieste mi ci ha trascinata dentro e non riesco a tacere anche perché il problema della registrazione anagrafica di nascite e matrimoni mi sembra strettamente connesso con la celebrazione di due sacramenti, il battesimo e il matrimonio.
Certamente questa è questione che riguarda i cattolici, che però sono cittadini italiani e non vedo come possano svincolarsi dai loro precisi diritti/doveri che anche il monsignore in questione richiama con una evidente attenzione al momento presente. Afferma:
“ … il momento elettorale conserva una sua indubbia importanza perché in esso il cittadino riflette non solo sui propri bisogni e interessi, ma sul “nostro” bene, il bene di tutti, il bene della comunità percepita come un tutto. E’ così anche per la comunità di Trieste. E’ così anche per le prossime elezioni amministrative”

Non rispetto l’ordine cronologico e comincio dal matrimonio.

Secondo la dottrina cattolica i celebranti del matrimonio sono gli sposi stessi, ma la loro volontà non si manifesta nel rifugio del privato bensì in una situazione del cui ordinato proporsi è garante un sacerdote (appunto se si tratta di cattolici) e dal 1929 il sacerdote, all’atto della celebrazione, è anche ufficiale di stato civile.
Quindi il matrimonio concordatario viene celebrato dopo che, anche negli idonei locali della chiesa, sono state esposte le pubblicazioni, la cui eventuale assenza non consente la celebrazione del matrimonio stesso. Ed è chiaro che, se entrambi o uno dei due sposi sono immigrati senza permesso di soggiorno, non ci saranno pubblicazioni poiché la chiesa deve attenersi alla decisione del Comune che agisce a norma della lettera g del comma 22 dell’art. 1 della legge 94/2009.
Della questione ho fatto cenno l’8 dicembre 2010, per un interessante intervento del giudice di Trento, alla fine del mio pezzo di allora.
Che fare a questo punto? Se gli sposi vogliono essere i celebranti del sacramento della loro unione possono chiedere un matrimonio che abbia significato solo religioso.
A questo punto il parroco che raccogliesse la loro richiesta dovrebbe rivolgersi al vescovo ed esibire motivazioni forti perché così gli è stato raccomandato dalle autorità canoniche. Se il permesso arriverà potrà farsi garante di questa celebrazione ‘segreta’. Infatti, se lo sposalizio fosse esibito alla pubblica attenzione, potrebbe esserci la ‘spiata’ già messa in atto persino a fronte di un medico costretto a intervenire pubblicamente a seguito di un malore di un sans papier(si veda il mio ‘quaderni del Gallo’ – 15 marzo).
Mi si è detto che così quel parroco darebbe soddisfazione alla sua coscienza di sacerdote ma, come dice mons. Vescovo, è valore umano “l’aiuto solidale ai poveri condotto in modo sussidiario, ossia evitando sprechi ed assistenzialismo e favorendo, invece, la creatività e l’assunzione di responsabilità di persone e corpi intermedi”.
Il matrimonio solo religioso agli effetti civili non esiste e quindi priva gli sposi di tutti i diritti che la legge loro altrimenti riconoscerebbe, a partire dalla reversibilità della pensione, e soprattutto li lascerebbe in balia della situazione di cui più volte ho scritto per ciò che riguarda il riconoscimento dei figli (si consultino i tag anagrafe, bambini, nascita).
Come la mettiamo qui con la creatività della solidarietà di cui al documento di monsignore?
Mi si è detto anche che la stessa situazione vale per qualsiasi coppia non sposata: vero solo in parte perché per molte coppie è possibile il matrimonio civile e per altre la discussione è aperta (penso alle unioni degli omosessuali) mentre nel caso dei sans papier il silenzio –laico e religioso che sia – è totale.
E inoltre i sans papier vengono discriminati non per una scelta di vita che le leggi dello stato o della chiesa cattolica non riconoscono ma perché stranieri con burocratiche difficoltà artatamente costruite e io continuo a pensare che questo sia razzismo.

Il battesimo e l’accoglienza della comunità
Riporto la lettera aperta che ho scritto al vescovo di Trieste. Se mi risponderà ne darò notizia.

Egregio monsignore,
pur non risiedendo nella diocesi di cui Lei è vescovo non posso non dichiararmi turbata, anche come cattolica, dal comunicato stampa emesso dai Suoi uffici il 10 maggio.
Inizio soffermandomi sulla frase finale che invita il cattolico a cercare  l’accettabilità dei programmi dei candidati “dal punto di vista dei valori fondamentali …” e a valutare “ la storia e il retroterra culturale dei partiti dentro cui i candidati operano”.
Non posso analizzare tutti i valori che Lei elenca –me lo impedisce la necessaria brevità dello scritto – per cui mi limito ad augurarmi che La sua proposta voglia essere una autorevole indicazione per la libera coscienza dei cattolici e non pretenda di farsi – sollecitando l’adesione di forze politiche in quanto tali – vincolo politico per chiunque, anche non cattolico.
Mi permetto però di richiamare la Sua attenzione su un punto che non c’è nel Suo comunicato.
La legge che, con uno sprezzante ossimoro, è stata chiamata “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica” prevede che, per registrare gli atti di stato civile (nascita, morte, matrimonio), lo straniero non regolare debba presentare il permesso di soggiorno, esponendosi quindi, nel momento in cui cerca di avvalersi del godimento di diritti umani fondamentali al rischio dell’espulsione (il riferimento è alla lettera g) del comma 22 dell’art.1 della legge 94/2009).
Potrei dire molte cose ma, rivolgendomi a un Vescovo, Le chiedo come vi comporterete quando nelle chiese italiane si celebrerà il battesimo di un bambino senza famiglia per disposizione di legge, essendo i genitori impediti a riconoscere il piccolo dalla ragionevole paura dell’espulsione. Quel battesimo non potrà essere celebrato sottolineando, come si usa, l’atteggiamento di accoglienza della comunità al nuovo nato ma solo in forma che, per essere protettiva, dovrà essere catacombale, umiliando l’immagine gioiosa della celebrazione di un sacramento a quella oscura di un’attività scaramantica.
Non mi risponda che c’è una circolare che rende possibile la registrazione anagrafica delle nascite. La conosco bene ma non posso accettare che la difesa contro un principio di legge che discrimina i cittadini più deboli proprio per ciò che sono, sia affidata alla volatilità di un atto burocratico che comunque non garantirebbe sicurezza alla pubblica presenza dei genitori del battezzando in chiesa.
Certamente quando mi sono rivolta (inutilmente) ad esponenti politici il mio discorso non si basava sulla contraddizione fra la celebrazione del sacramento e la violazione dei diritti di un neonato che, crescendo apolide, non solo sarebbe privato a priori di ogni diritto ma diventerebbe, per l’oscurità cui sarebbe condannato, vittima privilegiata di ogni crimine a partire dalla pedofilia. La mia interrogazione teneva conto di un quadro ben più ampio e ora mi piacerebbe sapere come prevedono di comportarsi gli eletti sindaci e i candidati ai diversi ballottaggi (oltre naturalmente a quello triestino) quando la legge imporrà loro di farsi complici – nell’esercizio legittimo del loro ruolo di sindaci– della negazione di una registrazione di nascita, matrimonio, morte.
Ma non lo posso sapere perché nessuno glielo ha chiesto con quella autorevolezza che merita risposta né questo argomento mi risulta essere presente in alcun programma elettorale.
Ringraziandola per l’attenzione porgo distinti saluti.
(Augusta De Piero)

21 Maggio 2011Permalink

18 aprile 2011 – Donne sotto traccia 3

NABILA, PONTE TRA CULTURE

Nabila – una cittadina marocchina poco più che ventenne  – mi accoglie nella sede pordenonese dell’associazione onlus Circolo Aperto, Lavorando Per Tutti (LPT).
E’ sabato, la ‘casetta del volontariato’ di Pordenone, che ospita varie associazioni non è attiva e l’ambiente è tranquillo. Nabila ha portato con sé i due fratellini minori: Soumia di otto anni e Bilal di sei con cui faccio una simpatica chiacchierata mentre lei si occupa di due mediatrici impegnate nel suo stesso progetto, una proveniente dall’Albania e l’altra dal Burkina Faso.
Complessivamente le mediatrici impegnate nell’associazione appartengono a quattordici nazionalità e l’italiano non rappresenta solo la lingua di mediazione con gli autoctoni, ma anche fra loro.
Il mio incontro con i due piccoli è importante e dice molto di più di tante parole che gli adulti possano pronunciare sul loro conto. Sono due bambini estremamente socievoli, in grado di esprimere tranquillamente i loro pensieri, testimonianza significativa di una crescita in ambiente sereno, segno –anche nelle ottime capacità di comunicazione linguistica in italiano- di una avvenuta integrazione.
Rivelano subito un grande amore per la sorella maggiore, mi raccontano emozionati di un’altra sorella più grande che aspetta un bambino. Eccitatissima Soumia (“sarò zia a otto anni!”), più riservato Bilal, unico maschio con quattro sorelle (“io veramente volevo un fratellino per giocare”). Mi parlano positivamente della scuola (frequentano rispettivamente la terza e la prima elementare) di cui a Soumia “piace tutto” e a Bilal soprattutto gli amichetti. Li distingue dai coetanei, e ne provano disagio, la mancanza della cittadinanza italiana. La domenica al centro islamico imparano l’arabo e hanno una formazione religiosa “compatibile con la loro età”, mi spiega Nabila rientrando.
Nabila indossa il velo come la sua mamma e ne parliamo. Chiarisce subito che si tratta di una sua scelta personale, come personale è quella delle due sorelle che non lo indossano. In famiglia questo significativo pluralismo di atteggiamenti è accettato con tranquillità. A nessuna di loro è stato richiesto di giustificare le ragioni della scelta compiuta. Nabila mi spiega che il velo (le copre i capelli e il collo, nulla nasconde del volto) è una protezione della ‘modestia’ suggerita dalla tradizione religiosa islamica.
Vissuta in Marocco –paese islamico quasi al cento per cento- l’identità in cui si riconosce appartiene a quella realtà, senza che ciò la faccia sentire a disagio nell’occidente in cui è immersa.
“Sono una privilegiata –precisa – quando, a dodici anni, sono venuta in Italia con un ricongiungimento familiare. Il mio papà, che viveva e lavorava qui già da vent’anni, aveva preparato un terreno in cui possiamo essere noi stessi senza disagi”. Nabila si è voluta garantire anche il sogno del ritorno. In Italia ha conseguito la maturità come geometra ma si è assicurata anche la maturità liceale del Marocco e sembra destreggiarsi fra le due realtà con estrema disinvoltura, affrontando anche i problemi burocratici che le sono imposti dalla realizzazione dei progetti di cui si fa carico nell’ambito dell’associazione.
E’ una realtà complessa che offe molte occasioni di approfondimento. Ne parleremo in seguito.

18 Aprile 2011Permalink

8 marzo 2011 – Donne sotto traccia 1

Novembre 2010

Il benessere delle nuove famiglie è stato il tema di un incontro promosso il 23 ottobre scorso dal GrIS del Friuli Venezia Giulia, presso l’Ospedale di Gorizia.

Le nuove famiglie (le famiglie migranti) sono state presentate attraverso il punto di vista di donne mediatrici culturali e di comunità (particolarmente formate all’attenzione competente al sistema sanitario) e, nello stesso tempo componenti delle ‘nuove famiglie’.

Così il punto di vista si moltiplicava, insieme vita e specchio della vita stessa, complessa e difficile anche per i più giovani.

E proprio i bambini a Gorizia sono stati i protagonisti, attraverso i racconti che hanno permesso di arricchire la logica quantitativa delle statistiche per entrare nei processi affascinanti di una cultura, fatta di nuove relazioni, di strumenti di comprensione del vissuto che non possono essere immaginati a tavolino, ma che chiedono di essere conosciuti perché ci permettono di prefigurare il domani del nostro paese.

’Il quattro novembre saremo tutti italiani’, così dichiarava una piccola al rientro da scuola, opponendo  alla sorpresa dei familiari un perentorio ‘lo ha detto la maestra’. Non è stato possibile sapere se vi fosse stata una comunicazione equivoca o che altro, ma era chiaro che la fermezza della piccola manifestava il suo desiderio di diversità. Nata qui, la cultura familiare non le appartiene, il suo riferimento sono i suoi amichetti.

E una madre, mediatrice nella vita oltre che nella professione, riferiva – non senza disagio – della decisione di consentire alla figlia di indossare quei jeans stretti che le permettevano di essere ‘normale’ a scuola.

Sotto la traccia dei racconti si delineavano le figure di altre donne, silenti e assenti, chiuse nelle mura domestiche e perciò impermeabili ai modi e alle relazioni della società in cui i loro figli vivono.

Immigrate a seguito del marito, sole in una realtà in cui non godono di relazioni parentali e amicali, oberate dal lavoro e dai figli di regola numerosi, hanno come riferimento sicuro il ricordo di certezze altrove maturate e appaiono rigide nella loro diversità. E’ una diversità tanto più vistosa quanto più quotidiana che si rende leggibile negli abiti, nel cibo, nei silenzi imposti dalla difficoltà di dirsi e di dire, dall’ignoranza della lingua che la fatica e la solitudine impediscono di apprendere. Capita che quando si incontrano con altri molte di loro abbassino gli occhi.

Per loro è un segno di rispetto per chi é più vecchio o investito di autorità.

E alla mamma che, in nome di quel rispetto, impone alla figlia di abbassare gli occhi quando le parla, la bambina ribatte: “La maestra invece mi dice ‘guardami in faccia quando ti parlo’. Cosa devo fare?”.

Se il gioco degli sguardi diventerà un sereno ‘guardiamoci’ quella bambina sarà stata mediatrice di un processo culturale ancora tutto da scoprire.

Nota informativa
La  Società Italiana di Medicina delle Migrazioni (SIMM – www.simmweb.it) –cui si deve l’impegno che ha consentito di non privare gli operatori sanitari di quel fondamento deontologico che è il segreto professionale –realizza molte delle sue attività attraverso i Gruppi Immigrazione Salute (GrIS).
Per contatti con il GrIS del Friuli Venezia Giulia, la cui pagina è raggiungibile dal sito simmweb, gris.friuliveneziagiulia@simmweb.it  – Portavoce: Guglielmo Pitzalis

Gennaio 2011 –  Faten, cittadina di Udine.

Dieci anni fa ho curato per Ho un sogno la presentazione di alcune storie di donne immigrate e mi sono chiesta se non sia possibile raggiungerle di nuovo e leggere con loro lo svolgersi della loro vita in questi due anni.

Il primo nuovo incontro è con Faten. Nel 2001 avevo intervistato una giovane donna, gentile e inappuntabile nell’aspetto, che era arrivata sette anni prima dalla Siria con un permesso di lavoro.

Oggi mi trovo davanti una imprenditrice (che ancora fa onore al significato del suo nome, affascinante) che gestisce con il marito attività di ristorazione e catering e anche una scuola di danza cui fanno capo alcune iniziative culturali, (“di cultura araba-medio orientale!”, precisa Faten, attenta a sottolineare i caratteri plurali delle presenze straniere).

Questi lunghi anni di presenza in Italia le hanno insegnato il rischio di accettare, e in qualche modo giustificare, la divisione dei migranti in quei blocchi tanto cari a semplificazioni che facilmente scivolano nel pregiudizio.

La Siria da cui proviene – precisa- non è, ad esempio, il Maghreb, pur se la religione maggioritaria è la stessa. Le differenze sono molte, così come in Europa.

Già la religione, quella che- secondo una parte dell’opinione pubblica italiana – vorrebbe le donne coperte e con il volto velato.

La donna che ho davanti veste come me, pantaloni, maglioncino e camicetta, non l’ho mai vista velata né con la testa coperta oltre la necessità di difendersi dal freddo. Eppure so che è mussulmana praticante, che ha fatto il pellegrinaggio a La Mecca (uno dei pilastri dell’Islam, cui si è accompagnata al marito) ed è tornata – secondo il titolo che spetta ai pellegrini- ‘agia’.

“Una responsabilità in più, precisa, nella preghiera, nella condotta della vita, nell’educazione dei figli”.

Dieci anni fa era mamma di Omar, un bambino la cui educazione era al centro dei suoi pensieri. Mi aveva detto: “Per me il fatto che il bambino conosca un’altra religione è cosa che lo fa arricchire, ma mi obbliga a un doppio impegno perché voglio trasmettergli la nostra religione e la nostra cultura e quando torna a casa devo impegnarmi in un grande sforzo per offrirgli un’informazione adeguata sulla nostra fede e le nostre usanze. Mi ripaga il fatto che il mio bambino così diventa più ricco. Io sono facilitata dal fatto di essere cresciuta in Siria, in una società multiculturale e multireligiosa: frequentavo arabi, armeni, curdi, cristiani di varie confessioni. Ricordo che nelle reciproche feste ci scambiavamo gli auguri”.

Con la piccola Leila (che oggi ha otto anni) le cose sono meno facili: alla serenità di Omar (che oggi frequenta un istituto superiore della città) Leila oppone un suo precoce spirito critico.

L’attenzione costante all’educazione dei figli e alla vita familiare (“appena arrivata in Italia –mi dice- ero rimasta sgradevolmente colpita dalla poca disponibilità a sacrificarsi per la famiglia”) non le impedisce di seguire con impegno il lavoro che occupa una trentina di dipendenti, per un terzo italiani.

Le chiedo quali siano a suo parere le ragioni del successo dei ristoranti che lei e il marito dirigono e Faten osserva che il cibo che loro offrono, curato anche nella presentazione, piace perché è sano, nell’insieme vicino alla dieta mediterranea, le materie prime fresche vengono dal mercato locale, altre (grano, semola, una particolare birra leggermente alcolica ma compatibile con le prescrizioni coraniche) dalla Siria.

Affronta il problema del pregiudizio che colpisce l’Islam con molta tranquillità ma non senza determinazione, attribuendo all’ignoranza, che porta a confondere la religione con tradizioni locali radicate che dalla religione non provengono, alcuni eventi e costumi che lei stessa non pratica.

Da quattro anni ha chiesto, insieme al marito, la cittadinanza italiana ma non ha avuto ancora risposta.

Febbraio 2011  -In Bosnia come in Italia: lotta alla discriminazione ( SK).

Continuando con la rivisitazione delle interviste proposte dieci anni fa su Ho un Sogno incontrola bosniaca SK, che ha voluto dar continuità alla scelta di allora anche presentandosi con le sole iniziali.

SK e il marito B rappresentano una figura propria nel panorama delle migrazioni: la loro presenza è infatti il risultato di una guerra europea e del clima di nazionalismo impazzito forse causa, forse conseguenza di quella guerra o forse entrambe le cose.

Giunti in Italia dalla Bosnia nel 1992, sono una coppia mista, lei appartenente al gruppo croato, lui serbo e, se nella realtà di quella che fu la Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia  questo non era un problema, oggi, che i nazionalismi degli anni ’90 hanno identificato e radicalizzato le differenze, lo sarebbe.

Il rifiuto della guerra di SK e B ci propone una scelta di vita estranea alla violenza che alla guerra si collega e che spesso si manifesta nelle scelte che ne seguono. SK sorride ricordando le città legate alla vita sua e della famiglia: Doboj, dove è nata, oggi appartiene alla Repubblica Srpska (l’entità serba della nuova Bosnia), mentre  Visoko (la cittadina dove è nato B) e Maglaj – dove la famiglia si è formata e dove è vissuta – sono zone a maggioranza mussulmana.

Le ‘nuove’ realtà, stabilizzate dal riconoscimento internazionale seguito all’armistizio di Dayton, si rispecchiano anche nella scuola –dove le classi mostrano una monoetnicità un tempo sconosciuta – e nella lingua in cui si radicalizzano terminologie e pronunce che sottolineano non tanto differenze quanto una voluta separazione.

Così anche le religioni entrano nel quadro che SK prospetta come elementi di novità che la turbano.

L’influenza delle chiese ortodossa e cattolica e dell’islam è forte in tutti i settori della società; inoltre l’islam della Bosnia, un tempo europeo, si è modificato per l’imitazione di modelli precedentemente sconosciuti. Anche le nuove, numerose moschee non rappresentano più le storiche modalità degli edifici bosniaci.

E non mancano modificazioni del comportamento personale: in Bosnia il velo era indumento sconosciuto. Oggi invece molte donne lo indossano senza che faccia parte del tradizionale costume bosnjacco e, come altrove in Europa, non copre la testa delle madri, che lo avevano dismesso, ma delle figlie che se ne sono appropriate. Ci ritroviamo concordi nel non riuscire a considerare questa una scelta di libertà, pur nel rispetto dovuto alle manifestazioni personali di un credo religioso.

Il veloce passaggio sul problema del velo, ci porta a parlare dell’integrazione che per SK ha la sua chiave insostituibile nella parità di diritti di fronte all’accesso al lavoro. E’ appena tornata dal Belgio dove l’ha impressionata l’evidente molteplicità etnica nella conduzione dei pubblici servizi da parte di persone evidentemente diverse.

Le viene naturale ripensare a domande di partecipazione a concorsi per l’accesso al lavoro rifiutate perché il richiedente non era cittadino italiano.

A questo punto il colloquio si fa dolente perché accanto all’inadeguatezza delle leggi che regolano l’immigrazione si profila la tragica mancanza di lavoro. E così non parlo più con una migrante, ma con una neo cittadina italiana, angosciata quanto me.

Scheda

La Bosnia (Bosnia Herzegovina – capitale Sarajevo) si trova nei Balcani occidentali, confina con la Serbia ad est, il Montenegro a sud-est e con la Croazia a nord e ad ovest. Fino all’aprile 1992, faceva parte della Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia.
Nell’ex Jugoslavia era stato riconosciuto uno status particolare per tre delle numerose etnie che ne facevano parte (Serbi, Croati e Bosnjacchi) e che, nella Bosnia post bellica, costituiscono riferimento per una suddivisione territoriale.
La Repubblica Srpska (capitale Banja Luka) è l’area a grande maggioranza serba, mentre croati e Bosnjacchi si dividono a macchia di leopardo il resto del territorio.

8 Marzo 2011Permalink

31 gennaio 2011 – Un cardinale, qualche signora e un Presidente

 Da un direttore generale tremolante a un cardinale insinuante.

Nell’ultimo scritto ho fatto riferimento a un direttore generale tremolante (Masi, RAI) ora non voglio trascurare uno che si presenta mite ma … non lo è e oltre che autorevole per dichiarato ruolo è nocivo per quanto comunica a soggetti ahimè passivi: si tratta del card. Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana.

Al di là  dello stile, che trovo vecchio e untuosetto, trascrivo due passi della sua prolusione alla Conferenza dei vescovi italiani (24 gennaio) che mi hanno indignato, non per ciò che dicono (Sua Eminenza sa usare le argomentazioni che vuole usare con abilità e consumata esperienza e conosce bene il significato delle parole) ma per ciò che non dicono.

Al numero 6 della sua prolusione il cardinale propone un termine che ho trovato geniale ‘alfabetizzazione etica’ ma che, a mio parere, tradisce poco sotto dichiarando: “Anche la crescente allergia che si registra nei confronti dell’evasione fiscale è un segnale positivo, che va assecondato”.
Eminenza concordo, ma come la mettiamo con la soppressione dell’ICI non solo per i locali di culto, ma anche per tutta la catena di vari mercati che alla chiesa cattolica, direttamente o indirettamente, si riferiscono (uno fra tutti l’offerta alberghiera)?
Il Vaticano non soffre di allergie?

E poco sotto al n. 7 “Va da sé che una ricognizione lucida della condizione nazionale deve portare il Paese a darsi una politica familiare preveggente, che mantenga la famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna, e aperta alla vita, quale base per rilanciare il Paese, e rilanciarlo sul proprio caratteristico equilibrio esistenziale, dunque senza ossessivi cedimenti alla struttura del «soggetto singolare»”
Il breve passo che riporto non copre i numerosi  -e ben inseriti nel cardinalizio contesto – riferimenti alla famiglia (comunque chi volesse leggere l’intera prolusione può farlo da qui)

Correttezza a questo punto avrebbe voluto che il cardinale per evitare di cadere nella “cultura della seduzione” (di cui al n.6) avesse ben definito l’ambito del suo uditorio, dato che non può essere altro che il mondo cattolico (che, per fortuna- è tutt’altro che monolitico). Poteva farlo proprio giovandosi del costume che appartiene a quella ‘alfabetizzazione etica’ precedentemente denominata poiché non ignora che nella società italiana molti cercano di ragionare responsabilmente su forme diverse di legami fra persone di diverso e dello stesso sesso.

Cardinalizie seduzioni contro il pluralismo culturale.

Sono ben consapevole che il presidente della Conferenza Episcopale Italiana  non farebbe alcun danno alla convivenza plurale se i cittadini italiani fossero abituati alla personale riflessione e educati al rispetto di sé: così non è.

Quindi nelle parrocchie (veicoli ancora potenti di diffusione culturale di base) quanto detto a livello gerarchico viene assunto come verità di fede e accantonato nell’universo di quelle cose che si dovrebbero fare (e che, per umana debolezza, non si fanno). Così a seguito della fiducia nel modello tradizionale di concordatario matrimonio cattolico (eppure è sempre più praticata la formula del matrimonio civile!) rotolano tutte le tradizioni in qualche modo passivamente assimilate: ivi compresi i diritti dei minori.
Credo che questo sia un punto focale.

Da servili tremolii e tradizioni non verificate ai diritti dei soggetti senza contrattualità

E cammina, cammina … sono arrivata dove volevo.

Mi limito a una considerazione di fatto: l’ambito cattolico non esaurisce quello cristiano.
Sulle coppie omossessuali c’è stata un’ampia discussione al sinodo valdese, provocata da una lettera del deputato Malan (PdL) evidentemente ballonzolante fra il suo partito – e le conseguenti opportunità politiche-  e la sua chiesa.
Al di là dell’intervento del Malan (fortunatamente all’interno della sua chiesa inefficace) resta però il grave problema dell’omaggio di comodo alla gerarchia cattolica di molti cosiddetti laici, oltre che opportunisti servili (almeno per questo aspetto) dottrinalmente ignoranti con pretese di trasmissione di verità.

Esaurita la considerazione di fatto una domanda:
– come fanno questi famiglia tradizionale dipendenti ad educare i bambini se non danno loro, con tutta la necessaria discrezione che il processo di crescita richiede, l’indicazione del rispetto di sé come soggetti di diritto?
Non so immaginare altro modo per educarli anche ai doveri (non si danno doveri senza diritti e viceversa) a meno che i sedicenti educatori famiglia-dipendenti non indulgano alla coppia sostitutiva (e molto praticata) di capriccio-obbedienza passiva.

Questa lacuna spiega, secondo me, la ragione fondamentale (ma non l’unica) per cui nulla ha detto la gerarchia cattolica sul problema della connessione imposta per legge da due anni fra permesso di soggiorno e registrazione degli atti di stato civile, in particolare la registrazione anagrafica.
Le parrocchie e il giro connesso assentono …ma non sono le sole

Donne, cardinali e vacui consensi

A quanto ho letto sui giornali (non mi sono sentita di partecipare) sabato donne di compositi movimenti si sono trovate in piazza per dire che il governo Berlusconi le fa arrabbiare e che non tutte le donne sono escort.
Attentissime a parlare di sé sono non elegantemente sfuggite ai diritti dei soggetti a debole contrattualità.
Eppure il principio dello sfruttamento delle persone è sempre quello e sempre quello è il modo di agire più orientato a una momentanea ricerca di consenso che alla considerazione razionale di un problema e delle possibili ipotesi per affrontarlo.
Non mi va trovarmi a traballare fra improbabili buoni sentimenti, cupo buon senso e incazzature senza obiettivi.

Non voglio ora  riprendere il problema che da due anni affronto nel blog cui potrebbero affiancarsi tanti altri, specifici se qualcuno volesse studiarli e darne comunicazione.. .

Una lettera al Presidente della Repubblica che ha meritato risposta

Egregio Presidente

il Suo gesto –così limpido nella sua determinazione e importante per il significato che riveste- di ricevere in Quirinale una delegazione di studenti, mi ha incoraggiato nella decisione di scriverLe per chiederLe di dar voce a persone cui voce è negata e che non hanno modo di chiederle udienza.

Si tratta dei neonati, figli di immigrati privi di permesso di soggiorno, cui è rifiutata la registrazione anagrafica, il che li condanna alla perdita di diritti anche essenziali e a un futuro da apolidi.

Il meccanismo che crea tale situazione attraversa subdolamente leggi e burocrazie.

Mi spiego: tale esclusione è prevista dalla legge ‘Disposizioni in materia di sicurezza pubblica’ (94/2009 – lettera g) del comma 22 dell’art. 1).

Non c’é una espressione esplicitamente e chiaramente discriminatoria, ma semplicemente una modifica della norma precedente che diceva essere esclusi dalla presentazione del permesso di soggiorno vari provvedimenti, fra cui gli atti di stato civile (comma 2 – art. 6 – legge 40/1998). Nella legge 94/2009, mentre permangono altre esclusioni, é scomparsa quella relativa agli atti di stato civile e di conseguenza la registrazione di tali atti è subordinata alla presentazione del permesso di soggiorno.

I problemi sono parecchi, relativi a situazioni diverse: mi limito al problema nascita.

Pochi giorni dopo l’approvazione della legge 94 il Ministero dell’interno emanò una circolare (n. 19 del 7 Agosto 2009, prot. 0008899) che affermava essere possibile – relativamente alla registrazione anagrafica – ciò che la legge negava.

Ciò nonostante il problema resta aperto.

Infatti alla diffusa impreparazione degli uffici di molti enti locali si aggiunge la paura dei genitori che, scoprendosi irregolari per la mancanza del permesso di soggiorno, non osano avvicinare le sedi comunali, con un gesto che – anziché permettere loro di esprimere la gioia e l’orgoglio di aver generato un figlio – li condannerebbe all’espulsione.

Permetta, signor presidente, a una cittadina che è nata nell’anno in cui furono promulgate le prime leggi razziali italiane, di dichiararsi inorridita di fronte alla questione che le è stata posta da giornalisti cui si era rivolta “Conosce un caso da poter segnalare? L’informazione in  merito alla legge non è una notizia”.

Mi chiedo e Le chiedo: “Se la presenza in legge di un principio che discrimina le persone per uno status burocraticamente accertato è – e io ritengo che sia- un principio razzista, perché tale affermazione non è da considerarsi ‘notizia’?”.

Mi creda signor Presidente, nella convinzione che la difesa dei principi fondanti la nostra Costituzione appartenga ad ognuna e ognuno di noi (e questo ho insegnato ai miei figli e ai miei studenti di un tempo), ho fatto quando potevo e sapevo per segnalare, rendere pubblica la segnalazione, chiedere ai responsabili un gesto consapevole che apra alla modifica della norma.

Ora mi rivolgo a Lei: quei piccoli minacciati dalla negazione di un riconoscimento fondante la vita di relazione, non possono costituirsi in delegazione, né lo osano i loro genitori, ma Lei può essere la loro voce, tutelandoli come la Costituzione, numerose leggi (cito soltanto la legge n. 176/1991, ratifica della Convenzione di New York del 20 novembre 1989), prevedono e garantendo insieme la dignità di tutti noi che un principio razzista, che pretende di essere legale, umilia.

Nella certezza che Lei troverà il modo per essere voce di chi non ne ha e non può averne e insieme di confortarci nel disagio che nasce dalla consapevolezza di non riuscire ad opporci al razzismo strisciante, Le auguro buon anno.
Augusta De Piero

Segreteria generale della Presidenza della Repubblica
Ufficio per gli Affari Giuridici e le Relazioni Costituzionali                       Roma 12 gennaio 2011

           Gentile signora De Piero,
In relazione alla Sua lettera, indirizzata al Capo dello Stato, la informo che questo Ufficio ha sottoposto quanto da Lei rappresentato all’attenzione del Ministero dell’interno, per l’esame di competenza.
p. il Direttore dell’Ufficio
dr. Gino Onorato

31 Gennaio 2011Permalink

11 agosto 2010 – Buon Ramadan! – Corte Costituzionale e Regione Toscana

Buon Ramadan!

Questa notte la comparsa della prima falce della luna crescente ha segnato l’inizio del mese lunare del Ramadan. Comincio augurando buon Ramadan a coloro che lo celebrano e in particolare agli amici mussulmani che tante volte mi hanno augurato buon Natale.

Avrei voluto soffermarmi un po’ su questo argomento ma lo farò i prossimi giorni quando, e se, le informazioni che sto raccogliendo mi consentiranno di riprendere anche una confusa ma importante notizia del Manifesto di ieri sull’espulsione dei figli degli immigrati irregolari da Israele.

Corte Costituzionale. ASGI e immigrazione.
Oggi mi soffermo su una informazione – come il solito ben documentata – offerta dal prezioso sito dell’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione, che trascriverò integralmente a seguito di queste mie righe.
Innanzitutto constato con piacere che l’ASGI é entrata a far parte dellelenco delle associazioni legittimate ad agire nei procedimenti giudiziari anti-discriminazione su base etnico- razziale (Dipartimento per le Pari Opportunità – decreto 9 aprile 2010 in G.U. n. 180 dd. 04.08.2010). chi volesse saperne di più può farlo da qui.

Il fatto che, come che mi legge potrà vedere fra poco, la Corte Costituzionale abbia respinto le eccezioni di incostituzionalità proposte dal Governo nei confronti di alcune norme della legge della Regione Toscana sull’immigrazione non implica di per sé l’automatismo delle ricadute che vanno dalla regione ai comuni, ma non possono trascurare il livello di coinvolgimento dell’opinione pubblica, e che, solo se esistono, trasformano norme positive in cultura e occasione di comportamenti virtuosi.
Ho cercato di raccogliere queste briciole di positività e ne ho scritto nel mensile locale Ho un sogno del mese scorso e poi trascritto nel mio pezzo del 20 luglio e che chi vuole può leggere da qui.

Purtroppo, almeno per la realtà che io conosco- resta dominante il tristissimo disperante intreccio del rapporto politica – istituzioni -realtà associative-opinione pubblica conformista al basso … ma per oggi basta così

 dal sito dell’ASGI

10.08.2010  La legge della Regione Toscana sull’integrazione degli immigrati è in accordo con la Costituzione

Con sentenza n. 269 depositata il 22 luglio 2010, la Corte Costituzionale ha respinto le eccezioni di incostituzionalità proposte dal Governo nei confronti di alcune norme della legge della Regione Toscana 09/06/2009, n. 29 (“Norme per l’accoglienza, l’integrazione partecipe e la tutela dei cittadini stranieri nella Regione Toscana”).

Secondo la Corte Costituzionale, la norma della legge regionale toscana che prevede l’estensione dell’applicazione della normativa anche ai cittadini comunitari è pienamente compatibile con la Costituzione in quanto le indicazioni contenute nel decreto legislativo di attuazione della direttiva europea in materia di libera circolazione devono essere armonizzate con le norme dell’ordinamento costituzionale italiano che sanciscono la tutela della salute, assicurano cure gratuite agli indigenti, l’esercizio del diritto all’istruzione e, comunque, attengono a prestazioni concernenti la tutela dei diritti fondamentali.

La norma della legge regionale toscana che assicura a tutte le persone dimoranti nel territorio regionale, anche se prive di permesso di soggiorno, l’accesso agli interventi socio –assistenziali urgenti e indifferibili, necessari per garantire il rispetto dei diritti fondamentali della persona, non eccede le competenze regionali in quanto interviene in una materia, quella dell’assistenza sociale, ove è prevista una competenza residuale esclusiva delle Regioni e comunque, tale norma è volta ad assicurare il rispetto del principio costituzionale di uguaglianza, per cui lo straniero è titolare di tutti i diritti fondamentali che la Costituzione riconosce alla persona. In particolare, la Corte ricorda che con riferimento al diritto all’assistenza sanitaria, esiste un nucleo irriducibile del diritto alla salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana, il quale impone di impedire la costituzione di situazioni prive di tutela, che possano appunto pregiudicare l’attuazione di quel diritto”. 

La Corte Costituzionale ha ritenuto infondata pure l’eccezione di incostituzionalità proposta dal Governo con riferimento a quella norma della legge regionale toscana che prevede il sostegno alla rete regionale di sportelli informativi per i cittadini stranieri nell’ambito della sperimentazione avviata tra ANCI e Ministero dell’Interno volta ad attribuire progressivamente le competenze ai Comuni per quanto riguarda l’istruttoria relativa al rilascio e al rinnovo dei permessi di soggiorno. Secondo la Corte infatti, tale norma non incide sulla condizione giuridica dello straniero e la regolamentazione dell’immigrazione, di competenza esclusiva dello Stato, ma semplicemente si limita a prevedere una forma di assistenza in favore degli stranieri presenti sul territorio regionale. Ugualmente infondata è apparsa alla Corte l’eccezione di incostituzionalità riferita alla norma regionale  che afferma il diritto all’iscrizione al Servizio sanitario regionale del richiedente  asilo che abbia proposto ricorso giurisdizionale avverso il provvedimento di diniego del permesso di soggiorno per il riconoscimento della protezione internazionale. Secondo la Corte, infatti, tale disposizione è volta a riconoscere in favore dello straniero il diritto umano fondamentale alla salute oltreché è pienamente compatibile con la legislazione nazionale in materia di immigrazione e asilo.

Da qui è possibile risalire al sito dell’ASGI e anche leggere integralmente  la sentenza della Corte Costituzionale.

11 Agosto 2010Permalink

30 novembre 2009 – L’evoluzione del crocifisso

L’evoluzione del crocifisso. Sospesa da tempo la riflessione sul significato della croce -sia dentro che fuori le chiese – lo si riscopre e, brandito come arma impropria, diventa un complemento d’arredo che ora entra nel design dei tessuti.
Dalla neolingua padana alla svizzero-padano teologia.

Da La Stampa 30 novembre   –  MISSILI E CAMPANILI – FRANCO CARDINI

Non c’è bisogno di aver letto Landscape and Memory (1995) di Simon Schama sulla storia del paesaggio per sapere che ambienti e landscapes si modificano col tempo.

Anche e soprattutto grazie all’opera dell’uomo: e che poco c’è in essi di puramente «naturale», niente di definitivamente «bello». Agli antichi elvezi, probabilmente, le torri e i templi dei romani sulle prime non piacevano affatto; e, agli elvezi romanizzati, non dovevan garbare granché i campanili. Che quindi qualche minareto avrebbe davvero compromesso l’armonioso paesaggio svizzero, con i suoi laghi e i suoi pascoli, è lecito dubitare. Le ragioni del «sì» degli abitanti della felice Confederazione Elvetica al referendum sul bando alla costruzione delle torri da cui si chiamano i musulmani alla preghiera debbono essere anche altre.

«Simboli del potere islamico», è stato detto. Ma quale potere? Un campanile cattolico in Svezia significa forse che quel Paese è passato al papismo? I templi buddhisti di New York simboleggiano il passaggio degli States alla fede in Gautama Siddharta? E la monumentale sinagoga di Roma significa forse che la Città Eterna è in mano agli ebrei? «Niente minareti se non c’è reciprocità», ha cristianamente sentenziato qualcuno. Ma di quale reciprocità si tratta? Di campanili cristiani molti Paesi musulmani abbondano: dalla Turchia alla Siria alla Giordania all’Egitto all’Algeria; e il fatto che il re dell’Arabia Saudita ne vieti la costruzione autorizza forse moralmente gli svizzeri a negare un minareto a una comunità musulmana fatta di turchi o di maghrebini, che col monarca wahhabita non hanno proprio nulla a che fare?

Ma le moschee sono fonte d’inquinamento fondamentalista, proclama qualcun altro. Dal che s’inferisce che l’unico modo per controllare e contrastare il fondamentalismo sia quello di umiliare molte decine di migliaia di credenti rifiutando loro un simbolo di libertà religiosa. E’ arrivata a questo, la nostra regressione verso l’intolleranza?

Giratela come volete: ma il risultato del referendum svizzero è un altro tassello nell’allarmante puzzle della perdita delle virtù di tolleranza e di ragionevolezza di cui l’Europa e il mondo occidentale stanno dando di questi tempi prove sempre più chiare. E che questa febbre sia grave è prova il contestuale rifiuto, opposto dal medesimo popolo svizzero, all’altro referendum, che gli chiedeva il divieto dell’esportazione di armi e materiale bellico al fine di sostenere lo sforzo internazionale per il disarmo. Qui, di fronte a ovvi motivi di ben concreto interesse economico, il popolo per definizione più pacifico d’Europa – ma anche quello militarmente parlando meglio esercitato – ha rifiutato di arrestare il «commercio di morte». E’ vero, le armi fanno male alla gente. Ma in fondo anche il tabacco e gli alcolici: e allora perché non continuarne produzione e vendita, magari con l’apposizione di qualche scritta d’avvertimento (tipo: «Sparare al prossimo fa male anche a te»)?

C’è del metodo, in questa follia. Curioso che il minareto somigli dannatamente a un missile, o anche a un bel proiettile lucente di fucile. I Mani di Charlton Heston, ex Mosè, ex Ben Hur, che tra 1998 e 2003 fu presidente dell’americana National Rifle Association, ne saranno estasiati. Lo ricordate, senescente eppur fiero della sua armeria simbolo di libertà, nel Bowling for Columbine di Michael Moore? Chi oggi esulta per l’esito del doppio referendum svizzero può prendere il vecchio Charlton a emblema del suo trionfo. A questo punto, per il momento, è arrivata la nostra notte.

30 Novembre 2009Permalink

07 novembre 2009 – Chiara e le scatole cinesi

No al crocefisso in classe La battaglia su un simbolo di Stefano Rodotà, Repubblica, 4 novembre 2009

Ancora una volta una sentenza prevedibile, ben argomentata giuridicamente, non suscita le riflessioni che meritano le difficili questioni affrontate, ma induce a proteste sopra le righe, annunci di barricate, ambigue sottovalutazioni.

Dovremmo ricordare che le precedenti decisioni italiane, che avevano ritenuto legittima la presenza del crocifisso nelle aule, erano state assai criticate per la debolezza del ragionamento giuridico, per il ricorso ad argomenti che nulla avevano a che fare con la legittimità costituzionale. E, considerando il fatto che la nostra Corte costituzionale aveva ritenuto inammissibile per ragioni formali un ricorso in materia, s´era parlato addirittura di una “fuga della Corte”, nelle cui sentenze si potevano ritrovare molte indicazioni nel senso della illegittimità della esposizione del crocifisso.

Nella decisione della Corte europea dei diritti dell´uomo di Strasburgo, che ha ritenuto quella esposizione in contrasto con quanto disposto dalla Convenzione europea dei diritti dell´uomo, non v´è traccia alcuna di sottovalutazione della rilevanza della religione, della quale, al contrario, si mette in evidenza l´importanza addirittura determinante per quanto riguarda il diritto dei genitori di educare i figli secondo le loro convinzioni e la libertà religiosa degli alunni. La sentenza, infatti, sottolinea come la scuola sia un luogo dove convivono presenze diverse, caratterizzate da molteplici credenze religiose o dal non professare alcuna religione. Si tratta, allora, di evitare che la presenza di un “segno esteriore forte” della religione cattolica, quale certamente è il crocifisso, “possa essere perturbante dal punto di vista emozionale per gli studenti di altre religioni o che non ne professano alcuna”.

Inoltre, il rispetto delle convinzioni religiose di alcuni genitori non può prescindere dalle convinzioni degli altri genitori. È in questo crocevia che si colloca la decisione dei giudici di Strasburgo che, in ossequio al loro mandato, devono garantire equilibri difficili, evitare ingiustificate prevaricazioni, assicurare la tutela d´ogni diritto.

Non si può ricorrere, infatti, all´argomento maggioritario, come incautamente aveva fatto il Tar del Veneto, che per primo aveva respinto la richiesta di togliere il crocifisso dalle aule, ricorrendo ai risultati di un sondaggio che sottolineava come la grande maggioranza degli interpellati fosse a favore del mantenimento di quel simbolo.

Un grande teorico del diritto, Ronald Dworkin, ha ricordato che «l´istituzione dei diritti è cruciale perché rappresenta la promessa della maggioranza alla minoranza che la sua dignità ed eguaglianza saranno rispettate. Quando le divisioni tra i gruppi sono molto violente, allora questa promessa, se si vuole far funzionare il diritto, dev´essere ancor più sincera». La garanzia del diritto, fosse pure quella di uno solo, è sempre un essenziale punto di riferimento per misurare proprio la tenuta di uno Stato costituzionale.

Guai a considerare la sentenza di ieri come un documento che apre un insanabile conflitto, che nega l´identità europea, che è “sintomo di una dittatura del relativismo”, addirittura “un colpo mortale all´Europa dei valori e dei diritti”. Soprattutto da chi ha responsabilità di governo sarebbe lecito attendersi un linguaggio più sorvegliato. Non vorrei che, abbandonandosi a queste invettive e parlando di una “corte europea ideologizzata”, si volesse trasferire in Europa lo stereotipo devastante dei giudici “rossi”, che tanti guai sta procurando al nostro paese. Allo stesso modo sarebbe sbagliato se il fronte “laicista” cavalcasse il pronunciamento per rilanciare una battaglia anti-cristiana.

Mantenendo lucidità di giudizio, si dovrebbe piuttosto concludere che la sentenza della Corte europea vuole sottrarre il crocifisso a ogni contesa. In questo è la sua superiore laicità. Viviamo tempi in cui la difesa della libertà religiosa non può essere disgiunta dal rispetto del pluralismo, da una riflessione più profonda sulla convivenza tra diversi. L´ossessione identitaria, manifestata anche in questa occasione e che percorre pericolosamente i territori dell´Unione europea, era lontanissima dai pensieri e dalla consapevolezza che ispirarono i padri fondatori dell´Europa, tra i quali i cattolici Alcide De Gasperi e Konrad Adenauer, che proprio quando si scrisse la Convenzione sui diritti dell´uomo nel 1950, quella sulla quale è fondata la sentenza di ieri, mai cedettero alla tentazione di ancorarla a “radici cristiane”, che avrebbero introdotto un elemento di divisione nel momento in cui si voleva unificare l´Europa, anche intorno all´eguale diritto di tutti e di ciascuno. Dobbiamo rimpiangere quella lungimiranza?

Questa sentenza ci porta verso un´Europa più ricca, verso un´Italia in cui si rafforzano le condizioni della convivenza tra diversi, dove acquista pienezza quel diritto all´educazione dei genitori che i cattolici rivendicano, ma che deve valere per tutti. Libera anche il mondo cattolico da argomentazioni strumentali che, pur di salvare quella presenza sui muri delle scuole, riducevano il simbolo drammatico della morte di Cristo a una icona culturale, ad una mediocre concessione compromissoria ai partiti d´ispirazione cristiana (così è scritto nella memoria presentata a Strasburgo della nostra Avvocatura dello Stato). L´Europa ci guarda e, con il voto unanime dei suoi giudici, ci aiuta.

(4 novembre 2009)

La Croce nelle mani di Gasparri e Calderoli – 05-11-2009 di Raniero La Valle

Vorrei dire il mio sentimento riguardo alla sentenza della Corte europea sul crocefisso nelle scuole. La sentenza è ineccepibile: una volta investita del caso, la Corte non poteva che decidere così; infatti in discussione non c’era l’utilità, l’opportunità, il significato, religioso o civile, del crocefisso, la percezione positiva o negativa che dei minori, per lo più ignari del cristianesimo, possono avere di un uomo “appeso nudo alla croce” e, così umiliato e ucciso, esposto alla vista di tutti. Non su questo verteva il giudizio e non su questo dovrebbe svilupparsi il dibattito sulla sentenza, in odio alle ragioni degli uni o degli altri, come ho visto fare anche in giornali amici. Il giudizio verteva sull’obbligo, imposto dallo Stato, di mettere il crocefisso nelle aule scolastiche; come dice la Corte di Strasburgo “sull’esposizione obbligatoria di un simbolo di una data confessione religiosa” nel contesto di una funzione pubblica gestita dal governo. È evidente che a quest’obbligo, derivante da decreti reali e da circolari fasciste che imponevano insieme al crocefisso il ritratto del re, si oppongono tutti i principi del moderno Stato di diritto, le norme della Costituzione, la Convenzione europea e forse anche la Dichiarazione conciliare “Dignitatis humane” sulla libertà religiosa.
Nondimeno vorrei dire il mio sentimento di dolore per ciò che è accaduto e ancor più per ciò che può accadere.
Inzitutto mi dispiace che ad attivare il procedimento nelle sue diverse fasi, con innegabile tenacia, sia stata una madre di due bambini che è anche socia dell’Unione Atei e Agnostici Razionalisti (UAAR), il che fa pensare che oltre alla difesa dei due figli da indesiderate interferenze religiose, tra i motivi del ricorso ci fosse un più generale interesse ideologico.
Mi dispiace anche che la giurisdizione amministrativa italiana e il governo siano stati così miopi, sia nella sostanza che nelle motivazioni, nel respingere le ragioni della ricorrente (mentre per darle ragione sarebbe bastata la Costituzione), da provocare l’appello alla Corte di Strasburgo e da chiamare perciò in causa addirittura la Convenzione dei diritti dell’uomo; testo normativo certo pertinente, ma alquanto sproporzionato se si pensa a quali e quanti diritti umani sono impunemente e atrocemente violati in tutto il mondo, e alla compressione vicino allo zero che per contro la presenza del crocefisso nelle aule scolastiche infligge ai diritti umani dei fanciulli che sono costretti a vederlo.
Inoltre mi dispiace che l’Italia, in una sede significativa come la Corte di Strasburgo, abbia mostrato il grado infimo a cui la considerazione del diritto è arrivata nel governo del nostro Paese, mettendo tra le motivazione della sua memoria difensiva “la necessità di trovare un compromesso con i partiti di ispirazione cristiana”, che nella migliore delle ipotesi è una ragione inerente alla politica politicante, cioè al potere, e non al diritto.
Ma soprattutto mi dispiace che, riconoscendosi da parte di tutti che non c’è più una religione di Stato, e che non si può imporre a tutti la rappresentazione simbolica di una sola confessione, ci sia una gara per dire che il crocefisso andrebbe mantenuto perché avrebbe cessato di essere un simbolo religioso, e sarebbe invece “un simbolo dello Stato italiano”, “un simbolo della storia e della cultura italiane”, un segno “dell’identità italiana”, “una bandiera della Chiesa cattolica, l’unica – ha osservato il tribunale amministrativo di Venezia – a essere nominata nella Costituzione italiana”; anzi, secondo il Consiglio di Stato, la croce sarebbe diventata un valore laico della Costituzione e rappresenterebbe i valori della vita civile. Come dice giustamente un terzo intervenuto nel giudizio di Strasburgo (un’organizzazione per l’attuazione dei principi di Helsinki), questa posizione “è offensiva per la Chiesa”.
Questa posizione è infatti atea, ma è devota, e tende a lucrare i benefici della religione come religione civile. E io dico la verità: se il Crocefisso diventasse la bandiera di un’identità, di un nazionalismo, di un razzismo, di una lotta religiosa, e se la sua difesa dovesse essere messa nelle mani di Gasparri, di Calderoli o di Pera, della Lega o di Villa Certosa, e cessasse di essere la memoria di un Dio che si è fatto uomo, per rendere gli uomini divini, e che “avendo amato i suoi fino alla fine” ha accettato dai suoi carnefici la sorte delle vittime, e continua a salire su tutti i patiboli innalzati dal potere, dal danaro e dalla guerra, allora io non vorrei più vedere un crocefisso in vita mia.
E mi dispiace infine che questa controversia abbia preso il via da una regolamentazione giudiziaria, norma contro norma, obbligazione contro abolizione. Il diritto non può che operare così, e quello che era obbligatorio prima può rendere illegittimo oggi. Ma io penso che non c’è solo il diritto scritto; ci sono le consuetudini, c’è una cultura comune, che pian piano muta, che ieri era “cristiana”, oggi è agnostica, domani sarà laica; si possono far crescere i processi, senza imposizioni e senza strozzature, accompagnando col variare delle proposte educative, dei mondi vitali, delle culture diffuse, delle etnie compresenti, il variare delle forme e dei simboli mediante i quali una società rappresenta se stessa. E non è detto che tutto il cambiamento debba avvenire tutto in una volta e in tutto il Paese, come quando a un solo segnale vennero rovesciati i ritratti del re e i simboli del fascismo.
Non credo che quello che oggi manca in Italia sia il riaccendersi di un conflitto religioso, di una guerra ideologica. Certo al governo piacerebbe, perché sarebbe ancora un altro modo per dirottare l’attenzione, per restare esente dal giudizio sul disastro prodotto dalle sue politiche reali.
Se dovessi dire come procedere, direi che lo Stato smetta di imporre alle scuole il crocefisso, e non impugni Strasburgo; che la Chiesa non ne rivendichi l’obbligo, tanto meno come simbolo d’identità e di radici, piuttosto che come simbolo di salvezza, e per ottenerlo non corra nelle braccia del governo; e che con buon senso, secondo le tradizioni e le esigenze dei luoghi, si trovi un consenso tra genitori, alunni e maestri, sul lasciare o togliere la croce. L’ultima cosa che vorrebbe quel Dio schiavo che vi si trova appeso, è di portare l’inquietudine, l’inimicizia e lo scontro nei luoghi dove una generazione sta scegliendo, e forse solo subendo, il suo futuro.

Raniero La Valle ha diretto, a soli 30 anni, L’Avvenire d’Italia, il più importante giornale cattolico nel quale ha seguito e raccontato le novità e le aperture del Concilio Vaticano II. Se ne va dopo il Concilio (1967) quando inizia la normalizzazione che emargina le tendenze progressiste del cardinale Lercaro. La Valle gira il mondo per la Rai, reportages e documentari, sempre impegnato sui temi della pace: Vietnam, Cambogia, America Latina. Con Linda Bimbi scrive un libro straordinario, vita e assassinio di Marianela Garcia Villas (“Marianela e i suoi fratelli”), avvocato salvadoregno che provava a tutelare i diritti umani violati dalle squadre della morte. Prima al mondo, aveva denunciato le bombe al fosforo, regalo del governo Reagan alla dittatura militare: bruciavano i contadini che pretendevano una normale giustizia sociale. Nel 1976 La Valle entra in parlamento con Sinistra Indipendente; si occupa della riforma della legge sull’obiezione di coscienza. Altri libri “Dalla parte di Abele”, “Pacem in Terris, l’enciclica della liberazione”, “Prima che l’anno finisca”, “Agonia e vocazione dell’Occidente”. Nel 2008 ha pubblicato “Se questo è un Dio”. Nel 2008 è stato promotore del “Manifesto per la sinistra cristiana” nel quale propone il rilancio della partecipazione politica e dei valori del patto costituzionale del ’48 e la critica della democrazia maggioritaria.

7 Novembre 2009Permalink

03 novembre 2009 – Non è questione di crocifissi ma di ignoranza.

La Corte europea dei diritti dell’uomo, accogliendo il ricorso di una madre relativa all’esibizione del crocifisso nelle aule scolastiche, ha affermato che l’esposizione di un simbolo religioso di natura confessionale nelle scuole rette dallo Stato limita il diritto dei genitori di educare i figli secondo le proprie convinzioni religiose o filosofiche e la libertà degli alunni di credere o di non credere.
Il parere, indubbiamente interessante, ha assicurato l’esibizione di un’ignoranza sconvolgente, indicando un atteggiamento che finalmente unifica maggioranza e opposizione parlamentare: i signori confondono cristianesimo e cattolicesimo usando i termini in maniera disinvoltamente intercambiabile.
Onorevoli presidenti delle camere avete fondi sufficienti per prendere in considerazione qualche lezioncina di storia europea?

Qui i l testo di un articolo da Repubblica on line e il testo della sentenza europea.

3 Novembre 2009Permalink

17 giugno 2009 – 3. Diario di viaggio, Iran 2009

3 – 6 aprile. Teheran. Istituto per il dialogo interreligioso.
Visita all ’INSTITUTE FOR INTERRELIGIOUS DIALOGUE  (IID)

NOTA successiva: Oggi, 17 giugno, il sito web dell’Istituto è raggiungibile.
L’ultima nota pubblicata dal magazine del I.I.D. risale al tre maggio ed è il messaggio dell’I.I.D, in occasione della giornata mondiale per la libertà di stampa e, fra le altre notizie (posso evidentemente controllare solo l’edizione inglese, non quella farsi) c’è anche quella dell’incontro con il gruppo di Confronti.
La nota che riporto è tratta dalla maggior parte dalla registrazione che Gianni N. mi ha gentilmente trasmesso, senza ignorare i miei appunti.
La donna che ci accoglie, e che appare nella mia fotografia, è Fahimeh Mousavi Nejad, responsabile editoriale della pubblicazione on line bimensile del “Religious News”.
Una collaboratrice dell’istituto ha svolto la funzione d’interprete dal persiano all’italiano.

 Fahimeh Mousavi Nejad (non so se si tratti di un’omonimia o se Mirhossein Mousavi, l’attuale oppositore di Ahmadi Nejad, sia parente della signora) ci presenta il suo istituto completamente indipendente, fondato otto anni fa. Alle pareti non ci sono i ritratti degli ayatollah Khomeini e Khamenei.

  La signora ci ricorda che in Iran il 98% della popolazione è musulmana e che prima dello sviluppo dei moderni mezzi di comunicazione la maggior parte non aveva neppure l’idea che esistessero tante altre religioni, anche nell’Iran stesso.
Oggi l’I.I.D. si propone di costruire un ponte tra musulmani e fedeli di altre fedi religiose all’interno dell’Iran ed all’estero.
“Siamo dei pionieri in quest’attività. – dice- e, pur essendo relativamente piccolo. l’istituto ha avuto una notevole risonanza nel dibattito fra le religioni. Prima c’erano alcune iniziative o partecipazioni saltuarie di natura ufficiale. Ora svolgiamo un’attività indipendente, sistematica e di respiro internazionale. Siamo molto contenti perché abbiamo potuto aprire un grande dibattito nel paese. Dal 2003 pubblichiamo una rivista che si intitola “Religious news”, in tremila copie. Cerchiamo di presentare i nuovi libri e il dibattito attuale sulle religioni, e in particolare sul dialogo interreligioso. Traduciamo in persiano articoli da altre lingue per metterli a disposizione dei lettori iraniani. I lettori sono in gran parte teologi, ricercatori e studiosi delle religioni”.
Il locale in cui si è svolto l’incontro è ricavato fra gli scaffali di una biblioteca di cui, continua la nostra interlocutrice, “siamo particolarmente fieri. Con i suoi 7000 volumi in persiano, arabo e inglese è la più ricca di testi sulle religioni di tutto il paese. Lo spazio è piuttosto ridotto e pertanto abbiamo dovuto fare una grande selezione. E’ frequentata prevalentemente da studiosi, ma comunque è aperta sempre al pubblico. Esiste infatti anche un pubblico non specializzato. Molti vengono pure a seguire le conferenze che mensilmente offriamo alla cittadinanza, dandone avviso sui giornali”.
Curiosando (è stato difficile mantenere un atteggiamento discreto!) fra gli scaffali trovo una sezione ricca di studi (soprattutto americani) sul femminismo. Marina trova un Talmud.
”Obiettivo del nostro istituto è il dialogo tra le religioni e le culture a favore della pace nel mondo” prosegue la signora Fahimeh. “Dedichiamo molta attenzione ai giovani. In particolare organizziamo una sessione riservata per far conoscere tra di loro giovani ebrei, cristiani, armeni, zoroastriani e musulmani. … La frequenza dei giovani è buona anche se speriamo che cresca. In verità questo tipo di interesse religioso non è molto diffuso nella società. Ma una volta che i giovani hanno iniziato a venire continuano e sviluppano grande interesse. Spesso si tratta di giovani che hanno vissuto all’estero. E’ questione di apertura o chiusura mentale”.
“Abbiamo anche molte relazioni con l’estero. Il nostro istituto ha lo statuto di ONG e da cinque anni è registrato nell’elenco delle ONG dell’ONU. Siamo in relazione con la chiesa anglicana di Inghilterra, con la chiesa luterana di Germania, con il Consiglio ecumenico delle chiese di Ginevra. Con loro abbiamo dei progetti in comune. Ad esempio adesso stiamo lavorando ad una ricerca sulla partecipazione femminile alla promozione della pace nel mondo. La nostra sezione giovanile collabora con un Istituto americano che si chiama ‘United religious initiatives’”.
“Anche finanziariamente siamo indipendenti. C’è una rete di finanziatori privati che ci sostengono in diversi modi. Parecchi contribuiscono con quote annuali. Questa stessa sede ci è offerta gratuitamente da una persona amica. Cerchiamo comunque di ridurre molto le spese. Ci sono quattro persone che lavorano stabilmente e molti volontari. Il consiglio scientifico, costituito da 22 membri, collabora del tutto gratuitamente. La rivista si autofinanzia”.
“E’ un cammino nuovo e non del tutto compreso,anche all’interno delle diverse religioni. Direi che è più facile il dialogo inter-religioso del dialogo intra-religioso, ossia all’interno della propria religione dove spesso questa attività è guardata con sospetto od ostacolata. Per quanto riguarda il mondo islamico ci sono diverse istituzioni che si dedicano allo studio delle ramificazioni dell’islam comprese quelle tra sanniti e sciiti. Noi ci dedichiamo di più al dialogo tra le diverse religioni”.
E infine il punto che a me è sembrato particolarmente intrigante.
“Siamo comunque tutti all’interno di una società dove sono in atto forti processi di secolarizzazione. Anche in Iran esiste una tendenza secolarizzante. Noi non ci occupiamo direttamente di questo processo ma non possiamo non confrontarci con questa mentalità e con questa filosofia che per altro non valutiamo positivamente”.
Sarebbe bello approfondire ma l’affermazione ferma della nostra interlocutrice ce ne dissuade.

All’Istituto per il Dialogo Interreligioso ho lasciato il mio indirizzo.

Da allora mi sono arrivate parecchie mail firmate dal presidente dell’I.I.D. Mohammad Ali Abtahi (che credo, giostrando fra nomi a me ignoti e grafie sconosciute, di poter identificare come marito della signora Fahimeh Mousavi; l’autobiografia di Abtahi confermerebbe questa ipotesi)

Su di lui una notizia Ansa di ieri. Teheran, 16 giu – Mohammad Ali Abtahi, ex stretto collaboratore del presidente riformista Mohammad Khatami, e’ stato arrestato oggi.
Lo rende noto il suo staff. Intanto, la tv iraniana in lingua inglese Press tv, ha diffuso la notizia dell’uccisione di sette civili nella manifestazione di ieri a Teheran, senza precisare se i morti siano sostenitori dell’opposizione o meno. La notizia era stata diffusa questa mattina dalla radio ufficiale Radio Payam.
Così é riportata la notizia nel sito web di Mr. Abtahi che si può raggiungere da qui
Mr. Abtahi arrested Mohammad Ali Abtahi, former vice president during Mr. Khatami’s presidency and the advisor to Mr. Karroubi in the presidential election had been arrested today (Tuesday). Whenever he gets released, he will write here on his website.

Ne riporto ora lo scritto ricevuto il 3 giugno e che ho tradotto (collocherò la traduzione degli altri scritti che ho ricevuto in calce ai prossimi diari e ringrazio Laura NB per la revisione della traduzione).

30 maggio – Chi boicottò le elezioni precedenti, ora invita il popolo a partecipare.
Uno degli eventi politici più importanti in questa tornata elettorale é il calo dell’onda di boicottaggio delle elezioni.
L’enorme boicottaggio delle elezioni precedenti ha causato difficoltà negli ultimi quattro anni tanto da apparire un regalo incredibile per il presidente.
Parecchi giorni fa mi sono visto con un gruppo di studenti che aveva raccolto circa 500 firme per boicottare le precedenti elezioni. Ora molti di loro cercano di invitare la gente a votare. Anche uno di loro che era appena uscito di prigione e raccontava storie penose sul carcere.
Erano realmente addolorati per Mr. Masoud Dehghan, Mahdi Mashayekhi and Abbas Hakim.
La battaglia per il loro rilascio dal carcere è l’azione più importante in cui dovrebbero impegnarsi attivisti politici e civili e specialmente i candidati alle elezioni presidenziali.
Sfortunatamente durante i dibattiti pre elettorali, sono state ignorate le pressioni fisiche e psicologiche sugli studenti imprigionati. Ora essi sono realmente attivi per ciò che riguarda le elezioni.
La maggior parte del gruppo che ho citato sosteneva Mr. Karobi perché gli slogan sui diritti umani sono più chiari nelle sue parole che in quelle di altri. La maggior parte delle attiviste donne che fanno parte della campagna per un milione di firme, hanno incominciato ad invitare la popolazione al voto. Anche i media stranieri parlano di boicottaggio meno che nel periodo precedente.
E’ una buona opportunità. La presenza di due ben noti candidati riformisti può attrarre molti elettori con diverse opinioni e prevenire il boicottaggio in modo da non concedere la vittoria ad Ahmadi Nejad al primo turno. D’altra parte è del tutto evidente lo sforzo per promuovere un cambiamento in tutto il paese.
Possiamo vedere persino la frustrazione e la paura dei sostenitori di Mr. Ahmadi Nejad.
Gli attacchi fisici e mediatici agli annunci degli incontri dei riformisti mostrano questa paura.
Ora quasi tutta la nazione può sperare di avere un altro presidente per i prossimi quattro anni.

17 Giugno 2009Permalink

29 maggio 2009 – 2. Diario di viaggio, Iran 2009

2 – In Iran con i piedi per terra

  Dopo un inizio ingentilito da richiami poetici non posso sottrarmi a qualche notizia che si rende necessaria quando si vuole entrare in un Paese con i piedi consapevolmente per terra (o almeno io sento questa necessità e poiché il diario é mio … vi corrispondo). Altre informazioni seguiranno via via nella descrizione delle varie tappe e conto sulla collaborazione dei miei compagni di viaggio per integrarle e, se necessario, correggerle. ianni Novelli mi ha già inviato sue trascrizioni di alcuni incontri. Saranno utilissime e lo ringrazio. 

Fino al 1935 il nome ufficiale del paese era Persia, poi lo scià Reza Pahalavi volle attribuirgli il nome di Iran, terra degli Arii, per adattarsi in seguito all’uso di entrambe le denominazioni. 
L’Iran – o meglio la Repubblica Islamica dell’Iran – ha una superficie di 1.648.195 kmq (cinque volte e mezzo l’Italia che occupa una superficie di 301.338 kmq).
Gli abitanti oscillano, nei dati che ho trovato, fra i 66.429.284 e i 68.278.826.
L’Iran confina a Ovest con la Turchia e l’Iraq; a Nord con il Turkmenistan, l’Azerbaijan e l’Armenia, oltre al Mar Caspio; a Est con il Pakistan e l’Afghanistan, mentre a Sud è delimitata dal Golfo Persico e dal Golfo dell’Oman.
Il punto più basso é rappresentato dal mar Caspio (28 m) e il monte più alto raggiunge i 5.671 m..
Il nostro viaggio si é svolto a sud di Teheran, nella zona centrale del paese, sull’altipiano iranico, mantenendosi sempre al di sopra dei 1.000m di altezza.
La differenza di fuso orario rispetto all’Italia, 2 ore e 30 minuti (che diventano 1 ora e 30 minuti quando in Italia vige l’ora legale) é forse un indice più significativo della distanza che il numero dei chilometri..   

Altre informazioni saranno necessarie nel corso delle prossime puntate (e molte volte dovrò tornare alla ‘islamicità’ di quella repubblica).
Per ora mi limito all’immagine del mio primo impatto, l’obbligo del velo islamico così proposto nel primo albergo in cui siamo approdati.
Molte donne, oltre al velo, indossano lo chador, un terribile mantello normalmente nero che, nelle due occasioni in cui l’ho dovuto affittare e indossare, mi é sembrato uno strumento di tortura: se badavo a non inciampare mi scivolava dalle spalle, se lo tenevo fermo sulle spalle inciampavo.
Ma la tortura non é il velo in sé bensì la consapevolezza della possibilità dei guardiani della rivoluzione di ficcare il naso nella vita privata. Sono poliziotti senza divisa che, negli anni immediatamente successivi alla rivoluzione di Khomeini (1979), non avevano neppure un cartellino di riconoscimento.
La consapevolezza del danno che una nostra trasgressione avrebbe potuto nuocere a Diana, la nostra carissima guida locale, ha mantenuto i veli ben fermi sulla testa.

29 Maggio 2009Permalink