19 dicembre 2015 – Oggi in Francia ma non in Italia

Trascrivo da Riforma, Il quotidiano on-line delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi in Italia.
Segnalo che chi ‘faccia clic’ sul link che segnalo in calce potrà ascoltare il secondo intervento citato nel finale dell’articolo (in francese).

Voto in Francia, le chiese protestanti si interrogano

Claudio Geymonat  18 dicembre 2015

Le riflessioni di due pastori sulla recente tornata elettorale che ha visto il boom del partito Front National

La recente tornata elettorale francese, utile per nominare i nuovi presidenti delle regioni, ha rappresentato l’ennesimo campanello di allarme sulla crescita di un sentimento misto di paura e chiusura, non figlio soltanto dei recenti tragici fatti di cronaca, ma con radici profonde, radicate in questi ultimi vent’anni. Inclusione mai realmente avvenuta, crisi del mondo del lavoro, modelli sociali errati, sono molte le analisi possibili. Il rischio di una deriva razzista e autoritaria ha posto questioni serie anche al mondo delle chiese, quasi obbligate a “sporcarsi le mani” nell’agone politico, consuetudine questa radicata meglio alle nostre latitudini. Non fanno eccezione le chiese protestanti. Prevale una riflessione introspettiva, sul ruolo che le istituzioni religiose possano o debbano giocare al proprio interno e verso il mondo dei fedeli. Riportiamo di seguito due interventi.

Il punto di vista sulle recenti elezioni regionali francesi di Pierre Kopp, pastore dell’Unione delle chiese protestanti di Alsazia e Lorena (Uepal), regione storica roccaforte della destra:

«“Regionali: una sconfitta per tutti” è stato il titolo scelto dal giornale La Croix all’indomani di questa dolorosa tornata elettorale. Sulla stessa lunghezza d’onda le dichiarazioni di Xavier Bertrand che, dopo aver sconfitto Marine Le Pen in Picardia, ha espresso il grande disagio patito durante la campagna elettorale che lo ha portato a contatto con moltissime persone: “Non potrò mai scordare quanto accaduto in questi giorni, una sorta di colpo di tuono che annuncia un temporale imminente. E il prossimo colpo di tuono c’è da giurare che porterà il Front National al potere. Ciò ci obbliga a rimanere umili e a lavorare a testa bassa”.

Questa sensazione da ultima spiaggia che emerge dai titoli dei giornali e dalle parole di molti politici, investe anche le chiese protestanti.

Questa sconfitta morale e spirituale è anche nostra. Le nostre chiese sono state più attente rispetto al mondo politico nel vedere i sintomi che lungo questi ultimi vent’anni hanno portato alla crescita inesorabile di un partito razzista, molto votato anche fra i nostri fedeli? Siamo noi da esempio per quel che riguarda la democrazia interna e la chiarezza dei valori?

Personalmente ho trovato assai ambivalente, per non dire ambiguo, comunque insufficiente, il silenzio e la prudenza delle nostre chiese fra i due turni di votazioni.

All’interno dell’Uepal ad esempio, da un lato il Consiglio ha scelto di non rilasciare dichiarazioni a cavallo delle due tornate, e di conseguenza di risultare assente dai giornali regionali assai letti dai membri di chiesa, mentre dall’altro lato il presidente del medesimo Consiglio, Christian Albecker, spiegava ai lettori di La Vie, letto dai protestanti dell’Alsazia-Mosella, perché a suo avviso un voto per il Front National era incompatibile con la fede cristiana.

Non ci possiamo più sottrarre alla sfida inevitabile e urgente di riflettere, parlare e agire in nome di Cristo in Francia, come protestanti confessanti con parole e atti, e apportare il nostro contributo per un rinnovo radicale della democrazia e della società francese disorientata e sofferente come non mai. Senza ciò noi saremo corresponsabili di un domani ancora più scuro».

Joël Dahan, pastore della fondazione John Bost, istituzione che si occupa di accoglienza e supporto per le persone diversamente abili, nei due minuti de “Il pastore della domenica”, rubrica video ospitata dal sito “Regardprotestants.com” si è rivolto direttamente agli elettori di FN in questi termini: «Innanzitutto vorrei dirti che non ti posso giudicare perché non conosco la tua vita, non conosco le tue motivazioni. Ma non intendo rinunciare ai valori di libertà, uguaglianza e fraternità che sono il fondamento della nostra nazione».

http://riforma.it/it/articolo/2015/12/18/voto-francia-le-chiese-protestanti-si-interrogano

Questa sconfitta morale e spirituale è anche nostra

Così l’articolo. Io mi limito a un codicillo piccolo piccolo per segnalare che in questa sconfitta morale le chiese protestanti – in ecumenica unione con le chiese cattoliche – hanno mantenuto un silenzio che le pochissime responsabili voci che si sono alzate non hanno saputo rompere. O forse il disinteresse operativo ed efficace mostrato per l’esistenza giuridica di nati in Italia, rigettati per legge da un’esistenza riconosciuta (uno dei fondamenti dei conciliari vauro_015
‘segni dei tempi’?) non attiene all’etica
di un essere umano responsabile?
Così leggo il messaggio del silenzio
che ci viene  dalle chiese cristiane in Italia
ora in unione ecumenica non formale
e lascio a Vauro il seguito del mio commento.
Molti sono i modi per distruggere un
nuovo nato. Eliminarne uno che riguarda
un burocratico documento sarebbe facile.
Costerebbe  solo un ‘no’.
Ma non si fa.
L’obbedienza è di nuovo una comoda virtù

19 Dicembre 2015Permalink

10 dicembre 2015. Si spara a vista non alla cieca!

Ho dato un’occhiata a facebook e ho trovato l’articolo di cui ho condiviso la pubblicazione. I commenti dei lettori si sono concentrati sul problema delle armi, ma io (condividendo quanto scritto e preoccupatissima perché ho letto di una possibile manifestazione di piazza per solidarizzare con lo sparatore) ho formulato anche un’altra ipotesi che riporto dopo la notizia.

Spara a fidanzati scambiandoli per ladri: sfiorata tragedia nel padovano

PADOVA – Scambia due fidanzati per ladri e spara sulla loro auto: sfiorata la tragedia a San Giorgio a Pertiche, nel padovano. La ragazza è sotto choc, il ragazzo guarirà in 40 giorni. I carabinieri hanno denunciato l’uomo per lesioni personali aggravate, danneggiamento, esplosioni pericolose e porto abusivo di armi. Lo sparatore, 53 anni, stava tornando insieme a due amici da una battuta di caccia alle nutrie. Ha notato l’auto ferma in un luogo appartato, ha bussato sul finestrino per chiedere spiegazioni. Il ragazzo, spaventato, ha rimesso in moto l’auto. Il cacciatore ha risposto sparando e sfracellando il lunotto posteriore. Subito è scoppiata la polemica politica, come scrive il Mattino di Padova. Il segretario del Pd Massimo Bettin parla di questo episodio come il risultato della campagna “per un uso indiscriminato delle armi da fuoco”. Il riferimento evidente è alle tante esternazioni in tema del centrodestra. Gli risponde Daniele Canella, segretario della Lega di San Giorgio. “Episodio da condannare, ma caso emblematico dell’insicurezza che si respira nel nostro territorio”.

La mia ipotesi
Mi viene un’idea forse stramba forse no. Perché quel tale armato (cacciatore di nutrie? le nutrie si cacciano con il fucile?) si è avvicinato all’automobile ferma e ‘appartata’? Se temeva trattarsi di ladri che senso ha l’aver battuto sul finestrino? ‘Scusi, lei è un ladro?’ Stia fermo lì che chiamo i carabinieri!’ E se fosse stato un guardone con compari sghignazzanti al seguito? Non è una specie estinta che io sappia e, in tal caso, il comportamento sarebbe più coerente. Anche se non lo era i due poveri ragazzi potevano averlo identificato come tale e la fuga sarebbe stata una conseguenza prudenziale per evitare un vecchio rischio. Quante coppiette ora e in passato sono state se non aggredite, molestate?. E perché sparare su un’auto in fuga? Più ci penso e più, se l’articolo dice il vero, la faccenda è poco chiara oltre che ripugnante.

Link alla fonte

http://www.repubblica.it/cronaca/2015/12/09/news/spara_a_fidanzati_scambiandoli_per_ladri_sfiorata_tragedia_nel_padovano-129108167/?ref=HREC1-1

10 Dicembre 2015Permalink

9 dicembre 2009 Da “My Home is where I’m happy”, blog di Max Mauro

Il vuoto al di qua della barriera. Il razzismo nel calcio e le parole di un allenatore

Un giocatore dilettante di calcio viene squalificato per dieci giornate per insulti razzisti rivolti ad un avversario di origine africana. Capita in Friuli, campionato di prima categoria della provincia di Udine. Così riferisce il quotidiano locale, il Messaggero Veneto. Gli insulti razzisti sono consuetudine domenicale per i calciatori dilettanti di colore, ma il più delle volte non vengono sentiti dall’arbitro e pertanto non finiscono nel referto. Talvolta, raramente, l’autore dell’insulto è così sboccato e sfacciato che l’arbitro non può ignorarlo. Scatta così la squalifica di dieci giornate, introdotta dalla FIGC nel 2013 per dare un segnale “forte” di impegno contro il razzismo nel calcio a tutti i livelli, come sollecitato dalla UEFA. In realtà, questa norma è stata applicata in pochissime occasioni.

Nel corso degli ultimi due anni la squalifica per insulti razzisti ha colpito giocatori di diverse categorie dilettantistiche, e perfino un ex giocatore di serie A, Bonazzoli, esibitosi in insulti razzisti verso un arbitro di origine immigrata durante una partita di Serie D. A di là del numero di tesserati squalificati, il problema è diffuso, capillare. Il sistema calcio italiano è impregnato di una cultura razzista storicizzata e di pregiudizi verso tutto quello che non è “bianco, italiano, maschio, apparentemente eterosessuale”. Così si spiegano le uscite apertamente razziste del presidente della FIGC Tavecchio, di quelle altrettanto razziste di Sacchi (troppi neri nelle squadre giovanili), Eranio (i neri non san difendere), De Laurentis (meno male che erano olandesi, mica nigeriani), Paolo Berlusconi (il negretto Balotelli), Zamparini (lo zingaro Mutu), Marcello Lippi (nel calcio italiano non esiste razzismo) giusto per citarne alcuni entrati nelle cronache negli ultimi anni. E che dire delle dichiarazioni dell’ex presidente della Lega Nazionale dilettanti contro il calcio femminile (quattro lesbiche) e quelle omofobe dell’allenatore dell’Arezzo (in campo non voglio checche).

In questo triste contesto, la storia di Udine diventa significativa soprattutto per le dichiarazioni rilasciate al giornale locale dall’allenatore del giocatore squalificato. Per la cronaca, lo stesso giocatore aveva da poco completato una squalifica di quattro mesi, poi ridotta a due, per aver aggredito l’arbitro durante una partita ufficiale. Nonostante ciò, l’allenatore si perita di difenderlo rivoltando la questione, operando una capriola dialettica inspiegabile con gli strumenti della ragione. Lo fa facendo passare il giocatore razzista e tutti “noi bianchi” (nelle sue parole) come vittime.”Siamo arrivati al punto in cui a essere penalizzati siamo noi bianchi. I giocatori di altra razza possono insultarci passandola sempre liscia, mentre chi offende loro viene punito. Ma forse non è nemmeno il caso di arrabbiarci o meravigliarci, visto che stiamo mettendo in discussione perfino il presepio nelle scuole”.

E’ difficile immaginare un’argomentazione così limpidamente, profondamente razzista e allo stesso tempo diretta, comprensibile ai più e destinata a trovare purtroppo dei consensi. E’ un piccolo saggio di ignoranza storica che andrebbe inserito nei libri di scuola per aiutarci a capire cosa non va in una società che non (ri)conosce il razzismo. Non dimentichiamo che pochi mesi fa il parlamento italiano ha assolto, con voto trasversale, il senatore della Lega Nord ed ex-ministro Roberto Calderoli che aveva paragonato l’ex ministra Cecile Kyenge a una scimmia. Per i parlamentari di opposte fazioni politiche il suo non è un insulto che incita all’odio razziale e non merita di essere giudicato da un tribunale. Conta meno di una querela per diffamazione. A parte tutto questo, la dichiarazione dell’allenatore di Udine merita una riflessione e una risposta. Non può essere ignorata, perché è molto più grave degli insulti rivolti dal suo giocatore ad un avversario di colore e perché fa capire che il problema è più profondo di quello che appare.

Come per altri aspetti, il calcio funziona da amplificatore di sentimenti che scorrono sottopelle nella società e ne rappresentano i tratti meglio di molti trattati sociologi o editoriali giornalistici. In termini rozzi l’allenatore ci dice: il razzismo esiste, ma i razzisti sono “loro”. Per loro si intende tutto quello che è “altro” dall’idea di “italiano” trasmessaci dalla scuola, dalla televisione, dalla politica, dalla società. E’ altro chi ha un colore della pelle un pò più scuro, è altro lo straniero in generale, l’immigrato, l’extracomunitario. E’ ovvio che il nero è più “altro” di altri perché quella che è semplicemente una caratteristica somatica assomma nel discorso razzista tutte le altre categorie. E’ l’altro per  definizione. James Baldwin, in un illuminante saggio attorno a un suo viaggio in Svizzera negli anni cinquanta, sottolinea come il nero (the black man) cerca, utilizzando tutte le risorse a sua disposizione, di far sì che il bianco (the white man) smetta di considerarlo un’esotica rarità e lo riconosca come un essere umano. D’altra parte, ricorda Baldwin, è stato l’uomo bianco occidentale a trascinare violentemente il nero dentro la sua storia riducendolo in schiavitù e privandolo irrimediabilmente del suo passato. Baldwin aveva negli occhi la sua stessa storia famigliare, essendo figlio di un figlio di schiavi della Louisiana.

Dunque, le parole dell’allenatore. Come è possibile un ragionamento come il suo? Da dove nasce un tale vuoto culturale e umano? Perché i grandi veicoli di cultura popolare non fanno uno sforzo per spiegare la società ai suoi cittadini?

Tutte domande che reclamano risposta. Io credo che al di là delle squalifiche quello che può realmente portare un cambiamento, nello sport e nella società, è il dialogo. Il dialogo e l’educazione, intendendo per questo l’intervento formativo delle istituzioni. In questo caso specifico, perché la federazione invece di comminare una squalifica di dieci giornate non ne dà una di cinque ma obbliga lo squalificato a un breve percorso formativo per imparare l’ABC del razzismo. Che so, un incontro di tre ore nella sede della federazione con una persona esperta di interculturalismo e sport. Magari una persona di colore. O l’obbligo ad arbitrare una partita tra bambini di varie origini etniche. Se non si presenta all’incontro la squalifica viene raddoppiata. E’ un’idea, un suggerimento. Ovviamente, nel caso di Udine il percorso formativo sarebbe ancora più necessario per l’allenatore, visto che ha la doppia funzione di persona pubblica (rilascia dichiarazioni alla stampa, che gliele pubblica) e di educatore, visto che gestisce un gruppo di giovani uomini, molti ancora dei ragazzi. La formazione non solo sportiva è il nodo nevralgico del sistema sportivo. L’ignoranza combinata all’arroganza, l’arroganza data dall’ignoranza, trova numerossimi esponenti nel calcio, a tutti i livelli.

Il problema riguarda non solo gli appassionati di calcio e chi lo pratica e lo gestisce, e non è purtroppo nuovo. Quante volte abbiamo dovuto sentire affermare che “sì, insomma, se mi dicono che son grasso mica posso accusarli di razzismo, e cosa vogliono questi, un insulto è un insulto, non c’è differenza tra dare del ciccione a uno o dirgli sporco negro”. Un insulto è un insulto, non c’è differenza. Questo è l’assunto di molte persone, anche laureate, anche impegnate nel sociale. Non è verbo che attecchisce solo nelle menti di moltitudini annebbiate da giornate passate con la televisione accesa e l’occhio alle ultime offerte per un nuovo telefono cellulare. E’ un’idea che ha a che fare con la mancanza di istruzione basica, e di informazione.

Un insulto razzista non è un insulto come un altro. Qualsiasi insulto è un gesto violento, che vuole offedere e urtare chi lo riceve. Ma un insulto personale è un insulto personale, diretto alla persona o al massimo ai suoi familiari. Un insulto che fa riferimento a un’origine, alla provenienza e soprattutto un insulto che usa delle caratteristiche somatiche come il colore della pelle per definire qualcuno (in termini espressamente spregiativi) ha un carico di violenza diverso. Soprattutto, ha una storia che non può essere ignorata. E’ un insulto che riguarda moltitudini. Riguarda molte persone che possono sentirsi comprensibilmente toccate da questo attacco anche senza riceverlo direttamente. Questa è solo una approssimazione dell’insulto razzista. Un tentativo di mirare a un uditorio dall’udito malfunzionante o parzialmente disconnesso come quello rappresentato dall’allenatore sopracitato. L’insulto razzista è solo una componente, la più immediatamente visibile, del razzismo che pervade la società. Per questo non può essere ignorato.

L’insulto razzista va compreso nel quadro di una società, quella italiana, che ha disconosciuto la sua criminogena storia coloniale e le leggi razziali del Fascismo (quanto spazio hanno questi temi nei manuali di storia in uso nelle scuole italiane?) e che ha chiamato immigrati perché ne aveva e ne bisogno, ma non ha permesso loro e ai loro figli di diventare altro che lavoranti manuali e quando i lavori umili non sono più disponibili o diventano estremamente volatili, lascia loro come destino, spesso, solo l’emarginazione.

E’ facile dar la colpa a Salvini, alla sua esposizione mediatica, all’arsenale di surreali parabole che infila una dietro l’altra per manipolare la realtà e nel fare degli immigrati, negli stranieri, il capro espiatorio di tutti problemi di questa terra. E’ vero, non si può negare la pericolosità di simili discorsi. Allo stesso tempo, non va sottovalutata l’importanza della televisione nel dare insistentemente voce a messaggi allucinati e renderli “popolari”. Ma questa è solo una parte della storia. Le parole uscite dal senno dell’allenatore di Udine segnalano un salto di qualità nel razzismo popolare perché identificano una forma di “vittimismo” inedita, almeno in Italia.

Il contesto generale di crisi economia e sociale (che non è problema specifico dell’Italia, va detto, ma trova qui particolare enfasi), gli attacchi di Parigi, l’idea di un Islam necessariamente ostile reiterata a destra e a manca, contribuiscono a creare un tappeto emotivo di insicurezze dove chi è predisposto ad accettare discorsi razzisti ne diventa latore entusiasta e sordo alla ragione. E riesce perfino a inventarsi vittima. Ma vittima di cosa? E’ questo che è difficile da comprendere. Serve uno sforzo condiviso per arrivare alle sorgenti di ignoranza. Per esempio, gli stessi che si scandalizzano perché un preside mette in discussione l’opportunità di canti natalizi di una sola religione nella scuola sono i primi ad iscrivere i propri figli in scuole con basse presenze di immigrati. Il pregiudizio è loro, non di chi cerca forme di dialogo che fanno parte della storia di tutte le società, da che mondo e mondo. Uno sforzo andrebbe anche diretto a comprendere che lo sport, oggi più che mai, va inteso come fenomeno culturale che ha delle implicazioni nel modo in cui vediamo e capiamo il mondo. Il calcio non può essere lasciato a chi non capisce e non è interessato a fare della società un posto migliore per tutti. Parafrasando quanto scrisse C.R.L. James nel suo straordinario studio sul cricket e il post-colonialismo nei Caraibi potremmo chiederci: cosa capisce di calcio chi solo di calcio sa?

https://maxmauro.wordpress.com/2015/12/06/il-vuoto-oltre-la-barriera-il-razzismo-nel-calcio-e-le-parole-di-un-allenatore/

«Max Mauro è nato a Frauenfeld (Svizzera) nel 1967, figlio di emigranti friulani. Scrittore, giornalista, ricercatore dell’umano paese ed ex cantante punk, si interessa di migrazioni, culture di confine, culture giovanili, sport critico, viaggi (preferibilmente in bicicletta). Ha lavorato come giornalista in Venezuela e raccolto storie di migranti in Sud Africa e Germania. Nel 2013 ha completato un dottorato di ricerca presso il Centre for Transcultural Research and Media Practice di Dublino, Irlanda, con uno studio etnografico sullo sport e i giovani di origine immigrata. Da ottobre 2013 lavora come Associate Lecturer presso la School of Communications and Writing, Southampton Solent University. A febbraio 2014 ha ricevuto una borsa di ricerca della FIFA per condurre uno studio su giovani calciatori di origine immigrata e senso di appartenenza in Italia»

9 Dicembre 2015Permalink

6 dicembre 2015 – Alberto Solesin “No all’odio”

6 dicembre 2015 – Da La Repubblica
Alberto Solesin: “La vita senza Valeria è un peso impossibile ma dico no all’odio non siamo vendicatori”

Il padre della ragazza uccisa al Bataclan: “Se la mia famiglia ha dato un segno di civiltà vuol dire che non è morta invano”  di JENNER MELETTI

VENEZIA – Le calli di San Marcuola, poi via verso Rialto. “In casa no, lì c’è mia moglie Luciana che ci mette più tempo di me, a curare le ferite”.
Alberto Solesin, 63 anni, è il padre di Valeria, la ricercatrice uccisa al Bataclan di Parigi. Nei giorni della camera ardente, tanti hanno scritto che la famiglia Solesin, con la dignità mostrata di fronte alla tragedia, “ha restituito alla città l’orgoglio di essere veneziani e cittadini del mondo”.

Signor Solesin, che cos’è la dignità?
“È la capacità di portare pesi impossibili con le spalle dritte. Portare i pesi della sorte senza lamentarsi, senza chiedere, rimanendo autonomi e coerenti con le proprie idee di solidarietà. Vede, io sono dirigente scolastico, mia moglie è insegnante. Lavorare nella scuola ci ha aiutato, perché pur nelle difficoltà la scuola resta una palestra di civiltà “.

Tanti la fermano e la salutano, in queste calli. Davvero i veneziani sono orgogliosi di voi.
“Se io, mia moglie e mio figlio abbiamo potuto dare un segno di civiltà, ecco – ora uso una parola che sembra impossibile – ne sono felice. Non posso certo dire che la morte di mia figlia sia meno gravosa ma ci fa sperare che non sia stata del tutto inutile. Posso dire che forse così Valeria ha avuto una ricompensa”.

Lei, già davanti all’obitorio parigino, ha detto: “Non sono una persona capace di odiare. Io e Luciana crediamo nel valori che non dividono le persone “.
“Noi siamo sopraffatti dal dolore, non c’è nemmeno il bisogno di dirlo. Ma io non faccio il vendicatore di professione, nella mia vita ho seguito altri percorsi. Posso odiare una singola persona ma non un popolo, una religione. Certo, qualche problema si risolve buttando qualche bomba, ma la faccenda è più complessa. L’ho capito già davanti all’obitorio di Parigi, c’erano facce arrivate da tutto il mondo, compreso quelle del Nord Africa. È allora che ho capito che l’addio a Valeria doveva essere qualcosa che unisse tutti, con una cerimonia civile, non religiosa ma neppure laica, perché ormai questa laicità viene intesa come nemica della religione. Qualche critica l’ho ricevuta, da chi dice che siamo in guerra, che bisogna difendere la cristianità, che bisogna scegliere da quale parte stare…”.

La strage di Parigi è stata compiuta con una crudeltà efferata. Come bersaglio sono stati scelti i giovani.
“Alcuni degli assassini si sono tolti la vita. Io mi auguro con tutto il cuore che questa banda di criminali di guerra – che seguono un approccio folle di affermazione e seguono principi secondo i quali tutti coloro che non accolgono pienamente il Corano sono nemici da abbattere – siano duramente puniti. Ma non si può coinvolgere una religione, come tanti vorrebbero fare. Del resto, anche la nostra civiltà non è così antica. Fino agli anni ’60 c’erano il delitto d’onore, i matrimoni riparatori dello stupro, le nozze combinate…”.

Quello della sua Valeria è stato il primo funerale in piazza San Marco dopo quello di Daniele Manin nel 1868. Qualcuno ha criticato una cerimonia così solenne.
“Noi siamo persone normali e può immaginare l’imbarazzo a parlare in una piazza come quella. Ma straordinarie sono state le circostanze. Valeria era l’unica italiana uccisa in una tragedia così grande. C’era emozione a Venezia e in tutto il Paese. Non siamo stati noi della famiglia a chiedere San Marco. La proposta è arrivata dal sindaco e dalle altre autorità. Noi abbiamo fatto la proposta della cerimonia civile. Se poi al funerale in piazza arriva il presidente della Repubblica, questo significa che il dolore e la voglia di starci vicini sono stati davvero forti”.

Una sepoltura a terra, accanto al nonno. Un grande mazzo di fiori inviato da “La Maire de Paris. Les élus del Paris”. Come si riesce a vivere, dopo una perdita come questa?
“Io sono tornato a lavorare due giorni dopo il funerale. Questi per la scuola sono giorni delicati. Certo, in ogni momento non puoi pensare ad altro che alla figlia, con la volontà, quasi impossibile, di razionalizzare una cosa tremenda. Ma sono andato a dirigere la scuola perché non avevo alternative. Dovevo restare a casa a piangere? Oppure prendermi una vacanza? Io in vacanza, sentendomi male dentro per essere in ferie “grazie” a una disgrazia come questa? Guardi, stasera esco con mia moglie, a cena a casa di amici. Ci sono tanti altri genitori come noi, “generazione Skype”, che hanno i figli sparsi in Europa e nel mondo”.

Dopo tanta attenzione, non c’è il rischio che Valeria sia dimenticata?
“Non certo da noi. Ma che riposi in pace. Io e Luciana non vediamo l’ora che il clamore cessi. La solidarietà ci ha fatto bene. L’università che dedica un’aula a Valeria, un ospedale di Emergency che avrà il suo nome. Ma quando in Consiglio regionale ci hanno chiamato a un incontro con le scuole sulle violenze nel mondo abbiamo detto no, non ce la sentiamo. Noi siamo solo i genitori di Valeria, una ragazza che sognava tenendo i piedi per terra. Non vogliamo diventare altro”.

http://www.repubblica.it/cronaca/2015/12/06/news/s-128900454/?ref=fbpr

7 Dicembre 2015Permalink

6 dicembre 2015 – Natale e scuola. Fanatici disturbatori

Una circolare

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Si può leggere dal link la dignitosa circolare di Marco Parma, dirigente della scuola di Rozzano,  che per sé è una risposta alla canea fanatica, strumentalizzata da leghisti e non solo (chi potrà dimenticare la canterina già ministra Gelmini!). e ricopio alcuni articoli con relativi link

Senza commenti

2 dicembre 2015  –  da Famiglia cristiana

Sono prete da vent’ anni e, anche in tempi non sospetti, ho sempre suggerito ai fedeli di realizzare a casa propria il presepio o l’ albero di Natale da molti, erroneamente, ritenuto un simbolo pagano e che invece ha radici molto più cristiane di quanto si creda. Lo stesso Babbo natale, pur travisato nei segni pastorali dalla Coca-Cola, non è altro che san Nicola vescovo. In qualche zona d’ Italia è santa Lucia che porta i doni e poi, a chiudere il periodo natalizio c’ è la Befana, storpiatura lessicale di Epifania che, invece di indicare il Cristo che si manifesta ai magi, identifica una vecchina dall’ aspetto un  po’ stregonesco che non proviene certamente dall’ambiente cristiano. Tutte tradizioni che ho sempre accompagnato perché possono aiutare a vivere la dimensione interiore del Natale, ma che non si identificano con il mistero del Dio fatto uomo. Lo possono indicare, ricordare, favorire, rappresentare ma il “Verbo che si è fatto carne”, come scrive l’ evangelista Giovanni, è una manifestazione dell’ amore di Dio, un segno di salvezza che si coglie nel profondo di sé e si traduce nelle opere quotidiane. L’ identità del credente non coincide con i segni esteriori, ma è rivelata dalla la testimonianza nella vita: inizio a pensare che in molti difensori delle tradizioni natalizie questa dimensione sia carente.

Se sostenere i segni della tradizione significa innescare battaglie, generare rabbia e odio, innalzare muri certamente più politici che religiosi, da uomo e da cattolico dico chiaramente che non ci sto. Che eco di messaggio cristiano e di maturità può giungere ad un ragazzo che vede accapigliarsi genitori, dirigenti scolastici, docenti, politici nel presunto nome di colui che è segno supremo di amore? «Per fare la pace – ha detto papa Francesco in occasione di una preghiera per la pace del giugno 2014- ci vuole coraggio, molto di più che per fare la guerra. Ci vuole coraggio per dire sì all’ incontro e no allo scontro; sì al dialogo e no alla violenza; sì al negoziato e no alle ostilità; sì al rispetto dei patti e no alle provocazioni; sì alla sincerità e no alla doppiezza. Per tutto questo ci vuole coraggio, grande forza d’ animo». Le polemiche prenatalizie di quest’ anno non aiutano, confondono i piani della discussione solo per generare reazioni viscerali. Il vescovo di Padova è finito nel tritacarne per aver messo in chiaro che esiste una gerarchia di valori: se il valore da salvaguardare è quello di creare ponti e non muri (l’ ha detto il Papa) come posso sacrificarlo per innescare battaglie dolorose soprattutto per gli occhi più giovani che guardano curiosi come stiamo costruendo il loro futuro? Nessuno rinuncia alla sua identità, ci mancherebbe, ma l’ identità è scritta nella testimonianza della vita ancor prima che nei segni esteriori. Chi è cristiano sa di essere erede del dono dei martiri che hanno raccontato la loro identità rifiutando sempre l’ approccio violento. Chi si dichiara cristiano dev’ essere consapevole che a Pietro è stato chiesto di riporre la spada nel fodero e che la massima manifestazione di identità è raccontata dalla fragilità di una persona con i chiodi nelle mani e nei piedi, quando avrebbe potuto dare segno di una potenza distruttiva e non gli sarebbero certo mancati i titoli per far valere la sua identità. Un passo indietro, quello di Cristo in croce. Il passo che, per chi crede, ha meritato la Salvezza.

http://m.famigliacristiana.it/blogpost/presepe-si-presepe-no-natale-e-polemiche-io-prete-non-ci-sto-.htm

 

Giorgio Cremaschi . Il presepe arruolato in guerra   da micromega

Sono ateo e padre di figlie non battezzate, ma ho sempre fatto il Presepe. Come Luca Cupiello nella commedia di Eduardo, il Presepe mi piace perché trovo bello guardarlo e soprattutto costruirlo. Ora sono in dubbio se farlo ancora.

Ho visto un presepe brandito come arma da Matteo Salvini davanti alla scuola di Rozzano. Ho visto l’onorevole Gelmini cantare “Tu scendi dalle stelle”come inno di lotta sempre davanti alla stessa scuola. Ho letto il commento del sottosegretario all’istruzione Faraone, indignato per la rinuncia ai nostri valori. Mi pare cha Matteo Renzi abbia usato toni simili. Una crociata politico mediatica ha così occupato il centro dei talkshow.

Su un fatto praticamente inesistente, il normale rifiuto di un preside a due mamme di organizzare fuori orario e fuori programma canti di Natale, non dunque la cancellazione della celebrazione della festa, si è costruito uno scenario di guerra. Ora non mi stupisce che i Mass media italiani siano capaci di costruire autentici falsi e di far ruotare attorno ad essi tutto il confronto politico e di opinione pubblica che loro stessi alimentano. Nelle guerre la macchina del falso è la prima a mettersi in moto. Così i manifestanti per l’ambiente a Parigi sono stati accusati di profanare il sacrario delle vittime del terrorismo, quando è stata la polizia di Hollande a caricarli brutalmente e a calpestare i fiori. Ci sono video e foto che documentano questo ma il nostro giornale e telegiornale unico ha titolato sulla vergogna degli oltraggi perpetuati dai manifestanti. Franti rise al racconto dei funerali del re, racconta il libro Cuore con lo stesso sdegno.

Lo stessa macchina del falso ha dunque prodotto il caso di Rozzano, chiarendo subito che lo scopo era quello di aprire un dibattito sui nostri valori e sul coraggio di difenderli. Di fronte ai terroristi che uccidono gridando Allah Akbar non festeggiare il Natale come si deve diventa cedimento di fronte al nemico, collaborazionismo persino. Il figlio di Luca Cupiello, che nella già citata commedia afferma più volte che il Presepe non gli piace, diventa l’archetipo del traditore.

Il Presepe diventa così un’arma della guerra identitaria che si scatena in difesa della nostra civiltà, arma che si può imbracciare senza scandalo. Il vescovo segretario della Cei Nunzio Galantino è abituato ad usare toni forti ed è subito sceso in campo in difesa del Natale minacciato. Ma non ha sentito il bisogno di dire nulla contro questo uso violento del Presepe. Ma come, l’invenzione di S. Francesco viene usata per bassa speculazione politica ed elettorale e il vescovo Galantino non ha il coraggio di dire: giù le mani dal Presepe?

Tutto questo mi spaventa e non tanto perché così si fa distrazione di massa dai problemi veri. Questo è ovvio, ma a me spaventa proprio ciò verso cui il regime mediatico sta orientando l’opinione pubblica: si vuole prepararla alla necessità e alla inevitabilità della guerra: “Vogliono abolire il Natale per farci festeggiare il Ramadan e vorremmo cedere come il vile preside di Rozzano? Oppure vogliamo combattere per i nostri valori?”. Sono i nostri mostri di sempre che vengono così evocati e a me dispiace molto che cerchino di nasconderli tra le statuette del Presepe.

I terroristi legati all’Isis, per quanto feroci, non hanno certo la forza per far regredire alle guerre di razza e di religione le nostre società. Se questa regressione si manifesta lo stesso, è per cause sociali politiche e culturali che stanno tutte qui da noi e la caccia alle streghe di Rozzano lo dimostra.

Giorgio Cremaschi   (2 dicembre 2015)

http://blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2015/12/02/giorgio-cremaschi-il-presepe-arruolato-in-guerra/ 

Il passo avanti del Vescovo di Padova e l’effetto presepe. di Andrea Grillo

Ci sono, nelle tradizioni, logiche profonde e complesse, che vanno rispettate proprio nella loro complessità. Anche la tradizione cristiana, e in particolare quella cattolico-romana, non sfugge a queste logiche. Quasi 70 anni fa un parroco diede fuoco a Babbo Natale, sul sagrato della Chiesa, per “difendere” Gesù bambino dai “culti pagani”. Questo episodio diede lo spunto, a C. Lévi-Strauss per scrivere un bell’opuscolo, dal titolo “Babbo Natale giustiziato” nel quale metteva in luce la profonda continuità tra culto pagano e culto cristiano, sulla base della antica festa del Sol invictus, dove i temi della luce, delle piante sempreverdi e dei “vecchi/morti” e dei “bambini/neonati” si intrecciano strutturalmente.

Ora, in questo contesto, quando la polemica diventa vuota e formale, possiamo trovare il paradosso per cui un Presidente di Regione come Zaja, la cui sensibilità verso lo straniero è proverbiale, diventi il “difensore del presepe”, pretendendo di far passare il Vescovo di Padova come un “nemico del popolo”.

La questione decisiva, in tutto questo, è ciò che da tempo chiamo “effetto presepe”. Vorrei provare a spiegarlo brevemente. In tutte le grandi tradizioni, infatti, i passaggi decisivi – nel nostro caso cattolico, il Natale e la Pasqua – diventano “luoghi di riconoscimento”, non solo religioso, ma culturale e sociale. “Fare il presepe” a Natale, e “visitare i sepolcri” a Pasqua diventano luoghi di identità. Ma, proprio in questo passaggio, le tradizioni si mettono a rischio, perché concentrano in un punto tutti i “messaggi” e proprio per questo “sovraccarico” rischiano di perderne il senso.

Il presepe, in modo esemplare, costituisce un caso tipico di questa “tentazione”. Presepe dice, in latino, “mangiatoia” e costituisce la “versione di Luca” del mostrarsi del Salvatore. Che si rivela ai pastori irregolari e non ai buoni credenti regolari del tempo. La tensione, in quel testo di Luca, è tra la grandezza del Signore e la piccolezza umana che può riconoscerlo solo nella irregolarità dei pastori. Nella versione di Matteo, invece, la dose è ancora rincarata: la tensione è tra la stella e i magi che la seguono, nella loro condizione di stranieri, e la ostilità viscerale dei residenti. Il “presepe”, mescolando tutti questi messaggi, rischia di non aumentare, ma di diminuire la forza della tradizione, riducendola a un “soprammobile” borghese. Il presepe significa che ultimi, stranieri e irregolari riconoscono Gesù, mentre Governatori e residenti regolari cercano di ucciderlo. Esattamente come, a Pasqua, sanno riconoscere Gesù una donna dai molti mariti, un handicappato grave come il cieco e un morto come Lazzaro. Queste sono le categorie privilegiate.

Di fronte al “significato” del presepe, è chiaro che quello evocato dal Vescovo di Padova è un passo avanti e non un passa indietro. Mentre ciò che il Governatore del Veneto difende come un soprammobile, è la propria più clamorosa smentita e contestazione. Forse è venuto anche per lui il momento della conversione?

Ciò che il Vescovo di Padova ha chiesto, con parole pacate, è un passo avanti nel significato autentico del Presepe. Ecco le sue parole: «Fare un passo indietro non significa creare il vuoto o assecondare intransigenze laiciste, ma trovare nelle tradizioni, che ci appartengono e alimentano la nostra fede, germi di dialogo. Il Natale, in questo senso, è un esempio straordinario, un’occasione di incontro con i musulmani, che riconoscono in Gesù un profeta e venerano Maria». Solo con un piccolo passo indietro si fa un grande passo avanti. Nella pura tradizione cristiana. E non è un caso che i Governatori oppongano resistenza.

http://www.cittadellaeditrice.com/munera/il-passo-avanti-del-vescovo-di-padova-e-leffetto-presepe/

6 Dicembre 2015Permalink

1 dicembre 2015 – Calendario di dicembre

1 dicembre 1955 –   Rosa Parks si rifiuta di cedere a un bianco il suo posto in autobus.  – Alabama (Montgomery Bus Boycott)
1 dicembre 2000 –   Il giudice Guzman dispone il processo contro Pinochet in Cile
1 dicembre 2013 –    Rogo fabbrica cinese a Prato
2 dicembre 1968 –    La polizia uccide due braccianti ad Avola
2 dicembre 2015 –    Strage a San Bernardino – California
3 dicembre 1984 –   India, disastro di Bhopal. Muoiono più di 3800 persone
4 dicembre 1975 –    Morte di Hanna Arendt
5 dicembre 1349 –    Norimberga strage ebrei accusati di essere responsabili della peste del 1348.
5 dicembre 2000 –   Italia: ergastolo per due generali della dittatura argentina
5 dicembre 2013  –   Morte di NELSON MANDELA
6 dicembre 1975 –   Roma: prima manifestazione del movimento femminista
6 dicembre 1990 –    Casalecchio di Reno. Strage liceo Salvemini
6 dicembre 2015  –   Primo giorni di Hanukkah (Chanukach)
7 dicembre 1965 –   Si chiude il Concilio Vaticano II
8 dicembre 1978 –   Viene fermato il golpe di Junio Valeria Borghese
9 dicembre 1987 –   Israele: inizio della prima Intifada
10 dicembre 1948 – Firma della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo
11 dicembre 1997  –  L’Unione europea firma il protocollo di Kyoto
12 dicembre 1969 –  Milano: strage alla Banca dell’agricoltura di piazza Fontana
13 dicembre 1294 –  Celestino V rinuncia al papato
14 dicembre 1995 –  Bosnia: firma degli accordi di Dayton
14 dicembre 2015 –  Ultimo giorno di Hanukkah (Chanukach)
15 dicembre 1972 –  Approvazione della legge 772 sull’obiezione di coscienza
15 dicembre 1969 –  Morte Giuseppe Pinelli
18 dicembre 1994 –  Si dimette Silvio Berlusconi (primo governo)
19 dicembre 2001 –   In Argentina inizia il carcerolazo contro il governo 20 dicembre 2008 –  Morte di Piergiorgio Welby
22 dicembre 1988 –  Brasile: uccisione di ‘Chico’ Mendes
23 dicembre  570 (?)–  Nascita del profeta Muhammad
23 dicembre 1899 –  Nascita di Aldo Capitini
24 dicembre 1979 –  Le truppe sovietiche invadono l’Afghanistan
25 dicembre 1989 –  Romania: viene giustiziato Nicolae Ceausescu
26 dicembre 1965  –  Rapimento di Franca Viola
26 dicembre 1996  –  Affonda un battello di migranti a Portopalo – 283 morti
27 dicembre 2007 –  Uccisione di Benazir Bhutto
29 dicembre 1908 –  Terremoto di Messina
29 dicembre 1809 –   Il 7° cavalleggeri stermina gli ultimi Lakota Sioux
30 dicembre 2006 –  Impiccagione di Saddam Hussein
31 dicembre 1991 –   Si dissolve ufficialmente l’Unione Sovietica

1 Dicembre 2015Permalink

30 novembre 2015 – Gad Lerner e il caso Shalabayeva

Di fronte a tante notizie brutte o sciocche (e a volte meritevoli di entrambi gli aggettivi) leggere considerazioni intelligenti fa bene. Di questo caso avevo scritto il 27.
Ora riporto volentieri la nota di Gad Lerner che ho letto nel suo blog

Sequestro Shalabayeva, una vergogna italiana firmata Alfano e Scaroni che si ritorce contro l’interesse nazionale

sabato, 28 novembre 2015

L’indagine della Procura di Perugia che sta rivelando il gran numero di soprusi, falsificazioni e connivenze attraverso cui nella primavera del 2013 l’Italia si assoggettò al volere del presidente-dittatore del Kazakistan, Nursultan Nazarbaev, difficilmente risalirà ai vertici che di quella decisione portano la responsabilità. Mi impressiona, sui giornali di oggi, la testimonianza del pilota dell’aereo privato su cui furono caricate a forza Alma Shalabayeva e sua figlia, mentre ancora gridavano la violazione del diritto di cui erano palesemente vittime. Il pilota lavorava abitualmente per l’Eni sulla rotta fra Italia e Kazakistan. L’ente petrolifero, all’epoca guidato da Paolo Scaroni, appare in tutta evidenza come il referente primo di Nazarbaev. Noi tutti sappiamo il peso che l’Eni oggettivamente esercita nella politica estera italiana (c’è chi lo definisce “la vera Farnesina”). Non ci scandalizza. Ma non potevamo immaginare che tale influenza si allargasse a imporre operazioni illegali sul territorio nazionale passando dal Viminale, dai servizi segreti, dalla polizia di Stato e da una magistrata compiacente. La chiameranno ragion di Stato? Alfano come di prammatica ha subito scaricato sui sottoposti la responsabilità dell’accaduto. Il ruolo, anche operativo, dell’Eni per quanto fosse intuibile emerge in pubblico solo a due anni di distanza dal fattaccio. Se questa è la nostra politica estera “parallela”, non dichiarabile alla luce del sole, ho l’impressione che si ritorca contro l’interesse nazionale.

Per raggiungere la fonte:
http://www.gadlerner.it/2015/11/28/sequestro-shalabayeva-una-vergogna-italiana-firmata-alfano-e-scaroni-che-si-ritorce-contro-linteresse-nazionale

30 Novembre 2015Permalink

27 novembre 2015 – Il caso Shalabayeva, sequestro di stato. Un grazie a Emma Bonino

Da La Repubblica del 26 novembre

ROMA – Sequestro di persona: è l’accusa che i pm di Perugia contestano al capo dello Sco Renato Cortese, al questore di Rimini Maurizio Improta, ad altri 5 poliziotti e al giudice di Pace Stefania Lavore per il caso Shalabayeva, la moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov espulsa dall’Italia nel 2013. La donna fu prelevata dagli agenti di polizia che cercavano il marito.

Cortese era allora capo della Mobile di Roma, Improta – che si occupò dell’espulsione – il capo dell’ufficio Stranieri della Capitale.  Con la stessa accusa, nel registro degli indagati della procura perugina – competente ad indagare in quanto è coinvolto un giudice del distretto di Roma – compaiono poi Luca Armeni e Francesco Stampacchia, all’epoca rispettivamente dirigente della sezione Criminalità organizzata e commissario capo della Mobile, Vincenzo Tramma, Laura Scipioni e Stefano Leoni, tre poliziotti in servizio presso l’ufficio Immigrazione.

Gli uomini della Mobile e dell’Ufficio Stranieri si presentarono nella notte del 29 maggio del 2013, insieme ad altri agenti, nella villa di Alma Shalabayeva a Casal Palocco, con un mandato di cattura dello Stato kazako rilanciato dall’Interpol. La donna, con un rapido procedimento che ha visto anche il timbro del procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, fu espulsa dall’Italia a bordo di un aereo pagato dall’ambasciata kazaka insieme alla figlia di sei anni, dopo un passaggio nel Centro di identificazione ed espulsione. Una sentenza della Cassazione del luglio del 2014 ha poi stabilito che madre e figlia non dovevano essere espulse dall’Italia.

Il governo annullò l’espulsione. Quando scoppiò il caso, il governo annullò il decreto di espulsione e iniziò la trattativa diplomatica, condotta dall’allora ministro degli Esteri Emma Bonino, per il ritorno di Alma e della figlia in Italia.

Le dimissioni del capo di Gabinetto del Viminale. Ma si tratta di una storia ancora oscura, in cui non venne mai fuori il reale ruolo del Viminale e le eventuali pressioni del governo kazako, con cui il nostro Paese mantiene rapporti economici molto stretti. Il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, negò di essere stato avvisato dell’operazione, e soprattutto negò di aver ricevuto delle pressioni dai diplomatici kazaki. La responsabilità politica, se così si può dire, ricadde sul capo di Gabinetto del ministro, Giuseppe Procaccini, che si dimise.

La cronaca del presunto sequestro. L’operazione inizia nella notte del 29 maggio 2013, quando i poliziotti della Mobile e dell’ufficio Immigrazione di Roma, guidati rispettivamente da Cortese e Improta, si presentano nella casa dove viveva la moglie del dissidente kazako. Prendono Alma e il cognato Bolat, e li portano in un Cie. La sera dopo liberano Bolat perchè ha un documento di uno stato Ue considerato valido. Mentre considerano falso il passaporto centrafricano di Alma che resta nel Cie.

La consulenza sul passaporto. L’ufficio Immigrazione fece una consulenza sul passaporto dichiarandolo falso. La consulenza fu determinante per l’espulsione. La Farnesina, per voce del ministro degli Esteri Emma Bonino, negherà di essere stata coinvolta nella valutazione del passaporto. La consulenza fu smentita dallo stato centrafricano che dichiarà la validità del documento.

L’udienza di convalida del “trattenimento” dal giudice di Pace. Il 31 mattina si svolge l’udienza di convalida del trattenimento (non dell’espulsione), nel Cie. Gli avvocati della donna dello studio Vassalli-Olivo vanno in udienza davanti al giudice di Pace Stefania Lavore, ma non riescono a parlare con la loro cliente: gli viene detto che possono fare il colloquio con la donna solo alle 15. Ma quel colloquio non avvenne mai. In quel momento tutti erano concentrati al “trattenimento” nel Cie, non all’espulsione. In casi normali, per l’espulsione ci vogliono mesi, e certo non c’è un aereo privato che preleva gli espulsi.

Il nulla osta della Procura. Gli avvocati, avvisati per tempo dal capo della Mobile che era stato comunque deciso da qualcuno di espellere Alma, si recarono in Procura nel tentativo che fosse evitato il loro rilascio del nulla osta. Che, invece, fu concesso a tempo record.

La perquisizione. Mentre si svolge in mattinata l’udienza dal giudice di Pace, una squadra di poliziotti torna nella casa di Alma, dove ci sono Bolat, sua moglie (sorella di Alma), e loro figlia. Ci sono anche la figlia di Alma, e la coppia di inservienti. Arrivano altri legali sempre dello stesso studio che assistono alla perquisizione e ad alcuni sequestri di documenti e materiale.

La rissa per il verbale. I legali chiedono che i verbali della perquisizione e dei sequestri vengano fatti nella casa. I poliziotti dicono di non avere i computer, mettono tutto in un sacco, e, dopo una accesa discussione con gli avvocati, si recano negli uffici della Questura di San Vitale portando Bolat. Gli avvocati sono indotti così a seguirli, lasciando la casa (e la figlia di Alma) senza la presenza di un legale.

Il blitz: altri agenti prelevano la figlia. Mentre il gruppo di poliziotti-Bolat-legali se ne va in Questura, arriva in quella casa un’altra squadra di agenti, preleva la coppia di inservienti, la sorella di Alma e la bambina, e li accompagnano all’aeroporto dove nel frattempo viene portata dal Cie anche Alma. Chiedono alla Shalabayeva se vuole lasciare la figlia in Italia, affidandola agli inservienti, o se vuole portarla con sè: la donna sceglie di non separarsi dalla figlia. Madre e figlia vengono fatte salire su un aereo affittato dall’ambasciata kazaka e rimpatriate ad Astana.

Il plauso dell’avvocato. “La magistratura di Perugia ha dimostrato grande indipendenza e autonomia. Alma ha presentato la denuncia alla procura con grande fiducia. La denuncia era per sequestro di persona, quindi quello che è stato scritto avrà trovato conferma nelle indagini. Guardiamo con attenzione, poi valuteremo se costituirci parte civile”. Lo ha dichiarato all’Adnkronos il legale di Alma Shalabayeva, avvocato Astolfo Di Amato.

Alma a Roma, Muktar detenuto in Francia. Vive a Roma, ma non nella villa  di Casal Palocco, Alma Shalabayeva. Insieme con i figli  è  cittadina della Capitale da tempo. Il marito, invece, è ancora detenuto in Francia. Una figlia grande vive in Svizzera ed un altro figlio è a Londra.

Ho già raccontato la vicenda nel mio blog

13 luglio 2013  –   14 luglio 2013 –   22 luglio 2013

NOTA: SCO = servizio centrale operativo

26 Novembre 2015Permalink

21 novembre 2015 – Sbucano i bambini invisibili – Settima puntata

Quando la realtà si fa beffe di noi e ce lo meritiamo

Ieri volevo scrivere qualche cosa sul 20 novembre, nel ricordo della giornata del 1989, quando l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò la Convenzione internazionale sui diritti del minore.
Avevo segnalato la ricorrenza nel mio consueto calendario del primo del mese e mi sembrava giusto approfondire finché non  trovai un articolo a pag. 48 de La Repubblica ‘Un futuro da costruire’ della giornalista Valeria Fraschetti Ne ricopio l’incipit: “Per i bambini di un campo profughi iracheno l’opportunità di una vita più giusta passa anche per un rubinetto con acqua corrente. Per un neonato della Sierra Leone può essere il documento con la registrazione della sua nascita.

Proseguo con una a successiva citazione ”Offrire un’infanzia senza diseguaglianze è un traguardo che può essere perseguito percorrendo strade molto diverse. E l’Unicef ce lo ricorda pubblicando il rapporto ’Per ogni bambino ‘ la giusta opportunità’

A questo punto mi ritrovai dominata da uno stato d’animo ormai consueto fra lo scoraggiamento e la rabbia e mi arenai su una domanda:
Perché a un bambino figlio di cittadini della Sierra Leone (tanto per restare all’esempio) se nasce in Italia e i suoi genitori non hanno il permesso di soggiorno il certificato di nascita è negato per legge, e questo non interessa a nessuno, rispettabile UNICEF compresa che però se ne occupa se la stessa situazione si presenta in Africa?

A me sembra una scelta da cultura colonialista intesa a provocare paura, quella paura che crea schiavitù almeno morale (ma non avere il certificato di nascita è stata la prassi di ogni sistema schiavistico. Non dimentichiamo che l’Europa si pronunciò contro la tratta degli schiavi, senza abolirla immediatamente, in un atto del Congresso di Vienna -1815 – mentre negli Stati Uniti gli schiavi continuavano ad essere elencati nominativamente  nei registri delle proprietà private).
Certamente l’Italia non dispone di una storia coloniale imponente come quella di altri stati europei ma non manca di crimini intesi a conquistare e insieme a spaventare le popolazioni. Ne cito due perché un elenco puntuale allungherebbe troppo questo post:

  • 1931 – impiccagione di Omar al Muktar per consolidare la conquista della Libia;
  • 1935 – uso dei gas asfissianti e dell’iprite nella cd Africa Orientale italiana

Quindi, consapevole che l’uso della paura per assoggettare altri  (e sostanzialmente schiavizzare) non ci è storicamente ignoto, come non mi è ignoto il mezzo per impaurire e schiavizzare oggi, per il momento con sistemi democratico-soft , ho deciso di approfondire il riferimento all’Unicef e, andando a cercare il rapporto originale evocato dall’articolo de La Repubblica,  ho trovato quanto ricopio

“Rapporto UNICEF “Every Child’s Birth Right”

Nel giorno del 67° anniversario dell’UNICEF (la cui istituzione da parte dell’ONU risale all’11 dicembre 1946), l’organizzazione lancia un nuovo Rapporto secondo il quale circa 230 milioni di bambini sotto i 5 anni non sono stati mai registrati alla nascita – circa 1 su 3, a livello globale.

«La registrazione alla nascita è più di un semplice diritto. Riguarda il modo in cui la società riconosce l’identità e l’esistenza di un bambino» spiega Geeta Rao Gupta, Vicedirettore dell’UNICEF. «La registrazione alla nascita è fondamentale per garantire che i bambini non vengano dimenticati, che non vedano negati i propri diritti o che siano esclusi dai progressi della propria nazione».

Dalla Somalia al Congo, la mappa dei neonati invisibili

Il nuovo rapporto, intitolato “Every Child’s Birth Right: Inequities and trends in birth registration” (Diritto alla nascita per ogni bambino. Diseguaglianze e tendenze nella registrazione alla nascita), presenta analisi statistiche condotte su 161 Stati, con i dati e le stime sul fenomeno più aggiornate disponibili, per ciascun paese.

 

A livello globale, nel 2012, solo circa il 60% dei neonati è stato registrato alla nascita. Il tasso varia significativamente a seconda delle regioni, con livelli più bassi in Asia Meridionale e in Africa Subsahariana.
I 10 Stati con i tassi di registrazione alla nascita più bassi sono, nell’ordine: Somalia (3%), Liberia (4%), Etiopia (7%), Zambia (14%), Ciad (16%), Tanzania (16%), Yemen (17%), Guinea Bissau (24%), Pakistan (27%) e Repubblica Democratica del Congo (28%).

Anche quando i bambini vengono regolarmente registrati, a molti di loro non rimane traccia della registrazione avvenuta. In Africa Orientale e Meridionale, ad esempio, solo circa metà dei bambini registrati dispone di un certificato di nascita. Nel mondo, 1 bambino registrato su 7 non ha il certificato di nascita.  In molti Paesi, ciò è dovuto a costi di registrazione troppo onerosi per i più poveri. Altrove, invece, il certificato di nascita semplicemente non viene rilasciato alle famiglie.

Certificato di nascita, molto più che un pezzo di carta

I bambini non registrati alla nascita o privi di documenti di identificazione sono spesso esclusi dall’accesso alla scuola, all’assistenza sanitaria e alla sicurezza sociale. Se un bambino viene separato dalla sua famiglia durante un disastro naturale, un conflitto o a causa di qualche forma di sfruttamento, la riunificazione diventa assai più difficile a causa della mancanza di documentazione ufficiale.

«La registrazione alla nascita e il relativo certificato sono fondamentali per garantire a un bambino il suo pieno sviluppo» prosegue Rao Gupta. «Tutti i bambini nascono con un potenziale enorme. Se la società non riesce a contarli tutti, e perfino a non riconoscere la loro esistenza, sono più vulnerabili a subire abusi e ad essere abbandonati.  È inevitabile che in questo modo il loro potenziale verrà sensibilmente vanificato.»

La registrazione alla nascita quale componente essenziale del registro anagrafico di un Paese, migliora la qualità delle statistiche socio-demografiche, aiutando la programmazione e l’efficienza delle misure varate da un governo.

Per l’UNICEF, la mancata registrazione di un bambino alla nascita è sintomo di disuguaglianze e disparità sociali. I bambini più frequentemente colpiti da questa disuguaglianze sono queli che appartengono a determinati gruppi etnici e religiosi, quelli che abitano in aree rurali o remote, i figli di famiglie povere o di madri analfabete.

I programmi di sviluppo devono identificare le ragioni per cui le famiglie non registrano i bambini, dai costi alla scarsa conoscenza delle norme, dalle barriere culturali al timore di subire ulteriori discriminazioni o emarginazione.

Quando l’anagrafe viaggia sullo smartphone

L’UNICEF utilizza approcci innovativi per aiutare governi e comunità a migliorare i loro sistemi di registrazione anagrafica. In Kossovo, ad esempio, lo UNICEF Innovations Lab ha sviluppato un sistema di identificazione e di segnalazione delle nascite non registrate efficiente, efficace e a basso costo, basato su una piattaforma di SMS.

In Uganda, il governo – con il supporto dell’UNICEF e del settore privato – sta implementando una soluzione denominata MobileVRS che usa una nuova tecnologia di messaggistica via smartphone per completare le procedure di registrazione in pochi minuti, un processo che normalmente richiede mesi.

Sempre su questo tema, l’UNICEF ha reso pubblico oggi anche “A Passport to Protection. A Guide to Birth Registration Programming”, manuale per aiutare gli operatori adibiti alla registrazione alla nascita.

http://www.unicef.it/doc/5228/registrazione-alla-nascita-nel-mondo-un-terzo-dei-bambini-resta-invisibile.htm#

Conclusione
Fra gli stati inadempienti al dovere della registrazione anagrafica, e della conseguente garanzia del certificato di nascita, ne sono segnalati dieci per essere quelli con i tassi di registrazione alla nascita più bassi. Evidentemente l’Italia non si colloca nella serie dei ‘più bassi’, viola solo un diritto affermato in legge … e chi se ne infischia? E’ solo un diritto di soggetti che non possono difendersi!

21 Novembre 2015Permalink

18 novembre 2015 – La saggezza dello sberleffo

Avevo raccolto un po’ di testi importanti che prima o poi pubblicherò
Ma quanto ho trovato la parte centrale di questa poesia, pubblicata da Teresa Valsecchi Calvi su facebook, mi sono messa a cercare e ne ho trovato il testo completo e indicazioni in merito a una lettura di Gigi Proietti e a una canzone di Baglioni. Non sono riuscita ad ascoltare né l’una né l’atra.

Trilussa  LA NINNA NANNA DE LA GUERRA  (1914)

Ninna nanna, nanna ninna,
er pupetto vò la zinna:
dormi, dormi, cocco bello,
sennò chiamo Farfarello
Farfarello e Gujermone
che se mette a pecorone,
Gujermone e Ceccopeppe
che se regge co le zeppe,
co le zeppe d’un impero
mezzo giallo e mezzo nero.
Ninna nanna, pija sonno
ché se dormi nun vedrai
tante infamie e tanti guai
che succedeno ner monno
fra le spade e li fucili
de li popoli civili
Ninna nanna, tu nun senti
li sospiri e li lamenti
de la gente che se scanna
per un matto che commanna;
che se scanna e che s’ammazza
a vantaggio de la razza
o a vantaggio d’una fede
per un Dio che nun se vede,
ma che serve da riparo
ar Sovrano macellaro.
Chè quer covo d’assassini
che c’insanguina la terra
sa benone che la guerra
è un gran giro de quatrini
che prepara le risorse
pe li ladri de le Borse.
Fa la ninna, cocco bello,
finchè dura sto macello:
fa la ninna, chè domani
rivedremo li sovrani
che se scambieno la stima
boni amichi come prima.
So cuggini e fra parenti
nun se fanno comprimenti:
torneranno più cordiali
li rapporti personali.
E riuniti fra de loro
senza l’ombra d’un rimorso,
ce faranno un ber discorso
su la Pace e sul Lavoro
pe quer popolo cojone
§risparmiato dar cannone

 

18 Novembre 2015Permalink